Buddismo
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Disciplina spirituale fondata da Buddha, vissuto nell'India
nord-orient. fra 6° e 5° sec. a.C. Nei secoli successivi il b.
assunse i caratteri di dottrina filosofica e di religione ateistica,
diffondendosi in gran parte del subcontinente e in vaste zone
dell'Asia orientale. Il b. appare come ricerca speculativa intesa a
trovare la soluzione del problema dell'eterno morire e rinascere
dell'uomo, nel ciclo delle esistenze, posto dal pensiero indiano. Il
b. detto del piccolo veicolo (Hīnayāna), a carattere
essenzialmente monastico e più vicino alla dottrina dei primi tempi,
è tuttora popolare a Ceylon e nel Sud-Est asiatico. Il b. del
grande veicolo (Mahāyāna), che dà una grande importanza alla
compassione e al culto dei bodhisattva,
è il più diffuso.
Dizionario di Filosofia (2009)
Religione fondata da Siddhārtha Gautama, detto il Buddha
(«risvegliato») nell’India nordorientale alcuni secoli prima della
nostra era e poi largamente propagatasi in Asia meridionale,
centrale, orientale e del Sud-Est. In questa voce verrà presa in
considerazione solo la rilevanza filosofica del b.: le scuole legate
al b. ( Abhidharma, Madhyamaka, Mahāyāna, Pramāṇavāda, Theravāda,
Yogācāra) sono state infatti centrali nel dibattito filosofico
dell’India antica e classica (fino all’estinzione del b. in India, a
partire dall’11° sec.) e poi di Cina, Corea e Giappone ( Zen).
Le quattro nobili verità e l’importanza della
causalità.
Fondamentale nell’elaborazione del Buddha è l’inevitabilità di duḥkha.
Questo termine viene in genere tradotto in lingue occidentali
con «dolore» o «sofferenza», ma recenti studi ne hanno dimostrato
la portata molto più amplia. Duḥkha andrebbe perciò
inteso come l’insoddisfazione latente in ogni istante della vita
umana, rispetto alla quale la piena felicità è solo una momentanea
interruzione. Anche nelle condizioni di vita più favorevoli (come
una rinascita divina), duḥkha è presente se non altro
come l’ansietà relativa alla fine dei piaceri presenti. La prima
delle quattro «nobili verità» enunciate dal Buddha, che sono alla
base del suo insegnamento e di tutta la filosofia buddista
successiva, è perciò la verità di duḥkha. La seconda
nobile verità consiste nella presa di coscienza di come duḥkha
sia un prodotto di determinate cause. Di conseguenza, la
terza nobile verità insegna che al venir meno delle cause
corrisponde anche il superamento di duḥkha. Infine, la
quarta nobile verità consiste nel cammino che porta al superamento
di duḥkha, ossia l’ottuplice sentiero buddista. Appare
così evidente come il b. consideri essenziale la comprensione dei
nessi causali (comprensione che per essere tale non può limitarsi
al suo aspetto intellettuale e dev’essere invece anche realizzata
meditativamente). Gran parte di duḥkha è infatti legata
a un’errata valutazione dei rapporti di causa ed effetto che sono
sottesi alla nostra esistenza. In partic., l’errata concezione di
un’individualità distinta e costante nel tempo e l’attaccamento a
questa è la principale causa di duḥkha. Il Buddha si
oppone perciò alle tendenze sostanzialistiche che riconoscono un
sé distinto dal resto del mondo proponendo invece un’idea di
persona sempre in divenire, esistente cioè solo come parte di un
flusso di cause ed effetti. Cause ed effetti sono identificate con
azioni, ma anche inclinazioni mentali quali il desiderio o
l’avversione, per cui a cause positive corrispondono effetti
positivi e viceversa ed è quindi sempre possibile ottenere
risultati positivi introducendo cause positive, quali la pratica
buddista. Il flusso non si interrompe nemmeno alla scomparsa del
corpo, giacché i semi karmici accumulati nella vita precedente non
possono non dar luogo a ulteriori effetti e, quindi, a una nuova
nascita. Non esiste però un individuo distinto che rinasce, bensì
solo una serie di cause che dà luogo a una serie di effetti. La
continuità cui noi diamo erroneamente il nome di ‘io’ non è altro
che tale connessione causale.
Ontologia.
Già il b. canonico basa la propria ontologia sul presupposto per
cui gli oggetti composti godono di un’esistenza condizionata, in
quanto esistono solo in dipendenza dalle parti che li compongono.
Celebre in questo senso è l’esempio del Milindapañha
(«Le domande di Menandro», un testo appartenente allo strato più
recente del Canone buddista nel quale il re greco Menandro, in
pāli Milinda, interroga il monaco Nāgasena), in cui Nāgasena
chiede provocatoriamente in cosa consista un carro e in che senso
possa esser detto esistere al di là e al di sopra delle parti di
cui è composto (ruote, pianale, sponde, ecc.). Per giungere agli
elementi realmente esistenti bisogna quindi analizzare gli oggetti
composti nelle loro parti. Non fa eccezione nemmeno il sé, che è
parimenti una realtà convenzionale, composta da elementi, gli skandha
( Theravāda). Le scuole afferenti al b. elaborano in merito
l’opposizione fra ciò che esiste in senso convenzionale (gli
oggetti e i soggetti dell’esperienza ordinaria, la cui esistenza è
condizionata dalle parti che li compongono e legata alla
convenzione mondana che li considera esistenti) e ciò che esiste
in senso assoluto. La tendenza analitica porta però a individuare
elementi sempre più semplici e dalle ‘ruote’ si passa agli atomi
che le compongono e/o agli elementi minimi e istantanei della
nostra percezione, detti dharma ( Abhidharma). In
generale, ben presente a ogni stadio di tale analisi è l’idea
della necessaria connessione causale fra i vari elementi.
Viceversa, viene rifiutato ogni tentativo di distinguere
arbitrariamente sostanze solide indipendenti al di fuori del darsi
fenomenico di un singolo evento. Per la maggioranza delle scuole,
la conoscenza di un colore, per es., non va descritta a partire
dai tre fattori di soggetto conoscente, atto conoscitivo e oggetto
conosciuto, bensì come un singolo evento istantaneo all’interno
del quale tali elementi possono essere distinti solo a posteriori
mediante un’operazione concettuale ( vikalpa). Nāgārjuna, il
filosofo principale esponente del b. Madhyamaka, spinge l’analisi
ulteriormente avanti, rifiutando del tutto l’esistenza di elementi
indipendenti e sostenendo perciò che ogni descrizione del mondo
non possa che essere provvisoria perché condizionata.
Logica ed epistemologia.
Le scuole buddiste, soprattutto la scuola Pramāṇavāda, hanno
avuto un ruolo centrale e propulsivo nello sviluppo di logica ed
epistemologia in India. I più antichi elementi di epistemologia,
rintracciabili nei trattati buddisti di dialettica, sottintendono
l’accettazione di quattro mezzi di valida conoscenza (pramāṇa),
ossia percezione diretta (pratyakṣa), inferenza (anumāna),
testimonianza autorevole (śabda o āgama) e
analogia. Il loro numero e la loro natura sembrano derivare
direttamente dal Nyāya e in effetti anche in questi trattati
l’inferenza viene descritta come formata da cinque membri. Proprio
in ambito buddista, presumibilmente intorno al 5° sec., avviene la
riduzione a tre dei membri dell’inferenza ( anumāna). Nello stesso
periodo, Asaṅga, fra i principali esponenti della scuola Yogācāra,
riformula l’elenco dei mezzi di valida conoscenza, riducendoli ai
primi tre. Un’ulteriore riduzione alle sole percezione diretta e
inferenza verrà attuata poco dopo dall’altra figura centrale dello
Yogācāra, Vasubandhu, e rimar- rà la regola per la riflessione
buddista successiva. Dati i presupposti ontologici del b., può
apparire problematico chiarire quale sia l’oggetto della
percezione diretta e in effetti risposte diverse a questa domanda
sono state offerte da vari pensatori durante la storia del
buddismo. Tutti concordano nell’opporre percezione e inferenza in
quanto la prima permette una conoscenza diretta della realtà
mentre la seconda procede concettualizzando ( vikalpa) i dati
forniti dalla prima. La percezione è quindi per natura non erronea
poiché si limita a cogliere la realtà, mentre errori e concetti
complessi intervengono solo successivamente. Tuttavia, se la
percezione è per natura non erronea e in grado di cogliere
direttamente la realtà, allora essa può cogliere solo gli elementi
minimi che la compongono, gli unici realmente esistenti e quindi
non coglie gli oggetti compositi della nostra esperienza
quotidiana. Un vaso, per es., non sarebbe conosciuto tramite
percezione, bensì sarebbe il risultato della sovraimposizione dei
concetti di ‘sostanza unica’, ecc. sui semplici dati percettivi
(colore, ecc.). Un problema simile riguarda il linguaggio, dal
momento che questo si riferisce a oggetti compositi, anzi a
livelli di generalizzazione ulteriore, quali gli universali. In
partic. la scuola Pramāṇavāda si interroga perciò su come la
comunicazione linguistica possa risultare, ciononostante,
efficace.
Natura del risveglio e dei risvegliati.
Gli studi sul Canone buddista tendono a rintracciare nei testi
canonici più antichi descrizioni del Buddha come di un uomo comune
che abbia però pienamente realizzato le quattro nobili verità e
possa così vedere la realtà senza illusioni. Tuttavia, già nel
Canone è presente, forse in strati più recenti, l’opposta tendenza
consistente nel considerare il Buddha un essere straordinario,
dotato di facoltà sovrannaturali. La discussione si svilupperà nei
secoli come l’opposizione fra chi ritiene il risveglio (bodhi)
semplicemente come la fine dei condizionamenti ( Theravāda) e chi
invece lo considera una qualità positiva che debba essere
raggiunta. In partic., all’interno della scuola Yogācāra andò
delineandosi l’idea che il seme della bodhi (tathāgatagarbha)
sia presente in ogni essere senziente (ovviamente senza
distinzione fra divinità, uomini e animali, mentre il problema
della capacità di sentire delle piante nel b. rimane dibattuto).
In tal senso, ogni essere senziente sarebbe un buddha in
potenza, anche se tale qualità potrebbe essere più o meno oscurata
in lui. La stessa linea speculativa porta alcuni autori a
sostenere che ogni essere senziente, in quanto buddha in
potenza, sia parte dell’unico Buddha manifestatosi storicamente
come Siddhārtha Gautama. Dati i presupposti del b., che nega
l’idea di un sé personale, tale Buddha non va inteso come un
individuo personale, bensì come un atto di consapevolezza di cui
non è possibile specificare i confini temporali giacché esso è
assolutamente reale e quindi al di là dell’illusoria estensione
spaziotemporale. Parallela è la discussione intorno alla natura
del nirvāṇa («estinzione»), circa il quale ci si chiede
se sia solo la fine di duḥkha o abbia qualità
specifiche. In quest’ultimo caso, che trova i suoi sostenitori
soprattutto nella scuola Yogācāra, sarebbero possibili diversi
livelli di liberazione e la liberazione cui possono pervenire i
seguaci delle scuole del b. non Mahāyāna sarebbe di tipo
inferiore.
Enciclopedia del Novecento (1975)
di Giuseppe Tucci
Sommario: 1. Il Buddha e la sua dottrina. 2.
Il buddhismo e la nuova situazione politica in Asia. 3. Il buddhismo
in Asia: a) Sri Lanka (Ceylon); b) Birmania e
Thailandia; c) Vietnam; d) Cambogia e Laos;
e) India; f) Nepal; g) Cina; h) Corea;
i) Formosa; l) altre scuole; m) Giappone;
n) scuole di ispirazione politica; o) altre scuole
moderne; p) lo Zen. 4. Il buddhismo in Occidente.
5. Il buddhismo in America. 6. Crisi interne nel buddhismo. 7. Il
buddhismo e l'arte contemporanea. 8. Meditazione e
psicanalisi. 9. Gli Occidentali e la meditazione buddhistica.
10. Crisi e prospettive del buddhismo contemporaneo. □ Bibliografia.
1. Il Buddha e la sua dottrina
Il buddhismo deve il proprio nome all'appellativo dato al suo
fondatore: il Buddha, ‛colui che si è risvegliato alla conoscenza'.
Di lui non conosciamo neppure il nome, perché Śākyamuni, ‛l'asceta
della famiglia Śākya', è anch'esso un appellativo. Però sappiamo che
nacque intorno al 560 a.C. da una famiglia di proprietari terrieri a
Lumbinī (ora Rummindei) nel Terai (Nepal) e che morì fra il 486 e il
480. Conseguì l'illuminazione a Gayā, detta in seguito Bodhgayā. La
leggenda che intorno a lui crebbe e le numerose aggiunte, o
interpolazioni, a quella che si presume essere stata la sua dottrina
non sono riuscite a modificare i punti essenziali della sua
predicazione; questa fu tramandata, nei primi tempi, oralmente dai
suoi discepoli (evaṃ mayā śrutam,
‛così fu da me udito') e poi codificata in successivi concili che
provocarono diversi scismi. L'insegnamento è semplice: tutto è
impermanente (in pāli: anicca; in sanscrito: anitya),
sia le cose, ciò che appare reale e a noi esterno, sia il complesso
psicofisico; tutto è un susseguirsi e vario combinarsi di
punti-istanti (dhamma, dharma). Al contrario di
quanto affermano le correnti upanisadiche (da upaniṣad
su cui si fonda gran parte della teorica dell'induismo), non
esiste in noi un'entità metafisica come l'ātman,
l'io; ne deriva il corollario dell'anattā; ‛non
esistenza di un io eterno'; però ogni atto consapevole e voluto
deliberatamente produce un effetto che fatalmente maturerà nella
vita presente o nelle future; ogni individuo eredita, nel suo modo
di essere e di pensare, le conseguenze del suo precedente,
responsabile agire. Così si svolge un ciclo di nascite e di morti (saṃsāra)
cui soltanto la conoscenza della dottrina predicata dal Buddha e la
pratica di quest'ultima possono porre fine. Vivere è dolore: come è
detto nelle quattro verità da lui proclamate (āriyasaccāni,
ār̄yasatyāni): verità
del dolore (duḥkha), verità del suo
sorgere in noi (samudaya), la possibilità della sua
soppressione (nirodha) attuabile seguendo il cammino
appropriato (mārga). Questo cammino si
compie praticando la meditazione sullo svolgersi delle varie
situazioni in cui l'uomo si trova, l'una, la presente, determinata
dalla precedente, e a sua volta condizionante la seguente (paticcasamuppāda,
pratītyasamutpāda);
ignoranza (avijjā, avidyā) e
agenti cooperanti coesistono nel meccanismo della persona umana (saṃskāra);
poi la percezione (viññāna, vijñāna),
quindi nāmarūpa, il
dar nome alle cose e il percepirle come si presentano, i sei organi
del senso che comprendono anche le reazioni consapevoli che essi ci
suggeriscono (saññā; saṃjñā);
queste determinano i nostri rapporti o contatti (phassa, sparśa)
con gli oggetti che costituiscono le percezioni tattili; da queste
ultime deriva la vedanā; cioè la reazione
psichica e mentale causa della nostra tensione verso quegli oggetti,
la nostra ‛sete' di essi (taṇhā,
tṛṣṇā); da ciò l'appropriazione (upādāna);
quest'ultima opera come elemento essenziale perché si determini in
noi l'inserimento nel tempo-spazio, cioè nell'esistenza (bhava)
con tutte le sue conseguenze: nascita, vecchiaia, morte, cioè
dolore. La meditazione su questa legge, dello svolgersi della vita,
ci conduce a conoscere come si origina il dolore e il nostro essere
nello spazio-tempo e quindi il desiderio di liberarcene. Non basta
tuttavia la meditazione: occorre altresì una prassi morale molto
rigida che si riassume nell'ottuplice sentiero: retto modo di vedere
le cose, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di
vivere, retto esercizio in ogni situazione, retta rinuncia, retta
meditazione.
Il fine che il Buddha propone agli uomini è il nibbāna,
nirvāṇa, estinzione nell'atemporale; ma
egli non lo definisce, non afferma cioè che è né che non è, perché
ciò equivarrebbe a costringerlo nei termini di una definizione
verbale, mentre il nirvāṇa è una
situazione che trascende la nostra ragione: è soltanto la
soppressione definitiva del karma e perciò il superamento
del saṃsāra.
Così si fondò la prima comunità (San̄gha),
vagante, soggetta alla disciplina di tutte le comunità ascetiche del
tempo; essa poi diventò una comunità monacale. Non esiste differenza
fra gli uomini: tutti possono essere accolti come discepoli. Con una
certa riluttanza da parte del Buddha, fu permesso anche alle donne
di prendere i voti.
Malgrado la scissione in diversi successivi indirizzi (diciotto già
se ne noveravano nell'India antica), l'insegnamento elementare di
Śākyamuni, sopra riassunto, ha rappresentato sempre il fondamento
immutabile del buddhismo, al di sopra delle dispute teologiche; esso
si riduceva a quei pochi assiomi ma costituì la fonte da cui
dovevano scaturire circa duemila e cinquecento anni di sviluppo e di
evangelizzazione; alle quattro verità su cui meditare e ai precetti
morali da attuare faceva seguito la negazione di Dio; anche se in
appresso gli dei apparvero nel Mahāyāna, di fatto essi sono immagini
suscitate dalla nostra mente immatura e credula, ed emergono dal
vuoto di un'indefinibile, incolore, luce-coscienza la quale è
l'essere del Buddha. Non esiste l'anima, ma soltanto la
responsabilità morale la quale, dopo la morte, agisce come forza di
propulsione verso il futuro; le nostre azioni non si esauriscono.
La legge di causa ed effetto, che regola l'universo fisico,
condiziona ugualmente lo svolgersi delle azioni umane: ciascuna di
esse produce inevitabilmente il proprio effetto, e pertanto, siccome
ogni azione è il risultato di una volontà consapevole, questa
volontà è una forza che, nel momento della morte, proietta verso il
futuro, carica com'è delle esperienze accumulate, un impulso che
determina il formarsi di un altro complesso psicofisico, cioè un
nuovo individuo, effetto del precedente. A ciò si aggiunga
l'affermazione dell'uguaglianza di tutte le creature, collegate nel
medesimo destino di vivere e morire, solidali, per questa sorte
comune, nella stessa avventura; nella società umana, tale
uguaglianza è appunto l'aprirsi del buddhismo a tutti, senza
distinzione di caste o di classi; un universo dunque retto da
un'inderogabile serie di principi etici e quindi dall'onnipotenza
sovrana della propria responsabilità.
Quando il Buddha giaceva moribondo ed un discepolo gli domandò che
cosa egli lasciasse dopo di sé, egli rispose ‟la mia propria
parola". Nient'altro cioè che il suo insegnamento; ne veniva esclusa
quale che sia deificazione; anche nel Mahāyāna tale principio resta
immutato, perché alcuni suoi maestri identificarono (Dinnāga)
il Buddha con la sua dottrina o con la pura essenzialità.
Nella vita, l'uomo ha il sostegno di alcune virtù che possono
aiutarlo a raggiungere il nirvāṇa: sono
le sei (o dieci) ‛perfezioni'; anzitutto la liberalità, il dono, la
generosità, naturale effetto della maitrī e della
karuṇā, simpatia e pietà, l'osservanza dei
precetti morali, la costanza, cioè il non cedere, una volta deciso
quale sia il proprio dovere, a nessuna lusinga e a nessun
compromesso, a costo di ogni sorta di sacrifici. Quindi la pazienza;
il vivere insieme implica la tolleranza e la comprensione degli
altri ed è accettazione del proprio destino, perché questo ce lo
siamo creato noi stessi; poi la meditazione; la situazione nella
quale l'uomo vive è di distrazione o di dissipazione; egli è
coinvolto in una serie di eventi che lo costringono a dimenticare
quale sia il proprio destino; la meditazione aiuta l'uomo non
soltanto a concentrarsi su quello che il Buddha ha insegnato, ma
altresì a favorire un'analisi di se medesimo che chiarisca non
soltanto ciò di cui è consapevole, ma anche esplori il mondo del
subconscio. Il risultato sarà la conoscenza, mediante la quale
possiamo conseguire la liberazione dal ciclo delle nascite e delle
morti. L'uomo non ha nessuno cui pregare: basta il triplice
‛rifugio'. ‛Rifugio' nel Buddha in quanto da lui, come Maestro,
deriva la scelta di sentirsi buddhista, suo scolaro e seguace,
‛rifugio' nella dottrina, (Dhamma, Dharma) da lui
predicata, e ‛rifugio' nel San̄gha,
nella comunità, intesa come l'insieme di tutti i fedeli non laici (upāsaka),
di quanti hanno volontariamente rinunciato alla vita laica e perciò
debbono rispettare precetti più rigidi e si dedicano alla
meditazione e alla predicazione. La predicazione è rivolta a tutti,
agli umili e ai potenti, perché tutti hanno il diritto di essere
aiutati e salvati. Quindi non soltanto non si frapponevano barriere
di casta ma neppure si ammetteva distinzione di sorta fra uomini di
diversa origine o lingua o nazione.
Da queste idee fondamentali derivò una fervida attività missionaria
ed evangelica che condusse il buddhismo a propagarsi in India e poi
a Ceylon, quindi a conquistare l'Asia centrale, la Cina, la Corea,
il Tibet, il Giappone e il Sud-Est asiatico. In questa sua diaspora
il buddhismo non fu alieno dall'assimilare culti locali con cui
veniva a contatto, o dall'accogliere abiti mentali delle popolazioni
presso cui si diffondeva, sia per la sua tolleranza, sia per ragioni
pratiche di penetrazione e infine anche per vantaggi economici,
appena il Saṅgha proliferò in
monasteri; perciò, purché i conversi avessero accettato i principi
essenziali della dottrina, permise che essi seguitassero a praticare
riti di esorcismo o di propiziazione delle forze occulte che li
minacciavano e persino che rendessero omaggio ai dii minores cui
per secoli avevano creduto, trasformandoli tuttavia in epifanie di
deità buddhistiche.
Nella sua preoccupazione essenzialmente etica, il buddhismo antico
non si interessò ad altri problemi, sebbene nella dogmatica più
tarda troviamo incluse una cosmologia ed una cosmogonia, che,
generalmente, riproducono gli schemi diffusi presso le altre scuole
indiane. Tuttavia di questa parte non fece un dogma indiscutibile.
Il Buddha resta sempre il Maestro, un uomo (soltanto fra gli uomini
può nascere il Buddha, non fra gli dei dell'Olimpo indiano) che dopo
anni di meditazione ha intuito, da solo, la propria Verità; questa
non gli è stata rivelata da nessuno; è la scoperta di un uomo che
l'ha tramandata ai discepoli, perciò si può discutere.
L'antidogmatismo del Buddha è così espresso in un suo discorso: ‟O
monaci, non accettate neppure la mia parola senza analizzarla, per
mostrare rispetto per me".
Di contrasto fra buddhismo e scienza non esiste traccia; la scienza
è una cosa nella quale il buddhismo non interferisce: la mente umana
è libera di proseguire nelle proprie conquiste; il buddhista può
accettarle o respingerle, perché tutto ciò non ha nulla a che fare
con lo scopo che egli persegue. Il buddhismo, all'infuori del Tibet,
non ha una Chiesa con un capo o pontefice; tuttavia, i grandi
monasteri sono divenuti spesso potenti organizzazioni politiche ed
economiche, come nel Tibet e nel Giappone; l'alleanza fra essi e i
grandi proprietari terrieri e l'aristocrazia feudale era
inevitabile: l'aderire alla setta arroccata in una serie di
monasteri coinvolgeva i laici in una cooperazione, dalla quale
entrambi traevano un reciproco vantaggio. Ma il popolo rendeva
omaggio od offriva ugualmente donazioni in beni o di danaro
indiscriminatamente all'uno o all'altro monaco che gli si
presentasse, perché di lui e della sua sacralità era timoroso.
Il buddhismo è tuttora diviso in due gruppi che convenzionalmente si
è usato definire, per molto tempo, Hīnayāna e Mahāyāna: ‛la via da
percorrere da un più ristretto numero di persone' e ‛la via aperta
al più gran numero di persone'. Non v'è nell'espressione Hīnayāna
nessun senso limitativo o dispregiativo; ma è più esatto dire che
nel buddhismo si distinguono due correnti: quella che preserva le
tradizioni antiche, genericamente detta Theravāda, e il Mahāyāna,
che comunemente si traduce ‛grande veicolo'. Ma le due scuole hanno
spesso convissuto nello stesso luogo.
In senso lato si può sostenere che il Mahāyāna, anche se così non
veniva chiamato ai tempi del Buddha o subito a lui posteriori, è
quasi coevo con le origini del buddhismo com'era inteso e praticato
dai convertiti laici (upāsaka) i quali,
pur accettando il suo insegnamento, non del tutto abbandonano le
superstizioni avite e che il Buddha aveva tollerato, consapevole che
le masse non potevano d'un tratto rinunciare ai loro convincimenti,
o riti o feste.
Questa duplice divisione s'impone perché il Mahāyāna, come
formulazione dogmatica e teorica, è più tardo rispetto al Theravāda
e altre sette affini e si è conformato lentamente, a mano a mano che
il buddhismo si diffondeva in ogni parte dell'India e fuori
dell'India. Il Mahāyāna prosperò, almeno fino al 1948, nel Tibet e
nella Mongolia nella sua forma lamaista, e in parte anche in Cina
fino al sorgere della Repubblica Popolare Cinese (1949); esso poi
domina, diviso in diverse sette, in Giappone dove le scuole
dell'altra corrente sono del tutto estinte, e anche nel Vietnam
(dove penetrò, in epoca recente, anche qualche gruppo Theravāda). Il
Theravāda, la scuola antica, lo si ritrova a Sri Lanka (Ceylon) che
ne è il centro principale, in parte del Bangla Desh (Chittagong), in
Birmania, in Thailandia. Tanto l'una che l'altra corrente possiede
il proprio ‛canone' detto Tipiṭaka, Tripitaka
(‛le tre ceste') cioè le tre raccolte: a) la rivelazione del
Buddha, i suoi discorsi, la sua predicazione; b) le regole
disciplinari; c) la parte dogmatica e speculativa (Abhidhamma,
Abhidharma), certamente lentamente elaboratasi.
Dalle primitive modeste comunità, che vagavano elemosinando, si
isolavano in romitori o parrocchie, si radunavano in luoghi
prestabiliti durante la stagione delle piogge, si arrivò presto ad
un'organizzazione monastica. Così ebbero origine i conventi. La
fondazione dei conventi non soltanto modificò le tradizioni
primitive, ma condusse ad un inserimento della comunità buddhistica
nella vita sociale e politica; i monasteri ricevevano donazioni,
furono fondati e protetti da mercanti e da dinastie, divennero
potenti centri economici, possedevano vaste proprietà; perciò furono
guardati con sospetto in Cina dove la loro ricchezza, la condotta
non sempre ineccepibile dei monaci, l'influenza che essi avevano
sulle masse, il fatto che la vita monastica sottraeva molta gente al
lavoro e ai doveri civili, lo sciupio di metalli e di oro per le
immagini indussero il governo a una vigile sorveglianza che causò
anche persecuzioni, di cui alcune durissime.
Il buddhismo divenne religione di Stato nel Tibet perché la
religione indigena, detta Bon, non rappresentò mai un ostacolo; essa
anzi accetta molti principi dottrinali del buddhismo.
In Giappone i grandi monasteri in lotta fra di loro, ricchissimi,
esenti da tassazioni, si inseriscono per diversi secoli come fattore
determinante nella storia politica del paese. Il buddhismo vi
prosperò a fianco della religione originaria, lo shintō; fin dai
primi tempi avvenne un'osmosi fra le due religioni; divinità
buddhistiche furono accolte dai seguaci dello shinto e viceversa.
Anche dopo la rivoluzione Meiji (1858) prevalse, per legge, lo
scintoismo, come religione di Stato, ma i buddhisti non ne ebbero a
soffrire.
È impossibile dire quanti oggi siano i buddhisti nel mondo; nel
Tibet, per esempio, la popolazione sembra in gran parte ancora
seguire la religione avita, ma i monasteri e le istituzioni monacali
sono scomparse. Se molti si dichiarano buddhisti, ciò non significa
che il buddhismo sia da essi praticato secondo le regole o
conosciuto nei suoi principi reali; viceversa in molti paesi, dove
la situazione politica è cambiata, non pochi sono restati nei propri
convincimenti buddhisti, sebbene apertamente non lo dichiarino. Da
ciò deriva l'impossibilità di un calcolo approssimativo dei seguaci
del buddhismo; secondo alcune statistiche recenti essi sarebbero fra
i 170.000.000 e i 200.000.000.
2. Il buddhismo e la nuova situazione politica in
Asia
Se il potere politico ed economico delle comunità buddhistiche nei
paesi asiatici è diminuito, tuttavia nel momento attuale esse sono
coinvolte nei moti che agitano la società nel Sud-Est asiatico, in
Giappone, a Sri Lanka (Ceylon), in Birmania e in Thailandia. Il
buddhismo non ha potuto ignorare le lotte che, fin dai primi di
questo secolo, hanno agitato e sconvolto molta parte dell'Asia;
alcune società segrete che prepararono il terreno alla rivolta dei
Boxers furono di ispirazione buddhista (l'Associazione del loto
bianco, ecc.).
Appena le prime ribellioni al colonialismo ebbero l'avvio e presero
consistenza audaci correnti nazionaliste, il buddhismo le sostenne.
Nei paesi in cui il buddhismo è stato per secoli fiorente e
predominante (gran parte dell'Indocina, la Birmania, la Thailandia,
restata sempre indipendente, Sri Lanka), esso si assunse il compito
di difensore dei valori spirituali e culturali che quelli avevano
ereditato. In alcuni di questi paesi, come la Cambogia, la
Thailandia e la Birmania, il re era, se non il capo, il protettore
della religione, colui che la impersona, anche se a fianco al
buddhismo si trovavano minoranze seguaci di altre fedi. La
propensione a definirsi ugualitario e democratico trova la propria
giustificazione nella predicazione del Buddha; appena nei paesi
asiatici si organizzò una contrapposizione spirituale all'Occidente,
il buddhismo la favorì. Fin dal 1913 il monaco Dharmapāla pose in
rilievo i caratteri che distinguono il buddhismo dalle altre
religioni e la sua tendenza a secondare il nazionalismo risorgente.
Il buddhismo è sociale ed umanitario; la stessa comunità monacale (Saṅgha)
veniva retta da principi democratici, che essa era riuscita a
salvare malgrado le vicende storiche; quella comunità monacale può
aver avuto, nel corso dei tempi, rapporti di subordinazione o di
prevalenza nei riguardi della cosa pubblica, ma la sua gestione era
restata autonoma. Inoltre la dottrina predicata da Śākyamuni priva
l'uomo dell'istinto della proprietà; anche quando i monasteri
assunsero un grande prestigio economico, ciascuna comunità
conventuale amministrava liberamente i propri beni; il monaco per se
stesso non doveva possedere nulla: la proprietà apparteneva in
toto al monastero. Perciò non farà maraviglia che Laksmi
Narasu proclami che il buddhismo è anticapitalista. Appena la
Birmania acquistò l'indipendenza, il primo ministro U Nu, fervente
buddhista, parteggiò per le correnti socialiste, affermò che il
socialismo è la conseguenza dei principi sociali e morali del
buddhismo e approvò la nazionalizzazione delle terre. Più ardito
ancora U Bu Swe; egli ritorna al concetto della doppia verità
proclamata dal buddhismo: verità convenzionale, adatta cioè alla
comprensione di tutti, e verità vera, riservata soltanto alle
persone di mente più accorta e sottile; egli dunque sostiene che la
verità convenzionale è il marxismo, mentre la verità vera è quella
del buddhismo; è innegabile che il capitalismo esiste e proprio a
questo Marx si oppone; ma se si tornasse all'insegnamento originale
del Buddha, il capitalismo non potrebbe esistere, né vi potrebbe
essere lotta di classe. Il rapporto fra marxismo e buddhismo è
dialettico, né acquiescenza completa né opposizione. Altri ancora
speculando sul buddhismo e sul marxismo vorrebbero dimostrare che il
buddhismo è oltre il marxismo, ma nel senso che, per i suoi
presupposti, l'uomo è sì nella società, che la società di tipo
marxista è un ideale che tutela la dignità umana, ma che l'uomo, per
il fatto che la sua condizione nel mondo e nel tempo dipende dal karma,
è, in realtà, solo.
Quando si dice che non esiste l'anima si vuole intendere che non c'è
un io statico e sempre identico, ma una continuità di azioni o modi
di essere e di pensare separati, eppure indissolubilmente connessi e
relati; se non esiste un ‛io' non ci può essere un ‛mio'.
Questo elemento di coesione è rappresentato dal karma che
non è di uno soltanto, ma di tutti e quindi condiziona un periodo
storico e ne è a sua volta condizionato in questa tela di
interrelazioni e multideterminanti componenti karmiche.
Il determinismo marxista muove da una situazione di assoggettamento
dell'uomo, con l'intento di superano, per attuare una vera libertà.
L'uomo non nasce libero, ma può soltanto divenirlo quando avrà
superato la situazione morale, intellettuale e sociale nella quale
si trova; quindi, per l'interrelazione sopraddetta esistente fra
tutti gli individui di una determinata società, si avrà libertà
quando queste situazioni sociali e morali saranno superate. Ma il
punto essenziale di diversità fra le due posizioni, marxista e
buddhista, consiste nel fatto che, mentre la prima considera
soltanto la situazione economica, il karma involve tutte
le attività umane e in primo luogo i valori etici; inoltre il karma
e i suoi effetti sono polivalenti, non unidimensionali, in
quanto investono completamente la persona umana e quindi rendono la
conquista della libertà un fatto puramente individuale che, come
tale, supera le situazioni obiettive storiche e sociali nelle quali
l'uomo si trova a vivere. In altre parole l'uomo libero è l'uomo
solo. Perciò il buddhismo viene considerato come una dottrina che ha
punti di contatto con il marxismo ma ne supera l'unilateralità;
tende ad una evasione singola che consiste nella piena realizzazione
di ciascuno, con l'interruzione del processo karmico. Ma questo modo
di pensare è proprio di alcuni teorici e non largamente condiviso,
3. Il buddhismo in Asia
a) Sri Lanka (Ceylon)
Dal 22 maggio 1972 è stata proclamata la nuova repubblica di Sri
Lanka; essa ha denunciato la sua condizione di colonia della Corona
britannica, ma resta nel Commonwealth; si è proclamata stato
secolare nel quale si riconosce la preminenza del buddhismo, ma
tutte le religioni sono ugualmente tollerate.
Nella Sri Lanka, dopo la conseguita autonomia, presero consistenza i
movimenti che si proponevano di eliminare le sopravviventi ingerenze
politiche ed economiche dell'Occidente, e di contrapporre la
dottrina tradizionale buddhistica alla classe dirigente di
formazione cattolica o protestante, che aveva maggior potere, perché
più preparata culturalmente; allora, molti buddhisti, meno colti
perché, specialmente quelli delle classi povere, avevano frequentato
soltanto le scuole dei monasteri, si avvicinarono, per seguire una
comune azione sociale, al trotzkismo; vi fu chi affermò che il
marxismo è un foglio strappato dal buddhismo. Questo perciò, pur
propendendo, nella Sri Lanka, almeno in alcuni settori, verso
interpretazioni trotzkiste, restò fermo nelle proprie posizioni; una
forza autonoma che rappresentava un insopprimibile patrimoniò
spirituale del paese. Esistono molti fattori a favore ditali tesi;
anche se il Buddha nelle folle sperdute nei villaggi è oggetto di
culto, resta sempre un maestro il quale, oltre che insistere
sull'uguaglianza di tutti, inculcò il senso della carità, della
compassione, della responsabilità morale, la solidarietà con tutto
ciò che vive. In questi suoi principi si possono trovare le premesse
di certe istanze che oggi si vanno dappertutto diffondendo:
necessità di eliminare o ridurre la sperequazione delle classi,
libertà di pensiero, dovere dell'assistenza sociale che spetta alla
comunità, miglioramento delle condizioni economiche. Tali principi
permisero a S. W. R. D. Bandaranaike, in Ceylon, di opporsi, come il
rappresentante o il portavoce dei valori tradizionali del paese, a
coloro che professavano una religione importata. Perciò egli
combatté il Fronte Unito Popolare, troppo legato a una cultura non
proprio indigena, e proclamò il buddhismo religione di Stato.
Naturalmente, anche i monasteri, con le loro ricchezze ed i loro
privilegi, rappresentavano un ostacolo: essi volevano restare
autonomi, senza nessuna ingerenza dello Stato, sia
nell'amministrazione dei propri beni, sia nella conduzione delle
loro scuole. Bandaranaike, associatosi nel governo Gunavardena, del
partito di sinistra, fondò due università sul modello delle europee
e un Ministero per gli Affari Culturali. Così egli si trovò ad avere
contro di sé non soltanto i seguaci del Fronte Unito Popolare, ma
anche parte della comunità buddhistica (Saṅgha),
lesa nei propri interessi e nella propria autonomia. Considerato un
Bodhisattva (cioè una persona incamminatasi con successo nella via
che conduce alla condizione di Buddha) fu poi ucciso proprio da un
monaco. Ma la vedova Sirimavo Bandaranaike, che gli succedette nel
governo, attuò la nazionalizzazione delle scuole, presentò una legge
che aboliva il privilegio concesso ai monasteri di non pagare le
tasse, strinse rapporti diplomatici con la Cina, Hanoi, la Corea del
Nord.
b) Birmania e Thailandia
Il buddhismo della scuola Theravāda ha antiche tradizioni in
Birmania; non appena cominciò la lotta contro gli Inglesi i monaci
buddhisti vi parteciparono attivamente e molti di essi furono anche
carcerati. Conseguita l'indipendenza (1947) il buddhismo si
riorganizzò con tendenze spiccatamente socialiste; il principale suo
organizzatore fu U Nu. Egli convocò il Sesto concilio buddhistico e
il 17 agosto 1961 proclamò, come primo ministro, il buddhismo
religione di Stato, sebbene tutte le religioni fossero ugualmente
ammesse e tollerate. Le cose cambiarono quando il potere passò nelle
mani del generale Ne Win, che accentuò il contenuto socialista del
governo e cercò anche di limitare il potere dei monaci e proclamò la
Repubblica Socialista della Birmania.
La compatibilità del buddhismo e del marxismo non è un fatto nuovo
nel Sud-Est asiatico e in Sri Lanka, ma essa ha avuto in alcuni
pensatori birmani i suoi maggiori assertori (per es. U Ba Sue).
Nella Thailandia il buddhismo Theravāda è la religione di Stato,
sebbene vi si trovino minoranze di tribù che tuttora seguono le
proprie primitive tradizioni religiose, del tutto estranee al
buddhismo, all'infuori di alcune contaminazioni avvenute per causa
di contatti secolari.
Il governo svolge un'intensa propaganda mediante missionari che, sul
modello di quanto hanno fatto altrove i cristiani, in parte
insegnano e predicano, in parte svolgono opera assistenziale. Altri
missionari dovrebbero convertire le tribù non buddhiste. La comunità
è centralizzata e divisa in due gruppi: Mahānikāya (la grande setta)
e Dhammayutuka-nikāya (la setta dei seguaci del Dhamma, la Legge
buddhistica). Cotesta casta monacale ha al sommo un patriarca
nominato dal re su proposta del Ministero degli Affari Religiosi.
Egli è assistito da un Gabinetto di dieci membri e diviso in quattro
dipartimenti: amministrazione dei beni della Chiesa, educazione,
propaganda ed opere assistenziali. In un paese che ha una tradizione
di cultura buddhistica molto antica, ma nel quale, soprattutto nelle
province nord-orientali, incombono minacce di correnti comuniste, lo
Stato ha cercato di rendere possibile ai monaci un'istruzione più
adatta ai tempi moderni, di permettere cioè a molti di essi, educati
nei monasteri sperduti nei villaggi, di ricevere un'educazione più
adeguata e completa: tanto moderna che non sono mancate le critiche
degli ambienti più conservatori, i quali vedono nei nuovi
ordinamenti (in gran parte dovuti ad ispirazione americana) la
tendenza a politicizzare i monaci. Nelle due università buddhiste
Mahākuṭa e Mahāchulalongkorn ci si propone non soltanto di
approfondire la conoscenza della lingua pāli, nella quale sono
scritti i sacri testi, o della filosofia buddhistica, ma anche di
estendere lo studio ad altre discipline: sociologia, economia,
diritto, storia dell'Asia sud-orientale, archeologia. I monaci nei
tempi passati vivevano nello stesso ambiente culturale del popolo;
oggi, se la loro cultura non si adeguasse alle esigenze dei tempi
moderni, verrebbe a crearsi un'incolmabile differenza fra essi ed i
laici; i monaci quindi debbono trovarsi nel piano culturale alla
pari con i laici.
c) Vietnam
Negli altri paesi del Sud-Est asiatico gli avvenimenti non
permettono di seguire con precisione le vicende del buddhismo e i
suoi rapporti con il pensiero e la vita politica dei popoli, perché
monaci e laici, qualunque sia la loro fede, sono tuttora coinvolti
in una situazione che non possono controllare.
I Vietnamiti del Nord e del Sud erano restati, nelle campagne,
fondamentalmente fedeli alle proprie tradizioni animistiche, nelle
quali si sono, nel corso dei tempi, inserite tre correnti: la
confuciana, la taoistica, la buddhistica. Ma negli ultimi 70 anni il
buddhismo ha preso il sopravvento. Dal 1931 esso si rinnovò nel
senso che sulle liturgie popolari e sui riti propiziatori o
esorcistici cominciò a prevalere una nuova corrente, favorita dai
Francesi, più dotta, che si volse allo studio del buddhismo tornando
alle fonti.
Dal 1931 al 1934 si fondarono tre associazioni buddhistiche che
hanno tradotto opere dei vari canoni. Due scuole si affiancarono: la
mahāyānica, più antica, e il Theravāda introdotto in tempi più
recenti. Nel 1951 ebbe luogo a Hue un congresso nazionale
buddhistico cui presero parte monaci e laici, si fondò
un'organizzazione unitaria (Tong Hoi Phat Giao) che accolse i
buddhisti del nord, centro e sud, pubblicò anche una rivista ‟Phat
Giao Vietnam" (Il buddhismo vietnamita) e aderì alla World
Federation of Buddhists, inviando giovani a studiare all'estero e
partecipando a congressi a Tōkyō e a Rangoon. In seguito sorsero
delle sette particolari, notevolmente impegnate nella lotta
politica; la più importante fu quella del caodismo, che, pur avendo
remote affinità con il buddhismo, ne è assai diverso e ad esso
spesso si contrappose. Sotto Ngo Dinh Diem si accentuò la lotta
contro il potere del dittatore e il buddhismo assunse sempre di più
un carattere politico, assimilando la propria tradizione religiosa
con il nazionalismo e opponendosi alla cultura straniera importata
dal cristianesimo.
Dal 21 dicembre 1963 al 3 gennaio 1964 ebbe luogo un imponente
congresso di buddhisti vietnamiti che condusse ad un'unificazione o
piuttosto cooperazione fra le due scuole: quella del Mahāyāna e
quella del Theravāda, e si fondarono una chiesa detta ‛Chiesa unita
del buddhismo vietnamita', un Istituto degli Affari Religiosi e un
Istituto per la Propagazione della Fede. La Chiesa unificata che
mirava ad una collaborazione delle due correnti (Mahāyāna e
Theravāda) sotto la spinta, in modo particolare, dei seguaci della
prima si inserì nella vita politica del paese, convogliando le masse
popolari nazionaliste e patriottiche. Ma fu appunto questa tendenza,
espressa in forme più accese, che alla fine produsse la scissione e
l'affievolirsi dell'importanza della suddetta Chiesa come fattore
politico, sopraffatto dalle vicende belliche che sconvolsero il
paese.
Neppure la guerra è infatti riuscita a ravvicinare i due gruppi, ma
i buddhisti hanno spesso dato prova della sincerità delle proprie
convinzioni con il sacrificio, dandosi fuoco, come testimonianza
della propria fede.
Il suicidio dei monaci per mezzo del fuoco o in altro modo, di cui
abbiamo avuto molti esempi nel Vietnam e che è stato imitato, come
protesta, anche in Occidente, è suggerito in parte da un capitolo
del Saddharmapuṇdạrīka
(il ‟Loto della buona Legge") che ebbe molta fortuna nell'Asia
centrale ed in Cina. Ma Bhaiṣajyaguru, del resto figura leggendaria
e mai esistito, lo compì, secondo quel libro, come modo di venerare
il Buddha eterno, non certo per ragioni politiche. Altri monaci si
suicidarono nella stessa guisa in Cina per imitare le buone opere
dei Bodhisattva, e per protestare contro persecuzioni o situazioni
politico-religiose non approvate. Tale fu, per esempio, il caso di
Tao-chi che, durante la dinastia dei Chou settentrionali (557-581),
quando la corte ordinò la persecuzione del buddhismo, digiunò fino
alla morte insieme con sei compagni, o di Ta-chih che ai principi
del sec. VII esortò il re a sospendere il decreto di persecuzione
del buddhismo, bruciandosi un braccio. Altri esempi di suicidio con
il fuoco, come testimonianza dell'aver superato ogni attaccamento
alla vita e intuito la vacuità del tutto, non sono rari nella
letteratura buddhistica cinese. Sebbene il suicidio sia stato
condannato dalle regole disciplinari, se ne ricordano casi anche in
India ma in più scarso numero; è probabile che in Cina il suicidio
religioso ricevesse uno stimolo dalle idee confuciane (Confucio
disse ad uno dei suoi scolari che un uomo virtuoso non deve
anteporre la vita al rispetto dell'onore).
d) Cambogia e Laos
Nella Cambogia il buddhismo Theravāda fu introdotto da tempi
antichi; i monasteri, oltre ai propri compiti religiosi, assolvevano
anche quello dell'insegnamento; poi, a poco a poco, con il sorgere
delle scuole statali, diminuì il numero degli studenti che
frequentavano quelle monacali; il buddhismo che si pratica è
piuttosto elementare e si ravviva specialmente nelle feste o in
occasioni particolari come i matrimoni o i funerali. I monaci
possono ritornare a vita laica salvo a rientrare nei conventi come
amministratori o maestri. Quando si costituì, nel 1935, il partito
socialista, questo pose in rilievo il valore sociale del buddhismo
ed entrò attivamente nella vita politica; Sihanouk fu promotore di
un movimento detto Sangkum Reastr Niyum, ‛Comunità
socialista popolare', che si propose di restaurare, con valore non
più contemplativo ma sociale, la trinità: nazione, religione, re.
Anche nel Laos il buddhismo fu coinvolto nei movimenti politici; e
nel Pathet Lao fu costituito un Ministero per gli Affari Religiosi.
Durante il colpo di stato di Vientiane i monaci erano in testa alla
dimostrazione contro l'America. Naturalmente in questi paesi del
Sud-Est asiatico gli avvenimenti attuali hanno sconvolto la
situazione religiosa e quindi, prima di esprimere un giudizio sugli
effetti che in essi potrà produrre il buddhismo, occorrerà attendere
la sedimentazione che avverrà soltanto a conflitto ultimato.
e) India
Il buddhismo in India si spense lentamente assorbito dall'induismo o
sopravvisse, in forme piuttosto degeneri, in alcune parti fino a
tempi recenti (Dharmaṅgala nel Bengala);
la sua filosofia confluì in quella vedantica; le sue forme gnostiche
(Tantra) si confusero con quelle śivaite. L'interesse per
il buddhismo si risvegliò dopo le ricerche dell'orientalismo
occidentale e la fondazione della Mahābodhi Society (originariamente
Gayā Mahābodhi Society) per opera di D. Hewavitarne che, presi i
voti, assunse il nome di Anāgārika Dharmapāla (morto nel 1933); la
società ebbe il suo inizio con lo scopo principale di far risorgere
Gayā, il posto dove il Buddha aveva conseguito l'illuminazione,
sottraendola agli Indù; fu poi nel 1892 trasferita a Calcutta e
dette inizio alle sue pubblicazioni: H. S. Olcott, E. P. Blavatsky e
Annie Besant ne seguirono le sorti, sebbene la Blavatsky e la Besant
finirono con il propendere verso le scuole indù e le correnti
teosofiche. Dharmapāla intraprese un lungo viaggio di propaganda nel
1899 in molte parti dell'India e la Mahābodhi Society si adoperò
perché altri centri sorgessero nei diversi luoghi consacrati dalla
tradizione buddhistica. La sua attività consistette soprattutto
nella predicazione, ma non si può dire che egli abbia esercitato un
grande influsso sul popolo: piuttosto su intellettuali e studiosi
che furono attratti dal buddhismo per curiosità scientifica o
propensioni spirituali e che possedevano buona conoscenza del
pensiero dell'india; fu così che, a poco a poco, si fondarono nelle
università centri di studi buddhistici; uno dei primi fu quello
della Vidyābhāvanā di Shantiniketan, voluta da Tagore; poi seguirono
quelli di Calcutta, Bombay, Poona. Dopo l'indipendenza dell'India la
società prese il nome di Mahābodhi Society of India; il suo centro
resta a Calcutta, ma ha diramazioni e sedi a Bodh-Gaya, Sarnath,
Nuova Delhi, Sanchi, Bombay, Lucknow, Kalimpong, Bangalore e in
altri luoghi. Un impulso nuovo venne dato al buddhismo da Ambedkar
(morto nel 1956) che condusse a compimento l'opera intrapresa da
Gandhi per la redenzione degli intoccabili. Egli ottenne
l'iniziazione a Nagpur, poco prima della morte scrisse il libro Buddha
e il suo Dhamma e in virtù della sua personalità, della
fermezza dei suoi convincimenti, della sua attiva propaganda,
persuase gli intoccabili, che l'induismo aveva escluso dalla
società, ad accettare il buddhismo come propria religione. I paria
accolsero con favore questo nuovo messaggio che era non soltanto
religioso, ma politico e che presentava il Buddha come un
rivoluzionario ed affermava tre principi fondamentali: libertà,
uguaglianza, fraternità. Le statistiche hanno fatto ammontare il
numero dei convertiti ad oltre tre milioni.
La semplicità dell'ammissione alla religione e della sua pratica
(invocazione: onore sia al Buddha, il Beato, l'arhant, il
perfetto svegliato; formula, recitata tre volte, del triplice
rifugio: prendo rifugio nel Buddha, nella Legge da lui predicata,
nella comunità; osservanza delle cinque regole: astensione dal fare
offesa ad ogni creatura vivente, astensione dal furto, astensione da
atti impuri, astensione dalle menzogne, astensione dalle bevande
alcoliche) rese facile il successo. Naturalmente bisogna ben
distinguere la conversione degli intellettuali, o degli studiosi che
possono accedere alle stesse fonti della dottrina nelle sue forme
più complesse, da quella della gente semplice, derelitta, spesso
analfabeta, che parla diverse lingue o dialetti. La vera forza di
coesione che tiene unite queste umili creature è la nuova dignità
che sanno di aver acquistato ed in molti anche le implicazioni
sociali e politiche che l'accettazione della nuova religione, se
religione si può chiamare, conteneva. Non può tuttavia affermarsi
che essa abbia sempre prodotto un mutamento radicale delle
convinzioni religiose piuttosto primitive dei nuovi conversi. Da
quanto si può dedurre dalle informazioni, di diversa origine e
quindi di vario peso, sembra che mentre alcuni dei nuovi buddhisti,
sperduti nei villaggi o ai margini delle città, hanno distrutto le
immagini (qualche volta rappresentate da una pietra informe) delle
loro deità avite, alle quali si offrivano spesso sacrifici cruenti,
quasi per dar atto di ribellione o di una rottura con il passato,
altri non sono riusciti a liberarsi dalle vecchie superstizioni, e
pur dichiarandosi buddhisti seguitano a compiere riti ancestrali che
con il buddhismo non hanno nulla a che vedere.
Ambedkar aveva fondato una Società per l'educazione del popolo e una
Società buddhistica dell'India. La prima si rese necessaria perché
l'India è uno stato laico e quindi nelle scuole indiane non si
insegna nessuna religione; pertanto l'insegnamento religioso può
avvenire soltanto al di fuori dell'orario prescritto e gli
insegnanti sono monaci o laici, siano essi indiani, ceylonesi,
thailandesi o anche tibetani. Vi sono dei Buddhācārya (‛Maestri
buddhisti'), ai quali è affidata la parte rituale: consacrazione,
imposizione del nome, matrimoni e liturgie funebri.
A questa comunità buddhista, che si ispira alle elementari norme del
Theravāda, bisogna aggiungere i molti monaci e laici immigrati in
India appena il Tibet fu conquistato dai Cinesi. Il Dalai-Lama
fuggito dal Tibet nel 1959 vive in Dharamsalā e con lui i seguaci
della setta dei dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa); i rÑiṅ ma pa
(pronuncia: Nyningmapa) hanno il loro capo a Kalimpong; i bKa'
brgyud pa (pronuncia: Kaghiüpa) in Dalhousie e in Darjiling e così
via. La divisione fra sette, che nel Tibet non di rado era stata
addirittura reciproca, irriducibile avversità, sta scomparendo in
India; debbono ricordarsi l'Istituto di Studi Buddhistici nel
Bengala a Buxa, e a Nuova Delhi la Tibetan House. Il Dalai-Lama è
favorevole ad un programma che elimini le vecchie discordie fra le
sette, a riorganizzare gli studi e i corsi dedicati alla meditazione
e a introdurre l'insegnamento di altre lingue, o hindī o inglese.
Oltre a questi gruppi ecclesiastici, esiste in India un gran numero
di laici e di giovani tibetani occupati in diversi lavori, in
villaggi appositamente ad essi destinati, ma non tutti tollerano
fisicamente il clima umido e caldo dell'India. Naturalmente,
malgrado gli sforzi che si compiono, questo buddhismo trapiantato in
India fuori del suo ambiente naturale e posto a contatto con diverse
culture subisce le conseguenze della mutata situazione. Essendo
l'organizzazione monacale tibetana piuttosto chiusa, non c'è da
pensare ad un'efficace opera di propaganda nelle masse indiane: al
massimo alcuni tibetani che conoscono l'hindī potranno insegnare in
alcuni centri, essere impiegati come assistenti nelle università
dove esiste una cattedra di studi buddhistici, ma il buddhismo
tibetano, nella sua maggior parte esoterico, non mi sembra possa
avere grandi possibilità di successo. Esso rappresenta un modo di
essere che non corrisponde alle mutate esigenze sociali e
all'atteggiamento delle classi colte indiane, le quali cominciano a
dubitare della loro stessa religione tradizionale, sebbene si
glorino delle superbe costruzioni del loro pensiero filosofico, e si
proclamano indú, in quanto ne rispettano i precetti teorici, e
tuttavia non ne seguono più i riti e non hanno più fede negli dei
antichi.
f) Nepal
Nel Nepal il Congresso nepalese, formatosi sull'esempio del
Congresso indiano, riuscì ad abbattere il regime dei Rana, per
riportare al trono la democrazia; agitato per molti anni da scontri
fra vari partiti, fra i quali uno ispirato dal comunismo cinese, il
Nepal subisce di riflesso il moto delle idee che si agita
nell'India; ma la popolazione nel suo insieme resta fedele alle sue
tradizioni religiose. I Nepalesi sono in parte indù e in parte
buddhisti, specialmente seguono il buddhismo tantrico che ha molte
affinità con quello tibetano. Le varie sette e scuole vivono in buon
accordo e non si notano voci di protesta degne di rilievo; le
vecchie tradizioni ancora resistono sebbene fra le nuove generazioni
si noti un minor conformismo. Ma è troppo presto per parlare di una
crisi religiosa del Nepal.
g) Cina
Quando i primi contatti con l'Occidente divennero più facili e
frequenti, dopo il crollo del ‛Celeste impero', e fu proclamata la
Repubblica Cinese (30 dicembre 1911), si riscontrano in Cina i primi
tentativi di adeguamento del buddhismo alla nuova situazione. Da una
parte il governo cerca di limitare la potenza dei monasteri e di
ridurne o addirittura confiscarne le proprietà, dall'altra le
comunità monastiche si accorgono del pericolo che esse corrono e
vorrebbero rammodernarsi; esse aprono perciò scuole nelle quali si
insegnano i primi rudimenti della scienza, si fondano ospedali e
brefotrofi; è non soltanto una politica che subisce l'influsso della
nuova situazione, ma anche un abile tentativo di salvare il
salvabile, tanto più che le difficili condizioni economiche, in cui
si dibatteva il paese, provocavano una sensibile riduzione dei
contributi dei fedeli per i riti usuali, specialmente quelli
funebri, e inoltre i contadini che coltivavano le proprietà terriere
dei conventi si rifiutavano di pagare le decime. Sotto la spinta e
il controllo della comunità si costituirono molte associazioni
buddhistiche; a fianco a queste, ma indipendenti, si formarono pure
associazioni di laici, le quali con l'aiuto degli iscritti o di
altri benefattori aprirono scuole, ospedali, ospizi e favorirono
riunioni settimanali, veri e propri servizi religiosi, nei quali si
recitavano in comune le preghiere, si celebravano ‛giorni di
digiuno', si recitavano o si facevano recitare e spiegare da monaci,
di proposito invitati, alcune sacre scritture; queste erano scelte
fra le meno complicate, e tali da accendere nei fedeli la speranza post
mortem di facili beatitudini; la preferenza veniva data ad
alcuni testi, come quelli del ‟Paese felice" (Sukhāvatī),
che celebrano le glorie del paradiso di Amitabha. La situazione
della comunità religiosa, la quale era stata considerata in Cina
un'istituzione che rispondeva alle esigenze spirituali di larga
parte del popolo, ma che lo Stato teneva sempre sotto il proprio
controllo, ebbe tutto l'interesse a mantenersi estranea a quale che
sia movimento politico: era infatti combattuta fra l'aspirazione a
non esser del tutto privata dei privilegi, assicurati da tradizione
secolare, e la consapevolezza dei mutamenti radicali attesi dai
giovani. Questi ultimi infatti sempre più numerosi si distaccavano
dalla religione, qual era rappresentata dai monasteri, come da
consuetudini antiquate; perciò la comunità era in una situazione
difficile, dovendo barcamenarsi fra i vari governatori provinciali,
i generali che si alternavano, la simpatia o l'antipatia delle
persone al potere, l'invasione giapponese (1937). Inoltre di fronte
al risorgere del Theravāda si era ritrovata in posizione di
svantaggio.
Vi furono tuttavia uomini di grande levatura, come Yang Wen-hui, i
quali tentarono di seguire l'esempio di Dharmapāla e si proposero di
preparare persone capaci di svolgere un'opera missionaria o di
prendere contatti con buddhisti di altri paesi. Però, mentre queste
missioni non ebbero quasi nessun risultato, la Cina apriva le porte
a quelle straniere; infatti le sette giapponesi Jōdo Shinshū e
Higashi Honganji inviarono in Cina alcuni loro rappresentanti e i
Cinesi più che missionari furono per forza di cose costretti a
mandare discepoli in Sri Lanka, Burma, Thailandia per meglio
studiare il buddhismo nei suoi diversi aspetti.
Questa era una decisione importante perché il Mahāyāna in Cina, come
nel Tibet, aveva avuto per il Theravāda scarsa considerazione ed ora
quest'invio di monaci cinesi nei paesi dove il Theravāda era
fiorente significava un tentativo di ritorno alle origini. Tuttavia
è interessante notare come dalla fine del secolo passato, fino al
trionfo della Repubblica Popolare Cinese (1949), il buddhismo cinese
comincia ad uscire dal proprio isolamento, avverte la necessità di
rinnovarsi, di organizzarsi in forme che non di rado tradiscono
imitazioni delle organizzazioni missionarie cristiane.
La persona nella quale meglio si esprime quest'ansia di riforma è
T'ai-hsü (1890-1947), fondatore di una rivista ‟Hao-ch'ao-yin"
(1920), promotore di una conferenza mondiale del buddhismo a
Lu-shan, desideroso di indebolire la potenza dei monasteri o per lo
meno di dare maggior peso alle attività sociali e missionarie che
alle liturgie o ai riti, che facilmente tralignavano in esorcismi e
magia; egli visitò l'Europa e l'America, promosse l'istituzione di
una Unione mondiale dei buddhisti e nel 1945 divenne il capo
dell'Associazione buddhistica della Cina.
Dopo l'avvento della Repubblica Popolare Cinese Mao Tze-tung
affermò, in principio, che la religione non si può abolire con un
decreto amministrativo: occorre soltanto rimuovere a poco a poco le
ragioni delle sue incongruenze e dimostrare la sua inutilità.
Occupato il Tibet, il governo della Repubblica Popolare Cinese
assicurò che il Dalai-Lama sarebbe restato nella sua carica e che la
religione sarebbe stata rispettata. Ciò fu la conseguenza di un
calcolo politico, perché Mao Tze-tung era consapevole che molta
parte dell'Asia era buddhista e che sia nel Sud-Est asiatico sia nel
Giappone il buddhismo era stato introdotto dalla Cina insieme con la
vasta mole della sua letteratura canonica. Nel 1952 alcuni buddhisti
cinesi furono invitati ad una conferenza per la pace dei popoli
asiatici; il tibetano Šes rab rgya mts'o (pronuncia: Sherapghyatsho)
fu eletto presidente di una Società buddhistica, che si rivolgeva
soprattutto ai tibetani; il buddhismo non poteva essere, si disse,
in opposizione alla nuova democrazia, perché rappresentava una
visione della vita in se stessa rivoluzionaria; i monaci però invece
di dedicarsi ai riti liturgici dovevano inserirsi nel nuovo sistema
sociale, secondare le riforme, diventare maestri di scuola. In
seguito, di fronte alla resistenza dei monaci tibetani, si ricorse
alla maniera forte; il Dalai-Lama fuggì dal Tibet; anche il Pan c'en
Lama, la maggiore autorità spirituale tibetana, il grande abate di
Tashilhünpo, che i Cinesi stessi avevano educato, ma che non volle
seguirli fino alle estreme conseguenze, cadde in disgrazia e non si
seppe più nulla di lui. Tuttavia pare che dal 1952 al 1962 i
comunisti spesero per restaurare i templi una somma corrispondente
alla media di quanto nello stesso periodo elargiva la dinastia
Ch'ing (1644-1912) con la differenza che i monaci erano costretti a
servizi di Stato, e non più a pregare, come allora, per la longevità
e il bene dei grandi burocrati. Vi furono nel 1950 e 1952 a Pechino
e altrove recitazioni di libri sacri (Vajracchedikā)
contro i demoni imperialisti o per assicurare la vittoria in Corea.
Nel 1955 i monaci raccolsero firme contro la bomba atomica: il
monaco Pen-huan ridorò una statua del Buddha per onorare i patrioti
e per invocare la pace; ma l'iniziativa venne poi dichiarata
illegale e Pen-huan venne arrestato nel 1958.
Nel 1964, ricorrendo l'anniversario del nirvana del
Buddha, il vice-primo ministro Ch'en Yi con sua moglie si recarono a
far visita al tempio di Kelaniya in Ceylon; secondo i riti
tradizionali, a Pechino, Shang hai e Lhasa si fece il bagno della
statua del Buddha; nel mese di marzo fu celebrato il 1300°
anniversario della morte del celebre pellegrino cinese Hsüan Tsang
(602-664) che nel VII secolo, traversando l'Asia centrale, si recò
in India per raccogliere libri e studiare la situazione del
buddhismo; nello stesso anno furono ricevute missioni buddhistiche
da tutti i paesi dell'Asia: Cambogia, Ceylon, Giappone, Laos, Sud e
Nord Vietnam, Indonesia, Mongolia, Nepal.
Fin dal 1951 era stato creato un Ufficio per gli Affari Religiosi
con diramazioni in tutto il paese e nel 1953 un'Associazione
buddhistica cinese sotto la presidenza di Yüan-ying, già a capo
dell'Associazione buddhistica fondata nel 1924. In realtà l'ufficio
era un organo che si opponeva alle comunità (Saṅgha)
e che dirigeva la confisca dei beni dei monasteri, costringendo i
monaci a svolgere altre attività della vita sociale e a coltivare la
terra; i riti religiosi furono considerati pratiche superstiziose;
sembra che dopo il 1957 nessuno venne più consacrato monaco.
L'Associazione buddhistica per mezzo della sua rivista, soppressa
nel 1965; diffondeva idee laiche e antireligiose; vi si scriveva che
l'ideale del Bodhisattva è il lavoro; il concetto dell'‛io', che il
buddhismo aveva ripudiato, si attua nella vita collettiva. Il
paradiso di A mi t'o fu (Amit̄bha) è la società comunista; la stessa
compassione inculcata dal buddhismo si manifesta anche nell'uccidere
i cattivi per salvare i buoni; è un principio che trova la sua
giustificazione in alcuni libri classici del buddhismo stesso (il
mahāyānico Mahāparinirvāṇasūtra).
Per ragioni politiche e soprattutto di politica estera fu fondato un
Istituto buddhistico cinese che era di fatto un organo di propaganda
politica.
Con la rivoluzione culturale tutto ebbe fine. Nelle attività
buddhistiche sopra ricordate vi sono al fondo due cause: la prima è
un tentativo, del resto fallito, dei monaci di inserirsi in qualche
modo nel nuovo ordinamento sociale, profittando del non ancora
sopito sentimento religioso delle masse; la seconda, da parte del
governo, è la suddetta ragione di politica estera, la volontà di non
accrescere i motivi di preoccupazione o di timore nei paesi
buddhistici dell'Asia.
h) Corea
In Corea il buddhismo era stato introdotto dalla Cina, in tutte le
sue forme e scuole; anzi, per quanto concerne la diffusione del
buddhismo, la Corea fece da tramite fra la Cina ed il Giappone. Ma
sotto la dinastia Yi (1392-1910) il confucianesimo aveva preso il
sopravvento e il buddhismo, che aveva subito anche delle
persecuzioni, s'era ritirato sopratutto nei luoghi di montagna.
Durante l'occupazione, nell'ultima guerra, i Giapponesi favorirono
il buddhismo, ma lo tennero sotto un rigoroso controllo, nominando
essi stessi gli abati dei principali monasteri. Dopo la fine della
guerra si determina un risveglio; i monasteri ricchissimi d'opere
d'arte sono restaurati, l'interesse per il buddhismo rinasce:
naturalmente si intende il buddhismo mahayanico, perché soltanto le
scuole di quest'ultimo erano rimaste. Il presidente Rhee era
d'opinione che il decadimento del buddhismo fosse dovuto al fatto
che i monaci non rispettavano più l'antica regola del celibato ed
impose (1954) che essi non dovessero sposarsi. Ma in pratica la
norma non è regolarmente seguita. E neppure sopravvivono le antiche
sette introdotte un tempo dalla Cina. Nello stesso tempio si possono
recitare i sūtra o praticare le
liturgie delle differenti scuole. Nell'università buddhista di
Dongguk i professori sono generalmente uomini sposati e non celibi e
il buddhismo si insegna sui testi e non in forma apologetica. A Seul
è stata aperta un'Organizzazione Centrale del Buddhismo (setta
Chogye) di cui fanno parte i monaci celibi, che si propone di
rammodernare la religione, renderla più consona allo spirito dei
nuovi tempi, e sovraintende ai monaci e alle monache. Essa è
affiancata da due organi: l'uno amministrativo, l'altro giuridico,
che sorvegliano l'amministrazione, le finanze e la disciplina; gli
iscritti recitano le preghiere, si confessano, si prostrano per
centinaia di volte innanzi alle immagini del tempio, ma buona parte
del tempo loro e dei discepoli è dedicato agli studi; la meditazione
Zen sembra occupare un posto preminente; lo studio stesso si orienta
verso indagini scientifiche più che teologiche. Vi è anche
un'associazione, che comprende parecchie migliaia di studenti, la
quale svolge attività sociali come la diffusione del pensiero e
della prassi del buddhismo e l'insegnamento, perché il loro motto è
‟in alto, pensare all'illuminazione, in basso, educare le creature".
Si pubblica altresì un giornale ‟Il buddhismo coreano".
A fianco a questo buddhismo ufficiale, si trova una setta, quella
del buddhismo Won, fondata da Soe-tae San (1891-1943), la cui
dottrina esalta il Dharma-kāya, il cosiddetto ‛corpo del Buddha'
cioè il piano dell'essenzialità, rappresentato da un simbolo nero su
un fondo quadrato. Oggi la setta pare conti qualche centinaia di
migliaia di seguaci e molti luoghi di culto; la sua dottrina è
rivolta al popolo, i libri buddhistici su cui si basa sono tradotti
in coreano parlato; è una setta aperta a tutti, laici e monaci che
non hanno l'obbligo del celibato; il Buddha è immanente in ciascun
essere o cosa, nel perpetuo divenire dell'universo; su questo si
deve meditare per attuare in se medesimi l'unità della nostra
personalità, indissolubile coesistenza di materia e spirito.
i) Formosa
Nell'isola di Formosa ritroviamo il buddhismo quale era conosciuto
in Cina. L'Associazione buddhistica pubblica un giornale,
‟Fo-hsüeh-yüan"; esistono pure un Istituto per gli studi buddhistici
e un altro per lo studio della filosofia cinese, ma il popolo
pratica un buddhismo non privo di contanimazioni con culti e
credenze tradizionali; d'altro canto si riscontra una notevole
indifferenza nei riguardi del problema religioso, cui si contrappone
presso gli intellettuali un desiderio di purificare il buddhismo e
di restituirlo alla primitiva chiarezza e semplicità. Le persone
colte sono cioè propense a riconoscergli una validità scientifica e
filosofica da seguirsi per quanto concerne sia il lato etico sia
l'analisi della realtà delle cose: nel medesimo tempo riconoscono
che il buddhismo non è l'espressione di un pensiero soltanto cinese,
ma un vincolo che accomuna i credenti in un credo di carattere
universale. Il numero dei buddhisti nell'isola di Formosa è
difficile a calcolare soprattutto perché molti si dichiarano
buddhisti, senza sapere che cosa sia il buddhismo.
l) Altre scuole
Non debbono tacersi alcune scuole sincretistiche ma con forti
elementi buddhisti che, nate in Cina, sono tuttora vitali presso le
comunità cinesi del Sud-Est asiatico e specialmente Malaysia,
Thailandia, Indonesia. Tale è ad esempio la religione del ‛perfetto
vuoto' (Chung-k'ung Chiao) fondata nel 1862 nel Chiang-hsi
da Liao Ti-p'in (1827-1893), laico di formazione confuciana, che
divenne poi monaco Ch'an (Zen) e si considerò incarnazione del Wu-chi,
il Non-essere. Allora si distaccò dal buddhismo e creò una setta
sincretistica che si propagò rapidamente: fino a pochi anni fa si
contavano circa 180 chiese.
Sebbene il Non-essere ricordi il wu e il Tao dei
taoisti, non è dubbio che il fondatore della scuola sia stato
influenzato dal buddhismo, soprattutto dalla scuola Ch'an (si
confronti il suo ‛Vuoto' e il ‛Vuoto' delle scuole Mādhyamika), sia
pure giuntogli con la mediazione di testi più accessibili e
popolari. Questa scuola predica altresì la prossima fine di un ciclo
cosmico (kalpa della concezione buddhistica-indù). Avversa
l'adorazione delle immagini, stimola ad opere di carattere
assistenziale, promuove la riabilitazione dei fumatori d'oppio.
Nella Mongolia esterna, dopo la rivoluzione, molti monasteri furono
distrutti, ma nel 1958 alcuni furono riedificati. Nel 1961 O.
Lattimore trovò nel monastero di dGa' Idan (pronuncia: Gandin) un
centinaio di monaci; è stato riaperto il grande monastero di Urga
(ora Ulan Bator) e s'è ridestato, per opera dell'Accademia mongola,
un notevole interesse per il buddhismo; ma questo interesse è
soprattutto scientifico con il proposito di raccogliere e pubblicare
tutto ciò che resta della letteratura nazionale, ispirata in gran
parte al pensiero buddhistico o di contenuto storico-genealogico. Lo
scopo è evidente: cercare di avviare sulle basi dell'antica unità
culturale un pan-mongolismo da opporsi alla Cina.
Anche in Russia la situazione sembra mutata; il buddhismo del
Mahayana aveva seguaci presso i Calmucchi e i Buriati i quali erano
in parte lamaisti; ciò ha indotto i Russi a rinunciare alla
tolleranza che in un primo tempo avevano mostrato, cercando di
convogliare i buddhisti a loro soggetti nel marxismo. Ma nel 1945
sembra che alcuni templi buddhisti siano stati ricostruiti. Ora gli
studi buddhistici sono molto fiorenti in Russia, specialmente le
ricerche sul lamaismo tibetano.
m) Giappone
Il paese dove il buddhismo presenta tuttora segni di maggiore
vitalità è il Giappone: una vitalità che mira a profonde riforme, e
cui corrisponde, nell'ultimo cinquantennio, il sorgere di nuove
sette, tutte ramificazioni delle già esistenti; alla crescente
semplicità dei mezzi di espressione o liturgici si accompagna lo
stimolo allo sviluppo di una personalità umana più completa,
sinceramente attiva, ansiosa di inserirsi nella vita sociale e anche
politica: religione fondamentalmente aperta ai laici, quasi
secolare.
In Giappone convivono tre religioni o dottrine: la tradizionale e
aborigena cioè lo shintō; il buddhismo, che venne introdotto da
Shōtoku Taishi (che regnava in nome della zia Suiko Tennō,
1593-1621) e si divise in molte scuole, alcune meditative, altre
esoteriche, altre combattive e inclini ad intervenire nella vita
pubblica, o addirittura a controllarla; infine la teorica
neoconfuciana, che pone l'accento sui doveri dell'uomo verso la
società. Recentemente anche il cristianesimo.
È una convivenza pacifica che, per quanto concerne shintō e
buddhismo, ha tradizioni antiche di buon vicinato e di confluenze
reciproche.
Durante lo Shōgunato Tokugava (1600-1868), il buddhismo, che aveva
proliferato in molti modi contrastanti, venne irreggimentato nel
senso che le famiglie dovettero raggrupparsi intorno ad un tempio;
così il paese si trovò diviso in una serie di parrocchie; le singole
sette ricevettero favori e sovvenzioni, ma furono private di ogni
potere politico concentrato nel governo, largamente influenzato dal
neo-confucianesimo e dallo shintō. I templi sorvegliavano le varie
associazioni di carattere laico, professionale e religioso e
disimpegnavano un compito quasi notarile (registrazione delle
nascite, morti, matrimoni), controllavano e organizzavano le feste,
celebravano i funerali; così vi erano due poteri dai quali il
cittadino dipendeva: quello dei Daimyō - il
principe feudale - cioè l'autorità laica o dello Stato e quello
religioso. Tuttavia ciò non impedì che una scuola derivata da quella
della ‛Terra pura' cioè lo shinshu fondato da Shinran Shanin
(1173-1262) si organizzasse in modo da assumere un potere, in alcuni
casi superiore a quello dei Daimyō. Era una setta
i cui capi si succedevano ereditariamente, perché ai seguaci non era
imposto il celibato.
All'inizio dell'epoca Meiji (1858) si sostituì alle tre religioni o
modi di pensare, lasciati alla libera scelta dei fedeli, nella quale
il governo non interveniva, una religione che non era di fatto una
religione: lo shinta di Stato, incentrato nel trono imperiale
simbolo dell'unità nazionale che ripudiò il Ryōbushintō;
cioè lo shinto per secoli vissuto a fianco del buddhismo con
reciproca tolleranza e notevoli scambi di dei e di liturgie. Inoltre
si ebbero allora movimenti antibuddhistici. Ciò finì con il produrre
un risultato contrario: anzitutto le masse restarono nella propria
fede, e l'élite buddhista (per es. Fukuda Kyodai,
1806-1888) trovò in questo movimento antibuddhistico lo stimolo per
sottrarre il buddhismo agli eccessivi contatti con il mondo politico
ed economico che lo avevano tenuto lontano dalla purezza degli
insegnamenti predicati dagli antichi maestri. Si determinò pertanto
una tendenza a ricercare i principi veri e sicuri del buddhismo; ne
derivò, anche sotto l'influsso della ricerca filologica occidentale,
un desiderio di tornare alle fonti; si studiò il sanscrito e il pali
allo scopo di acquistare una conoscenza diretta dei testi su cui il
buddhismo era fondato; il risultato fu una proliferazione inconsueta
di pubblicazioni scientifiche di grande valore, di traduzioni in
giapponese del canone cinese, di enciclopedie che sono insuperabili
strumenti di lavoro.
Questo stato di cose produsse una specie di scissione: da una parte
i dotti che si attengono alla purezza dogmatica, basata sulla
comprensione di testi difficili, ma nell'insieme una modesta cerchia
di persone che non possono avere grande influsso sulle masse;
dall'altra il popolo che fa professione di buddhismo, ma di un
buddhismo nel quale prevalgono le correnti esoteriche, le
superstizioni, le complicazioni dei riti funebri, il conformismo e
il disinteresse per la dottrina nelle sue strutture teologiche. A
ciò si aggiunga, nel dopoguerra, la soppressione dell'esenzione
delle tasse, concessa prima ai monasteri. Il crollo dell'ordinamento
delle antiche parrocchie, e la migrazione della gente dai villaggi
nelle grandi città costituirono nuove cause di questa situazione.
D'altra parte, non può negarsi che è sempre esistita una corrente
restata fedele a quell'ideale nazionalista che dalla rivoluzione
Meiji si è rafforzata nel Giappone; essa si propone di eliminare le
scorie accumulatesi intorno alla tradizione buddhistica, e considera
il buddhismo come una forza spirituale e morale capace ancora, come
alle origini, di espandersi e di colmare il vuoto prodottosi nella
società moderna agitata da continue tensioni, volta ad altri
interessi e dominata dalla scienza pura e dalla tecnica.
Non è il caso di insistere troppo su qualche filosofo la cui opera è
accessibile a pochi, ma la cui importanza consiste nell'aver tentato
di riconciliare il pensiero buddhistico, spesso forzatamente, con
alcune correnti speculative dell'Occidente; ma non si può tacere il
nome di Nishida (morto nel 1945); egli intende Dio come
contraddizione in sé o l'assoluto: intrinseca identità con la
contraddizione di se medesimo. Dio si contrappone come negazione
assoluta a se stesso, in una corrispondenza o relazione di polarità
diversa. Quindi, siccome è l'assoluto Nulla, è anche l'assoluto
Essere. La sua filosofia è l'incontro o lo scontro del buddhismo
mahāyānico (soprattutto Zen) e delle correnti speculative
occidentali, specialmente del pensiero kantiano e
dell'esistenzialismo.
Non può dunque passare inosservata la progressiva laicizzazione del
buddhismo; questo non è più il monopolio di una casta sacerdotale,
gelosa delle proprie liturgie o custode combattiva delle proprie
posizioni dogmatiche: è un patrimonio spirituale a tutti comune; non
si può più parlare di rinuncia; il buddhista dovrebbe realizzare nel
consorzio civile la propria umanità in un'assoluta dedizione ai suoi
simili.
Il sistema sopra accennato della dipendenza delle famiglie da
rispettive parrocchie, che rappresentava una specie di unità tra
famiglia e tempio, ha subito un grave colpo. La riforma del
1948-1950 produsse gravi conseguenze nei riguardi dei monasteri che
possedevano terre ma non le coltivavano; e i templi poveri non
ricevettero più dai proprietari di terre le stesse donazioni di
prima; inoltre lo spostamento di molta parte della popolazione nei
grandi centri, la sempre maggiore indipendenza delle donne e la loro
maggiore educazione, il confluire di esse nelle città in cerca di
occupazione influirono molto sulla tradizione familiare: alla
famiglia unita, incentrata sotto l'autorità paterna e materna,
legata a tradizioni antiche si sostituirono i singoli nuclei
separati.
I dogmi di alcune scuole teologiche vengono respinti perché
stabiliscono privilegi od esclusioni che contraddicono il principio
dell'uguaglianza, essenziale nel buddhismo: l'uomo è fatto per agire
e la sua fede lo redime. Hanno torto pertanto quelle sette le quali
pretendono di escludere dal consorzio buddhistico certe categorie di
persone a causa della professione che esercitano: per esempio i
macellai. Il buddhismo non condanna l'azione, ma la sublima: la
contemplazione è per pochi, non per tutti. La scuola di Nichiren
(1222-1282), che ispira molte correnti moderne, non fu contemplativa
ma attiva e fin dal tempo della sua fondazione ebbe parte preminente
nelle lotte per la difesa degli interessi del paese; al contrario,
le scuole amidiste (culto di Amitābha),
in virtù della teoria della grazia, promettevano la salvazione a
chiunque invocasse, con fede sincera, il nome del Buddha; il
monachismo poi aveva indotto ad un deprezzamento del lavoro rispetto
alle esaltazioni mistiche o alla rinuncia o alla liturgia. Ora i
nuovi valori e obblighi sociali (non senza resistenza, ma sempre
minore, da parte dei difensori della tradizione) sono dalle correnti
rinnovatrici caldeggiati come espressione, non soltanto della
dignità umana, ma persino del servizio del Buddha. Un seguace dello
Zen afferma che la condizione di Buddha si consegue mediante il
lavoro, perché non esiste lavoro che non sia una pratica
buddhistica.
Insomma si avverte in Giappone un'insistenza sulla vita vissuta,
nella sua complessità di obblighi e doveri; alle liturgie incentrate
nel culto di Amida (Amitābha) si
contrappone un rinnovato senso della vita sociale; gli insegnamenti
del Buddha debbono essere volti al miglioramento di quest'ultima; la
rinascita nel paradiso di Amida è secondaria rispetto ai doveri che
la società o la famiglia esigono. Questa convinzione è assai viva
presso le persone più inclini ad una profonda riforma, le quali
trovano in una larga solidarietà umana l'attuazione del messaggio di
Śākyamuni, una solidarietà che dovrebbe interessare non soltanto il
Giappone, ma estendersi a tutta l'umanità; non si tratta di una
solidarietà teorica, ma di una solidarietà positiva che mira ad
eliminare sia le differenze di classe sia le disparità economiche.
Insomma il buddhismo dovrebbe investire tutta la vita. La liturgia
passa in secondo posto rispetto a questa esigenza urgente e
necessaria; così soltanto il buddhismo si può sottrarre al
conformismo rituale o all'inerzia in cui una tradizione secolare
l'ha costretto. Per tale scopo sono sorte molte società e
organizzazioni promosse specialmente dai giovani, uomini e donne
(l'Associazione delle donne, la Lega dei giovani, ecc.).
Le formule tradizionali sono ormai superate: i testi classici del
buddhismo sono stati tradotti nella lingua moderna, non sono più un
privilegio di pochi; le sette debbono trovare un punto d'incontro in
questa progressiva modernizzazione, che si propone non soltanto di
eliminare le veccbie controversie, ma di ritornare alle origini. Il
buddhismo primitivo, quello probabilmente predicato dal Buddha, non
presentava complicazioni dogmatiche, anche se ha dato origine a
infinite successive speculazioni; esso è di una semplicità
elementare, come del resto è elementare l'invocazione del nome di
Amida (Amitābha): quasi un richiamo alla
identità di tutti gli uomini che si deve riscoprire e a quella
fondamentale semplicità della natura umana in cui questa si ritrova
nella sua essenzialità, la sua ‛buddhità' che la distingue da altre
esperienze; la distingue, ma non la esclude; l'Oriente e l'Occidente
non si affrontano come due culture reciprocamente chiuse e ostili,
ma al contrario si incontrano come due modi di vita che possono
intendersi e collaborare.
Per le nuove generazioni non hanno senso i contrasti teologici e
dottrinali; i monasteri sono diventati, più che meta di
pellegrinaggio, luoghi di convegno durante i giorni festivi per la
bellezza dei posti in cui sorgono e la magnificenza delle opere
d'arte che contengono. Nell'insieme tuttavia il buddhismo alimenta
una sincera deferenza nei riguardi delle tradizioni spirituali, vive
nel fondo degli animi, che tanto hanno contribuito alla formazione
del carattere e della cultura giapponese.
Il sistema delle parrocchie che legava le famiglie ad un tempio è
per forza di cose in declino, le entrate dei monasteri si stanno
esaurendo, il monaco presta servizio nel tempio per i riti abituali,
ma spesso ha altre e più proficue occupazioni; in alcune scuole Shin
si proclama che l'illuminazione si apre a tutti, senza distinzione
fra preti e laici; è una religione ‛basata sulla casa'. Ma anche se
molti appartenenti alle classi colte non sanno bene che cosa sia il
buddhismo o la dottrina della scuola cui dichiarano che la propria
famiglia appartiene, difficilmente si sottraggono ai riti della
setta nei momenti più importanti della vita: nascita, matrimonio o
morte. Maa questo vuoto, avvertito da molti, si vuole sostituire
qualche cosa d'altro: un'ispirazione religiosa che stimoli ad agire,
una fusione fra religione e vita. Non deve dunque meravigliare se
alcune di queste organizzazioni si sono mutate in movimenti
politici.
n) Scuole di ispirazione politica
Tale è il partito Sōka Gakkai che si riconnette con la setta di
Nichiren (ramo Nikkan - 1665-1725), il combattivo monaco dell'epoca
Kamakura (1185-1333). La cosa non sorprende: Nichiren fu oltre che
un rinnovatore un grande patriota; in lui la fede si congiunge con
un entusiasmo pugnace; d'altra parte in Giappone predomina una
coscienza collettiva che tutti unisce nella medesima dedizione al
paese; anche i rinnovamenti estremisti lottano per una piena
indipendenza, che elimini le ingerenze straniere di ogni origine e
carattere. Il saka Gakkai fu fondato da Makiguchi Tsunesaburo
(1871-1944) intorno al 1930 e poi, sotto l'impulso di Toda Jōsei
(1900-1958) ha superato i 12.000.000 di seguaci. La sua bibbia è l'Hokkekyō
(Saddharmapuṇḍarīka)
e la sua formula di preghiera è ‟Namu Amida Butsu": ‟Onore
sia a Amida Buddha", il compassionevole Buddha del paradiso
d'Occidente. Ma a questo spirito religioso si congiunge l'attività
politica, una coincidenza di principi religiosi con gli interessi
della vita nazionale e il miglioramento sociale mediante
un'autoelevazione; infiltratosi fra i lavoratori, il Sōka Gakkai si
affermò dopo il primo scontro con i proprietari delle miniere
dell'Hokkaidō: i seguaci sono organizzati militarmente.
Il Sōka Gakkai si incentra nel daimoku, la formula:
‟Omaggio al sūtra della Santa Legge" (Saddharmapuṇḍarīka).
Questa formula deve mutare l'atteggiamento mentale e spirituale, la
personalità insomma dell'adepto, suscitare in lui nuove esperienze,
sincerità di fede e responsabilità, messe alla prova e stimolate da
un gran numero di vigili missionari. È un insegnamento carismatico;
i missionari si propongono non soltanto la salvezza del singolo ma
di tutti; i seguaci hanno ramificazioni dappertutto e si esaltano
nelle radunanze annuali nel Taiseki-ji presso il monte Fuji, nelle
quali si cementa la solidarietà degli iscritti e si canta in coro il
daimoku (tremila volte al giorno).
Il Sōka Gakkai ha un notevolissimo peso politico; la sua emanazione
è la ‛federazione' politica, che ha i propri rappresentanti nella
Camera e costituisce una forza che non si può ignorare; il suo
programma è semplice: unità della legge laica ed ecclesiastica;
rispetto della dignità umana e benessere del popolo mediante un
socialismo umanistico; garanzia dei diritti dell'uomo, libertà di
parola, libertà di pensiero e libertà di religione; lotta contro la
corruzione politica.
o) Altre scuole moderne
Nel 1914 Tanaka Chigaku fondò un movimento che si può definire una
religione popolare a sfondo nazionalista; ma dopo la guerra esso si
propose come scopo essenziale l'ottenimento della felicità umana e
della pace; il Giappone è il paese eletto, nel quale è apparso
Nichiren, l'ultima manifestazione del Buddha sulla terra; il
carattere nazionalista è evidente nel proporre una specie di
cooperazione fra il messaggio di Nichiren e il trono imperiale, il
Tennō. La scuola si chiama Nichirenshugi, ‛l'esser seguaci
di Nichiren ; l'aspetto messianico della setta è comune ad un'altra:
il Nihonzan Myōhonji Daisanga; quest'ultima fu incline, fin dal
principio, ad un apostolato che ne diffuse la predicazione e
l'attività anche fuori del Giappone, non soltanto nei paesi allora
controllati dal Giappone (Manciuria, Corea, Cina), ma anche in
India. Dopo la fine della guerra, essa abbandonò il carattere
combattivo e si trasformò in una corrente pacifista, che predica
l'amore e la concordia fra tutte le genti. Nella ‛pagoda della pace'
essa raccoglie i propri fedeli per la recitazione del nome dell'Hokkekyō
(Saddharmapuṇḍarīka).
Un altro movimento notevolmente importante è il Risshō
Kōseikai ufficialmente fondato nel 1948 da
Niwano Nikkyō e da una donna, Nagamuna Myōkō. Anche questa scuola
prende le mosse dall'Hokkekyō e nei suoi inizi non
fu esente da contaminazioni con superstizioni e magie sempre vive
nel popolo, ma pose in primo piano la liberazione dal dolore, quale
esso sia e anche dall'indigenza, come presupposto necessario per
conseguire una umana perfezione. L'Hokkekyo resta
l'ispirazione iniziale, ma in quanto vi si rivela la verità eterna
di cui Śākyamuni è stato l'apostolo, perché quella verità eterna si
era incorporata in lui. Nel loro tempio principale si trova una
grande immagine del Buddha, quale simbolo della verità che Śākyamuni
ha reso manifesta agli uomini.
La setta rappresenta un tentativo di tornare al buddhismo originario
mediante la rivelazione mahāyānica. Con ciò lo si sfronda di ogni
mito e lo si interpreta come una dottrina etica e sociale: il nirvāṇa
non è una situazione extraumana indefinita e indefinibile, ma
come un'armonia che congiunge in sincerità e amore tutte le
creature, solidali in una pace universale, mediante l'annullamento
di ogni egoismo, e la conquista di una libertà che è abbandono al
supremo essere. Questo essere è il ‛vuoto', lo ‛sūnya'
del Mahāyāna, la grande vita e sorgente dell'Universo, si chiami
esso Dio o Buddha. Non si può parlare di un culto vero e proprio: i
seguaci si raccolgono a discutere insieme sui principi della scuola,
su problemi etico-religiosi, ascoltano discorsi sugli stessi
argomenti, praticano una specie di confessione pubblica, riconoscono
l'unità essenziale di tutte le religioni, tolleranti verso tutte le
fedi; il culto dei morti, così importante in Giappone, consiste
soprattutto nei ricordarli e onorarli due volte al giorno, spesso
raccogliendosi in silenzio per due minuti; è un movimento anch'esso
pacifista che tuttavia insiste sulla separazione fra religione e
politica.
Anche la scuola Reiyūkai (fondata
ufficialmente nel 1925 e il cui primo presidente fu una donna) si
ispira all'Hokkekyo; essa richiede ai fedeli una vita buona
al servizio della società. È una corrente che tollera, anzi
favorisce, culti popolari, è largamente influenzata dalla tradizione
magico-religiosa e celebra riti di origine shintō, religione con la
quale è più di ogni altra scuola buddhista in stretto rapporto.
Nonostante la sua derivazione dalla setta di Nichiren e l'importanza
soterica riconosciuta all'Hokkekyō; il bodhisattva
cui è particolarmente devota è Miroku (Maitreya). È dunque
una corrente di chiare tendenze popolari, che tuttavia inculca nei
seguaci l'amore del prossimo, svolge attività sociali secondo
l'indirizzo che prevale ormai in quasi tutte le scuole giapponesi,
non escluso neppure lo Shingon; questa è la setta più esoterica,
nella quale si compiono ancora, secondo una tradizione secolare,
liturgie e riti complicati, e si fa uso dei maṇḍala
(psico-cosmogrammi con figure di divinità o lettere) com'è
consuetudine in tutte le scuole tantriche o gnostiche, che appunto
lo Shingon rappresenta in Giappone.
Una derivazione dello Shingon è la scuola Gedatsukai che
pone al centro della sua dottrina la liberazione non più, al modo
del buddhismo antico, dal ciclo delle nascite e delle morti, ma la
liberazione da tutto ciò che è male, penoso, la soppressione di ogni
preoccupazione o di ogni causa che di questa possa esser l'origine.
Ciò allo scopo di attuare un bene comune, uno stato di serenità, di
purezza d'animo, un paradiso sulla terra, una realizzazione di
quelle ricchezze spirituali che si trasformano in felicità propria e
di tutti.
Come si vede nel buddhismo giapponese si riscontra anzitutto la
grande vitalità della scuola di Nichiren, la quale, pur
ramificandosi in vario modo, resta l'ispiratrice di molte delle
correnti o scuole nuove, anche se nei particolari queste se ne
allontanino ; il testo fondamentale che le accomuna è l'Hokkekyō
(Saddharmapuṇḍarīka),
un libro che non ha avuto in India, per quanto sappiamo, la stessa
fortuna che ha goduto in Asia centrale, in Cina ed in Giappone;
insieme con esso si ricorre a libriccini brevi che celebrano Amitābha
(A mi t'o fu, Amida), il Buddha che regna nel paradiso
d'Occidente, la Sukhāvatī. È un
buddhismo semplificato, liberato dalle strutture dialettiche e
teologiche e dalle complicazioni esoteriche: la fede intensa e
sincera basta da sola a vincere la ferrea legge del karma e
ad annullarla. Questo buddhismo è per le masse, ispira la fiducia
che la devozione o la semplice invocazione del Buddha Amitābha
e del titolo dell'Hokkekyō - che riassume la
quintessenza dell'insegnamento supremo del buddhismo - possano
operare il miracolo della salvazione, non più del singolo ma di
tutti; un umanesimo che ha convogliato in sé le aspirazioni dei
tempi moderni e le ha fatte proprie fino ad inserirsi nella lotta
politica. Insomma, sia pure inconsapevolmente, tutto ciò sembra
instillare quasi un senso messianico nel buddhismo nipponico, il
quale può anche fornire una giustificazione ideale a quel fervore di
attività di cui il Giappone offre un innegabile esempio.
Ma questo ideale umanistico di cui le scuole giapponesi sono
ispirate è attuabile? Esse difficilmente possono promuovere un
movimento ecumenico perché troppo legate alle tradizioni di un paese
o addirittura ad un libro come l'Hokkekyō o al
convincimento che la sola invocazione del suo titolo possa
trasformare, dal fondo, lo spirito, le tendenze, le aspirazioni di
tutti i popoli. Questo sarà possibile dove siffatti ideali si sono
realmente espressi nella vita di una nazione: ma come pensare che,
restando sempre nel buddhismo, i Theravadin traggano la stessa
ispirazione soterica dall'Hokkekyō o credano nel
paradiso di Amida?
p) Lo Zen
Ben diverso è il caso di un'altra scuola che del resto è la più
conosciuta in Occidente, lo Zen. Questa fu introdotta in Giappone
dalla Cina dove fu chiamata Ch'an e ad una originaria ispirazione
indiana sovrappone notevoli influssi del pensiero cinese
specialmente taoista.
Lo Zen esprime forse meglio di altre correnti quella che si potrebbe
chiamare la quintessenza del pensiero mahāyanico reinterpretato
dalla speculazione e dalla mistica cinese e giapponese; per dirlo
con le parole di Shenkei Shibayama lo Zen è ‟una specie di mistica
esperienza personale che non può essere conseguita pensando secondo
la nostra comune ragione dualistica, ma è affermata intuitivamente
da quel potere spirituale unitario che esiste nel profondo della
natura umana". Esso rappresenta un'opposizione alle inibizioni e
repressioni non soltanto imposte da una società molto formale e
normativa, ma alle stesse complicazioni che avevano avviluppato il
pensiero e la prassi buddhistica: è insomma un tentativo di
superamento della tensione, o meglio conflitto, fra due componenti
che coesistono, contraddicendosi, nell'esperienza umana: il finito e
l'infinito. Lo Zen è in altre parole un'evasione, un esistenzialismo
asiatico che prende le mosse da una tradizione millenaria di
pensiero e di mistica, che ha tuttavia in sé un valore universale:
ciò spiega appunto l'interesse che ha suscitato in Occidente e anche
il successo che riscuote specialmente nelle giovani generazioni: non
a caso J. Kerouac e molti altri scrittori si proclamano seguaci
dello Zen, sebbene cotesto loro Zen abbia ben poco a che vedere con
quello dei monaci nipponici o la laboriosa meditazione e la
disciplina della loro vita. In Giappone (e fuori del Giappone)
esistono molte comunità e gruppi Zen, frequentati da giovani i
quali, senza votarsi alla vita monacale, traggono dalla
concentrazione mentale Zen un beneficio psichico e spirituale: uno
di questi centri è il Sanzen Club presso l'Università Komazawa.
Questa corrente riconduce lo Zen allo stesso Śākyamuni, non nega il
valore delle scuole disciplinari (Ritsushū) né di
quelle che si incentrano in alcuni testi dottrinali (Kyōshū),
ma considera lo Zen come una sintesi capace di esprimere e
facilitare una resistenza morale ed utili adattamenti del buddhismo
alle nuove aspirazioni della società.
4. Il buddhismo in Occidente
In Occidente il nome del Buddha compare per la prima volta in
Clemente di Alessandria; nel Medioevo l'eco della sua vita giunge
traverso una mediazione iranica nella leggenda di Barlaam e Joasaph
di Giovanni di Damasco; in Joasaph è facile riconoscere la
corruzione di ‛Bodhisattva'; cotesta leggenda ebbe molta fortuna e
circolò in molte lingue.
In seguito, Marco Polo, a Ceylon, raccoglie notizie sul Buddha e
conclude che se fosse stato cristiano ‟sarebbe divenuto un gran
santo". Poi le informazioni sul buddhismo sono fornite dai
missionari, di solito poco favorevoli; la liturgia lamaista è da
essi considerata una demoniaca parodia di quella cattolica: l'unica
eccezione è il gesuita Ippolito Desideri di Pistoia che mostra molto
e imparziale interesse per il buddhismo tibetano e ne traduce la
grande Summa, il Lam rim c'en mo di Tsongkhapa,
poi confutandolo. Perciò il giudizio di Voltaire, basato sulle Lettere
dei missionari, non può essere che negativo o inadeguato. Lo
stesso può dirsi di Hegel il quale ignorando i valori etici della
dottrina predicata dal Buddha afferma che ‟il Buddha propone il
disprezzo dell'uomo", mentre, come si è detto, è proprio il
contrario, e peggio ancora scrive che ‟un uomo sia considerato Dio è
una concezione delle più ripugnanti". Schopenhauer più accorto, a
differenza del Renan, si accorge che il nirvāṇa
non è il nulla, ma l'opposto del saṃsāra,
il giro delle nascite e delle morti, il quale è privo di ogni
carattere che possa servire alla definizione del nirvāṇa
stesso, ma a torto considera buddhismo e cristianesimo come
religioni affini per il loro fondamentale pessimismo.
Per quanto concerne una prima conoscenza scientifica del buddhismo,
l'Inghilterra con l'Hodgson, residente inglese nel Nepal, contribuì
a fornirne le prime valide conoscenze nei riguardi del Mahāyāna,
come si praticava nel Nepal.
Alexander Csoma de Körös si recò nel Tibet (1823) mosso dalla
convinzione di trovare colà le origini del popolo ungherese; egli
non poté entrare nel Tibet vero e proprio, ma visse a lungo nel
Ladakh, nello Zanskar e soprattutto nell'alta valle della Sutlej
(Kanam), dove studiò a fondo il canone tibetano, esplorò e fece un
riassunto della letteratura religiosa del Tibet, compose un
dizionario e contribuì insieme con gli altri ricercatori, che
lavoravano su fonti cinesi o indiane, a diffondere una più adeguata
conoscenza del pensiero lamaista.
Le lezioni di E. Burnouf al College de France e la sua Introduction
a l'histoire du buddhisme indien (1844) rivelavano un nuovo
mondo spirituale; il Michelet vi trovò la predicazione di una
dottrina parallela alla cristiana e si felicitò che la ‟scienza
occidentale fosse di nuovo rischia- rata dal sole dell'India".
E. Arnold in Light of Asia (1879), con il fascino della
sua poesia suscitò un vasto interesse nel pubblico colto non
soltanto di Europa, e favorì indirettamente l'urgenza della ricerca
metodica; tale fu quella intrapresa da T. W. Rhys Davids che, come
funzionario inglese a Ceylon, aveva intrapreso lo studio
approfondito del buddhismo Theravāda e del canone pālico (il suo
libro sul buddhismo fu pubblicato nel 1878). Nel 1881 fu fondata la
Pali Texts Society. L'opera di Rhys Davids fu continuata dalla
moglie, C.A.F. Rhys Davids, la quale dette nuovo impulso alla
società stessa e diresse oltre alla pubblicazione dei testi anche
quella di alcune traduzioni. La Pali Texts Society, che ancora
continua; è un centro al quale i migliori studiosi di buddhismo
Theravāda e conoscitori del pāli di tutto il mondo occidentale e
orientale cooperano; speciale ricordo deve farsi del libro
dell'Oldenberg sulla vita del Buddha, tuttora valido.
A poco a poco la buddhologia diventa una scienza; i pensatori o gli
storici delle religioni non possono ignorarla. Nietzsche chiama
Zarathustra un ‟risvegliato", ma poi, dopo l'intuizione che gli
balenò ‟dell'eterno ritorno", preferisce alla liberazione dalla
reincarnazione la sua nuova scoperta; l'ideale dunque non è più il nirvāṇa,
ma il riverificarsi delle stesse situazioni nello stesso luogo e nel
medesimo modo in una specie di saṃsāra,
ma sottratto all'imprevedibile effetto del karma. Tuttavia
la rinuncia al nirvāṇa rappresenta
l'essenza stessa del Bodhisattva; il Superuomo nietzschiano ha molti
punti in comune con il Bodhisattva: soprattutto la sua libertà e la
sua indipendenza da quale che sia ingiunzione esterna, la negazione
di ogni norma religiosa e sociale perché egli ha attuato in sé
l'ideale della suprema perfezione. Lo studio del buddhismo si
diffonde; dallo studio si passa alla conversione; l'inglese Bennett
(1872-1923) prende i voti e assume il nome di Ananda Metteya, il
tedesco A. Gueth (1878-1957) va a Ceylon, viene iniziato alla vita
monacale assumendo il nome di Nyānatiloka, e diventa uno dei massimi
interpreti della filosofia del buddhismo ceylonese; il suo esempio è
seguito da altri (Nyānaponika); nel 1891 si apre a Calcutta la
Mahābodhi Society che nel 1950 si allarga nella World Federation of
Buddhists (W.F.B.). La primitiva Buddhist Society of Great Britain
and Ireland (fondata nel 1907) nel 1924 si trasforma nella Buddhist
Society e quindi nella Loggia Buddhistica. A quest'opera di
diffusione del buddhismo ha dato grande impulso Ch. Humphreys, il
quale ha allargato i suoi interessi, perché non si limita soltanto
al Theravāda, ma si occupa anche del buddhismo Mahāyanico e
ultimamente ha volto la propria attenzione anche allo Zen.
I centri buddhistici si moltiplicano in Europa. K. E. Neumann in
Austria intraprende la traduzione delle opere buddhistiche del
canone ceylonese, seguito in Italia dal De Lorenzo che si converte
al buddhismo e lascia, poco prima di morire, il testamento della
propria fede. Anche il cristianesimo ha cambiato il suo
atteggiamento nei riguardi del buddhismo; il padre Guardini pone il
Buddha fra le massime figure religiose, anche se in molti punti le
due religioni divergono. Nel medesimo tempo i buddhisti orientali
rinnovano l'apostolato dei tempi antichi: il promotore ne fu il già
ricordato Dharmapāla. T'ai-hsü propone il buddhismo come il
messaggio della fratellanza umana.
Nyānatiloka partecipò al Sesto concilio buddhistico che ebbe luogo a
Rangoon nel 1956-1957 (2.5000 anniversario del nirvāṇa
del Buddha) e affermò la necessità di una nuova edizione
critica del canone palico e di accurate traduzioni; morì durante il
congresso, ma il suo scolaro Nyānaponika, anch'egli tedesco,
divenuto monaco a Ceylon è autore di molte traduzioni e libri di
grande valore per la comprensione del pensiero buddhistico. A questo
indirizzo, prevalentemente volto allo studio del Theravāda, si
accompagna ora anche un intenso interesse per lo Zen, interesse al
quale diede inizio R. Otto. Questi recatosi in Oriente pubblicò nel
1923 un saggio sulla meditazione zazen e ne trasse motivo
per chiarire il suo concetto dell'irrazionalità o paradossalità
della mistica.
Il divulgatore infaticabile dello Zen fu tuttavia D. T. Suzuki che
espose il valore spirituale dello Zen e soprattutto del satori,
cioè del risveglio subitaneo esploso improvvisamente da un paradosso
(kōan); ma egli ha troppo insistito sulla
scuola subitista (Rinzai) e trascurato altre come quella Soto che si
incentra sul zazen, una meditazione progressiva o
piuttosto un'introspezione graduale, la quale rivela al meditante la
realtà essenziale di sé e del tutto; lo Zen è non soltanto vita
contemplativa ma anche di lavoro, quasi al modo dei monaci
benedettini.
La prima società buddhistica si costituì in Germania nel 1903 dove
venne pubblicata anche una rivista. La Buddhistische Haus in Frohnau
fu fondata nel 1924 da P. Dalke, non soltanto per lo studio ma anche
per la meditazione, mentre già esisteva una Buddhistische Gemeinde
für Deutschland sorta per opera e sotto l'auspicio di K.
Seidenstücker e Grimm. Sospesa l'attività durante il periodo
nazista, nel 1952 ebbe origine una Società buddhistica tedesca con
sede principale a Stuttgart, la quale raccolse i seguaci delle
diverse scuole senza più attenersi unicamente al Theravāda. La
corrente mahāyānica, specialmente quella di tradizione tibetana, si
espresse nell'Ārya Maitreya Maṇḍala fondata da E. L. Hoffmann che,
presi i voti, assunse il nome di Anāgārika Govinda e passò molto
tempo in India nella regione himalayana e anche nel Ladakh. Egli è
il maestro (ācārya) di questo
gruppo che rappresenta la più avanzata delle correnti mahāyāniche
cui si contrappongono gruppi di origine giapponese della scuola Jōdo
Shin-shū.
I Tibetani che sono fuggiti dal Tibet non soltanto hanno trovato
rifugio in India e nel Nepal, ma molti di essi sono stati accolti in
paesi europei. Ve ne sono in Germania, in Inghilterra e in America;
la più numerosa colonia è forse quella che si trova a Rikon presso
Zurigo dove è stato costruito anche un tempio con lama della scuola
dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa) i quali regolarmente vi compiono i
propri riti. Una Vajrabodhi Society prospera in America
(Bloomington, Ind.) e pubblica un suo bollettino (‟The Tibet Society
bulletin").
5. Il buddhismo in America
Il paese nel quale il buddhismo si è maggiormente diffuso e prima
che altrove è l'America. Fin dal secolo passato Giapponesi e Cinesi
immigrarono in California e colà eressero i loro templi ed
esercitarono il proprio culto; quando l'immigrazione fu proibita,
cotesta immigrazione si spostò verso le Hawaii, dove essa continuò e
da dove, in seguito, poté liberamente riprendere il proprio cammino
verso l'America; missionari e propagandisti giapponesi si trovano
nelle Hawaii fin dagli ultimi anni del sec. XIX, e organizzano
centri notevoli con templi, scuole, istituti. Tutto ciò spiega come
le principali scuole giapponesi siano rappresentate in America,
soprattutto lo Zen nelle sue ramificazioni: Rinzai e Sōtō, quella
Shingon, altre del Honganji, quella di Nichiren (1222-1282) e quella
della ‛Terra pura', Jōdo (incentrata nel culto di Amida). Tale
inserimento delle comunità buddhistiche nella società americana e i
matrimoni misti hanno prodotto notevoli mutamenti se non nelle
strutture, ravvivate dalle frequenti visite di monaci dal Giappone,
per lo meno nella liturgia che non è stata del tutto esente, almeno
nell'aspetto esteriore, da contaminazioni con il culto cristiano. Né
i missionari erano tutti giapponesi; il già ricordato Dharmapāla
partecipò al Parlamento delle religioni che ebbe luogo nel 1893 a
Chicago; il suo intervento suscitò molto interesse, proprio mentre
dall'Europa penetravano le prime opere divulgative e scientifiche
del buddhismo; quindi ai templi buddhisti già esistenti in America
si aggiunse anche una sede della Mahābodhi Society; poi sorsero
molte associazioni buddhistiche: The American Buddhist Academy, The
American Buddhist Association a Chicago, a Berkeley, a New York, a
Cambridge (Mass.). A queste associazioni, cui parteciparono i
simpatizzanti del buddhismo, fa riscontro il grande interesse per
uno studio scientifico del buddhismo, cui, in questi ultimi anni,
hanno contribuito notevolmente le ricerche favorite e intraprese in
molte università.
Inoltre esiste in America, fondata di recente, una Società del
Vajrayāna, nella quale tutte le principali scuole di questo
indirizzo sono ammesse. Vi insegnano la tecnica della meditazione e
spiegano i testi alcuni monaci venuti da Hong Kong. Gli adepti
europei prendono nomi cinesi.
Anche il Sāka Gakkai ha ramificazioni a Los Angeles, San Francisco,
Hawaii, Hong Kong, nel Sudamerica, nelle Filippine, pubblica
giornali a Los Angeles e a Okinawa e diffonde la propria dottrina in
varie altre parti del mondo.
Dunque il buddhismo sembra incline a intraprendere un nuovo
apostolato che svolge con scritti, periodici e missioni, venendo
incontro alla curiosità o al desiderio di molti Occidentali di
sperimentare nuove forme spirituali e religiose.
6. Crisi interne nel buddhismo
Tuttavia anche il buddhismo si trova in crisi; questa crisi è stata
determinata da molti fattori: l'ultima guerra che ha sconvolto l'Est
e il Sud-Est asiatico, gli attuali avvenimenti nell'Indocina, il
celere contatto con il pensiero occidentale, l'invasione della
tecnica, lo sconvolgimento delle comunità rurali, l'attività
riformatrice e combattiva delle nuove generazioni, il prevalere
degli interessi economici, la tendenza al rinnovamento che agita
dovunque gli ordinamenti sociali e politici e scuote le tradizioni
antiche, siano esse culturali o religiose. Tuttavia, e ciò accade
soprattutto in Giappone, si riscontra una presa di coscienza
buddhistica più sana, meno legata al passato, incline a rinnovamenti
i quali sembrano indicare una reviviscenza del buddhismo. A ciò si
aggiunga la critica cui le varie correnti buddhistiche sono
sottoposte dagli stessi credenti: tutto il passato viene riesaminato
e discusso.
Le nuove generazioni, guidate da un'élite di
intellettuali, ritornano al buddhismo antico, agli insegnamenti del
Buddha, nella loro essenzialità morale, privati delle sovrastrutture
determinate dall'espansione in paesi di varia cultura, e dalle
vicende storiche. Non può negarsi infatti che in certe sue forme,
come le mahāyāniche, il buddhismo si presenta con un pantheon
immenso, con immagini di dei che appaiono assurde: molte teste,
molte braccia, aspetti terrificanti; queste divinità polimorfe hanno
sopraffatto l'immagine serena del Buddha meditante, gli occhi volti
non all'esterno, ma all'interno per esplorare i misteri dello
spirito. Naturalmente quelle immagini, che si moltiplicano
all'infinito nei templi mahāyānici, hanno un significato soltanto
per chi le sa intendere; nella maggior parte sono simboli, o meglio
ancora sintesi figurate di libri esoterici, intesi a facilitare,
quando se ne intenda il senso, la pronta liberazione e un sollecito
conseguimento del nirvāṇa.
Alla mente occidentale, le complicazioni rituali e yoga che essi
presuppongono e che negli iniziati aiutano un processo psico-fisico
che ci solleva dallo spazio-tempo, in cui siamo, al piano che è
fuori dello spazio-tempo, restano incomprensibili. Ciò spiega la
repulsione che molti viaggiatori hanno provato visitando i templi
lamaisti del Tibet, della Mongolia, della Cina e anche le gallerie
delle immagini sacre che si ammirano in molti santuari giapponesi
appartenenti alle medesime scuole mahāyāniche o gnostiche; per non
dire delle immagini accoppiate, maschio-femmina, così comuni nelle
scuole esoteriche, il cui significato altissimo anticipa alcune
conquiste della moderna psicanalisi; si può rimproverare agli
ideatori di tali raffigurazioni l'esser ricorsi ad una simbologia
erotica per esprimere concetti che con l'erotismo non hanno nulla a
che fare, perché quell'accoppiamento vuoi dire tutt'altra cosa;
infatti il significato di siffatta iconografia è proprio quello di
riconoscere che la libido, come l'intelligenza o la
necessità dell'azione, insite in noi, può altresì essere, mediante
l'analisi contemplativa, non già repressa - cosa che costituirebbe
un maggior pericolo - ma trasfigurata, volta a un transfert,
a una sublimazione che ci liberi dal nostro esser qui, e può agire
come forza soterica per ritornare all'Essere, Coscienza pura,
essenziale, nella quale si estingue ogni individualità.
7. Il buddhismo e l'arte contemporanea
L'arte moderna contemporanea buddhista segue generalmente gli schemi
tradizionali, anche se si possono citare esempi di influenze
occidentali, soprattutto in Giappone; ma, mentre l'architettura
degli edifici pubblici segue sempre più apertamente i modelli
europei ed americani, quella religiosa non si è discostata dagli
schemi usuali (Higashi Honganji, circa 1895). Nei riguardi della
pittura il discorso è diverso. Fino all'epoca Meiji (1868) i
Giapponesi seguirono i modelli ispirati generalmente dalla Cina,
preferendo in modo particolare il paesaggio; le rappresentazioni
delle deità buddhistiche contenute negli schemi iconografici
tradizionali, specialmente quelle a colori, non subirono mutamenti
notevoli; in seguito, i contatti con il mondo occidentale, la
presenza di pittori, anche italiani, come il Fontanesi, additarono
nuove vie e si determinò pertanto un grande interesse per la maniera
di dipingere europea. A questa tendenza si opposero O. Tenshin
(1862-1913) e Y. Taikan che fondarono musei per raccogliere i tesori
nazionali d'arte, nel timore che l'attrazione esercitata dalla nuova
moda facesse perdere il gusto per la tradizione antica. Segue il
loro esempio S. Kanzan (1873-1916).
I soggetti che essi trattano sono soprattutto i paesaggi
tradizionali, ma non trascurano temi religiosi; merita di essere
ricordato lo Hibo Kannon (Kuan yin, Kannon,
Avalokiteśvara, il dio della compassione) di K. Hōgai (1828-1880);
T. Tessai (1836-1924) dipinge un gruppo di santi buddhisti (arhant)
intenti a giocare in una grotta, e una Kannon meditante nel Potala,
ma si ispira anche a motivi Zen: per esempio, il Dialogo fra
saggi (un monaco che si addormenta su una statua di Buddha e
quando è risvegliato da un suo compagno scoppia a ridere insieme con
lui). Ma la grande tradizione pittorica Zen è in realtà finita con
G. Sengai (1750-1837).
K. Okakura, recatosi in India, contribuì al risveglio degli antichi
modi di dipingere, cercando di sottrarre l'arte a quell'accademismo
convenzionale che ripeteva sempre lo stesso linguaggio; egli
esercitò, in Calcutta, una notevole influenza sulla nuova scuola, la
bengalica, che ebbe i suoi maggiori interpreti nella famiglia di
Tagore (Abanindranath Tagore) e dominò nella Kalābhāvanā di
Shantiniketan, ove per molti anni operò Nandalal Bose. Naturalmente
i soggetti rappresentati erano soprattutto indù, ma non mancò un
ritorno ad ispirazioni buddhistiche che si erano fatte varco in seno
all'induismo.
Quest'arte è un ritorno alle tradizioni classiche dell'India e
specialmente delle grandi composizioni di Ajaṇṭā. Essa va di pari
passo con il formarsi della nuova coscienza politica, che doveva
condurre lentamente all'indipendenza, ed esprime la consapevolezza
che anche nell'arte l'India può ritrovare una spiritualità che la
distingua dall'Occidente. Non a torto forse alcuni critici
affermarono che Abanindranath Tagore rappresenta per l'arte ciò che
Gandhi fu nella politica. Per causa dei facili contatti con la Cina
e il Giappone, per l'influsso di Okakura e l'istigazione di un
professore d'arte inglese, che ebbe il merito di rivelare agli
stessi Indiani il valore universale delle tradizioni artistiche
dell'India in particolare e dell'Oriente in generale (Havell), al
risorgere dell'interesse per l'arte antica si accompagna la tendenza
allo studio delle correnti artistiche cinesi e giapponesi. In questa
prospettiva si colloca il Buddha e Suiatā di
Abanindranath Tagore, certamente superiore per il contenuto
spirituale all'Adorazione della moglie di Aśoka
all'albero della bodhi. Piuttosto oleografica e inespressiva
è la Predicazione del Buddha ai suoi discepoli di
Venkatappa dell'India meridionale, ma ha spicco la Naṭir
pūjā, L'adorazione della
danzatrice, ispirata da un dramma di Rabindranath Tagore, di
Nandalai Bose. La staticità delle figure è compensata dai felici
raggruppamenti, dalla lieve, quasi timida sinuosità delle linee e da
un senso della composizione, che diventa quasi un immobilità
fotografica nella scena dei Piaceri del Buddha prima della
rinuncia di Venkata Rao.
L'arte del Roerich, che si ispira, in maniera imaginifica, al
paesaggio tibetano e suggerisce con felice accostamento di colori
l'immensità silenziosa dei pianori e delle solitudini tibetane,
trovò un seguace in Karwal Krishna in certe sue composizioni che
riproducono in allusioni fantastiche il groviglio dei monasteri
tibetani.
Gran rilievo occorre dare a G. Keyt, un tormentato pittore di
Ceylon, a conoscenza delle vicende coeve dell'arte europea, che
sembra trovare la tranquillità serena negli affreschi per il centro
buddhistico di Borella vicino a Colombo (1940); il soggetto stesso
sembra avergli indotto una pace e una serenità che mancavano nelle
sue prime opere.
8. Meditazione e psicanalisi
D'altro lato non difettano aspetti del buddhismo che particolarmente
attraggono l'attenzione dell'Occidente: la tendenza
all'introspezione, la propensione (che si ritrova anche
nell'induismo) a un esame del profondo, a indagare le sopite
tensioni del subconscio, ad accettare come un fatto indiscutibile
che l'uomo è non soltanto ragione ma anche emozione, l'una e l'altra
in equilibrio instabile, ma capace di essere ristabilito mediante il
meccanismo di una tecnica meditativa molto complessa. Il buddhismo
che, per esempio, ha anticipato di secoli la teoria freudiana del
‛complesso di Edipo'; offre un campo nuovo di ricerche alla
psicanalisi, a un introspezione la quale ha il grande vantaggio che,
mentre lo psicanalista occidentale indaga su un oggetto, il
paziente, che gli è estraneo, è fuori di lui, nella meditazione
buddhistica è il soggetto che esamina se stesso, scruta nel profondo
le forze ivi dormienti e le ridesta, inserendole nell'unità dell'io,
fino a dilatare il suo intelletto in uno stato di paracoscienza la
quale trascende ogni dicotomia di io e mio, soggetto e oggetto.
Questo risulta chiaro dalla letteratura sempre maggiore e più
impegnativa che studia il buddhismo, non filologicamente, ma come
ispirazione o suggerimento a nuove ricerche sulla psiche umana. La
meditazione che esso prescrive e descrive è un'autoconquista.
Lo Jung ha intuito il grande valore che sotto questo punto di vista
hanno i maṇḍala. Si può dire
che il suo libro sul maṇḍala, Il
segreto del fiore d'oro, è essenziale per la comprensione dei
diagrammi mandalici che rappresentano per mezzo di simboli, lettere
o figure di divinità, l'espandersi dal
centro=luce=illuminazione=Essere, dell'universo e dell'uomo,
macrocosmo microcosmo e quindi il ritorno o il riassorbimento in
quel principio-luce-illuminazione, mediante l'esperienza dello
spazio-tempo; e l'Uno, luce, illuminazione, Essere è al centro del maṇḍala,
rappresentato sotto forma di un dio o di una sillaba: ciò perché
l'uomo ha bisogno di un'immagine o di un simbolo come sostegno alla
meditazione che lo condurrà alla reintegrazione. Lo stesso può dirsi
nei riguardi della meditazione Zen che è stata oggetto da parte
dello stesso Jung di sottili analisi, le quali presentano soluzioni
diverse a mano a mano che egli approfondisce le sue indagini (Guérison
psychologique, Genève 1953). Alla meditazione buddhistica,
che affonda le proprie radici nell'esperienza yoga dell'India, ma
anche se ne distacca per la sua struttura e forma, l'Occidente è
oggi particolarmente interessato, anche al di fuori della cerchia
degli specialisti.
Ciò non vuol dire però che a questa attrazione corrisponda sempre
una profondità di intenzioni e una serietà di intenti e una costanza
nella pratica. La meditazione orientale, specialmente quella
buddhistica, anzitutto non è unitaria nella sua forma e nei suoi
propositi. Essa si presenta in due aspetti distinti, tuttavia
complementari: anzitutto un modo analitico: cioè un'introspezione la
quale indaga i vari processi del nostro pensiero, e così
analizzandoli li svuota, li cancella, ne dimostra la relatività e
quindi la precarietà; non è nel pensare che noi possiamo trovare la
nostra segreta identità: l'analisi insomma e l'introspezione servono
ad eliminare il pensiero medesimo nelle sue dicotomie; la mente è
ricettività di quanto le giunge dal di fuori o in se stessa
immagina; le cose sono fantasmi del nostro pensiero, ma questo non è
il nostro essere; il quale è piuttosto una vacuità non pensante,
immota, ma nel contempo un'inesauribile possibilità di pensieri, che
tuttavia esprimendosi diventa altro da sé, diventa soggetto ed
oggetto. La recuperata sintesi di conscio e di inconscio (che i
buddhisti del Mahāyāna chiamano śamatha) è uno
stato di assoluta lucentezza, l'illuminazione primordiale: non può
dirsi un'estasi, né un immersione o sprofondamento nell'inconscio.
La meditazione è un'acquisizione durevole e costruttiva, un
espandersi luminoso della nostra conoscenza, una para-conoscenza la
quale è visione intera, l'illuminazione del Bodhisattva che è
arrivato alla decima ‛terra' ed è diventato Buddha.
La meditazione, come disse U. Thittila nel 1962, ha il compito di
far emergere dall'oscurità ciò che giace nel meccanismo del profondo
e induce gli uomini a trovare in essa un elemento di vivente ed
armonica solidarietà; essa è un fattore positivo, capace di
infrangere le consuetudini vuote di senso e di efficacia morale,
perché addormentate in una tradizione incapace di rinnovarsi, un
processo di autopurificazione, tentativo, mediante il modo di vita,
l'introspezione e la concentrazione, di dar forma ad un restaurato
equilibrio fra ragione ed emozioni, una tendenza a servirsi di nuovi
simboli contro il ritualismo.
9. Gli Occidentali e la meditazione buddhistica
Gli Occidentali, che cominciano ad occuparsi di siffatti problemi,
ne studiano le tecniche; ma queste diventano comprensibili se sono
direttamente sperimentate. Le varie associazioni buddhistiche di
ispirazione tantrica o Zen oggi di moda richiamano o raccolgono
molti discepoli; ma qui si incontrano due difficoltà: da una parte
non sempre l'allievo è capace della costanza che questi esercizi
richiedono, o meglio, raramente si tratta di discepoli i quali
abbiano una vocazione sincera. Bisogna tener conto della curiosità
che induce alcuni a frequentare tali centri; né può trascurarsi il
cumulo di esperienze, completamente diverse, che costituiscono
un'eredità inconsapevole, come l'appartenenza a tradizioni
religiose, spirituali e culturali distinte, in essi latenti. Perciò
si corre il rischio di pericolosi scontri fra due personalità
diverse, l'una innata, l'altra avventizia o sovrapposta, oppure di
sperimentare coteste tecniche, non certo facili, senza costanza o
una seria volontà di approfondimento. Ne derivano approssimazioni
superficiali e anche pericolose. Come che sia tutto ciò è l'effetto
di una vaga consapevolezza che alcuni valori tradizionali
dell'Occidente non sembrano rispondere alle esigenze delle nuove
generazioni, che cercano altrove ispirazione o consiglio.
L'esempio più evidente lo si riscontra nella fortuna che hanno lo
Zen e con esso anche altre scuole buddhistiche, i cui problemi o le
cui tesi sono entrati nella cultura moderna, non più come argomento
di indagine teorica, ma come possibilità di rinnovamento spirituale.
Naturalmente fra le due scuole Zen, quella Rinzai e quella Sōtō,
l'ultima ha maggiori possibilità di diffusione, sebbene l'altra sia
apparentemente più facile ma anche rischiosa; il paradosso del kōan
può restare mero paradosso, stranezza ambigua, essere insomma
frainteso da chi non rispetti scrupolosamente la disciplina morale e
mentale che lo Zen richiede ed impone. Ad ogni modo è innegabile che
il buddhismo non è più soltanto una vicenda religiosa, il cui studio
è riservato a pochi specialisti, ma si presenta come una
problematica nuova che riscuote larghi consensi. Il suo relativismo,
già formulato da Nāgārjuna nel III sec. d.C. e che anticipa Bradley,
non è in contrasto con le conquiste scientifiche e matematiche.
U. Thittila nel 1961, in occasione dell'inaugurazione della World
Peace Pagoda, pone l'accento sulla necessità che i giovani studino
scienze politiche e matematiche. Secondo Ch. Hartshorne il buddhismo
e la scienza sono probabilmente i due più validi strumenti di
autocorrezione nel mondo moderno.
Partendo dalla teoria postulata dal Buddha che tutto ciò che esiste
in noi o fuori di noi, nella natura o nel complesso psicofisico, si
riduce a punti istanti (dhamma, dharma),
Suriyabongse non soltanto afferma che il Buddha è stato il più
grande scienziato di tutti i tempi, ma aggiunge che il buddhismo e
la scienza pienamente concordano; più si conosce la scienza della
natura tanto meglio si conosce il buddhismo. La scienza ha
recentemente scoperto l'energia atomica e ciò concorre a dimostrare
che l'assunto del Buddha della mutazione infinita (anicca-dukkha,
anattā) è una realtà. Soprattutto poi il buddhismo
porta non tragicamente ma serenamente l'attenzione sulla presenza
della morte, che il mondo moderno, pur sfidandola, sembra ignorare,
e quindi s'accorda con il pensiero di Heidegger.
10. Crisi e prospettive del buddhismo
contemporaneo
Il crescente interesse per il buddhismo nel mondo occidentale è
dunque il riflesso della crisi spirituale da cui questo ultimo è
sconvolto: il buddhismo, secondo alcuni pensatori, dovrebbe non già
soddisfare la diffusa curiosità per l'esoterico, il magico o il
miracoloso, a cui esso stesso in Asia si ribella, ma reintegrare
l'armonia fra intelletto e sentimento in un'esperienza pacificatrice
e sinceramente vissuta. Ma quale buddhismo? Mahāyāna o Theravāda? Il
Theravāda è più rigido, si vanta di conservare integro
l'insegnamento del Buddha. Tuttavia la sua scolastica non gli
impedisce di inserirsi nei moti nazionalisti e anche rivoluzionari:
ma la continuità della sua tradizione, i suoi legami con le vicende
dei singoli paesi dove ha resistito per secoli, limitano forse le
sue aspirazioni a quella universalità che giustamente è considerata
motivo essenziale della predicazione di Śākyamuni ed è stata
confermata dalla sua espansione: se non la limitano, la rendono
piuttosto teorica e meno atta ad esprimere quell'umanesimo ecumenico
che è alla base del Mahāyāna e sul quale specialmente si insiste in
Giappone. Tuttavia la tendenza a rinnovarsi l'abbiamo già
riscontrata in Sri Lanka, e la ritroviamo anche in Thailandia,
sebbene in questo paese la tradizione sia più conservatrice.
Ne è esempio Buddhadāsa il quale, pur vivendo in un eremo, si serve
persino del teatro per diffondere nelle masse la dottrina del
Buddha; egli ha raccolto una ricca biblioteca e riproduzioni o
calchi di alcuni dei monumenti o delle antiche sculture buddhiste
dell'India, e riafferma il principio della doppia verità: una verità
secondo la Legge, al di là del comune intelletto, intuibile ma non
esprimibile, ed una verità relativa, detta in parole che tutti
possono capire; le immagini, come le parole, sono un modo di rendere
accessibile ad ogni persona, anche la meno colta, la Verità che
trascende la ragione. (Ciò vale, egli sostiene, tanto per i
buddhisti quanto per i cristiani). Perciò egli ricorre al simbolo di
un circolo bianco che rappresenta il suñña, il ‛vuoto',
non perché il vuoto sia il nulla, ma perché il vuoto è al di là di
ogni dicotomia, l'assoluto reale e quindi ineffabile. Dunque anche
Buddhadāsa riconosce l'urgenza di liberare il buddhismo dalle
sovrastrutture che l'hanno modificato, e di uscire dalla cerchia dei
monasteri per recuperare il mondo dei laici: come una reviviscenza
dei tempi di Śākyamuni.
Ma basta tutto questo perché nei popoli si diffonda quel senso di
fratellanza che li dovrebbe congiungere con tutti coloro che
professano la stessa fede? I Tibetani avevano fatto una demarcazione
fra quelli che ‛stanno fuori' (p'yin pa), coloro cioè che
non conoscono la predicazione del Buddha, e coloro che ‛stanno
dentro' (nan pa), i seguaci del Buddha: divisione questa
che implicava già un'unità malgrado la varietà e molteplicità delle
scuole.
Il Mahāyāna è stato sempre più duttile del Theravāda, ma è altresì
sovraccarico di architetture metafisiche o gnostiche, difficili a
comprendere; la sua affermazione della essenziale identità della
natura umana e di quella del Buddha può indurre a vaghi
atteggiamenti mistici, e a sottovalutare o porre in secondo piano la
normativa etica del buddhismo antico; oppure a dar credito a coloro
che reputano molto facile la liberazione che esso promette. Ciò
perché alcune sue scuole propongono agevoli mezzi di redenzione;
l'invocazione, gli inni, la devozione, che possono produrre un
rovesciamento di piani, la fede nella beatitudine dei paradisi, e
quindi liturgie che introducono un evidente fervore teistico e
possono esercitare una forte attrazione sulle masse. Ma così si
corre il rischio di trasformare l'austero insegnamento di Śākyamuni
in un formalismo che male s'accorda con la sua originaria semplicità
etica.
D'altro canto in tempi nei quali si assiste allo scontro di molti
dogmatismi e di diverse ideologie, il buddhismo ha il vantaggio di
non essere dogmatico, come si constata tuttora dalla fioritura delle
diverse sette che convivono l'una a fianco dell'altra, senza ombra
di odium theologicum; ciò è l'effetto di quel principio
dell'abilità dei mezzi di predicazione (upāyakauśālyatā)
che risale ai primordi del buddhismo; molte sono le vie, perché
molti sono i modi mediante i quali gli individui possono
convertirsi, a seconda della loro diversa maturità intellettuale,
morale e spirituale. Naturalmente il presupposto inderogabile sono
il self-restraint, serenità e semplicità (Shambala
publications, Berkeley); troppo poco in apparenza, ma, di
fatto, quanto basta per trovare punti comuni oltre le divergenze
dottrinali sulle quali incombe tuttavia l'imprevisto di possibili,
libere proliferazioni.
Come che sia, il fatto più importante che si riscontra nel mondo
asiatico è la secolarizzazione del buddhismo; il potere della
comunità (Saṅgha) è in decadenza, i
giovani preferiscono le scuole laiche a quelle religiose, pur
professandosi buddhisti, le consorterie laiche stanno diffondendosi;
gli avvenimenti politici favoriscono anch'essi l'aspirazione a
liberarsi da tradizioni in parte desuete; il buddhismo si inserisce
nella vita politica, i suoi stessi principi lo rendono incline alle
riforme in senso molto vasto, ed a forme di governo di tipo
socialista, perché ne trova la giustificazione nell'insegnamento
stesso del Buddha. Nel medesimo tempo vorrebbe assumere un valore
ecumenico: Asia buddhista di fronte ad Occidente cristiano o
all'Islam, non come opposizione, ma come possibile convivenza.
Il buddhismo oggi si propone di promuovere l'unità fra i diversi
popoli asiatici, perché quello che c'è di meglio e di più creativo
nell'Asia è stato il buddhismo; è vero che il buddhismo è scomparso
dall'India e soltanto ora vi rinasce, ma è pur vero che dall'India
partì la colonizzazione culturale di molta parte del mondo asiatico;
in Giappone esso ha conformato notevolmente lo spirito e la cultura
del paese, pur subendo l'influsso dello shinta e della particolare
visione nipponica della vita; in Cina, penetrato come religione
straniera, esso ha stimolato un mirabile ardore speculativo,
alimentato dall'incontro del suo pensiero con quello puramente
cinese, fino a dar forma a sistemi filosofici e teologici (per es.
la scuola Hua-yen) di somma vitalità e originalità, e ad
ispirare alcune delle massime espressioni artistiche, dimostrando
un'adattabilità, unica nella storia, alle tradizioni culturali e
religiose dei popoli fra i quali si diffondeva. Non mancano quindi i
presupposti per una sua nuova ripresa evangelica. Già si notano
sempre più numerosi incontri fra le varie scuole nelle quali il
buddhismo si era diviso: la scissione fra Mahāyāna e il Theravāda
non è incolmabile. C'è stato già nel Vietnam il tentativo, però
fallito, dell'unificazione delle comunità al cui governo si
alternano un monaco seguace del Mahāyāna e uno del Theravāda.
Si aggiungono poi a vantaggio del buddhismo la mancanza di una
Chiesa, la libertà concessa a chi si professa buddhista di intendere
a suo piacimento le parole di Śākyamuni, salva restando
l'invalicabile validità della sua normativa morale e del suo
primitivo, elementare insegnamento: la tendenza a insistere sul
carattere scientifico della fondamentale visione del buddhismo; non
esiste nel buddhismo il problema della creazione: il mondo non è
stato creato, è il risultato di infinite combinazioni di elementi:
il buddhismo non è una dottrina rivelata, basata su testi divini.
Ciò induce molti buddhisti a credere che il buddhismo sia in
condizione di dare una più profonda ed aperta risposta alle
richieste delle nuove generazioni; una socievolezza solidamente
umana, fondata sulla comprensione e quindi sul desiderio di
assicurare non soltanto la propria serenità spirituale, ma quella di
tutti: liberare il mondo dalle opposizioni teoriche, dalle ideologie
che si contrappongono scatenando gravi sciagure, favorire una libera
discussione che il Buddha stesso reputava necessaria, perché le sue
stesse parole - egli disse - non dovevano essere accettate per pura
fede, ma dopo un'indagine logica e una discussione costruttiva.
Conviene poi porre in rilievo il grande peso che il buddhismo
attribuisce alla responsabilità dell'uomo, che deve rispondere di
quello che fa unicamente alla propria coscienza, indipendentemente
da qualsiasi autorità esterna.
Naturalmente quando si afferma (Masunaga Reihō) che il buddhismo,
verso cui ci avviamo, annulla tutte le differenze fra uomo e donna,
dotto e ignorante, nobile e umile e che la sua filosofia è basata
sulla scienza della natura e che esso non è altro che un umanesimo
il quale onora, libera e educa la natura umana, si presuppone che
occorra anzitutto svuotare il buddbismo - e qui si intende
soprattutto il buddhismo del Mahāyāna - di tutte le strutture
mitiche da cui è stato avvolto. Ma, oltre a ciò, occorre anche una
completa revisione del passato, in un'assoluta libertà di esprimere
le proprie critiche, talché a ciascuna persona sia permesso di
adottare per sé quella particolare forma di buddhismo più consona
alle sue propensioni morali, intellettuali, politiche. A tale
smitizzazione del buddhismo e alla necessità di tornare alle
origini, sembrerebbero estranee le scuole che pongono la rinascita
nel paradiso di Amitābha al centro della loro fede: una fede che,
per prima cosa, priva il karma della sua inesorabile
maturazione e antepone la devozione all'azione; ma tale fede non
impedisce ai sostenitori del processo di smitizzazione del buddhismo
di sostenere che questo discorso sul paradiso è uno dei mezzi
adoperati dal Buddha perché le creature meno preparate
intellettualmente possano essere convertite: alcuni arrivano a
definire il paradiso un sogno.
Per concludere dunque, il primo compito che i pensatori buddhisti
più autorevoli si propongono di attuare è promuovere l'accordo fra
le scuole, unificarle, indurle a superare le differenze dottrinali;
ciò è avvenuto in Giappone per quanto concerne alcune sette (per es.
Nishi Honganji e Higashi Honganji). Ma il problema più importante da
risolvere è quello di superare le distanze fra Theravāda e Mahāyāna;
di ritrovare quell'unità che può conferire al buddhismo un valore
ecumenico. Il problema è argomento di discussioni continue; si
moltiplicano i congressi buddhisti di ogni scuola; le residue
resistenze delle comunità monastiche cominciano a cedere, né trovano
modo o ragione di opporsi alle richieste dei laici o delle giovani
generazioni che, organizzandosi in varie maniere, rappresentano una
valida forza innovatrice; i paesi che possono assolvere questo
compito sono quattro: il Giappone anzitutto, Sri Lanka, la Birmania,
e forse in minor misura, ma per ragioni contingenti, la Thailandia.
Quindi, secondo gli stessi pensatori, il buddhismo è teoricamente in
condizione di svolgere un nuovo apostolato, proponendosi non più
come un modo puramente asiatico di concepire la vita, ma come una
dottrina che, per la sua stessa polivalenza, la sua tolleranza, la
sua adattabilità, può intensificare, con maggior impeto, una
missione universale.