CAMPANELLA, Tommaso.
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Filosofo (Stilo, Reggio di Calabria, 1568 - Parigi 1639).
Entrato adolescente nell'ordine dei domenicani, venne formando la
sua cultura filosofica soprattutto con la lettura dei platonici e di
Telesio; a Napoli, dove si recò assai presto per contese con i suoi
confratelli in Calabria, strinse amicizia con G. B. Della Porta
interessandosi a ricerche e pratiche di magia e di astrologia.
A Napoli pubblicò la Philosophia sensibus demonstrata (1591)
e fu sottoposto a un processo per eresia (1592); successivamente a
Padova subì un altro analogo processo e ancora un terzo a Roma
(1596), terminato con la condanna e l'abiura; poco dopo un altro
processo lo obbligò al ritorno in Calabria. Frattanto aveva scritto
fra l'altro De Monarchia christianorum (1593), De
regimine Ecclesiae (1593), Discorsi ai Principi d'Italia
(1594), Dialogo contro Lutero, Calvinisti e altri eretici
(1595).
Le linee fondamentali del pensiero di C. sono già definite:
l'antiaristotelismo, il panvitalismo, l'idea di una riforma
politico-religiosa, il quadro astrologico-magico. Sono motivi che si
ritrovano nei suoi discorsi del 1599 sulla universale palingenesi e
che ispirarono la congiura che egli tramò contro il governo spagnolo
in quello stesso anno; appariva a C. giunto il momento, segnato nei
cieli e indicato nelle profezie, di una riforma religiosa e politica
che, nell'imminenza della fine dei tempi, portasse il cristianesimo
alla sua radice universale e naturale e instaurasse una forma di
governo repubblicano fondata su principî filosofici.
Scoperta la congiura, in cui si erano espresse anche forti
aspirazioni di un rinnovamento sociale e varî modi di reazione
all'oppressione spagnola e alla disciplina ecclesiastica, C. fu
arrestato e tradotto a Napoli, ove nel 1602 fu condannato al carcere
perpetuo. Restò in prigione ventisette anni: in questo periodo C.
riuscì a lavorare e compose gran parte delle sue opere maggiori: la
Monarchia di Spagna (1601), la Città del sole (v.),
De sensu rerum (1603), Monarchia Messiae (1605), Antiveneti
(1606), Atheismus triumphatus (1607), Philosophia
rationalis (1619), Quod reminiscentur (1625).
Liberato nel 1626, fu nuovamente rinchiuso nel carcere del
Sant'Uffizio, donde fu liberato (1629) per la benevolenza di Urbano
VIII (che gli aveva fatto dare il titolo di magister e lo teneva
come consigliere in fatto di astrologia). Scoperta la congiura di G.
F. Pignatelli a Napoli, la Spagna chiese l'estradizione del C., che
il papa rifiutò, consigliando tuttavia al C. la fuga. Il 21 ott.
1634 il C. lasciò Roma e l'Italia: a Parigi, dove ebbe accoglienze
amichevoli, poté finalmente iniziare la pubblicazione delle sue
opere; ma la morte lo colse nel convento di Saint-Honoré, quando
erano stati pubblicati solo cinque volumi.
Prima di morire, aveva dettato a G. Naudé una sua autobiografia, De
libris propriis et recta ratione studendi syntagma (postuma,
1642). Intorno al 1622, egli stesso aveva visto pubblicata una
notevole scelta delle sue Poesie.
▭ Per la complessità di temi speculativi e la molteplicità
d'interessi politico-religiosi che s'intrecciano nel pensiero di C.,
egli sembra raccogliere da un lato l'ultima eredità rinascimentale
(soprattutto del platonismo fiorentino, del naturalismo telesiano e
dei bruniani programmi di riforma), mentre dall'altro si volge a
nuovi problemi quali quelli posti così dalla controriforma e dal
nuovo assetto politico-sociale dell'Europa come dai nuovi
orientamenti legati alle scoperte geografico-astronomiche e alla
nascita della "nuova scienza".
Come per Bruno, nell'opera di C. non è possibile scindere la
problematica che si sarebbe tentati di considerare più propriamente
scientifico-filosofica da quella politico-religiosa che sembra
dominare tanto la sua multiforme speculazione quanto la sua attività
di congiurato, di profeta e di riformatore; anche l'interesse alle
teorie e alle tecniche astrologico-magiche e alle possibilità aperte
all'uomo dalla "nuova scienza" è sempre retto in C. da un desiderio
di approntare i mezzi per la sognata riforma sociale e religiosa.
Strettamente legato - soprattutto agli inizî - agli insegnamenti
telesiani, C. svolge platonicamente una visione della natura come un
tutto organico animato per la presenza ovunque di uno "spirito caldo
e sottile", corporeo, principio del sentire, dell'immaginare, del
ricordare, del discorrere. Si definisce - come già in Telesio - un
primato del sentire che significa primato della conoscenza diretta e
immediata rispetto alla quale il conoscere universale è
allontanamento dalla realtà, illanguidimento di conoscenza: che è il
punto ove C. più si avvicina a certi temi dell'empirismo della nuova
scienza, e che ricorda i legami di C. con Galileo del quale scriverà
l'Apologia dopo la condanna romana.
Conoscere come sentire e sentire come un farsi, anzi infarsi,
immutarsi nell'oggetto, o meglio, percezione di questo immutarsi:
sicché nel conoscere altro non conosciamo che la nostra
"immutazione", noi stessi ("semper ergo scire est scire sui");
essere e conoscere s'identificano nella conoscenza perché alla
radice di ogni conoscenza sta l'ineliminabile certezza assoluta di
essere. Tutti gli esseri - che in quanto sentono sono chiusi
nell'immediatezza del sensus inditus o cognitio sui - hanno avuto da
Dio la capacità di conservarsi, di amare sé stessi, di conoscere il
proprio fine, manifestando così le primalitates divine (potentia,
sapientia, amor); ma l'uomo emerge sugli altri esseri naturali
perché nella sua natura accoglie e manifesta un impeto verso
l'infinito, un'intuizione intellettuale che si radica nella mens
data da Dio ai singoli uomini. Ma anche tale primato dell'uomo non
scinde l'unità del tutto: questa è il fondamento di tutta la
speculazione di C., che sembra a volte tentato di identificare Dio e
natura.
Del resto è proprio il senso vivo della radicale unità degli esseri
che noi ritroviamo altresì nel suo pensiero religioso e politico:
unità di natura che sembra esprimersi anche nell'indicazione del
cristianesimo come religione universale in quanto naturale
(nell'ambito di una natura che riceve completamento dalla divina
rivelazione) e nel sogno della finale pacificazione di tutti gli
uomini nell'unica fede e in una non scissa società civile, sogno di
cui C. si sentiva profeta dopo averne letto nei cieli i segni
dell'imminente realizzazione.
▭ Come poeta, il C. è oggi concordemente ritenuto il maggior lirico
italiano del Seicento. La poesia del C., intesa a educare, a creare
"nova progenie", non al puro diletto al quale destinava la sua il
contemporaneo Marino, è spesso difficile e rude; talora semplice
traduzione ritmica di sottili concetti filosofici. Ma spesso
raggiunge profonda efficacia, specie là dove il C. si descrive,
novello Prometeo, torturato e invincibile, o là dove canta la
"possanza dell'uomo" nudo e inerme, eppure padrone dell'universo, o
contempla una natura, nella quale ogni cosa ha la sua anima e Dio è
in ciascuno e in tutti.
DBI
di Luigi Firpo
Nacque a Stilo, in Calabria Ultra, il 5 sett. 1568, in giorno di
domenica, sei minuti dopo le sei pomeridiane, in un'umile casa del
"borgo" fuori mura. Non hanno fondamento le asserzioni ricorrenti,
attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel
vicino comune di Stignano. Il padre Geronimo, nato intorno al 1535,
di condizione poverissima, analfabeta, esercitava il mestiere di
ciabattino o "scarparo"; la madre, Catarinella Martello, dovette
scomparire presto, dopo aver dato alla luce un altro maschio, Giovan
Pietro, e parecchie figliuole, e comunque non lasciò ricordo di sé
nel primogenito. Il nonno, Pietro, era nato intorno al 1497 da uno
Stefano Loli, detto "Campanella" forse per parentado con donne di
tale casato. Il 12 settembre don Terenzio Romano, parroco di S.
Biagio del Borgo, battezzò l'infante col nome di Giovan Domenico,
che egli muterà poi in Tommaso vestendo il saio domenicano.
L'infanzia fu segnata dalla precocità e dall'indigenza: appena
cinquenne, in Stilo, forse sotto la guida del maestro Agazio Solea,
si avviò ai primi rudimenti di grammatica e di catechismo, presto
eccellendo fra i coetanei per prontezza d'ingegno e memoria tenace;
vuole una leggenda locale che, non potendo pagarsi gli studi,
origliasse alla finestrella della scuola e, quando qualcuno dei
coetanei più fortunati non sapeva recitare la lezione, egli si
affacciasse esclamando: "Volete che la dicess'io?". Nel 1576
imperversò in Calabria, come nell'Italia tutta, la peste, lasciando
nell'animo del fanciullo viva impressione dei provvedimenti adottati
per soffocare il contagio; ma è tutta la sua povera terra che gli
rivela i suoi mali antichi: lo sfruttamento feudale, l'oppressione
spagnola, le scorrerie turchesche, la pletora dei monaci oziosi, il
ricordo delle recenti stragi dei valdesi, le carestie ricorrenti, i
terremoti, la miseria. Nel 1581 la famiglia del C., sempre
poverissima, si trasferì nel vicino "casale" di Stignano; fu allora
che il ragazzo, ravvisando nella carriera ecclesiastica la sola via
per proseguire gli studi, vestì l'abito di "prevetello" o chierico;
era già tanto provetto nel latino da potersi esprimere con
scioltezza in prosa e in verso. Oppresso per sei mesi da grave
malessere febbrile, risanò allora per le magiche arti di una
fattucchiera, affacciandosi così, attraverso la superstizione
popolare, alla dimensione tentatrice dell'occulto e del
soprannaturale.
Nella primavera dell'82 i familiari vagheggiarono di mandare il C. a
Napoli, presso uno zio paterno studente di diritto, per avviarlo
alla lucrosa carriera forense; ma il giovinetto, affascinato dalle
storie di s. Tommaso e di Alberto Magno, rapito dall'eloquenza di un
predicatore domenicano, decise di vestire il saio candido di S.
Domenico ed entrò per il prescritto anno di prova nel piccolo,
antico convento di Placanica, un miglio a occidente di Stignano.
Compiuto l'anno di prova, vi pronunciò i voti, assumendo il nome di
fra' Tommaso, e subito, a norma delle costituzioni dell'Ordine,
venne trasferito in un monastero di primaria importanza pel
noviziato e gli studi: fu assegnato così al convento dell'Annunziata
in San Giorgio Morgeto, dove attese per un triennio a compitare la
logica (1583-84), la fisica (1584-85), la Metaphysica e il De anima
(1585-86) di Aristotele.
Incuriosito sin d'allora delle speculazioni estranee alla grande
sistemazione della scolastica, ricorderà poi con ammirazione il
medico Francesco Sopravia, che a Seminara, non lontano da San
Giorgio, impartiva lezioni, con gran concorso di uditori, sulla
filosofia di Leucippo e di Democrito, avendo anche composto un De
rerum natura contro gli aristotelici. Essendo i novizi tenuti a
mettere per iscritto il frutto degli insegnamenti ricevuti nel
triennio degli studi regolari, non mancò di porre in carta le
proprie Lectiones logicae, physicae et animasticae, che non ci sono
pervenute. Molti anni dopo ricorderà con commozione una notte della
sua adolescenza in cui, rimeditando l'argomentazione aristotelica in
pro' dell'immortalità dell'anima, era scoppiato in pianto dirotto
nel riconoscerne la debolezza.
Nel 1585 Giacomo II Milano, sesto barone di San Giorgio, venne a
prendere possesso del suo feudo con cerimonia solenne e
nell'occasione il C. recitò un'orazione in esametri e un'ode saffica
(perdute); entrò così in rapporto con la famiglia nobile e ricca dei
del Tufo (moglie del Milano era Isabella del Tufo, e Marcantonio del
Tufo ebbe nell'ottobre 1585 il vescovato di Mileto, alla cui diocesi
apparteneva San Giorgio). Il 5 ottobre fra' Sisto Fabri da Lucca,
generale dei predicatori, dispose una riforma degli studi e del
noviziato, elevando da tre a cinque anni la durata dei corsi di
logica, fisica e metafisica. In conseguenza, nell'autunno dell'86,
il C. venne trasferito al convento dell'Annunziata di Nicastro per
completare la propria preparazione sotto la guida di un padre
Antonino da Firenze. L'insofferenza dei vecchi schemi autoritari e
l'ansia di sperimentare sul libro vivo della natura le asserzioni
arbitrarie e discordi dei libri scritti fanno maturare in quegli
anni decisivi i primi avvii autonomi del suo pensiero. A Nicastro,
nel 1587, abbozza un trattato metodologico De investigatione rerum
(perduto), che proponeva nuove categorie sensistiche da contrapporre
alla gnoseologia aristotelica. Dotato di sete inesausta di
apprendere e di memoria prodigiosa, legge con avida furia libri
d'ogni sorta, antichi e moderni, leciti e illeciti: nessuno lo
soddisfa, e quelli d'Aristotele meno che gli altri. Si rivela così
il C. "contradicente ad ogni cosa e particolarmente alli lettori
suoi", fra i quali uno gli predice: "Campanella, Campanella, tu non
farai bon fine!". Intanto si lega di amicizia profonda col coetaneo
confratello Dionisio Ponzio e con lui intesse vaghi discorsi sulla
rinnovazione imminente del secolo, accarezza speranze di una
veniente età libera, spontanea e fraterna, senza costrizioni né
ipocrisie.
Nell'estate dell'88, compiuti a Nicastro gli studi filosofici, venne
trasferito a Cosenza per seguirvi presso lo Studio generale della
provincia domenicana di Calabria il corso quadriennale di teologia.
Ha ormai percorso in febbrili letture clandestine tutti i campi
dello scibile, tutti i testi dei classici e dei Padri, in una
ricerca affannosa e disordinata, deciso a non tralasciare alcuna via
che possa condurre alla verità; finalmente in Cosenza un amico gli
pone tra mano i primi due libri del De rerum natura di Bernardino
Telesio, venuti in luce a Napoli in seconda edizione nel 1570.
Scorse appena le prime pagine, il C. subito intuisce il rimanente,
se ne infiamma e sente di aver finalmente raggiunto in quello
schietto naturalismo la meta sì a lungo cercata; da allora la sua
fisica, anche per la detenzione trentennale che gli inibirà ogni
verifica sperimentale, resterà sostanzialmente quella telesiana.
Cercò allora, da neofito entusiasta, di conoscere subito di persona
il vecchio filosofo, ma proprio in quei giorni (ottobre 1588)
l'ottantenne Telesio passò a miglior vita e il C. poté solo
accostarsi alla salina esposta nella cattedrale di Cosenza e
affiggere al feretro una devota elegia latina di compianto
(perduta).
Forse in punizione di vecchie e nuove intemperanze, forse per il
dichiarato entusiasmo per le rivoluzionarie dottrine telesiane,
tanto avverse all'aristotelismo delle scuole, al cadere dell'anno
venne relegato dai superiori nel piccolo e remoto convento di
Altomonte. Ma subito raccoglie attorno a sé un piccolo gruppo di
medici, gentiluomini, estimatori, che gli forniscono i libri di cui
è affamato: Galeno, Ippocrate, ma soprattutto i testi degli
ermetici, le opere di divinazione, di cabala e di magia. Nel corso
di queste fervide letture, venuto in possesso del libello di un acre
detrattore del Telesio, il giurista filosofante Giacomo Antonio
Marta, allievo dei gesuiti e idolatra di Aristotele (Pugnaculum
Aristotelis adversus principia B. Telesii, Roma 1587), il C. lo
ribatte con una vasta dissertazione polemica in otto libri, composta
fra il gennaio e l'agosto 1589, intitolata Philosophia sensibus
demonstrata.
Al cadere dell'anno, stanco di beghe conventuali, di rimproveri dei
superiori, di meschinità provinciali, lascia la Calabria e, forse
per mare, si spinge a Napoli; la vita libera dei frati del tempo non
consente di dare a quel viaggio il nome di fuga, poiché, se mancò il
consenso, certo non vi fu neppure rottura aperta con l'Ordine e in
Napoli il C. visse per alquanti mesi indisturbato, vestendo l'abito,
nel grande convento di S. Domenico Maggiore, favorito dalla regola
rilassata che vi si praticava e dalla folla dei frati conviventi. Si
vociferò più tardi nei chiostri calabresi che egli avesse
abbandonato la provincia in compagnia d'un misterioso rabbino, certo
Abraham, esperto di magia e d'astrologia, istigatore del giovane
frate indisciplinato, cui avrebbe rivelato segreti naturali e
promesso, per disegno degli astri, uno smagliante avvenire. Nel
1590, desideroso di maggior libertà, si trasferì in casa di Mario
del Tufo, verosimilmente con ufficio di precettore dei figliuoli di
quel marchese; vi fu ospitato con signorile larghezza, frequentò
gentiluomini di gran sangue e distinti scienziati, acquistandosi
fama di immensa e precocissima cultura. Quasi dimentico della
propria condizione di religioso, lungi dai rigori conventuali,
studia, scrive, sperimenta, discute: conduce così a termine i tre
libri del De investigatione rerum, abbozzato fin dall'87, che
perderà definitivamente per sequestro nel '92 (solo in minima parte
la materia verrà rifusa nella Dialectica). Compone inoltre, mosso da
discussioni avute con Giambattista Della Porta a proposito della
Phytognomonica da questo ristampata in Napoli nel 1588, un trattato
De sensitiva rerum facultate (perduto anch'esso nel 1592 e rifatto
molti anni più tardi col titolo Del senso delle cose). Affida al
tipografo Orazio Salviano la stampa della Philosophia sensibus
demonstrata, che vede la luce ai primi del 1591, preceduta da una
vibrante prefazione autobiografica e da una dedicatoria a Mario dei
Tufo. Sempre in casa del suo mecenate il C. detta un trattato De
insomniis sulla fisiologia dei fenomeni onirici, un De sphera
Aristarchi intorno all'ipotesi eliocentrica sostenuta dall'antico
astronomo greco, un Exordium novae metaphysicae verosimilmente
ancora estraneo alla concezione delle tre "primalità", tre libri
d'una Philosophia Pythagorica in esametri latini, una analoga
Philosophia Empedoclis, vari discorsi per compiacere amici che si
addottoravano recitandoli a proprio nome, molti versi latini e
volgari: nessuno di questi testi ci è pervenuto.
Nell'estate del 1591 il C. soffrì gravemente di sciatica e reumi,
cagionati, a suo avviso, dalla troppo lauta tavola di cui godeva in
casa dei Tufo, e risanò curandosi ai bagni di Pozzuoli; nel
settembre la carestia provocò in città sanguinosi tumulti,
richiamando la sua attenzione sulla politica annonaria e sul potere
assopito delle inconscie masse popolari. Probabilmente in quell'anno
compì un breve viaggio in Puglia, forse seguendo il del Tufo nel suo
feudo di Minervino dove conduceva un grande allevamento di cavalli:
da quella visita fu indotto a meditare sulle pratiche eugenetiche
estensibili alle società umane. Ai primi del '92, in occasione della
venuta del Tasso a Napoli, gli indirizzò un sonetto, invitando il
poeta a volgere la propria musa a temi non profani; compose anche il
primo libro di una vastissima fisica disegnata in venti libri, col
titolo De rerum universitate, ma lo perderà tosto per sequestro a
Bologna.
Nel maggio 1592, su denuncia di un invidioso, venne carcerato nel
convento di S. Domenico sotto l'accusa di possedere un demone
familiare annidato nell'unghia del mignolo e di aver ostentato
spregio per la scomunica; la causa, dibattuta davanti a un tribunale
costituito in seno all'Ordine e presieduto dal padre provinciale,
verté essenzialmente sulle recise opinioni telesiane bandite dal C.
a voce e per iscritto, specie nella Philosophia data alle stampe;
alla domanda dei giudici: "Come sai tanto, visto che non hai
studiato?", rispose fieramente, ricordando le lunghe veglie a lume
di lucerna, con un detto di s. Girolamo: "Io ho consumato più olio
che voi vino". Il 14 maggio fra' Giovan Battista da Polistena, già
provinciale domenicano di Calabria, nell'intento di sovvenire il C.,
scrive a Ferdinando I di Toscana, proponendogli di prender la
protezione di quel giovane di sì straordinario ingegno e cultura,
ingiustamente perseguitato e ansioso di porsi al suo servizio. Il 28
agosto si conclude il processo con una sentenza che impone al C.
salutari penitenze, il ritorno in Calabria entro una settimana e
l'abbandono di ogni opinione telesiana. Ribellandosi alla sentenza,
che lo esilierebbe daccapo nell'isolamento culturale e tra le
meschine rivalità fratesche della sua provincia, il C. tenta un
colpo di testa: con la scusa di recarsi a procurare il castigo del
proprio calunniatore, ma aspirando in segreto alla cattedra, di cui
gli è stata fatta balenare la speranza, in una delle università
toscane (Pisa o Siena), il 5 sett. 1592 parte in opposta direzione
alla volta di Roma e di Firenze. Nell'Urbe si trattiene un paio di
settimane; visita il padre Alessandro de Franciscis, ebreo
convertito e teologo domenicano dottissimo, il politico e moralista
Fabio Albergati, il card. Francesco Maria Del Monte, autorevole
rappresentante in Curia degli interessi del granduca, certo in
traccia di appoggi e commendatizie. Ma proprio il porporato, il 25
settembre, invia a Firenze sul suo conto informazioni caute e
sostanzialmente non favorevoli, confermate "ad abundantiam" due mesi
dopo dal generale dell'Ordine Ippolito Maria Beccaria.
Il 2 ott. 1592, appena giunto a Firenze, ottiene udienza da
Ferdinando I, a cui dedica l'inedito De sensitiva rerum facultate, e
ne riceve buone parole, un sussidio in denaro, ma non l'impiego
sperato; il 13 ottobre, munito di lettera di presentazione del
granduca, visita la Biblioteca Medicea e vi si intrattiene con
letterati distinti: Baccio Valori, Ferrante de' Rossi, fra'
Giambattista Bracceschi, il padre Medici; il 16 ottobre il fuggiasco
lascia Firenze alla volta di Bologna, dove sosta fino al cadere
dell'anno nel convento di S. Domenico; ivi, ad opera di "falsi
frati", la lunga mano dell'Inquisizione gli sottrae furtivamente
tutti i manoscritti, che rivedrà più tardi nel S. Uffizio tra le
mani dei giudici, ma che non riuscirà a ricuperare mai più.
Ai primi di gennaio 1593 giunge a Padova e prende stanza nel
convento di S. Agostino; subito è coinvolto in un'inchiesta per
reato di sodomia perpetrato o tentato ai danni del generale
dell'Ordine e, come innocente, viene ben tosto prosciolto. A Padova
vive miseramente, iscritto all'università come studente spagnolo,
forse impartendo lezioni private, studiando medicina e assistendo
alle dissezioni anatomiche. Strinse allora amicizia con Galileo,
che, nominato di fresco professore, gli aveva recato una lettera del
granduca, e a Venezia ebbe incontri con Paolo Sarpi e rivide il
Della Porta, che aveva lasciato Napoli per noie con il Sant'Uffizio.
Il 23 giugno presenziò in qualità di testimone al conferimento della
laurea in medicina ad un giovane udinese, Giambattista Clario, che
presto gli sarebbe stato compagno nel carcere dell'Inquisizione; il
3 luglio la Congregazione dell'Indice in Roma prese in esame le
opere sequestrate al C. in vista di una probabile proibizione; non a
caso nel corso dell'anno verranno posti all'Indice "donec
expurgentur" gli scritti maggiori del Telesio; il 13 agosto, sempre
illudendosi che il granduca lo potesse chiamare a una cattedra in
Toscana, gli scrisse invano, sollecitando. Nel corso del '93 compone
o delinea una Nova physiologia, rifacendo il primo libro del De
rerum universitate perduto, e ne allestisce un "ingente volumen" in
venti sezioni, dedicato a Lelio Orsini, residente a Padova, che gli
verrà sequestrato all'atto dell'arresto, ancora "imperfectus";
replica al medico veronese Andrea Chiocco, che aveva scritto contro
Telesio, difendendo in una Apologia pro Telesio (smarrita poi da G.
Scioppio in Germania nel 1608) l'unità e la sede cerebrale dello
spirito animale; detta a certi nobili uditori veneti un primo schema
di Rhetorica nova (perduto) e dona ad Angelo Correr una
Consultazione ai Veneziani (perduta) circa l'opportunità di
consentire che gli ambasciatori spagnoli e francesi a Venezia si
rivolgessero al Senato nella loro lingua. Ma soprattutto lo attrae
la politica: è di quest'anno la stesura del vasto trattato Della
monarchia de' Cristiani (perduto), che fu offerto all'Orsini e
inviato al del Tufo. Il C. vi esponeva quello che doveva restare il
suo ideale supremo: la unificazione dell'ecumene sotto una sola
legge religiosa e civile. Sullo stesso avvio elabora il meditato
programma di riforme esposto nei Discorsi universali del governo
ecclesiastico, intesi a rinnovare le strutture della Chiesa e del
sacerdozio per adeguarle ai grandi compiti politici e sociali loro
assegnati dalla Monarchia, e forse sin d'allora delinea
l'appassionata esortatoria dei Discorsi ai principi d'Italia,
invitati a riunirsi in Roma in una neoguelfa struttura federale
presieduta dal papa.
Ai primi del 1594 il C. venne arrestato per ordine
dell'Inquisizione, insieme con l'amico Clario e un tale Ottavio
Longo da Barletta, sotto l'accusa di aver disputato "de fide" con un
giudaizzante (cioè con un ebreo convertito al cattolicesimo e
ritornato poi alla religione avita); all'atto dell'arresto fu
trovato in possesso di un libro di geomanzia, superstizioso e
vietato, che gli venne sequestrato insieme con tutti i suoi
manoscritti. Il 18 febbraio nel Sant'Uffizio romano si delibera di
far sottoporre i tre carcerati alla tortura e, dopo che questa è
stata eseguita sul Longo, da Roma il 3 maggio si conferma l'ordine
di torturare anche il Clario e il C.; una seconda tortura
particolarmente severa per il C. venne disposta a Roma il 21 luglio.
Il Clario, che era in rapporto con influenti personaggi di casa
d'Austria (successe più tardi al padre nella carica di protomedico
della Stiria), ottenne che l'arciduchessa Maria d'Asburgo scrivesse
al papa una lettera di raccomandazione per gli inquisiti. Il 30
luglio un gruppo di amici tentò dall'esterno l'effrazione delle
carceri di Padova al fine di far evadere i tre detenuti, ma la mossa
terneraria fallì e, in conseguenza, la posizione degli imputati
riuscì aggravata: infatti il Sant'Uffizio avocò la causa a Roma e
l'estradizione, per evitare un lungo e incerto negoziato con le
autorità venete così gelose delle loro giurisdizioni, fu eseguita
clandestinamente, con illegalità tanto più sfacciata in quanto il
Clario era suddito della Repubblica.
L'11 ott. 1594 i tre prigionieri fecero il loro ingresso nelle
carceri romane dell'Inquisizione che già ospitavano Francesco Pucci
e Giordano Bruno, entrambi destinati a perire sul rogo. In un
sonetto Al carcere il C. esprimerà con efficacia l'oscura
ineluttabilità di quel convegno di liberi spiriti nella "rocca sacra
a tirannia segreta". Intanto le accuse a carico del C. si aggravano:
è imputato di aver scritto un sonetto empio contro Cristo, di essere
autore del libello ateo De tribus impostoribus, di sostenere
opinioni democritee; presto il processo verterà sulla intera sua
filosofia. Ma egli si batte coraggiosamente contro i giudici, si
difende con efficace destrezza, contrattacca; lo stesso padre
commissario Alberto Tragagliola è preso da viva simpatia per quel
giovane così precocemente segnato dalla genialità e dalla sventura.
Nel corso dell'anno aveva dettato una Fisiologia compendiosa, certo
un sommario del sequestrato De rerum universitate, e molti versi
latini e volgari (perduti). Nel carcere romano, non oltre il maggio
1595, stende un altro riepilogo latino della propria fisica col
titolo di Compendium de rerum natura;si tratta dell'opuscolo che
Tobia Adami rintracciò più tardi (1611) in Padova e pubblicò a
Francoforte nel 1617 col titolo di Prodromus philosophiae
instaurandae. Intraprende anche un'altra esposizione sommaria, in
volgare, delle proprie dottrine fisiologiche, trascurando le vaste
digressioni polemiche, e la intitola Epilogo magno di quello che
della natura delle cose ha filosofato fra' T. Campanella servo di
Dio;l'opera, compiuta poi a Napoli nel 1598 e dedicata a Mario del
Tufo, già toccava nel sesto e ultimo libro, accanto ai consueti
quesiti della fisica, anche i problemi dell'etica. Insieme con molti
versi compone anche un'Arte versificatoria (perduta) per introdurre
nella lingua italiana la metrica latina e ne dona copia al Clario;
detta infine in volgare due perduti poemetti filosofici sul modo di
apprendere e sulla fisiologia.
Concluse le inchieste e gli interrogatori, il 14 marzo 1595 il
tribunale invitò il C. a stendere le proprie difese: probabilmente
in tale circostanza egli presentò uno scritto a sostegno della
filosofia propria e del Telesio, intitolato Apologia pro philosophis
Magnae Graeciae ad Sanctum Officium. A fine d'aprile venne torturato
ancora una volta; pochi giorni più tardi fu emessa la sentenza a
carico del C. e del Clario, condannati alla pubblica abiura "per
gravissimo sospetto d'eresia", mentre l'inchiesta a carico del
Longo, quale maggiore colpevole, rimase ancora aperta. Il 16 maggio,
con altri dieci compagni, nel corso di una solenne e sinistra
cerimonia nella chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva, il C. e
il Clario si piegarono all'abiura: mentre questi se ne andò
prosciolto, il C. venne assegnato in residenza obbligata, "loco
carceris", al convento domenicano di S. Sabina sull'Aventino. Il 30
ottobre terminò anche il processo del Longo, condannato all'abiura e
a lunga detenzione. Intanto, nell'operoso raccoglimento di S.
Sabina, tutto intento a dimostrare ai superiori zelo e ravvedimento,
il C. riprende a scrivere con rinnovata lena; il 25 dicembre dedica
al card. Michele Bonelli, protettore dell'Ordine, il Dialogo
politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, esame polemico
delle cause storiche e politiche della Riforma, e il giorno seguente
lo invia con una devota lettera al padre Tragagliola. L'anno
seguente, sempre in S. Sabina, compone un Trattato dell'arte
cavaglieresca (perduto) dedicato al del Tufo, allevatore di
purosangue, e stende in volgare una prima Poetica, offerta al card.
nipote Cinzio Aldobrandini.
Ogni sua mossa è intesa a ricuperare intera la libertà: il 31 maggio
1596 presenta al Sant'Uffizio un memoriale per ottenere la
restituzione dei propri manoscritti; il 12 giugno con un secondo
memoriale chiede di essere abilitato a tenere per confino l'intera
città di Roma, ma ottiene solo di poter visitare una volta tanto le
sette chiese; il 3 luglio un terzo memoriale con le solite richieste
viene respinto dall'Inquisizione. Soltanto l'ultimo dell'anno gli
inquisitori consentono finalmente al C. di lasciare S. Sabina e di
trasferirsi al convento della Minerva, nel cuore di Roma, ormai
definitivamente prosciolto dal Sant'Uffizio e riaffidato ai
superiori del proprio Ordine; sembra così che si avverino le più
rosee speranze del giovane frate, cui è consentito vivere in un
grande centro politico e di cultura e di sperare in una prossima,
completa riabilitazione.
Invece quella pace non dura: il 5 marzo 1597 un delinquente comune,
lo stilese Scipione Prestinace, nel salire il patibolo in Napoli,
ottiene di rinviare l'esecuzione con l'abusato espediente di vantare
"in extremis" pretese rivelazioni da compiere in materia di
religione. Nominato da costui come eretico, il C. è subito arrestato
e ricondotto, dopo due soli mesi di libertà, nel carcere
dell'Inquisizione romana, dove intesse per un trimestre filosofici
conversari col fiorentino Francesco Pucci, imbevendosi delle sue
aspettative escatologiche e del suo generoso irenismo, non immune da
accenti pelagiani. Il 18 maggio altri dodici eretici vennero
condotti all'abiura pubblica nella Minerva, e tra essi il Longo e il
Pucci; quest'ultimo venne poi decapitato in Tor di Nona il 5 luglio
e il suo cadavere fu arso in Campo dei Fiori; il C. lo pianse con
intenso accoramento nel Sonetto fatto sopra uno che morse nel Santo
Offizio in Roma. Dopo aver dettato nel novembre il sonetto ACesare
d'Este, invitandolo a non contrastare le pretese papali su Ferrara,
rivendicata dalla S. Sede dopo la morte del duca Alfonso senza eredi
legittimi, il 17 dicembre il C. venne finalmente liberato, concluso
senza esito il supplemento d'inchiesta a suo carico, e fu
riconsegnato ai superiori del suo Ordine perché lo assegnassero in
relegazione severa ad un convento da stabilirsi; gran parte delle
sue opere venne proibita; la decisione ultima, profondamente
deludente per lui, fu di rimandarlo nella nativa Calabria.
Ai primi del '98, piegandosi a malincuore all'obbedienza, il C.
riprese la via verso la sua terra, che non rivedeva da un decennio.
Nel viaggio cercò di prolungare la sosta a Napoli, dove ritrovò
molti vecchi amici e protettori e diede lezioni di geografia a certi
nobili, dettando una Cosmographia e una Encyclopaedia facilis "ai
principi" (perdute) e dando l'ultima mano all'Epilogo magno. Nel
maggio un tal Niccolò Fanti, prete, già complice della tentata
evasione del 1594, depose nel Sant'Uffizio di Padova a carico del C.
a proposito del sonetto empio contro il Redentore a lui attribuito.
Imbarcatosi a Napoli nel luglio, a fine mese il C. prende terra nel
golfo di Sant'Eufemia e raggiunge la vicina Nicastro, dove subito si
adopera per pacificare le aspre contese giurisdizionali tra il
vescovo e l'autorità civile. Di là il 15 agosto si trasferisce a
Stilo e vi prende dimora nel piccolo convento domenicano di S. Maria
di Gesù, dove compone cinquanta articoli contro il Molina,
difendendo la dottrina tomistica della predestinazione, un
trattatello De episcopo, forse quale specchio esemplare del pastore
cristiano in senso controriformistico, e una tragedia Maria di
Scozia "perSpagna contra Inghilterra" sulla fine infelice di Maria
Stuarda (tutto perduto).
Fallita l'evasione dall'isolamento provinciale, compromessa
irreparabilmente la carriera in seno all'Ordine, duramente percosso
e umiliato, il C. dovrebbe ora seguire la via amara della rinuncia e
del silenzio: presto si trova invece coinvolto in una nuova mossa
temeraria. In quel paese stremato e oppresso, diviso da fazioni
accanite e da aspre contese giurisdizionali, violato dalle scorrerie
dei Turchi e dei Barbareschi, infestato dai banditi, prende via via
forma intorno alla dominante figura del C. una vaga, ma pur vasta e
rivoluzionaria congiura contro l'autorità spagnola ed ecclesiastica,
intesa ad instaurare in Calabria una repubblica comunista e
teocratica di cui egli sarebbe stato capo e legislatore. Il
programma prevede la cacciata degli Spagnoli, la soppressione della
proprietà e delle gerarchie, una democrazia fraterna pervasa
dall'aspettazione di immani rivolgimenti cosmici già preannunciati
da segni inquietanti in terra e in cielo. Forse il C. reca al
complotto nulla più che l'apporto del suo fascino di uomo dotto e
facondo, l'annuncio messianico del nuovo ordine imminente, una
interpretazione globale delle profezie, degli oracoli, dei prodigi e
dei segni astrali; ma le conventicole dei malcontenti e degli illusi
vedono in lui la guida ispirata e il condottiero insostituibile,
anche se ne fraintendono e snaturano le mete ideali, attratti solo
dalla bramosia di saziare basse avidità e vendette personali.
In ripetute prediche del febbraio-aprile 1599 tenute nella chiesa di
Stilo il C. annuncia pubblicamente l'imminenza di gravi rivolgimenti
mondiali e forse sin d'allora compila una silloge di testi profetici
sulla fine del mondo. Nel maggio si aduna a Catanzaro il capitolo
provinciale domenicano, ma il C., con suo scorno, non è designato a
parteciparvi; si adopera invece a Stilo per metter pace tra le
fazioni locali. Nel giugno i contatti fra i congiurati si fanno più
fitti; il C. soggiorna per sei giorni a Monasterace, ospite di
Scipione Concublet marchese d'Arena, ch'è curioso di aver ragguagli
sulle novità che si vociferano imminenti; già il 16 di quel mese il
vescovo di Squillace in un memoriale al Sant'Uffizio denuncia come
sospetto il contegno del Campanella. Nel luglio fra' Tommaso si reca
a Castelvetere (oggi Caulonia), dove per due giorni intesse colloqui
con persone interessate al movimento, poi sosta per altri quindici
giorni ad Arena, sempre ospite del marchese, per recarsi poi a
Pizzoni, dove per una settimana intrattiene vari conciliaboli
segreti. Di ritorno a Stilo, trascorre qualche giorno nella casa
paterna di Stignano, scambiando lettere cifrate con i congiurati,
poi, ai primi d'agosto, presenzia ad altri due convegni clandestini
a Davoli e a Santa Caterina, rientrando quindi a Stilo.
Il 10 agosto Fabio di Lauro e Giambattista Biblia, due oscuri
congiurati di Catanzaro, scoprono la confusa trama all'auditore
fiscale spagnolo Luis de Xarava, che tosto informa il viceré
Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos; quattro giorni dopo anche
fra' Cornelio da Nizza, socio del visitatore domenicano di Calabria,
denuncia il C. al Sant'Uffizio. Il 17 agosto, in seguito ai
solleciti e decisi provvedimenti ordinati a Napoli, sbarca in
Calabria per la repressione l'energico comandante Carlo Spinelli con
due compagnie di fanti; il fragile e sconnesso edificio della
congiura crolla subitamente tra fughe e delazioni; via via che i
sospetti vengono catturati, si istituisce a loro carico un duplice
processo di ribellione e d'eresia. Lo stesso giorno 17 il C. fugge
dal convento di Stilo e si nasconde a Stignano in casa amica, Ma il
2 settembre, sentendosi malsicuro, si rifugia nel vicino convento
francescano di Santa Maria di Titi e il giorno seguente muove verso
la Roccella, celandosi, travestito da contadino, nella capanna di un
Antonio Mesuraca, che aveva verso di lui un grave debito di
riconoscenza perché in passato il padre del C. gli aveva salvato la
vita. Ma, dopo aver promesso al C. di procurargli un imbarco sicuro,
il Mesuraca lo tradisce, consegnandolo (6 settembre) agli armati che
lo braccavano. Tradotto nel carcere di Castelvetere, il 10 settembre
vi scrive di suo pugno e consegna allo Xarava una Dichiarazione sui
fatti di Calabria, che risulterà per lui gravemente compromettente
per le incaute ammissioni in essa sottoscritte. Il 13 settembre
viene tradotto al castello di Squillace, dove si inizia il processo;
il 29 il tribunale si trasferirà a Gerace, dopo che, due giorni
avanti, due complici della congiura sono stati giustiziati a
Catanzaro; nel frattempo molti vagamente compromessi o sospettati
versano ai repressori somme ingenti di denaro per assicurarsi
l'impunità. Sulla fine d'ottobre centocinquantasei prigionieri, e
fra essi il C., incatenati a coppie in lunghe file vengono
trasferiti a piedi a Monteleone (oggi Vibo Valentia) e scendono a
Bivona, presso il Pizzo, per imbarcarsi su quattro galere.
Le navi, col loro triste carico, giunsero in vista del porto di
Napoli l'8 nov. 1599, recando quattro congiurati impiccati ai
pennoni; altri due vennero squartati presso il molo a monito del
fedele popolo della capitale. Insieme a numerosi complici il C.
venne serrato in Castel Nuovo nel torrione del Castellano: vi
ingannò l'attesa angosciosa componendo poesie per compiangere le
sventure proprie e animare a virili sensi gli amici, ai quali
scrisse biglietti clandestini, incitandoli a ritrattare le prime
confessioni. Dopo che il Sant'Uffizio ebbe richiesto invano (11
novembre) che i sospetti d'eresia venissero tradotti a Roma, si
iniziò il processo della congiura per i laici, prima fase d'una
serie sfibrante di interrogatori, confronti e torture. L'11 genn.
1600, papa Clemente VIII sottoscrisse il breve di costituzione del
tribunale deputato a giudicare la causa della congiura per gli
ecclesiastici, chiamando a farne parte il nunzio a Napoli Iacopo
Aldobrandini e il magistrato don Pedro de Vera, fattosi chierico per
l'occasione. Il 18 gennaio ebbe luogo il primo interrogatorio del
C., che negò recisamente ogni addebito, e si chiese a Roma
l'autorizzazione a torturarlo; il 31, al fine di fiaccarne la
resistenza, venne chiuso per una settimana nell'orrida segreta
sotterranea detta "del coccodrillo", dalla quale uscì, infermo e
stremato, per venir sottoposto al durissimo tormento del "polledro",
reiterato il giorno seguente. Egli non lo sopportò, piegandosi ad
un'ampia confessione, nel corso della quale, pur negando di aver
tramato la ribellione, ammise di aver voluto erigere una repubblica
di nuovo stampo, se fossero sopravvenuti in Italia i rivolgimenti
attesi e preannunciati. La sua arrendevolezza sotto il tormento,
probabilmente simulata è la prima mossa di un ben architettato
tentativo di salvezza: egli sa bene di essere il capo riconosciuto
del movimento e che la sua situazione processuale può dirsi
disperata, anche se, per formale rispetto della procedura, gli viene
consegnato un riassunto delle accuse emerse a suo carico e lo si
invita a presentare le proprie difese: quelle redatte nel marzo
dall'avvocato dei poveri Giambattista de Leonardis appariranno tanto
coraggiose quanto inutili.
Il 2 aprile, mattina di Pasqua, il C. mette in atto il suo piano: si
fa trovare dai carcerieri riverso e vaneggiante sul pagliericcio
incendiato, nella cella piena di fumo: dà inizio così, conscio di
giocare tra la vita e la morte, a una temeraria e tenacissima
simulazione di pazzia, l'unico espediente che ancora può salvargli
la vita. Intanto completa di nascosto (10 aprile) la stesura delle
proprie difese, che non è ormai più in grado di consegnare, visto
che si mostra fuor di senno, ma che viene via via ritoccando nel
corso dell'anno per ogni eventualità: esse si compongono di una
Prima delineatio defensionum, narrazione abilmente attenuata dei
fatti di Calabria, e di una Secunda delineatio defensionum, silloge
dei testi profetici che avevano ispirato la sua predicazione e primo
abbozzo dei futuri Articuli prophetales;è di quei giorni anche
l'Apologia ad amicum, indirizzata probabilmente al Ponzio, nella
quale il C. esprime il suo accorato sdegno per il fraintendimento
del proprio messaggio operato dai congiurati calabresi (lo scritto
verrà poi rielaborato a guisa di appendice agli Articuli). Il 19
aprile il papa nominò giudici del processo d'eresia il nunzio
Aldobrandini, il suo vicario e il padre Tragagliola, già commissario
del Sant'Uffizio romano e ora promosso vescovo di Termoli; il 10
maggio ebbe inizio il processo d'eresia e due giorni dopo si chiese
a Roma l'autorizzazione a torturare gli imputati, che venne concessa
l'8 giugno ad arbitrio dei giudici. Intanto il 17 maggio aveva avuto
luogo il primo interrogatorio del C., che seguitò a mostrarsi pazzo;
il 18, torturato con un'ora di "corda", persisté nelle stravaganze e
nei dinieghi; il 20, in un terzo interrogatorio, non si tradì nella
sua ardua finzione; più tardi (6-15 novembre) ben dieci testimoni
deposero, proclamandosi convinti della pazzia del C., che era stato
spiato a più riprese, anche di notte.
Nel corso di quell'anno 1600, il recluso si occupa di astrologia,
compone rime autobiografiche e sacre, sonetti politici e
d'occasione, oziosi versi d'amore dettati per compiacere compagni
cli prigionia; a partire dall'aprile stende febbrilmente la
Monarchia di Spagna, additando, non senza opportunismo, nella grande
monarchia iberica la potenza mondiale destinata ad attuare
l'unificazione dell'orbe sotto un solo potere e l'erezione della
monarchia cristiana. Il 1º genn. 1601 morì il mite e comprensivo
Tragagliola e solo il 23 marzo venne designato a sostituirlo in seno
al tribunale il severo Benedetto Mandina, vescovo di Caserta. Questi
il 13 aprile scrisse a Roma lamentando l'estrema penuria di cui
soffrivano i frati imprigionati e il 26 gli fu risposto di far
provvedere alle loro necessità mediante i superiori della provincia
domenicana; ma ancora nell'agosto quelli non s'erano piegati a
sovvenire i loro sventurati confratelli.
Il 31 maggio da Roma si ordinò di accertare definitivamente se la
pazzia del C. era vera o finta. Un fidato amico e compagno di
carcere, fra' Pietro Presterà, nella speranza di sottrarre il C.
alla nuova tortura minacciata, fece pervenire ai giudici (3 giugno)
la Prima e la Secunda delineatio defensionum, ma senza esito. Dopo
aver protratto senza mai tradirsi, per quattordici mesi, l'abile e
pertinace simulazione della pazzia, il C. la sancì definitivamente
sopportando con animo invitto, per trentasei ore consecutive (4-5
giugno), l'atroce supplizio della "veglia"; ne uscì stroncato,
infermo per sei mesi ma salvo, perché la prova legale della sua
follia lo sottraeva per sempre al patibolo. Fatto certo ormai della
vita, lotterà d'ora innanzi per ricuperare quella libertà, che sola
può consentirgli di attuare nel mondo l'azione riformatrice cui si
sente predestinato. Il superamento dell'inaudita tortura resterà poi
nel suo ricordo come prova di coraggio inflessibile, un culmine
alto, quasi testimonianza vissuta della libertà dell'arbitrio umano,
che forze avverse e fisiche sofferenze non possono riuscire a
piegare.
Il 2 agosto una perquisizione improvvisa operata nel carcere conduce
al sequestro di un codicetto, nel quale un amico e coimputato, fra'
Pietro Ponzio, era venuto trascrivendo ottantadue poesie del C.; fu
sequestrato altresì un fitto manoscritto (che il C. cercò di salvare
gettandolo dalla finestra su un sottostante terrazzo) contenente il
testo dell'Epilogo magno, che l'autore, ancora prostrato per il
supplizio patito, già veniva riprendendo; nel corso dell'anno
continuò a dettare poesie, si dedicò a studi di grafologia, stese
probabilmente gli Aforismi politici, esposizione "epilogistica"
della sua dottrina sulle società umane organizzate e sul potere. Il
20 settembre morì il vicerè conte di Lemos e gli successe
interinalmente il figlio Francisco de Castro.
Del tutto risanato, il C. trascorre il 1602 componendo opere di
largo impegno: la Città del Sole, descrizione romanzesca, sul
modello dell'Utopia del More, di una repubblica felice, nella quale
riapparivano, idealizzate e riscattate dalle rozze interpretazioni
dei congiurati, le idee di riforma radicale della società bandite in
Calabria al tempo della congiura; la prima redazione (in volgare)
della Metafisica in tre parti e 15 libri; varie rime filosofiche. Il
16 ottobre due frati complici, Dionisio Ponzio e Giuseppe Bitonto,
riescono ad evadere dal Castel Nuovo e a riparare dapprima a Malta,
poi a Costantinopoli, dove il Ponzio, fattosi maomettano, verrà
ucciso in rissa da un giannizzero. Dopo lunga ponderazione degli
atti del processo d'eresia, si delibera in Roma (13 novembre) che il
C. sia condannato al carcere perpetuo e irremissibile da scontarsi
nelle prigioni del Sant'Uffizio; il 29 il tribunale napoletano
prende atto della sentenza, che è puramente formale, sia perché sono
tuttora aperti i processi per la ribellione, sia perché è palese che
il governo spagnolo non concederebbe mai l'estradizione di un
personaggio tanto pericoloso. L'8 gennaio del 1603 la sentenza venne
letta al Campanella.
Mentre continua fiaccamente il processo per la congiura, destinato a
non sfociare in conclusione di sorta, giunge a Napoli in aprile il
nuovo viceré Juan Alfonso Pimentel de Herrera, conte di Benavente;
poco dopo, il giudice de Vera si sposa (luglio 1603) rendendosi
inabile a far parte del tribunale di un processo ecclesiastico,
sicché anche la causa di ribellione contro i frati ne risulta
arenata. Un decreto (7 agosto) del padre Francesco Maria Guanzelli,
maestro del Sacro Palazzo, pone all'Indice tutte le opere del
Campanella. Per timore che tenti di imitare il Ponzio nell'evasione,
nello stesso mese lo si trasferisce nel torrione del castello, in
cella più isolata e sicura; là, in compagnia di Felice Gagliardo,
giovinastro superstizioso, si dà alle pratiche magiche e alle
evocazioni demoniache, mosso da fallaci presagi di libertà e da
vibranti speranze di prossimi sommovimenti cosmici provocati dalla
prevista "congiunzione magna" (l'eccezionale concorso di pianeti
nell'auge di Mercurio in Sagittario atteso per il 24 dic. 1603). La
scoperta, in ottobre, di un piano ordito per favorire la sua fuga
provoca una sorveglianza più severa. Fin dall'aprile aveva affidato
al tedesco Christoph Pflug, carcerato per errore in Castel Nuovo,
copia della Monarchia di Spagna e dell'Epilogo magno;intraprende una
vasta Astronomia in quattro libri, che compirà l'anno seguente,
allegandovi un'appendice De symptomatis mundi per ignem interituri
(perduta); stende anche un Prognosticon astrologicum de his quae
mundo imminent usque ad finem (perduto), che invia all'amico Antonio
Persio e al matematico e geografo Giovanni Antonio Magini; affida al
discepolo Geronimo del Tufo la Metafisica italiana, che non riuscirà
più a ricuperare; nell'inasprita detenzione, privo di libri e
dell'agio di scrivere, compone essenziali rime filosofiche.
Nel luglio 1604 venne trasferito in castel Sant'Elmo, in un'orrida
fossa sotterranea cieca e umida, dove resterà per quattro anni, con
ferri alle mani e ai piedi, toccando il culmine del suo calvario di
sofferenze fisiche e morali. Con il solo conforto di un pio
confessore, il pavese don Basilio Berillari, superando quella
profonda crisi di sconforto e di smarrimento intellettuale, egli
venne allora operando un radicale ripensamento dei propri
filosofemi, che coronerà l'anno seguente con l'accettazione della
propria sorte di sofferenza e di grandezza, in una illuminante
conversione, che non tanto si risolse in ascesi religiosa, quanto in
una reinterpretazione globale del proprio destino. Potrà così
rientrare senza riserve nell'ovile cattolico recando con sé,
intatto, il prorompente impulso riformatore. Nella "fossa" detta le
sue liriche più sofferte: il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole
orazione profetale, le tre Salmodie metafisicali, le quattro canzoni
In dispregio della morte; di là indirizza al papa, ai sovrani, ai
potenti, commosse suppliche di liberazione, di continuo ravvivando
le sempre deluse speranze. Sempre nel 1604, ricompone in volgare,
col titolo Del senso delle cose e della magia, il perduto De
sensitiva rerum facultate del 1590 e, tramite il devoto e autorevole
confratello Serafino Rinaldi, fa pervenire al viceré un suo parere
De regimine regni Neapolitani (perduto), forse rifuso poi negli
Arbitrii del 1608.
Il 27 ott. 1604 il papa designa Giovanni Ruiz de Baldevieto a
sostituire il de Vera (pronunciato inabile sin dal 29 luglio) in
seno al tribunale per la congiura degli ecclesiastici; nel gennaio
1605 il C. tenta invano di farsi ricevere dal viceré, ponendo
l'accento sulla propria perizia nelle scienze politiche. Dopo la
morte di Clemente VIII (5 marzo) e il brevissimo pontificato di
Leone XI, nuove speranze suscita in lui l'ascesa al soglio (16
maggio) di Camillo Borghese col nome di Paolo V. Il 26 marzo i frati
complici, concluso il processo per la congiura, vengono liberati, ma
per tacito accordo fra i giudici ecclesiastici e il governo spagnolo
(timoroso di dover consentire, a sentenza pronunciata, che il C.
venga trasferito a Roma in virtù della condanna subita per eresia)
il filosofo viene "dimenticato" nella "fossa" di Castel Sant'Elmo:
gli toccherà ancora penare per più di vent'anni nelle segrete dei
castelli napoletani.
Il 17 giugno 1605, certo a richiesta del C., un ignoto amico
denunzia al Sant'Uffizio romano che egli subisce gravi
maltrattamenti da parte dei ministri regi; in agosto indirizza egli
stesso un memoriale (perduto) al nunzio Aldobrandini e
all'inquisitore Diodato Gentile, vescovo di Caserta, chiedendo di
venire ascoltato di persona e preannunciando mirabolanti rivelazioni
e promesse; visitato nell'ottobre dai due prelati, ne viene
giudicato un esaltato visionario. Nel corso dell'anno svolge
attività intensa di scrittore: compone un libro latino Cur sapientes
et prophetae nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes
rebellionis et haeresis tamquam proprio crimine notentur ac morti
violentae subiaceant, et postmodum cultu et religione reviviscant
(perduto), volto a indagare le cause del fallimento pratico di tutti
i grandi filosofi e profeti; intraprende la stesura in volgare di
una radicale apologia razionalistica del cristianesimo, che intitola
Recognoscimento filosofico della vera universale religione contra
l'anticristianesimo macchiavellistico e che trasfonderà poi
nell'Atheismus triumphatus; pone mano agli Articuli prophetales,
vasta silloge di testimonianze a suffragio del proprio millenarismo.
Il 23 maggio 1606 rilasciò una dichiarazione all'abate Vincenzo
Pagano per ottenere rimedi utili alla propria salute fisica e
morale, dicendosi ammalato, senza cibo, privo di assistenza
spirituale; il 2 giugno inoltrò una seconda supplica al Gentile; il
13 da Roma si ordinò di provvederlo di un prudente e discreto
confessore, ma il viceré volle riservare a sé la facoltà di
sceglierlo e pretese che fosse in ogni caso spagnolo. Tra il luglio
e l'agosto indirizzò suppliche appassionate a Paolo V, a Filippo III
di Spagna, ai card. Girolamo Berneri, Cinzio Aldobrandini e Odoardo
Farnese, al nunzio a Napoli Guglielmo Bastoni: in esse il recluso
chiede di venir trasferito a Roma, narra patimenti e sventure,
elenca le opere compiute o progettate, profferisce audaci o
stravaganti promesse; da ogni pagina spira un inesausto fervore di
operare per il bene della cristianità, un ravvivarsi perenne dei
propositi e delle speranze. In quell'anno detta la bellissima,
dolorante Canzone di pentimento, indirizzata al Berillari, e poco
più tardi le grandi Salmodie sulla bellezza del creato e la potenza
dell'uomo; intanto rielabora l'Epilogo magno e lo correda di
"avvertimenti", nei quali riprende la discussione delle dottrine dei
filosofi classici abbandonata dopo la perdita (1593) del De rerum
universitate;probabilmente in quest'anno, se non prima, ricompone in
compendio i Discorsi universali del governo ecclesiastico, cui
recherà in seguito ripetute aggiunte; fra il settembre e l'ottobre
detta tre libri di accorate rampogne ed esortazioni A Venezia (che
lo Scioppio intitolerà poi Antiveneti)e si offre al papa quale
campione della Chiesa nell'aspra contesa dell'interdetto contro la
Serenissima. La gravità del momento politico e il serrato dibattito
dottrinale in corso lo inducono anche a stendere in volgare,
riprendendo in parte i concetti della smarrita Monarchia dei
Cristiani, l'esposizione del suo ideale di teocrazia ecumenica col
titolo di Monarchia del Messia, cui allega in appendice un Discorso
delle ragioni che ha il Re Cattolico sopra il Mondo Nuovo e altri
regni d'infedeli;infine vagheggia il progetto, e forse lo attua in
parte, di "un volume per convertir li gentili dell'Indie orientali e
occidentali", prima stesura di quello che sarà il libro II del Quod
reminiscentur.
Ai primi del 1607 il C. entrò in rapporto epistolare con il
controversista tedesco Kaspar Schoppe (italianizzato in Scioppio),
neofito del cattolicesimo, che promise di interessarsi ai suoi casi.
Il 23 marzo l'inquisitore Gentile chiese a Roma che il domenicano
Gaspare Peña, confessore del C., fosse autorizzato ad assolverlo
anche dai casi riservati; il 19 aprile la concessione venne
accordata, ma si invitò il Gentile a farsi consegnare il trattato
sulla conversione degli eretici (il Recognoscimento ricordato) e a
mandarlo a Roma; fin dal 12 intanto il C. aveva indirizzato un ampio
memoriale al papa e al collegio cardinalizio con le suppliche e
promesse consuete. In quei giorni (17 aprile) lo Scioppio venne a
Napoli e, pur non riuscendo a vedere di persona il C., scambiò con
lui varie lettere, in realtà mirando piuttosto a carpirne
manoscritti e suggerimenti per i propri lavori polemici che ad
aiutarlo concretamente. Vedendo così rinverdire le proprie speranze,
il C. detta memoriali appassionati diretti a Paolo V, a Filippo III,
all'imperatore Rodolfo II, agli arciduchi d'Austria, a vari
cardinali; carteggiando con lo Scioppio, redige per lui vari
opuscoli epistolari di argomento medico: sull'avvelenamento
mercuriale dei luetici (perduto), sul modo di evitare il freddo o la
calura eccessiva e un De pestilentia Coloniensi indirizzato il 14
giugno a Serafin Henot.
Il 18 maggio lo Scioppio partì da Napoli alla volta di Roma; poco
più tardi, sotto la data forse fittizia del 1º giugno, il C. gli
spedì copia di tutte le sue opere disponibili: erano tra esse i
Discorsi ai principi d'Italia di recente rielaborati, gli Aforismi
politici espressamente corredati di postille latine, nonché due
testi oggi perduti, cioè l'Apologia pro Telesio del 1593 e il
Prognosticum astrologicum del 1603. Lo stesso giorno dedicò allo
Scioppio, ultimato e tradotto in latino, il trattato contro gli
increduli, intitolato Recognitio verae religionis, invitandolo a
volgerlo in tedesco perché facesse frutto nella conversione della
Germania; il destinatario si limiterà a mutargli il titolo nel
pomposo Atheismus triumphatus. Il 5 luglio il Sant'Uffizio romano
prese in esame due memoriali del C., nei quali egli chiedeva di
essere trasferito in carcere meno duro e di venir tradotto a Roma
per sottostarvi ad un nuovo processo; l'ordine fu di assegnargli una
cella meno disumana nello stesso Castel Sant'Elmo e di rivedere il
suo incartamento processuale. In quei giorni il prigioniero
componeva la canzone Della prima possanza e, in una sofferta lettera
a mons. Antonio Querenghi, tracciava un quadro delle proprie
traversie giovanili e dei lunghi patimenti. Il 17 agosto
l'inquisitore Gentile notificò a Roma che, per ordine del viceré, il
C. era stato trasferito in una cella ordinaria.
Partendo da Roma alla volta della Germania (2 settembre) lo Scioppio
porta con sé copia di vari scritti del C.: sulla metà del mese, a
Bologna, tenta invano di far stampare la Monarchia del Messia e i
Discorsi ai principi, e poco dopo, a Venezia, conduce inconcludenti
trattative con il libraio senese Giambattista Ciotti per la
pubblicazione del dell'Atheismus, del Senso delle cose e
dell'Epilogo magno; arrestato per due giorni (27-28 settembre) come
agente politico sospetto, si vede sequestrare la Monarchia di Spagna
e gli Antiveneti.
Ai primi di genn. 1608 l'arciduca Ferdinando d'Asburgo, il futuro
imperatore, indirizza al viceré una commendatizia per il C.,
auspicando per lui carcere più umano e facoltà di scrivere; il 24 si
legge nel Sant'Uffizio romano un memoriale del C., che chiede
daccapo di essere tradotto a Roma e una revisione del processo, ma
il papa non acconsente. Finalmente tra marzo e aprile viene
trasferito in Castel dell'Ovo, dove resterà per sei anni in
detenzione meno feroce, tanto da poter ricevere visite di ammiratori
e discepoli e da aver agio di stendere la traduzione latina di molte
sue opere, così da facilitarne la diffusione oltr'Alpe. Subito
insospettito, il Sant'Uffizio romano invita mons. Gentile (29
giugno) a procurare che il C. passi dalle carceri regie a quelle
dell'Inquisizione, visto che sussistono gravi indizi a suo carico;
solo nel settembre, per la recisa opposizione vicereale, si lascerà
cadere la pratica. Per contro l'arciduca, su istanza dei potenti
banchieri Fugger, rinnova il suo intervento (3 ottobre), stavolta
chiedendo addirittura la liberazione del Campanella.
L'operosità del recluso è sempre intensa: nel maggio, in risposta ad
un quesito del medico tedesco (ma residente a Roma) Giovanni Faber,
gli invia un opuscolo epistolare "sul pieno e sul vacuo"; entro
l'agosto compone i tre Arbitrii sopra l'aumento delle entrate del
Regno con acuti suggerimenti di politica tributaria e, per mezzo del
confessore Peña, li fa pervenire al viceré, che li prende in esame e
solleva obbiezioni, cui il C. risponde. Intanto dà l'ultimo
compimento agli Articuli prophetales e continua a carteggiare con lo
Scioppio, insistendo perché questi non dismetta i tentativi di
liberarlo e incitandolo con suggestive promesse; per contro, lo zelo
del poco fedele amico si va raffreddando: in Germania egli fa
tradurre in latino i Discorsi ai principi d'Italia, ripromettendosi
di farli stampare a Monaco, ma non conduce a buon fine il disegno.
I
l 26 marzo 1609 nel Sant'Uffizio romano si diede lettura di un
memoriale indirizzato dal C. al papa, probabilmente quello che
possediamo, senza data, ma certo del 1609, ch'egli spedì a Paolo V,
Filippo III e Rodolfo II, implorando libertà; si decise di
riesaminare la sua causa. Il 20 maggio scrisse anche allo Scioppio,
supplicandolo di intercedere per la sua liberazione; il 15 giugno il
nunzio a Graz informò il Sant'Uffizio del continuo carteggio
corrente tra il C. e lo Scioppio, al quale aveva spedito gli
Antiveneti e la Monarchia del Messia, proclamandosi in grado di
profetare e di compiere miracoli. Il 25 giugno il papa ordina che la
cella del C. venga perquisita, gli si impedisca di scrivere e si
compili un sommario informativo del suo processo; il 16 luglio si
decise di scrivere a mons. Gentile per ottenere la traduzione del
prigioniero a Roma, ma l'ultimo del mese l'inquisitore napoletano
riferiva il rifiuto del viceré di consegnarlo all'autorità
ecclesiastica; il papa ordinò allora (13 agosto) di esercitare
pressioni dirette sul re, tramite il nunzio a Madrid, per ottenere
l'estradizione e di far compilare intanto la lista degli errori in
materia di fede contenuti nei suoi scritti. Partito da Graz il 24
luglio, lo Scioppio rientrò a Roma (20 agosto); l'arciduca aveva già
richiesto con un terzo memoriale (30 luglio) che egli venisse
ammesso a diretti colloqui col C., dal quale contava di trarre larga
messe di suggerimenti per la sua polemica contro i riformati; in
realtà egli non si spinse più fino a Napoli, ma il C. gli scrisse a
lungo (7 novembre) dissertando ampiamente sull'Anticristo e
caldeggiando la propria liberazione.
Anche nel corso del 1609 l'operosità dello scrittore fu intensa:
dopo aver discusso con lo Scioppio l'opportunità di volgere in
latino i propri scritti per farli conoscere in Germania, traduce il
Senso delle cose, che si trasforma nel De sensu rerum;concepisce il
disegno di allegare alla trattazione fisica ed etica dell'Epilogo
magno anche un testo politico e connette a quel trattato gli
Aforismi politici, costituendo la tripartita Filosofia epilogistica,
non senza sviluppare in forma autonoma la trattazione sin'allora
embrionale dell'Etica; intraprende, a guisa di commentario di tale
esposizione sintetica, le vaste Quaestiones physiologicae, ethicae
et politicae, compiute in prima stesura intorno al 1613, e detta per
esse, a guisa di preambolo, il De gentilismo non retinendo;compone
una prima Medicina in due libri; avvia in latino una seconda
Metaphysica;continua ad accarezzare l'idea missionaria, quell'idea
che animerà il Quod reminiscentur, dichiarando di esser capace di
"tirar gli Ebrei alla fede".
Il 29 apr. 1610 il Sant'Uffizio ordina all'inquisitore, napoletano
di accertare quanto vi sia di censurabile negli scritti del C., di
reiterare la perquisizione nella sua cella e di trovare un accordo
col viceré perché egli sia custodito severamente e non abbia modo di
carteggiare. Il 14 maggio il prelato risponde fiaccamente di non
aver trovato particolari errori nelle opere in sua mano, fuor delle
antiche tesi già venute in luce attraverso i processi. Fin dal 6
maggio il viceré (che il 13 luglio cedette poi i poteri al
successore Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos) aveva
consentito a "religiosi e persone spirituali" di visitare il C. nel
carcere, ma dopo due sole settimane l'ordine venne revocato; in
quello stesso mese una perquisizione operata nella cella condusse al
sequestro della seconda, incompiuta Metaphysica. Senza scoraggiarsi,
il C. ricompone da capo una terza Metaphysica latina in 13 libri;
abbozza verosimilmente quello che sarà il libro II del futuro Quod
reminiscentur, rivolto alla conversione dei pagani; stimolato
dall'apparire del Nuncius sidereus di Galileo, riprende a lavorare
all'Astronomia;in data imprecisata tra il settembre e i primi
dell'anno seguente indirizza un memoriale a Filippo III e a Paolo V.
Il 13 genn. 1611 scrisse una calorosa lettera a Galileo a proposito
del Nuncius. In seguito a un memoriale al papa presentato dai
domenicani di Napoli (certo sollecitato e probabilmente redatto dal
C.) perché si addivenga ad una sentenza conclusiva nella causa della
congiura, da Roma si ordina (17 marzo) di accertare se il processo è
terminato e se il C. può venir tradotto nelle prigioni del
Sant'Uffizio; un secondo memoriale dei frati sarà letto il 3 giugno.
Nel maggio una ennesima perquisizione operata nel carcere condusse
al sequestro dell'Astronomia, che andò così perduta; nell'estate il
C. fece presentare al viceré un ampio memoriale e un altro ne spedì
(29 ottobre) a Paolo V, chiedendo di essere tradotto presso
l'Inquisizione romana e non mandato in Spagna, come si vociferava;
supplicava anche per ottenere vesti e medicine, delle quali venne
provveduto con ordine del 1º dicembre. Nel corso dell'anno, sempre
interessato a questioni astronomiche, aggiunge una Nova appendix
necessaria agli Articuli prophetales;apporta alcuni ritocchi
significativi al testo italiano della Città del Sole;riprende e
amplia la Medicina;avvia probabilmente la versione in latino della
Filosofia epilogistica;continua a vagheggiare l'idea missionaria,
proclamandosi certo di poter convertire ebrei e maomettani. Al
riaprirsi di una vecchia polemica dietetica tra naturalisti, per
compiacere l'amico telesiano Antonio Persio, autore di un
trattatello Del bever caldo (Venezia 1593), gli dedica un De
utilitate potus calidi (perduto).
Il 19 luglio 1612 si dà lettura nel Sant'Uffizio romano di un
memoriale del C., che chiede di essere ascoltato circa gravi
argomenti in materia di fede; si tratta palesemente di un ulteriore
espediente in vista della sperata estradizione. Lo stesso giorno si
legge pure un esposto di Stefano de Vicariis, vescovo di Nocera e
commissario dell'Inquisizione del Regno, il quale lamenta che il C.
sia detenuto con tanta strettezza da non poter parlare a persona
senza il permesso del viceré. Più tardì (1º settembre) mons. de
Vicariis annuncerà di aver visitato il C. nel carcere e di aver
appreso da lui che l'autorità civile non solleverebbe difficoltà per
consegnarlo ai superiori ecclesiastici, ove questi lo richiedessero;
il 27 Paolo V farà rispondere al prigioniero che la maggiore
agevolazione in cui gli è lecito sperare è il carcere perpetuo. Nel
1612 il C. diffonde tra i suoi amici un Index librorum, che
comprende ormai 36 titoli di proprie opere. Rifacendo la giovanile
Rhetorica dal 1593, rielaborando in tre libri una vasta Dialectica
(nella quale rifuse solo in minima parte il giovanile De
investigatione rerum perduto), ricomponendo in latino con ingenti
accrescimenti una Poetica che restaurasse lo smarrito testo volgare
del 1596, infine aggiungendo "ex novo" una breve Historiographia, il
C. ha ormai costruito l'ingente volume della Philosophia rationalis,
al quale solo dopo il 1618 aggiungerà una quinta sezione (ma prima
nel definitivo ordinamento) dedicata alla Grammatica.
Tra l'autunno 1612 e la primavera seguente si trattengono per otto
mesi a Napoli, reduci dalla Terrasanta, nel corso di un vasto
periplo d'istruzione, il nobile giovinetto sassone Rudolf von Bünau
e il suo precettore Tobia Adami; quest'ultimo, uomo di ottimi studi
umanistici e giuridici, grande ammiratore del C., riesce a mettersi
in contatto con lui, intesse un carteggio quasi quotidiano di oltre
duecento lettere, riceve per sé e per il proprio discepolo due
calorosi sonetti elogiativi e finalmente, nel partirsi, porta con sé
copia di quasi tutte le maggiori opere del filosofo: il De sensu
rerum, la tripartita Philosophia epilogistica (tradotta in latino
solo nelle parti I e II col titolo De philosophia naturali et
morali), la Medicina non ancora ampliata fino ai sette libri
definitivi, il De gentilismo non retinendo, una Scelta di
ottantanove "poesie filosofiche" alle quali l'autore, in vista d'una
vagheggiata pubblicazione oltr'Alpe, aveva affiancato espressamente
un'Esposizione in prosa. Nel corso della calorosa discussione
epistolare con l'Adami il C. aveva dettato l'Epistola antilutherana,
le Responsiones e le Responsiones secundae ad obiectiones,
componendo una vibrata apologia del cattolicesimo contro le tesi
della Riforma, che allogherà più tardi nel libro I del Quod
reminiscentur. Inoltre l'Adami si procura a Napoli, tramite il
domenicano Gregorio Costa, copia della terza Metaphysica del 1611,
anche se l'autore già attende ad un vasto rifacimento, che si
protrarrà per il successivo decennio.
Nel 1613 il C. intraprende l'immane Theologia, stende gran parte dei
sette libri Astrologicorum che compirà ai primi del 1614, continua a
ritoccare gli Articuli prophetales, che promette, ma non consegna
all'Adami. Sempre in contatto con Galileo, nel giugno discute per
iscritto le sue tesi sulle macchie solari e altrettanto farà in
novembre analizzando il galileiano Discorso delle cose che stanno in
su l'acqua o che in quella si muovono (Firenze 1612); l'uno e
l'altro testo andranno poi ad accrescere le Quaestiones
physiologicae. Il napoletano Tommaso Costo pubblica a Venezia una
edizione accresciuta della sua Istoria del Regno di Napoli nella
quale narra gli eventi della congiura del 1599 e dei conseguenti
processi, con accenti di viva ostilità verso il Campanella.
L'8 marzo 1614 annuncia a Galileo di attendere al libro IV della
Theologia;due mesi dopo ha già compiuto il libro V. Il 9 maggio
viene letta nel Sant'Uffizio romano una denuncia del domenicano
Angelo Romano di Palermo, il quale lamenta che il C. nel carcere
abbia agio di comporre libri e li distribuisca a eretici di varie
nazioni; un'inchiesta condotta dal de Vicariis non riesce ad
accertare il fatto. L'11 maggio il C. detta un memoriale a Cosimo II
di Toscana, per ottenerne la protezione e un appoggio per la stampa
d'una raccolta di propri scritti; vi allega un'ampia lista di
"promesse mirabili" e di opere; per dare maggior peso al documento,
lo fa sottoscrivere da Fabrizio Serrano y Leyva conte di Casalduni,
un giovane patrizio inetto e malaticcio di cui l'amico fra' Serafino
Rinaldi amministrava i beni. Deplorando i troppo agevoli contatti
con varie persone, di cui il C. gode in Castel dell'Ovo, a fine
ottobre il viceré lo fa trasferire daccapo in Castel Sant'Elmo in
dura reclusione; subito dopo le autorità affidano, per pochi giorni
al C. copia della sua prima Metafisica in volgare (trovata in
possesso di un certo G. B. Heredia e sequestrata), perché risarcisca
una lacuna riscontrata nel manoscritto, che gli vien tosto ritolto.
Nel corso dell'anno completa verosimilmente la redazione latina
della Philosophia realis, affiancando alla Physiologia e all'Ethica
la rielaborazione degli Aforismi politici nella Politica in 173
articoli, allegandovi la Civitas Solis e l'Oeconomia composta ex
novo; ciascuna delle quattro sezioni di questa Philosophia della
"realtà" fisica e morale è ormai corredata di ampie Quaestiones
analitiche e polemiche. Tra il cadere del 1614 e il maggio 1618 darà
corso in Sant'Elmo al rifacimento radicale della Medicina, in sette
libri.
Nel 1615 il severo rigore della prigionia costrinse il C. ad una
penosa inazione; sin dal 23 aprile il Sant'Uffizio romano aveva
ordinato al nunzio a Napoli di procacciare copia dell'Atheismus
triumphatus e di fare in modo che il recluso venisse posto
nell'impossibilità di scrivere; soltanto a gran fatica poté forse
avviare la stesura definitiva dell'ampio testo missionario, volto
alla conversione al cattolicesimo di tutte le genti, che intitolò da
un versetto del salmo XXI: Quod reminiscentur et convertentur ad
Dominum universi fines terrae.
Il 24 febbr. 1616 i consultori del Sant'Uffizio in Roma qualificano
formalmente eretica l'ipotesi eliocentrica copernicana e due giorni
dopo il card. Bellarmino intima a Galileo il "praeceptum" che gli
vieta in futuro di insegnare o sostenere le tesi condannate; il 5
marzo segue la condanna all'Indice del De revolutionibus di
Copernico e della Lettera in sua difesa del calabrese Paolo Antonio
Foscarini, apparsa a Napoli nel 1615. Posto in allarme dalla
scoperta ostilità dei teologi romani, il C. compone di getto
nell'estate una serrata Apologia pro Galileo, difendendo
l'opinabilità scientifica e l'irrilevanza dogmatica della teoria,
che pure mal si conciliava con la sua fisica di impronta telesiana,
dando così prova di schietto disinteresse e di strenuo coraggio
intellettuale; subito fece pervenire il proprio scritto al card.
Bonifacio Caetani, incaricato di espurgare il libro di Copernico,
sperando così di giovare al grande amico pisano; solo dopo la morte
del porporato (nel giugno 1617) escogiterà l'aggiunta di una dedica
al Caetani premessa all'Apologia per lasciar credere di aver scritto
per suo mandato.
Il 16 giugno 1616 il conte di Lemos lascia il governo di Napoli al
fratello Francisco in veste di luogotenente e il 26 sbarca a
Pozzuoli il nuovo viceré Pedro Girón duca d'Osuna, uomo ambizioso e
irrequieto; sin dall'agosto, ancor prima di aver fatto il suo
ingresso in città, l'Osuna mostra interesse per il C. e lo fa
condurre alla propria presenza in Posillipo sotto buona scorta,
concedendogli poi il trasferimento nel Castel Nuovo in assai più
blanda detenzione. Colmo di speranze per quell'improvvisa
benevolenza, il C. scrive a Galileo (3 novembre): "sto quasi in
libertà"; pochi giorni dopo, proclamando di aver da esporre
importanti rivelazioni, ottiene udienza dall'Osuna e chiede senza
mezzi termini di essere addirittura rilasciato: il capriccioso duca
gli risponde invece con male parole e lo ricaccia nella segreta di
Castel S. Elmo.
Ai primi di gennaio 1617 Tobia Adami, rientrato in Germania,
pubblica a Francoforte il giovanile Compendium de rerum natura
composto dal C. nel 1595 (di cui si era procurato copia in Padova
nel 1611); il libretto, preceduto da una diffusa e calorosa
Praefatio dell'editore ai filosofi tedeschi e da un sonetto del C.
all'Adami (primizia della Scelta che vedrà la luce cinque anni dopo)
appare col titolo di Prodromus philosophiae instaurandae, quasi
preludio alla pubblicazione degli altri e maggiori testi che l'Adami
aveva recato seco; il 10 novembre questi dava notizia a Galileo
dell'avvenuta stampa. Era uscita intanto in Germania, in seno ad una
miscellanea di scritti antiasburgici, una versione latina anonima
del capo XXVIII della Monarchia di Spagna, presentata come libretto
autonomo sotto il titolo di Discursus de Belgio sub Hispani
potestatem redigendo:nasce così nei paesi riformati la
raffigurazione del C. quale machiavellico consigliere politico
dell'imperialismo spagnolo. Il 1º dicembre il filosofo dedica a
Paolo V il Quod reminiscentur, cui ha lavorato per tutto l'anno.
Nell'aprile 1618 il C. spedì a Roma un memoriale, chiedendo di venir
liberato dal carcere "sotterraneo e insalubre"; il 2 maggio il
Sant'Uffizio deliberò di scrivere a Napoli, facendo pressione perché
la reclusione fosse alleviata, pur assicurandosi contro qualsiasi
tentativo di fuga. A fine mese venne finalmente trasferito in Castel
Nuovo, la meno opprimente delle carceri napoletane, dove trascorse
in condizioni non disumane gli ultimi otto anni di detenzione in
mano spagnola. Ritrovato un certo favore presso l'Osuna, che lo
chiamò a ripetuti colloqui, poté d'allora in poi ricever visite,
impartire qualche lezione, scrivere con maggiore agio, anche se,
meno incline a dettar nuove opere, preferirà rivedere e ampliare
assiduamente le antiche. Nel giugno vergò un diffuso oroscopo o
Calculus nativitatis per Filiberto Vernat, un distinto giovane
fiammingo carcerato per errore a Napoli; i riscontri con la
successiva vicenda biografica del personaggio rivelano nel C. doti
inquietanti di preveggenza. Il 22 dicembre indirizzò a Paolo V un
lungo memoriale, folto di suppliche e di promesse, rinnovandogli
l'offerta del Quod reminiscentur, definitivamente compiuto sin dal
maggio; alla missiva allegò una Lista delle proprie opere distinte
in nove tomi, tracciando un primo schema per la vagheggiata edizione
degli "opera omnia". Non sono posteriori a quest'anno le tre
Orationes de laudibus divi Thomae (perdute), che l'amico fra'
Serafino Rinaldi fece recitare pubblicamente a Napoli. Nel corso del
1618 conduce innanzi la Theologia almeno sino al libro XII, volge in
latino la Monarchia Messiae del 1606 con l'annesso De iuribus Regis
Catholici in Novum Orbem, carteggia ancora con lo Scioppio. Vedono
la luce in Olanda in rapida successione, in versione fiamminga, tre
edizioni del Discursus sui Paesi Bassi, suscitando vivaci reazioni e
polemiche.
Il 31 maggio 1619 il Sant'Uffizio in Roma esamina una supplica di
libertà del C. e risponde con un netto rifiuto. Probabilmente in
quest'anno riceve la visita del sassone Johann Bluhme, amico
dell'Adami, e gli affida, perché li rechi al fido editore tedesco, i
rielaborati testi latini confluiti nella Philosophia realis, cioè la
Physiologia, l'Ethica rifatta, la Politica largamente accresciuta e
rimaneggiata in tredici capitoli con l'allegata Civitas Solis e
infine l'Oeconomica;non gli consegna invece le Quaestiones, attorno
alle quali ha ripreso a lavorare. Un altro amico dell'Adami, il
teologo pietista Johann Valentin Andreä, pubblicando a Strasburgo
una raccolta di "diletti spirituali" (Geistliche Kurzweil),
viinclude una propria versione tedesca di sei sonetti del C. tratti
dalla inedita Scelta; lo stesso Andreä dà in luce nella città renana
una sua utopia pedagogica ed edificante, intitolata Reipublicae
Christianopolitanae descriptio, palesemente ispirata dall'inedita
Città del Sole. Il 20 novembre l'Adami dedica ai fratelli von Bünau
la prima edizione del De sensu rerum, che vedrà la luce a
Francoforte ai primi del 1620, qua e là mutilata per ragioni di
opportunità delle frecciate antiluterane. Non prima del 1619 il C.
intraprende, per uso dei discepoli che lo visitano nella prigione,
la Mathematica, rimasta in tronco al primo libro, e la Grammatica,
certo compiute entrambe non oltre il 1624; in data non lontana
compone, sempre per uso didattico, un Compendium physiologiae
tyronibus recitandum, tuttora inedito.
In sostituzione dell'Osuna, caduto in sospetto a Madrid, il 3 giugno
1620 giunse a Napoli il nuovo viceré card. Gaspare Borja y Velasco;
ai primi di novembre il C. gli indirizzò una supplica perché gli
venisse effettivamente corrisposta la misera somma stanziata per il
suo vitto, ormai in arretrato da quattro mesi. Sperando in una
congiuntura favorevole alla revisione del vecchio e dimenticato
processo, compose allora a scopo autoapologetico, per uso legale,
una Informazione sopra la lettura delli processi fatti l'anno 1599
in Calabria e una congiunta Narrazione della istoria sopra cui fu
appoggiata la favola della ribellione. La pronta sostituzione del
Borja col rigido Antonio Zapata Cisneros, giunto a Napoli il 12
dicembre, insabbiò quella pratica. È del 1620 la prima edizione
della Monarchia di Spagna, impressa in Germania in località
sconosciuta nella versione tedesca del celebre giurista Christoph
Besold.
Alla morte di Paolo V (28 genn. 1621) fu chiamato a succedergli (9
febbraio) Alessandro Ludovisi col nome di Gregorio XV; subito si
riaccesero nell'animo del C. le speranze di ottenere la libertà
grazie al favore del nuovo pontefice. Le sue insistenze si fecero
pressanti: anche se una dedica del 6 marzo al papa, apposta su un
esemplare a penna del Quod reminiscentur, è probabilmente fittizia
(e da posticipare di alcuni anni), il 31 di quel mese dettò varie
commendatizie rivolte a distinti personaggi romani (Antonio Caetani,
Federico Cesi, Giovanni Fabri) da affidare al discepolo Pietro
Giacomo Failla, che si trasferiva nell'Urbe recando seco esemplari
di molti scritti del C. con l'intento di procurarne la stampa previa
concessione delle approvazioni ecclesiastiche; il 22 maggio, avendo
il C. chiesto licenza, con un memoriale al papa, di dare in luce il
Quod reminiscentur, quel volume manoscritto venne affidato per la
revisione al card. Roberto Bellarmino, pur avendo la Congregazione
dell'Indice fatto presente in pari data che era tuttora in pieno
vigore la proibizione generale fulminata contro il C. nel 1603. In
risposta ad un nuovo memoriale del C., postulante la revisione e
l'imprimatur per tutte le proprie opere, il 30 giugno la
Congregazione dell'Indice non solo rispose negativamente, ma chiese
che gli fosse financo impedito di scrivere. Dopo aver dato parere
favorevole sul Quod reminiscentur, il 28 agosto Bellarmino addita
alla Congregazione dell'Indice vari luoghi censurabili rilevati
negli scritti del C. e i porporati concludono esser più conveniente
che il C. cessi di scrivere e delle cose sue si occupi, come per
l'addietro, il Sant'Uffizio. L'immediata e battagliera autodifesa
del C. Ad cardinalem Bellarminum contra censuram librorum meorum
(perduta) non dovette giungere sotto gli occhi del censore, che si
spense il 15 settembre. Intanto la Theologia era stata condotta
innanzi almeno sino al libro XXI.
L'11 apr. 1622 scrisse, chiedendo protezione, al card. Alessandro
d'Este. Compose allora un perduto Apologeticus in lode di un carme
composto da Virginio Cesarini per le nozze di Niccolò Ludovisi,
nipote del papa, con Isabella Gesualdo, carme impresso a Roma nel
1622.
Affida poi a Ludovico Cattani da Diacceto, conte di Châteauvillain,
la quarta redazione ormai compiuta della Metaphysica in 16 libri,
sperando che essa possa vedere la luce in Francia; l'opera viene
così conosciuta almeno in parte a Parigi dal padre Candide Marin
Mersenne ed è presentata, insieme ad un'epistola del C., ai dottori
della Sorbona. Per mezzo del Cattani riesce pure a far pervenire ad
Antoine Soubron, libraio di Lione, gli Astrologicorum libri, la
Medicina e il riveduto De sensu rerum, tentando così di farli
stampare oltr'Alpe, eludendo il divieto dell'Indice. Tobia Adami
pubblica a Francoforte l'Apologia pro Galileo e, in località
imprecisata, la Scelta d'alcune poesie filosofiche di Settimontano
Squilla, che aduna ottantanove componimenti poetici del C. sotto un
allusivo pseudonimo; la dedica dell'Adami all'Andreä, al Besold e a
Wilhelm von Wenbe è datata da "Parigi, 1621".
Giunge a Napoli (24 dicembre), in sostituzione di Zapata Cisneros,
il nuovo viceré, Antonio Alvarez di Toledo duca d'Alba. In risposta
a un ennesimo memoriale del C., il 1º febbr. 1623 la Congregazione
del Sant'Uffizio gli negò l'autorizzazione a ricelebrare la messa.
L'8 luglio morì papa Gregorio XV: appena appresa la notizia, il C.
pone in carta una Pro conclavi admonitio ad electores summi
pontificis de eligendo summo pontifice semper optimo, per
raccomandare che nell'elezione del nuovo papa si ponesse mente solo
al merito personale e al bene della Chiesa; subito invia il
coraggioso scritto ai cardinali nipoti Scipione Borghese e Ludovico
Ludovisi, capi delle due più potenti fazioni del conclave dal quale
uscì eletto (6 agosto), col nome di Urbano VIII, un coetaneo del C.,
Maffeo Barberini; tosto il prigioniero appunterà su di lui, come al
solito, rinascenti speranze di liberazione. Nel corso dell'anno la
Theologia viene condotta innanzi sino al libro XXVII. Appare in
Germania, sempre in tedesco, la seconda edizione della Monarchia di
Spagna, cui il traduttore Besold allega di suo un'appendice, nella
quale discute se sia desiderabile che il mondo intero venga
governato da un solo monarca. Sin dai primi dell'anno l'Adami aveva
pubblicato a Francoforte la Philosophia realis, dedicandola a
Giovanni Ernesto il Giovane di Sassonia; nel corpo del volume vide
così la luce per la prima volta la Città del Sole, in versione
latina.
In concistoro, il 18 marzo 1624, Urbano VIII invita i cardinali a
rispettare l'obbligo della residenza nelle rispettive sedi
episcopali sancito dal concilio di Trento; per compiacere qualche
porporato mal disposto ad allontanarsi da Roma, il C. detta un
perduto De assistentia dominorum cardinalium in curia et de non
residentia in episcopatibus, nisi ubi ociantur Romae, sostenendo che
ai cardinali non spetta la cura d'anime, ma l'assistenza al papa. Il
4 aprile, in vista di una riforma degli appellativi onorifici, il C.
invia a Virginio Cesarini l'ampio opuscolo epistolare De' titoli;il
20 luglio annuncia a Cassiano Dal Pozzo il compimento del libro XXX
e ultimo dell'immane Theologia; sta lavorando sul tema "de cometis"
con una scrittura che entrerà a far parte delle Quaestiones
physiologicae (q. 24); il 13 agosto supplica il card. Francesco
Barberini di essere tradotto a Roma; scrive anche al padre Mersenne
(20 settembre) circa la progettata edizione della Metaphysica da
allestire in Francia e al card. Gabriele Trexo y Paniagua (15
dicembre), che ha saputo curioso dei propri scritti, chiedendo
protezione. Nel corso dell'anno presenta al viceré, come prove di
lealismo filoispanico, la Monarchia di Spagna e i Discorsi ai
principi d'Italia, postulando invano licenza di darli alle stampe;
compone il De conceptione beatae Virginis per sostenere che s.
Tommaso non ha respinto, anzi caldeggiato la dottrina
dell'Immacolata Concezione, e l'anno seguente lo dedicherà al card.
Trexo; per compiacere l'amico Paolo Gualtieri, che si ripromette di
aggiornare la rassegna di Costantino Lascaris dei calabresi
illustri, riprende tra mano la Lista dei propri scritti compilata
nel 1618 e la rielabora in latino, introducendo la ripartizione
definitiva in dieci ingentissimi tomi.
Il 1º genn. 1625 il card. Trexo rispose al C. con una lettera
benevola e colma di considerazione, ma inconcludente; subito dopo
questi tornò a chiedere la revoca della sospensione a divinis e
ricevette (1º febbraio) un secondo rifiuto; nel maggio, in una
commovente supplica al viceré per ottenere il pagamento del vitto,
lamentò di esser "costretto a morirsi di fame". Il bisogno di
libertà non era stato soffocato dalla snervante prigionia: nel
giugno ottenne che i domenicani di Calabria con il loro provinciale
fra' Ambrogio Cordova indirizzassero al re di Spagna una petizione
per la sua liberazione; il 20 agosto scrisse egli stesso al generale
dell'Ordine, padre Niccolò Ridolfi, chiedendo di poter celebrare la
messa e di riavere i libri liberati dalle censure, invocando
protezione e libertà; inviò allora il Quod reminiscentur anche a
Urbano VIII. Un passo decisivo in suo favore fu compiuto il 12
settembre, quando a Madrid il Consiglio d'Italia propose che il suo
caso venisse devoluto al viceré, "perché faccia in questo ciò che
gli parrà sia giustizia"; nei decenni trascorsi e in tanto mutare di
uomini e di cose s'era persa financo la memoria del suo delitto e
qualche amico compiacente aveva fatto sparire le carte dei vecchi
processi. Per la terza volta il Sant'Uffizio romano negò ancora (8
ottobre) al C. la facoltà di celebrare la messa, com'egli postulava,
e già il 2 genn. 1626 un nuovo memoriale dell'irriducibile recluso
riproponeva alla Congregazione romana la stessa richiesta tetragona.
Solamente nel marzo 1626 giunse a Napoli la lettera regia che
demandava al viceré ogni decisione in merito alla sorte del C.;
questi scrisse allora (26 aprile) al compatriota e discepolo
Giambattista Contestabile, perché sollecitasse in Napoli le
formalità legali del suo rilascio; il 15 maggio il Consiglio
collaterale del viceregno deliberò che il C. venisse liberato sotto
cauzione, con l'obbligo di ripresentarsi ad ogni chiamata. Fu così
che il 23 maggio, dopo quasi ventisette anni di continua e spesso
durissima detenzione, il C. poté finalmente uscire dal Castel Nuovo
e recarsi a prendere stanza in quel convento di S. Domenico che
trentacinque anni prima era stato teatro della sua vivace ribellione
giovanile. Rimase libero per un mese, visto che il Sant'Uffizio, non
appena informato del rilascio, ordinò di tradurlo di nascosto a
Roma. In esecuzione di quella deliberazione venne daccapo arrestato
a Napoli (22 giugno) per ordine del nunzio e indotto a scrivere al
papa, a scanso di conflitti giurisdizionali, con la richiesta
d'essere tradotto a Roma. Travestito da prete secolare, incatenato,
sotto il falso nome di don Giuseppe Pizzuto per eludere le
difficoltà che il governo spagnolo avrebbe sollevato contro
l'estradizione, il 5 luglio si imbarcò alla volta di Roma, dove
giunse tre giorni dopo, venendo chiuso nel palazzo dell'Inquisizione
per rendere conto al tribunale ecclesiastico di quei falli che la
giustizia secolare gli aveva rimessi dopo sì lunga espiazione.
Il 16 luglio 1626 il Sant'Uffizio romano, riesaminata la causa del
C. e presa visione delle censure dettate dal Bellarmino, ordina che
egli venga detenuto nel palazzo dell'Inquisizione, in stretto
isolamento, ma con ogni riguardo ed agio materiale. Autorizzato a
scrivere, nell'agosto subito ne approfitta componendo un'apologia
dell'autorità pontificia sopra i sovrani laici con le perdute
Animadversiones ad libellum Parlamenti pro Rege Christianissimo in
difesa del Tractatus de haeresi, schismate ac de potestate Romani
pontificis dato in luce a Roma nel 1625 dal gesuita Antonio
Santarelli e clamorosamente condannato dalla Sorbona per l'asserito
diritto papale di deporre i sovrani eretici. I cardinali
inquisitori, in considerazione dell'infermità da cui il C. è
afflitto, lo autorizzano (27 agosto) a lasciare il carcere comune e
a prendere stanza, sempre nel palazzo del Sant'Uffizio, in una cella
della residenza del padre commissario o del suo socio, rimanendo
però sotto chiave e con promessa di occuparla loco carceris. Poco
dopo (15 settembre) il vescovo di Molfetta consegna all'Inquisizione
copie manoscritte di tre opere del C.: il Quod reminiscentur, la
Monarchia del Messia e l'Atheismus triumphatus.
Avendo appreso che Urbano VIII è travagliato dalla malferma salute e
più dalle insistenti e diffuse predizioni di morte imminente, il C.
fa sfoggio della sua dottrina astrologica, di cui sa che il papa fa
gran conto, dettando l'opuscolo De fato siderali vitando inteso ad
illustrare una serie di pratici accorgimenti che dovrebbero
consentire di eludere il destino astrale; subito dopo mise in atto,
in compagnia e a beneficio del papa, le pratiche propiziatorie così
suggerite e se ne guadagnò la simpatia e il favore. Il 17 dicembre
la Congregazione del Sant'Uffizio, dopo aver ascoltato una relazione
severa del card. Desiderio Scaglia intorno agli errori in materia di
fede rilevati nell'Atheismus, aprì un ennesimo processo contro il C.
per investigare se egli aveva procurato la diffusione di quello e di
altri libri e se il testo incriminato era stato presentato per
iniziativa sua, oppure di estranei, il 22, introdotto alla presenza
degli inquisitori, il C. supplicò di poter godere d'una detenzione
meno rigorosa; i cardinali, pur rifiutando, raccomandarono ai
custodi di usargli ogni riguardo. Nel secondo semestre del 1626 (o
ai primi del '27) compose in italiano i due Discorsi sulla libertà e
felice suggezione allo Stato ecclesiastico;in Germania vide la luce
la quinta edizione (seconda latina) del Discursus sui Paesi Bassi.
Il 7 genn. 1627 il Sant'Uffizio deliberò di procedere formalmente
contro il C., esaminando punto per punto le dottrine censurate dal
card. Scaglia nell'Atheismus; all'inquisito si ingiunse di
consegnare anche le altre sue opere e di renderne conto; esemplari
manoscritti delle stesse vennero ricercati anche presso lo Scioppio
e nei conventi domenicani del Regno. Il 29 marzo, al cospetto degli
inquisitori, il C. chiese che gli fosse resa giustizia, porse una
supplica al papa, postulò licenza di poter celebrare la messa,
chiese un servo per assisterlo e carcere meno rigoroso. Era un modo
di passare al contrattacco. Ottenne solo che Filippo Borelli, figlio
d'un suo antico carceriere napoletano presentato in quell'occasione
come nipote, fosse autorizzato a convivere seco con ufficio di
amanuense e famiglio. I cardinali sollecitarono allora l'elenco
delle proposizioni censurate, che il padre Niccolò Riccardi,
consultore del Sant'Uffizio, veniva intanto redigendo: il testo
conclusivo si articolò in ottanta tesi vertenti principalmente sulla
dottrina della predestinazione toccata nell'Atheismus e sul
pansensismo sostenuto nel De sensu rerum;prontamente il C. replicò,
dettando l'ampio trattato De praedestinatione (compiuto forse l'anno
seguente) e la Defensio libri sui De sensu rerum. Riammesso alla
presenza dei cardinali inquisitori (8 aprile) lamentò le proprie
infermità e chiese di venir trasferito presso un convento del
proprio Ordine, oppure in Castel Sant'Angelo, o almeno di essere
abilitato a tenere l'intero palazzo del Sant'Uffizio "loco
carceris". Gli fu solo concesso di tener seco il Borelli, che gli
prestasse assistenza. In quei giorni, per compiacere il padre
Ippolito Lanci, commissario dell'Inquisizione, gli riespose in
compendio, di malavoglia, l'opuscolo De' titoli composto tre anni
prima per il Cesarini.
Il 22 sett. 1627 gli venne assegnato un sussidio di 10 scudi mensili
per il vitto e le altre sue necessità, a carico dell'Ordine
domenicano. Di fronte alla Congregazione, il 21 dicembre perorò a
lungo in difesa dell'Atheismus, chiese invano l'abilitazione a
risiedere in convento, o almeno nell'intero palazzo del
Sant'Uffizio, e consegnò un nuovo memoriale per il papa. Si dispose
allora che egli venisse interrogato punto per punto sui luoghi
censurati, ma si ha l'impressione che il rigore inquisitorio fosse
sul punto di addolcirsi, e non tanto per il candore delle sue
opinioni e la bravura nel difenderle, quanto per il palesarsi sempre
più aperto della simpatia e del favore del papa; per compiacerlo,
toccandone le ben note ambizioni letterarie, e per accattivarselo
definitivamente, il C. aveva allora intrapreso da qualche tempo la
stesura di prolissi, eruditi e frigidi Commentaria sulle poesie
latine giovanili del Barberini, analizzandone ogni aspetto metrico e
grammaticale, didascalico e filosofico.
Lamentando la propria infermità, il 3 febbr. 1628 il C. chiede
ancora una volta di essere esentato dalla reclusione in cella, e
finalmente il papa non rifiuta, ma pone solo come condizione
l'esaurimentodell'inchiesta sull'Atheismus;il non luogo a procedere
riguardo a tale scritto venne pronunciato il 23 marzo. Il 17 aprile,
di fronte agli inquisitori, il C. si proclama disposto a dare ogni
soddisfazione, se si vorrà ascoltarlo in merito ai suoi libri;
ricorda come al tempo dei processi napoletani non fosse sano di
mente; chiede venia per la pratiche superstiziose poste in atto nel
1603 e rivelate incautamente proprio nell'Atheismus; insiste per
l'abilitazione a muoversi per l'intero palazzo ed a riaccostarsi ai
sacramenti; invoca clemenza dopo tanti anni di patimento. Dieci
giorni più tardi ottiene finalmente di poter tenere il palazzo loco
carceris e il padre commissario Lanci si avvale della sua dottrina
per fargli esaminare libri di teologia sottoposti a censura. Nel
maggio presenta al papa parte dei commenti alle sue poesie e detta
una confutazione astrologica delle voci di nuovo divulgate circa la
sua morte imminente; persino il maestro del Sacro Palazzo padre
Niccolò Ridolfi si fa trarre da lui l'oroscopo. Finalmente
autorizzato a ricelebrare la messa (25 maggio), scrisse al papa (10
giugno) una calorosa difesa della propria dottrina astronomica; in
quei giorni ricevette la visita di Jacques Gaffarel, prete
provenzale e dotto orientalista, già suo estimatore e più tardi
editore ed amico devoto, che descriverà quel colloquio nelle sue
Curiositez inouyes (Paris 1629). Alle soglie della sessantina e dopo
quasi trentacinque anni di carcere, era giunto finalmente ad
assaporare il momento della libertà.
Il 27 luglio 1628 fu infatti autorizzato a lasciare il palazzo del
Sant'Uffizio e a prendere stanza, sempre loco carceris, nel convento
della Minerva. Per ordine di Urbano VIII, l'Inquisizione gli
restituisce (10 agosto) tutti i suoi libri, perché li riveda e
corregga per sottoporli poi all'esame del maestro del Sacro Palazzo;
fra questi è anche l'Atheismus con le allegate censure, in guisa da
consentirgli di emendare e rifare quanto occorre; si dispone altresì
che il vicario dell'Ordine lo provveda largamente del necessario e
gli mantenga un giovane scrivano. Anche la clausura si attenua: il
14 settembre è autorizzato per una volta tanto a visitare,
accompagnato, le sette chiese; il 7 novembre i teologi dell'Ordine
concedono l'approvazione per la Philosophia rationalis; il 22 scrive
trionfante al papa di aver ultimato i Commentaria alle sue poesie.
In quello stesso novembre detta gli Avvertimenti al re di Francia,
al re di Spagna e al sommo pontefice circa alli passati e presenti
mali d'Italia, vagheggiando un riassetto territoriale della penisola
che assegni la Lombardia ai Francesi e il Regno di Napoli al papa;
stende anche una Oratio pro Rupella recepta, che fu recitata in Roma
in S. Luigi dei Francesi "da un padre francese marchese" non
identificato, per esaltare nell'espugnazione di La Rochelle (28
ottobre) una grande vittoria cattolica sui riformati; abbandona così
il suo antico e, almeno in parte, opportunistico filoispanismo, per
volgersi tutto dalla parte di Francia.
Sono probabilmente da assegnare a quest'anno due perduti opuscoli:
il De canonisatione sanctorum, dedicato al card. vicario Gian Garzia
Millini, e il De praecedentia, praesertim religiosorum, forse
suggerito dai puntigli sorti fra il generale dei domenicani e il
commendatore di S. Spirito in Saxia. Ancora nel 1628 un anonimo
polemista luterano pubblicò in Germania, forse a Stoccarda, una
versione tedesca dei due primi Discorsi ai principi d'Italia, con un
commento ostilissimo al C., alla Spagna e al Papato.
Il padre Riccardi, quale delegato del maestro del Sacro Palazzo,
approva (10 genn. 1629) la Monarchia Messiae;il giorno successivo,
definitivamente prosciolto dal Sant'Uffizio, il C. viene rilasciato
ai superiori del suo Ordine e consegue finalmente, anche in termini
formali, la sospirata libertà; la sua provvisione mensile viene
elevata a 15 scudi. Libero, lungi dal mettersi cheto, non si dà
pace: vuole agire per il bene della Chiesa, stampare i suoi libri,
dar suggerimenti politici, disputare in materie teologiche, fondare
un collegio di missionari calabresi. Una fuggevole fortuna benigna
lo accompagna: nel marzo tre teologi romani approvano ventidue tesi
essenziali estratte dal De praedestinatione; il 6 aprile il suo nome
viene cassato dall'Indice dei libri proibiti e quel giorno stesso,
ultimata la revisione del Quod reminiscentur, appone a quel
laborioso trattato la definitiva dedica a Urbano VIII; il 2, giugno
il capitolo generale domenicano celebrato in Roma gli conferisce
l'ambito titolo di "maestro" di teologia. Grazie al papa e
all'astrologia entra in rapporto con il card. Girolamo Colonna e con
suo padre Filippo, gran connestabile del Regno, al quale dedica un
perduto opuscolo d'arte militare dal titolo Quibus quotve modis
pauci contra plures pugnare ac vincere possint;in luglio ottiene
anche l'approvazione ecclesiastica per gli smisurati Commentaria
alle poesie di Urbano VIII.
Ma una così rapida ascesa, che sembra aprirgli la via alle cariche e
agli onori (taluno vocifera addirittura al cardinalato), gli suscita
attorno ostilità, invidie e sospetti, che a poco a poco lo
irretiscono e scalzano, facendo leva anche sui suoi impeti generosi
e sulla sua inettitudine all'intrigo; negli alti prelati
dell'Ordine, punti da gelosia, trova i suoi più insidiosi e tenaci
avversari.
Quando i librai Prost di Lione, ultimata nel settembre la stampa dei
sei libri Astrologicorum, già ne avevano diffuso alcune copie,
ricevettero un esemplare a penna del De fato siderali vitando,
subdolamente spedito dall'Italia da frati ostili al C., che dalla
diffusione di un opuscolo palesemente superstizioso si aspettavano
la rovina dell'emulo. Pubblicata con quell'aggiunta a mo' di libro
VII, l'Astrologia giunse a Roma e provocò la collera del papa; per
giustificarsi il C. dettò rapidamente un Apologeticus ad libellum De
siderali fato vitando e si cautelò facendolo approvare dai censori
ecclesiastici Giambattista Marini e Francesco Tontoli. Al fine di
soffocare lo scandalo dichiarò poi (15 novembre) apocrifa
l'Astrologia, che, così reietta, venne condannata all'Indice,
proprio mentre il C. riprendeva a smentire le funeste previsioni
degli astrologi sul decesso imminente del papa. Perdurando il
rumore, il 10 dicembre in un memoriale al pontefice dichiarò di non
voler riconoscere per proprie tutte le opere stampate senza il suo
consenso e non sottoposte alle prescritte revisioni ecclesiastiche:
dovette ripudiare così, sotto l'urgere di una dura necessità, pagine
che gli erano carissime, solo perché impresse da torchi tedeschi o
fiamminghi.
L'anno 1630 vide il C. impegnato nelle snervanti pratiche per la
pubblicazione delle sue opere, che si fecero via via più difficili
con l'intiepidirsi del favore papale: il 14 febbraio scrisse al
card. Francesco Barberini caldeggiando il progettato collegio
destinato a formare giovani domenicani calabresi da inviare alle
missioni; scrisse anche (24 marzo), tutto accorato, al papa,
difendendosi dalle calunnie e dagli intrighi dei suoi nemici;
nell'estate si rivolgerà anche all'imperatore Ferdinando II,
ricordandogli la propria devozione e annunciando imminente la
pubblicazione di varie opere. Le approvazioni continuavano infatti
ad affluire senza remore apparenti: il 13 maggio fu rilasciata
quella del maestro del Sacro Palazzo per il Quodreminiscentur; il 30
quella dell'Inquisizione per l'Atheismus, ribadita subito dopo
dall'Ordine. Dettata sin dal 2 giugno la Praefatio, affidò il volume
a Bartolomeo Zannetti, che lo impresse quale primizia degli "opera
omnia", dei quali si annunciava come la "sexti tomi pars prima"; ma
al cadere dell'anno, quando il libro era pronto per la diffusione,
un consultore del Sant'Uffizio si levò a bersagliarlo con nuove e
cavillose censure, bloccando così la concessione del "publicetur".
Tra il giugno e l'agosto anche la Monarchia Messiae venne corredata
di tutte le approvazioni necessarie.
Nel corso dell'anno il C. detta un discorso (perduto) contro le
fallacie dell'astrologia giudiziaria; stende in latino col titolo De
regno Dei l'esposizione conclusiva dei propri concetti sulla
teocrazia universale; infine (novembre), per vendicarsi delle
continue persecuzioni ordite dal padre Niccolò Riccardi detto il
"padre Mostro", maestro del Sacro Palazzo, compila le acri Censure
sopra il libro del padre Mostro, sottolineando le enunciazioni
eretiche o superstiziose contenute in un goffo libraccio divozionale
di quel suo maligno confratello: i Ragionamenti sopra le litanie di
Nostra Signora (Genova 1626).
Si pubblica intanto in Germania la sesta edizione (prima in tedesco)
del Discursus sui Paesi Bassi, mentre l'Astrologia viene ristampata
a Francoforte; in conseguenza i Prost di Lione modificano i
frontespizi dei loro esemplari invenduti, un gruppo dei quali viene
smerciato con la data aggiornata del 1630, un altro viene privato
del nome degli stampatori e presentato come impresso a Francoforte
per concorrere con l'autentica e più corretta edizione tedesca.
Nei primi due mesi del 1631 il C. detta pazientemente le efficaci
Risposte alle censure dell'Ateismo triunfato e, piegandosi a
sostituire e ristampare emendate trentadue pagine del volume,
ottiene finalmente il "Publicetur", mentre il maestro del Sacro
Palazzo seguita a concedere le approvazioni della Defensio libri sui
De sensu rerum (9 febbraio), del De gentilismo non retinendo (20
febbraio) e dello stesso De sensu (5 maggio).
Nonostante questi apparenti successi, non dovettero essere mesi
facili per il C.; scrivendo a Galileo (26 aprile) si duole di essere
da lui trascurato e non gli nasconde che lascerebbe volentieri Roma
per un asilo in Toscana. In agosto gli avversari gettano la
maschera: dopo appena sei mesi di smercio dell'Atheismus, col
pretesto di un temerario pronostico astrologico della Chiesa che v'è
formulato, il padre Riccardi ordina il sequestro dell'opera; invano
il C. protesta, dichiarandosi pronto a emendare il brano
incriminato. Indignato, subito detta contro la tardiva censura la
Disputatio contra murmurantes in bullas sanctorum pontificum
adversus iudiciarios editas, mostrando di voler prendere le difese
delle bolle di Sisto V e di Urbano VIII contro gli astrologi, ma
difendendo in realtà la liceità dell'astrologia non superstiziosa;
per cercare di farla giungere al papa, la Disputatio viene
consegnata al card. Agostino Oreggi, segno che al C. l'udienza
diretta era ormai negata; in ogni caso la revoca del sequestro
dell'Atheismus non fu concessa. Col dileguarsi dell'effimero favore
di Urbano VIII la persecuzione degli emuli era destinata a farsi
sempre più serrata e insidiosa; è forse contro di essi che compose,
non più tardi di quest'anno 1631, un perduto De aulicorum technis
sulle male arti dei cortigiani.
Il 22 settembre, ospite a Frascati in villa presso i padri scolopi,
dove tiene un corso a dieci scolari, il C. termina la breve
Expositio sul cap. IX dell'epistola paolina ai Romani, composta per
illustrare la propria dottrina della predestinazione a richiesta del
conte Jean de Brassac, ambasciatore di Francia a Roma. Il 29 scrive
al papa, denunciando le mene dei suoi nemici e inviandogli il
commento all'elegia proemiale della raccolta di versi latini del
Barberini, ponendo così termine ai vasti e inconcludenti
Commentaria, che resteranno inediti e andranno inparte perduti;
sempre a Frascati, per compiacere il Calasanzio, compone,
nell'ottobre, l'Apologia pro scholis piis; ilsanto scrive ai suoi di
trattarlo con ogni riguardo. Il 16 dicembre l'agro napoletano è
funestato da una violenta eruzione del Vesuvio: il C. studia il
fenomeno nel De conflagratione Vesuvii, che reciterà a Roma, ai
primi del gennaio seguente, nell'Accademia Capranica; l'originale,
affidato al medico ed erudito francese Gabriel Naudé, non verrà più
ricuperato. Lo stesso Naudé completa un suo prolisso e retorico
panegirico di Urbano VIII per i benefici da lui concessi al C.; lo
scritto cortigianesco, presto divenuto inattuale, vedrà poi la luce
a Parigi, ma solo dopo la morte del papa, nel 1644.
Il 21 apr. 1632 il padre F. Maddaleni Capoferri comunica alla
Congregazione dell'Indice, di cui è segretario, che il C. ha mosso
istanza per ottenere che nel nuovo Indice in corso di allestimento
siano condannate le opere sue non approvate espressamente o non
stampate in Roma, poiché egli le considera adulterate e spurie. Si
tratta di una mossa intesa a prevenire nuove censure dei
persecutori, volte a colpire le vecchie stampe tedesche (che erano
state effettivamente manipolate in qualche misura dall'Adami) e, che
metteva fuori causa anche la giovanile Philosophia sensibus
demonstrata, munita di approvazione ecclesiastica, ma impressa a
Napoli; comunque nell'Elenchus librorum omnium prohibitorum venuto
in luce quell'anno il nome del C. non figura.
Il 29 aprile scrisse a don Filippo Colonna con accenti di
scoraggiata amarezza per il perduto favore papale, insistendo per
ottenere il proscioglimento dell'Atheismus; avviò pure (7 maggio) un
carteggio amichevole con Pierre Gassendi e fra il maggio e l'ottobre
si tenne in stretto contatto con Galileo, al quale si offerse con
temeraria generosità quale difensore nell'addensarsi sempre più
minaccioso delle nubi del processo inquisitorio a carico del vecchio
scienziato. Nei primi mesi dell'anno dettò al Naudè, che s'era
guadagnato la sua intera fiducia, l'autobiografica Vita Campanellae
(perduta) e un Syntagma de libris propriis et recta ratione
studendi, che quell'infido amanuense rifiuterà poi di restituire e
di pubblicare, decidendosi a darlo in luce a Parigi, manipolato e
postumo, soltanto nel 1642. Compose anche allora, in appoggio alla
politica francese, il Dialogo politico tra un Veneziano, Spagnuolo e
Francese circa li rumori passati di Francia, difendendo l'operato di
Luigi XIII e del Richelieu in occasione del conflitto scoppiato tra
il re, la madre Maria de' Medici e il fratello Gastone d'Orléans; la
data apposta alla scrittura in vari codici (15 novembre) è forse
fittizia; più tardi, per tema di censure e vendette spagnole, il C.
fu costretto a negare di esserne l'autore. Ai primi d'ottobre torna
in villeggiatura presso gli scolopi a Frascati, dove incontra
Giuseppe Calasanzio. Il pittore stilese Francesco Cozza ritrae con
vigorosi tocchi le sembianze del C. in una tela oggi conservata
presso i Caetani di Sermoneta. Si pubblica in Germania la settima
edizione (seconda in tedesco) del Discursus sui Paesi Bassi. Al
cadere dell'anno parte da Roma alla volta di Venezia Jacques
Gaffarel, recando seco il De gentilismo e la Medicina, nonché una
copia aggiornata dell'Index delle proprie opere, che il C. aveva
allestito nel 1624 per conto del Gualtieri.
Nell'aprile 1633, replicando a due versi oltraggiosi diffusi a Roma
in quei giorni, compone il Disticon pro rege Gallorum in lode di
Luigi XIII per il suo fermo ma giusto contegno verso la madre e il
fratello ribelli. Da Venezia il Gaffarel dedica (6 maggio) all'amico
comune Jean Bourdelot l'Index delle opere del C. stampato dai torchi
di Andrea Baba; subito il C. lo prega di non pubblicare altre cose
sue per timore dei divieti romani; un indice analogo, che tien conto
delle notizie depositate nel Syntagma dettato l'anno avanti al
Naudè, vede la luce in Roma nel corpo della bibliografia romana dal
1630 al 1632, che Leone Allacci intitolò Apes Urbanae in onore del
papa e dello stemma dei Barberini. Il 15 agosto il domenicano
Alberto Boni dedica al card. Giambattista Pallotta la Monarchia
Messiae del C. stampata in Iesi da Gregorio Arnazzini e accresciuta
in appendice dei due Discorsi del 1626 sul buon governo degli Stati
della Chiesa. Lo stesso giorno viene imprigionato a Napoli fra'
Tommaso Pignatelli, già discepolo del C., che, fantasticando di
liberare il Regno dal giogo spagnolo, aveva ordito un'ingenua
congiura intesa ad avvelenare il viceré e i più potenti signori per
chiamare il popolo a libertà; subito a Napoli si sospetta che il C.
sia istigatore o mandante: un suo nipote è carcerato in Calabria e
suo fratello Giovan Pietro si salva con la fuga, riparando a Roma.
In quest'anno il C. compone probabilmente un perduto trattatello per
uso dei missionari sul tema In quibus possunt communicare et in
quibus non cum schismaticis et infidelibus.
La pubblicazione della Monarchia Messiae destò scalpore in Roma: il
12 genn. 1634 il Sant'Uffizio, ordinò all'inquisitore di Iesi di
mandar copia del libro per sottoporlo all'esame del maestro del
Sacro Palazzo; poco dopo, avendo il Riccardi subdolamente osservato
che quel testo avrebbe potuto offendere i principi secolari con le
sue rigide tesi teocratiche, il volume venne sequestrato e in gran
parte distrutto. Il 23 marzo il C. inviò al card. Antonio Barberini
un opuscolo non identificato in difesa dell'Ordine domenicano; da
Venezia il Gaffarel dedicò la Medicina (23 settembre) al duca di
Parma Odoardo Farnese, sul punto di recarla a Lione per la stampa;
di là sottoscriverà (29 ottobre) l'indirizzo al lettore. Intanto a
Napoli la situazione del Pignatelli precipita: condannato a morte
(18 settembre), il giovane frate viene strangolato nel carcere (6
ottobre), dopo che una feroce tortura gli ebbe strappato
un'ammissione di complicità del C., che ritrattò poi fermamente in
punto di morte. Tanto bastò perché gli Spagnoli levassero sempre più
alte voci contro il C., affermandone la colpevolezza e chiedendone
il castigo. Trovandosi allora, secondo il solito, in villeggiatura a
Frascati presso gli scolopi, egli apprese che da Napoli s'era sul
punto di richiedere la sua estradizione e corse a Roma, donde
scrisse (11 ottobre) in grande affanno al Colonna, supplicandolo di
intercedere in suo favore presso il papa; nel frattempo cercò
rifugio a palazzo Farnese, sotto la protezione dell'ambasciatore
francese François de Noailles. Fu probabilmente lo stesso Urbano
VIII, forse ansioso di evitare una disputa giurisdizionale
incresciosa, forse memore dell'antica benevolenza, a suggerirgli
l'espatrio: il C. si indusse così ad affrontare i rischi e i disagi
della sua ultima fuga, verso quella Francia nella quale godeva ormai
di largo credito e dove lo attendevano estimatori ed amici.
Travestito da frate dei minimi di S. Francesco da Paola, sotto il
falso nome di fra' Lucio Berardi, il 21 ottobre il C. lascia Roma di
nottetempo nella carrozza del Noailles, che lo conduce fino a
Livorno, donde si imbarca alla volta di Marsiglia. Vi approda il 28
e di là, il giorno seguente, scrive al dotto amico Nicolas-Claude
Fabri de Peiresc, narrandogli le peripezie della fuga. Il 1º
novembre giunge ad Aix-en-Provence, residenza del Peiresc, che lo
ospita signorilmente in compagnia del Gassendi, venuto da Digne per
incontrarlo: insieme essi svolgono filosofici conversari e
osservazioni astronomiche sul pianeta Mercurio; da Aix (2 novembre)
scrive al papa, denunciando con durezza le persecuzioni patite in
Curia. Ripreso il viaggio, giunge a Lione (15 novembre) e trova con
compiacimento i primi quattro libri della Medicina già finiti di
stampare nell'officina del Pillehotte, al quale erano stati affidati
dal Gaffarel; non ha notizia invece della Metaphysica, di cui aveva
ottenuto copia qualche tempo prima il libraio romano Andrea
Brogiotti, dietro promessa di farla stampare appunto a Lione. A
Parigi arriva il 1º dicembre e di là il 4 scrive al card. Francesco
Barberini, lamentando i continui torti che aveva dovuto subire in
Roma; l'11 scrive al Peiresc, narrandogli le occorrenze del recente
viaggio e l'ambiente di calorosa simpatia (spesso era estrinseca
curiosità) che ha trovato a Parigi, dove ha preso stanza nel
convento dell'Annunziata dei domenicani riformati nel "faubourg" St.
Honoré. Due giorni dopo viene ricevuto onorevolmente a Ruel dal
Richelieu.
Malgrado le manovre sotterranee dei nunzi, che, ispirati da Roma,
cercano di gettare il discredito su di lui e sulle sue opere, le
accoglienze tributategli dalle autorità e dai dotti sono
lusinghiere. Prossimo ormai alla settantina, finalmente libero e
sicuro, potrebbe godersi in pace i suoi ultimi anni: ma non sa stare
inoperoso e quieto. Si adopera con il consueto entusiasmo per la
conversione dei protestanti, per dar lumi alla condotta politica
francese sullo scacchiere europeo e su quello italiano in
particolare, per condurre innanzi la faticata stampa delle proprie
opere. E intanto l'invidia dei malevoli non gli dà requie, insinua
il discredito negli ambienti colti parigini, lo priva della piccola
pensione ecclesiastica che gli consentiva di sostentarsi.
Dall'esilio l'indomabile perseguitato continua a riproporre le
proprie difese, a lamentare la miseria in cui lo si abbandona, a
lottare per i propri ideali politici e religiosi. Il 9 febbr. 1635
ottiene udienza da Luigi XIII, che lo accoglie con espressioni di
cordiale benevolenza e gli assegna una pensione, che verrà poi
pagata in modo discontinuo e con crescente ritardo. La Medicina,
ottenuto il privilegio reale (26 febbraio), vede la luce poco dopo a
Lione; il 15 marzo dedica ai fratelli François e Charles de Noailles
la Philosophia rationalis, di cui sta preparando la stampa quale
tomo I degli "opera omnia". In aprile, alla vigilia dell'entrata in
guerra della Francia contro i domini asburgici, presenta al
Richelieu gli Aforismi politici per le presenti necessità di Francia
e il 23 ne invia copia a Urbano VIII; poco dopo li rifonde in latino
nelle Consultationes aphoristicae gerendae rei praesentis temporis
per conseguire la disfatta degli Austro-ispanici.
In quel torno di tempo rielabora radicalmente la dottrina della
predestinazione in un nuovo libro VI della Theologia, che assume
così forma definitiva. Ricevuto onorevolmente alla Sorbona (2
maggio), ottiene di designare lui stesso i dottori incaricati di
prendere in esame varie sue opere al fine di far approvare quelle
non ancora munite dell'"imprimatur" romano; il 21 luglio già ottiene
l'approvazione per il De gentilismo e il De praedestinatione. Il
7luglio aveva dettato un opuscolo epistolare a Jean-Baptiste
Poisson, residente ad Angers, rispondendo ad un suo quesito sulla
grandezza del punto matematico. Ottenuto il privilegio reale (26
agosto) il tipografo Toussaint Dubray intraprende la stampa della
Philosophia rationalis. Dopo esser riuscito faticosamente
nell'aprile a ricuperare da Roma il manoscritto della Metaphysica,
il C. la rielabora un'ultima volta (quinta redazione in diciotto
libri) e ottiene (15 ottobre-8 novembre) l'approvazione della
Sorbona. Ottenuto il privilegio reale (22 novembre) per l'Atheismus
triumphatus, il De praedestinatione e i minori scritti annessi, vede
la raccolta approvata anche (8 dicembre) dal padre Julien Joubert,
vicario della Congregazione gallicana dei domenicani, e l'11 la
Sorbona approva la sola Disputatio in bullas del 1631: in tal guisa
può affidare, sempre al Dubray, la stampa di buona parte del tomo VI
degli "opera omnia".
Continua intanto a scrivere suppliche, lamentele, proteste ripetute
al papa e al card. Barberini, carteggia con amici francesi e romani,
spiega vivace attività per convertire al cattolicesimo distinti
personaggi ugonotti. La politica francese resta al centro dei suoi
pensieri: dopo aver dettato, non oltre il maggio, la Comparsa regia
(una sorta di appello legale del re di Francia al papa per ottenere
il trasferimento della dignità imperiale dalla dinastia austriaca a
quella francese), fra luglio e ottobre la include in un ampio
trattato in volgare, nel quale discute, concludendo a tutto
vantaggio della Francia, "se la monarchia spagnuola sia in
crescimento, in stato o in mancamento"; sempre a sostegno della
causa francese aveva anche composto sin dal maggio i Documenta ad
Gallorum nationem, rievocando la grande ombra di Carlo Magno ad
incitare i Francesi a coraggiosi propositi di grandezza.
Il 24 genn. 1636 la Sorbona approva il De sensu rerum, tosto munito
(20 aprile) del privilegio reale; in febbraio vede la luce a Parigi,
impresso dal Dubray e dedicato a Luigi XIII, il nutrito volume
comprendente l'Atheismus, la Disputatio in bullas, il De gentilismo,
il De praedestinatione e l'Expositio super IX Rom., che il 24 venne
spedito al Peiresc; due giorni dopo il nunzio a Parigi informerà il
Sant'Uffizio di non aver potuto impedire, come gli era stato
ordinato, la stampa del volume, di cui preannuncia l'invio di un
esemplare; non appena questo giunse a Roma, Urbano VIII ordinò (10
aprile) di sottoporlo a revisione.
Col proposito di impedire o ritardare la pubblicazione di altri
scritti del C. gli emuli romani provocano intralci insidiosi: su
istigazione del padre Riccardi la Sorbona invalida (2 maggio) le
approvazioni concesse alle opere del C. e sancisce che in avvenire i
censori non possano appartenere allo stesso Ordine dell'autore;
nonostante ciò, il 1º giugno la Congregazione gallicana dei
domenicani rilasciò l'"imprimatur" per la Metaphysica e in quegli
stessi giorni vide la luce a Parigi, dai torchi di Louis Boullenger,
la seconda edizione riveduta del De sensu rerum, preceduta da una
dedica al Richelieu (che compensò l'omaggio con un regalo di cento
doppie) e accompagnata dall'inedita Defensio redatta nel 1627;
nell'anno seguente, mutato solo il frontespizio, il volume verrà
smerciato anche dai librai Denis Béchet e Jean Dubray.
Per le difficoltà create dallo stato di guerra e dal disastroso
andamento delle operazioni militari il C. non riceve più le rate
della sua pensione e vive in gravi ristrettezze, che gli strappano
lamentele continue. Piena di fervore rimane tuttavia la sua
operosità di consigliere politico e di polemico difensore delle
posizioni francesi nel conflitto europeo: nel maggio, confutando un
intransigente libellista anonimo, detta un perduto parere al re,
consigliandogli clemenza verso il fratello ribelle e devozione al
papa (del tutto dà conto a Urbano VIII con lettera del 3 giugno);
l'8 giugno recita a Conflans un perduto sermone sull'autorità del
pontefice nel trasferire la dignità imperiale; tra primavera ed
estate compone tre Discorsi a' principi per cementare l'unione della
Francia col Papato in funzione antiasburgica, un manipolo di
Avvertimenti a Venezia che additano le insidie politiche di
un'alleanza tra la Repubblica aristocratica e i Protestanti inclini
al radicalismo democratico, una serie di Orazioni politiche ai
principati italiani per esortarli ad una coalizione antispagnuola e
ad un riassetto territoriale della penisola; ai primi di settembre
redige un opuscolo sulla situazione politico-militare della Francia
nel confuso teatro bellico europeo, che intitola A quibus desiderari
pax debet secundum politicam, ed è forse identificabile con un
vibrante memoriale superstite a Luigi XIII; compone infine una
Disputatio (perduta) sulle cause che negano assurdamente alla
Francia prospera e potente di dominare la tanto più debole Spagna.
Ma anche tutti gli altri suoi molteplici interessi restano ben vivi,
come appare dal carteggio col Peiresc, cui rammenta (19 giugno) le
dispute padovane giovanili intorno alla filosofia democritea, o
invia modelli di carta del sistema copernicano, o confida le sue
amarezze per le strettoie della guerra, che paralizzano il lavoro
delle tipografie. Ma un'amarezza ben più dolorosa lo attende: il 20
novembre il Sant'Uffizio, facendo propria una severa censura
elaborata dai teologi domenicani della Minerva, fulmina la condanna
del De praedestinatione. Invano il C. con lettere sempre più fitte,
angosciate e supplichevoli protesta la propria innocenza e
ortodossia presso il pontefice e i cardinali nipoti, svelando le
trame dei nemici invidiosi e invocando la loro protezione.
S
empre animato dalla sua visione ecumenica dell'"unico ovile" e
dell'"unico pastore", il 10 genn. 1637 indirizza una eloquente
epistola a Enrichetta Maria di Borbone, regina d'Inghilterra,
sperando per suo tramite di ricondurre quel reame al cattolicesimo,
ma non riesce a farla pervenire alla destinataria; manda anche (16
febbraio) al potentissimo Pierre Séguier, cancelliere di Francia, la
protesta dettata due anni avanti contro la trasmissione ereditaria
della dignità imperiale. Il 6 aprile scrive ancora una volta al
papa, lamentando le persecuzioni patite e chiedendo la restituzione
dei libri che tuttora gli sono trattenuti dai censori romani; più
tardi invierà a Roma una relazione polemica sugli scritti di
Théophile Brachet de La Milletière, assertore di un'irenica
concordia fra cattolicesimo e protestantesimo, che giudica
pericolosi per il loro indifferentismo dogmatico e l'impronta
gallicana. Il 6 agosto dedica al Séguier la ristampa della
monumentale Philosophia realis, tomo II degli "opera omnia",
impressa a Parigi da Denis Houssaye.
Tutte le sezioni dell'opera risultano variamente rielaborate e
accresciute rispetto alla stampa francofortese del 1623: solo nei
capi VI e VII dell'Ethica si riscontra la soppressione di larghi
brani di argomento medico, svolti ormai nella più specifica sede
della Medicina;a ciascuna delle quattro parti vengono allegate le
vastissime Quaestiones inedite; recente è l'Appendix alla ventesima
Quaestio physiologica, nella quale il C. smantella vigorosamente, ma
con scarso rispetto delle convenienze cortigiane, il trattatello Du
desbordement du Nil (Paris 1634) di Marin Cureau de La Chambre,
influente e vanitoso medico del re. Il grosso in folio della
Philosophia realis reca anche in calce il De regno Dei del 1630 e la
Pro conclavi admonitio del 1623 e ristampa altresì a mo' di
preambolo e con pochi ritocchi il De gentilismo col più ambizioso
titolo di Disputatio in prologum instauratarum scientiarum. Nel
corso del 1637 Toussaint Dubray completa la stampa dei Logicorum
libri, la seconda e più nutrita delle cinque sezioni della
Philosophia rationalis.
Il 18 genn. 1638 il re concede a Filippo Borelli, amanuense e
famiglio del C., un privilegio ventennale per la Metaphysica, ma
poche settimane più tardi viene approvato anche un astioso e
prolisso Anticampanella redatto in greco dal monaco bizantino
Atanasio Retore per confutare il sensismo del C; ridotta in
compendio latino, l'opera vedrà poi la luce nel 1655. Jean Dubray
conclude (30 aprile) la stampa della Philosophia rationalis, che
reca in fronte la vecchia dedica ai fratelli Noailles e in appendice
la stesura definitiva dell'indice programmatico degli "opera omnia";
inviando il volume in omaggio a Ferdinando II de' Medici (6 luglio),
il C. rievocherà i suoi antichi rapporti con quella casa, l'amicizia
con Galileo, e vergherà le parole profetiche: "il secolo futuro
giudicarà noi, perch'il presente sempre crucifige i propri
benefattori; ma poi resuscitano al terzo giorno o 'l terzo secolo".
Tramite Pompone II de Bellièvre, ambasciatore di Francia a Londra,
inoltra una seconda copia dell'epistola alla regina d'Inghilterra,
ma il diplomatico la tratterrà fra le proprie carte senza
consegnarla. Dal canto suo il padre Riccardi escogita una nuova
vessazione, facendo intimare ai librai parigini divieto di smerciare
le opere del C.; questi, indignato, scrive a Roma (3 agosto),
denunciando il sopruso e chiedendo invano di poter mettere l'occhio
sulle censure mosse al De praedestinatione, per confutarle. Viene in
luce dall'officina di Denis Langlois l'ingente tomo in folio della
Metaphysica, quarto volume degli "opera omnia", preceduto da una
dedica del 15 agosto a Claude Bullion de Bonolles, ministro delle
Finanze; il nome del tipografo è taciuto per eludere le minacciate
sanzioni. Il 5 sett. 1638, nel giorno in cui il C. compie il
settantesimo anno, nasce alla Francia il sospirato erede al trono,
atteso per cinque lustri: il futuro Luigi XIV; pochi giorni dopo,
chiamato a palazzo ad esaminare l'infante e a trarne l'oroscopo, il
C. pronuncerà sul piccolo Re Sole un lungimirante presagio. Compose
poi, nel dicembre, l'Ecloga in portentosam Delphini nativitatem,
ultimo e ispirato suo carme, volto a celebrare quella fausta nascita
e a riaffermare la propria fede giovanile in una palingenesi
universale destinata a recare l'unità delle nazioni e la pace
fraterna a tutti gli uomini.
Poco dopo, con una perduta Apologia, dovrà difendere quei versi
dalle censure linguistiche di certi cortigiani malevoli e saccenti;
nei primi giorni del '39 l'Ecloga vedrà la luce a Parigi, in due
diverse tirature, dalla stamperia del Dubray.
Provata dai lunghi patimenti e disagi, aggravata dalla pinguedine,
dai malanni numerosi, dalle amarezze, la vita del C. volgeva al
termine: il 1º febbr. 1639 scrisse ancora al card. Antonio
Barberini, lamentando la propria misera situazione e l'ostile
silenzio in cui cadevano a Roma le sue suppliche e proteste; il 4
marzo spedì al card. Francesco Barberini l'ultima sua lettera
superstite, riaffermando, frammezzo alle lagnanze e difese consuete,
l'alta consapevolezza della propria missione di apologeta radicale
del cristianesimo, di rinnovatore scientifico e sociale e di nunzio
del secolo nuovo.
Nel maggio le configurazioni astrali, sempre osservate con vigilanza
assidua, gli preannunciarono pericolo grave, in dipendenza
dell'eclisse prevista per il 1º giugno; caduto ammalato, invano il
C. tentò di scongiurare con riti propiziatori, alla cui efficacia
aveva sempre prestato credito, il malefico influsso che lo
minacciava. Spirò santamente, alle 4 del mattino del 21 maggio, fra
le preghiere dei confratelli del convento domenicano, e venne
sepolto nell'attigua chiesa dell'Annunziata; la Rivoluzione,
abbattendo nel 1795 (per sostituirlo con un mercato) l'edificio che
aveva dato asilo e come alle riunioni dei giacobini, ha cancellato
ogni traccia del suo sepolcro.