Buddha
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Buddha ‹bùddha› (it. Budda, vedico buddhá- "svegliato", part. pass.
di bódhati).
Fondatore del buddismo; di lui ci sono noti con grande
approssimazione parecchi dati cronologici e biografici, sebbene la
tradizione vi abbia innestato molti elementi fantastici ed
edificanti, creando intorno alla figura di B. una leggenda che, per
splendore poetico e sublimità d'immagini, è tra le più grandiose.
Nato intorno al 560 a. C. a Kapilavastu (in territorio nepalese
vicino al confine indiano), apparteneva alla stirpe principesca
degli Śākya, reggitori di un piccolo territorio tributario del re di
Kośala. Gli fu imposto il nome di Siddhārtha o Sarvārthasiddha, e
poiché il ramo familiare da cui egli discendeva era quello dei
Gautama, egli fu più tardi denominato sovente dai contemporanei
śramaṇo Gautamaḥ ("l'asceta Gautama"). Altro nome legato alla sua
missione religiosa è quello di Śākyamuni ("l'asceta degli Śākya").
Il padre si chiamava Śuddhodana; la madre Māyā sarebbe morta sette
giorni dopo la nascita del bambino. Secondo le leggende eventi
portentosi accompagnarono il concepimento, la nascita e l'infanzia
di lui.
Trascorsa l'adolescenza, gli fu data in sposa la cugina Yaśodharā.
Il padre, cui una profezia aveva rivelato la missione del neonato,
si adoperò a creare intorno al figlio un'atmosfera di lusso e di
godimenti e a tenerlo lontano dalla diretta esperienza di ogni
miseria terrena. Ma durante una passeggiata nel parco il giovanetto
incontra successivamente un vecchio cadente, un malato, un cadavere
corrotto, e ciò gli rivela l'inevitabile decadimento dell'organismo
vivente attraverso le malattie, la vecchiaia, la morte. Subito dopo
appare a Gautama un asceta il cui aspetto rivela l'intima serenità
di spirito. Il principe, persuaso ormai della vanità di ogni gioia
terrena e dell'ineluttabilità del dolore, si risolve a mutar vita
senza lasciarsi irretire dagli affetti terreni: a 29 anni abbandona
di notte il palazzo e veste l'abito di monaco questuante.
Cerca, ma invano, di appagare la sua brama di conoscere la verità
seguendo gli insegnamenti del brahmano Arāḍa Kālāma e di Udraka
Rāmaputra; si dà a severissime penitenze. Ma l'indebolimento estremo
dell'organismo si dimostra controoperante. Solo dopo interminabili
meditazioni, consegue l'illuminazione (bodhi) che gli si rivela con
la formulazione delle fondamentali verità: esistenza del dolore,
origine del dolore, estinzione del dolore, via che conduce
all'estinzione del dolore (v. buddismo).
E da quel momento Gautama divenne il Buddha ("lo Svegliato,
l'Illuminato").
Con la predica di Benares il B., superata l'incertezza circa
l'opportunità di divulgare fra gli uomini la conoscenza liberatrice,
inizia l'opera sua di salvatore e maestro. In quaranta anni
d'incessante attività svolta da B. e dai suoi discepoli, prediletto
fra tutti Ānanda, nei paesi dell'India nord-orientale, la nuova
dottrina si diffonde in mezzo alle masse e diviene il fondamento
d'una religione destinata a conquistare immense regioni della terra.
A ottant'anni il B. si ammala gravemente a Beluva, si riprende
tuttavia e nonostante una ricaduta (nel villaggio di Pāvā) può
ancora raggiungere Kuśinagava: ma è ormai sfinito e agli estremi. Ad
Ānanda che si abbandona a un pianto sconsolato, il B. ricorda che il
credente sa vincere il dolore insito nel distacco da chi ci è caro;
poi formula alcune raccomandazioni circa l'osservanza della
dottrina, e prima di morire (480 a. C.) ammonisce ancora una volta i
discepoli: "tutto ciò che esiste è transitorio; adoperatevi con
sforzo, senza tregua".
Il cadavere del B. fu cremato e i resti furono ripartiti fra i
principi e i nobili. Secondo le concezioni ulteriori del buddismo
l'apparizione sulla terra del B. storico fu preceduta da quella di
innumerevoli altri B. vissuti nelle precedenti età cosmiche.
Enciclopedia Italiana (1930)
di F. B.-F., G. Va.
BUDDHA. - Questo epiteto che significa "lo Svegliato, l'Illuminato"
designa comunemente il Buddha storico, ma la dommatica degli stessi
testi più antichi (Nikāya) sancisce la credenza ch'egli non fu il
solo Buddha. Una concezione panindiana insegna che la nostra età
cosmica fu preceduta e sarà seguita da innumerevoli altre. Secondo i
buddhisti, ognuna di esse ebbe ed avrà i suoi Buddha.
Ogniqualvolta sia necessario far conoscere le "auguste verità" che
siano venute meno con la distruzione del mondo o siano cadute, dopo
lunghi secoli, in oblio, un Buddha compare tra gli uomini a
insegnare la via della salvezza. La nostra età porta il nome di
"benedetta", perché essa ha già avuto quattro Buddha (l'ultimo dei
quali fu Gotama e cioè il Buddha storico) e sarà fra tremila anni
allietata dalla comparsa del quinto, Metteyya (sanscr. Maitreya), il
futuro Buddha. Mentre alcuni indianisti credono alla storicità di
Koṇagamana (sanscr. Kanakamuṇi), il terz'ultimo Buddha, di cui Aśoka
ampliò lo stūpa ("tumulo con reliquie") nel 255 a. C., altri mettono
in dubbio fin l'esistenza di Gotama. Il primo a sostenere il
carattere mitico della vita leggendaria di Gotama fu il Wilson nel
1854. Ma soltanto il Sénart (Essai sur la legende du Buddha, Parigi
1875) tentò di dare una sistematica dimostrazione che il Buddha è un
eroe solare e i più importanti episodî della sua vita rispecchiano
fenomeni naturali: erompere del sole dal grembo delle nubi,
rasserenarsi del cielo dopo la tempesta e via dicendo. Malgrado
l'autorità dello scrittore e l'innegabile acume di certe sue
interpretazioni, la teoria del mito solare trovò pochi fautori e fu
magistralmente confutata dall'Oldenberg nel suo Buddha (5ª ed., p.
92 segg.).
La stragrande maggioranza degli indianisti fu ed è convinta della
realtà storica del Buddha, e se qualcuno torna di quando in quando
all'ipotesi del mito, non può tuttavia distruggere quelle che noi
consideriamo testimonianze storiche. I testi pāli più antichi
abbondano di particolari intorno alla vita non del Buddha soltanto,
ma anche del suo grande rivale Nātaputta (v. mahāvīra). Ora le
notizie di fonte buddhistica concordano con quelle di fonte
giainica, salvo lievi differenze, né si può considerare attendibile
il canone buddhistico in ciò che concerne Nātaputta, di cui nessuno
mette in dubbio la realtà storica, e non in quel che riguarda il
Buddha. Tanto più che non manca alla tradizione il suffragio delle
scoperte archeologiche. Nel 1895 fu trovata a Rummindeī, nel Tarāi
nepalico, la colonna che Aśoka fece quivi inalzare per ricordo del
suo pellegrinaggio al luogo di nascita del Buddha, nel 249 a. C.
Essa porta un'iscrizione in lingua māgadhī e caratteri brāhmī, che
commemora l'esenzione dalle tasse accordata dal re al villaggio
Lumbinī "perché quivi il Buddha era nato". A oltre due secoli di
distanza dalla morte dell'Illuminato, la tradizione avea dunque
ancora tanta forza probativa, da determinare la concessione di un
privilegio così importante. Non basta. Nel 1898 W. Claxton Peppé,
scavando entro il koṭ di Piprāhavā, chiamato poi "stūpa dei Sakya",
nel Tarāi medesimo, scopriva con altri vasi un'urna cineraria di
steatite, piena di frammenti d'ossa misti con ornamenti d'oro e
pietre preziose, che portava graffita attorno al coperchio
l'iscrizione: "Quest'urna delle reliquie del beato Buddha, della
stirpe dei Sakya, è un pio ricordo dei fratelli e delle sorelle, con
le mogli ed i figli". Quest'interpretazione, che risale al Bühler e
fu accettata, con qualche variante, dal Pischel, dialettologo
altrettanto insigne, non ebbe unanime consenso fra i dotti. Il Fleet
la lesse e interpretò in tutt'altro modo, facendosene forte a
sostenere che l'urna accolse le ceneri dei congiunti del Buddha,
uccisi, secondo la tradizione, per una faida di Viḍüḍabha, re del
Kosala. Comunque, resta egualmente provata la realtà storica dei
Sakya e quindi del Buddha.
Certo nella vita tradizionale di Gotama il meraviglioso prevale, sì
che riesce difficile sceverare la storia dalla leggenda. Ma non per
questo dobbiamo trascorrere a negare che la leggenda sia intessuta
sopra una trama storica, tanto più salda quanto meno la narrazione
si allontana dalle fonti pāli più antiche (v. Bibl.). A queste noi
ci atterremo nel delineare la vita del Buddha, prescindendo dalle
biografie leggendarie propriamente dette, come il Mahāvastu e il
Lalitavistara.
V'è ancora chi si compiace immaginare il Buddha non solo come
l'apostolo di un nuovo verbo religioso, ma anche come un riformatore
sociale, che affrancò il suo popolo dal giogo di una teocrazia,
sotto la quale languiva da secoli l'India settentrionale. Questa
concezione è altrettanto erronea quanto quella di chi vede nel
Buddha una specie di libero pensatore, che neghi fede al culto, ai
sacerdoti e agli dei, per un atto di ribellione alle credenze
tradizionali. Più si studiano le dottrine dell'Illuminato, più se ne
riconosce la scarsa originalità, sì che il loro successo fu certo
dovuto non solo a peculiari condizioni del paese dei Sakya, dove la
casta sacerdotale non giunse mai a imporre il suo predominio, ma
anche alle straordinarie qualità personali del Buddha. Il brahmano
Soṇadaṇḍa lo dipinge aitante della persona e di bell'aspetto, reso
più attraente da un colorito magnifico. E aggiunge che la sua voce
era armoniosa e sonora; chiara, fluida ed eletta la sua loquela.
Le biografie leggendarie ci rappresentano il Buddha come l'unico
figlio di un potente re, trasportando nel sec. VI a. C. condizioni
politiche che l'India conobbe soltanto in età posteriore al crollo
della dominazione macedone. Ma il supposto grande monarca fu invece
il reggitore (rājā "rex") di una piccola repubblica aristocratica,
che aveva, in cifra tonda, circa un milione di abitanti insediati
tra il corso medio della Rapti (Aciravatī della letteratura
buddhistica) e la Rohiṇi, oggi Rohin, a pié del Himālaya nepalico. I
Nikāya ricordano i nomi di otto città, oltre alla capitale
Kapilavatthu, ma alcune eran forse soltanto grosse borgate, come
Koli, ove nacque la madre del Buddha. La vasta pianura, solcata da
innumerevoli corsi d'acqua minori, che traggono dalle nevi eterne
del Himālaya perpetuo alimento, si adatta alla cultura del riso, che
era infatti, col bestiame, la maggior ricchezza del paese. Ma non la
sola. Insieme con l'agricoltura fiorivano i commerci, che per via
terrestre e fluviale si spingevano a occidente fino a Kosambī
(Kosann) e ad oriente fino a Suvaṇṇabhūmi (Pegu nel golfo di
Martaban). Mussoline di Sivi e di Benares, ricami, tappeti, profumi,
avorio, armi, gioielli eran le merci più ricercate e costose. La
proprietà fondiaria era in mano della nobiltà militare, che l'aveva
ereditata dagli Arî conquistatori della valle del Gange. Questi
signorotti, orgogliosi della loro pelle bianca, che li distingueva
dalle razze aborigene, di colorito scuro, erano di solito molto
superbi
L'alterigia dei Sakya (sanscr. Śākya o "Potenti"), la stirpe alla
quale appartenne il Buddha, è esplicitamente affermata dal
Cullavagga, VII, 1, 4. Lavorare per mercede si considerava la
peggiore delle sventure che potessero toccare ad uomo libero, e però
al lavoro dei campi e alla custodia del bestiame eran di solito
addetti i śūdra, schiavi o servi non arî, appartenenti all'ultimo
colore (vaṇṇa) o classe sociale. Nessun maltrattamento veniva
inflitto agli schiavi, poco numerosi in confronto dei liberi e quasi
sempre prigionieri di guerra o miserabili che, assillati dalla fame,
rinunciavano alla libertà in compenso del cibo. Gli artigiani,
riuniti in corporazioni di mestiere, erano ben retribuiti, a
giudicare dall'alto prezzo di certi manufatti. Erano tuttavia a buon
mercato le cose necessarie alla vita. L'abbondanza della selvaggina
nelle immense foreste, il gran numero di corsi fluviali, le ampie
distese prative, sulle quali gli abitanti del villaggio esercitavano
il diritto di pascolo, spiegano il basso prezzo delle carni e del
pesce. Né la regione soffriva di siccità, causa consueta delle
carestie che afflissero l'India, grazie al progredito sistema
d'irrigazione, che faceva somigliar la campagna "alla tunica
rattoppata di un monaco buddhista". Si può calcolare che l'ottanta
per cento della popolazione vivesse in istato di relativa agiatezza,
sì che gli abitatori dei villaggi, "felici e contenti gli uni degli
altri, stavano a uscio aperto palleggiando fra le mani i loro
bambini". Ma già nel 400 d. C., a testimonianza di Fa Hian, l'uomo,
nemico all'uomo, aveva restituito alla selvaggia natura le fertili
pianure faticosamente contese alla Grande Foresta.
In città, specialmente se capitale, la vita era raffinata e frivola.
La professione più lucrosa era la mercatura, alla quale si
dedicavano anche brahmani e nobili, decaduti o desiderosi di quella
maggior considerazione che proviene dal possesso d'ingenti
ricchezze. I capi delle corporazioni mercantili avevano accesso a
corte, quando non erano addirittura tesorieri o ministri. Non pare
che la gente traesse alla città con l'avidità di oggigiorno;
nell'immensa pianura tra l'Himālaya e il Vindhya troviamo appena
ricordate una ventina di città di considerevole grandezza, dove il
ricco gentiluomo divideva il suo tempo fra i trattenimenti e i
piaceri, egualmente pronto a entusiasmarsi per la cortigiana
(gaṇikā) più in voga e per il predicatore di moda. In questo mondo
singolare, combattuto fra la sazietà dei piaceri e la ripugnanza
alle mortificazioni, che gli asceti del tempo (samana, muni)
proclamavano necessarie alla suprema salvezza, Gotama getta, come il
seminatore della parabola, il buon seme della sua parola, e la messe
è tale che ancor se ne saziano, nell'India e fuori, milioni d'anime.
Quando Gotama nacque, nel 567 a. C. secondo una delle più probabili
cronologie, la repubblica aristocratica, di cui era in quel tempo
reggitore suo padre Suddhodana, non riconosceva ancora la sovraniià
del Kosala. Come la maggior parte dei nobili, i Sakya eran grossi
proprietarî e Suddhodana "dal bianco riso" è forse un soprannome
conferito al rājā per la bellezza del riso prodotto dalle sue terre.
Due sorelle, figlie di un magnate di Koli, furono contemporaneamente
mogli di Suddhodana, cosa non disdicevole ai costumi del tempo. La
maggiore, Māyā, "mirabile virtù", era ormai nel quarantacinquesimo
anno e priva di figli quando concepì il futuro. Buddha.
Le biografie leggendarie, compresa la Nidanākathā, attribuiscono a
miracolo la concezione di Māyā. Rinunciando alle celesti gioie,
frutto delle buone opere di anteriori esistenze, il futuro Buddha
risolve d'incarnarsi nel seno di Māyā per affrancare gli uomini
dalla soggezione al dolore e alla morte. La regina lo vede in sogno
penetrare nel suo fianco destro sotto forma di bianco elefante,
emblema della mansuetudine. Da allora l'elefante è sacro per i
buddhisti. Quando il tempo della gestazione volgeva al suo termine,
Māyā partì per Koli, distante da Kapilavatthu una dozzina di miglia,
senza dubbio per desiderio di essere assistita dalla famiglia
paterna. Ma giunta al parco di Lumbinī, poco lungi da Kapilavatthu
(forse l'odierno Tilaurā Koṭ), fu costretta a sostare e dette alla
luce un nglio, all'ombra di alcuni alberi sāl. Il Bodhisattva che
balza fuori dal fianco destro di Māyā, ritta sotto un sāl, di cui
stringe nella destra un ramoscello, è soggetto favorito
dell'iconografia buddhistica. In capo a una settimana la puerpera
morì e il bambino fu allattato dalla seconda moglie di Suddhodana,
Paj āpatī "la prolifica", della quale si ricordano il figlio Nanda
ed una figlia rinomata per la sua bellezza. Il futuro Buddha ebbe
nome Siddhattha, "colui che ha raggiunto lo scopo", ma poiché i
Sakya, forse vantando una discendenza dal ceppo vedico dei Gotamidi,
amavano fregiarsi dell'appellativo di Gotama, i contemporanei furon
soliti designare Siddhattha, ormai entrato nella via del nirvāna,
col nome di samaṇo gotamo, "l'asceta Gotamide", quasi a distinguerlo
dagli altri asceti mendicanti del tempo. Un altro nome
frequentissimo nel Canone è tathāgata, "colui che è in possesso del
vero".
Gotama non chiama mai sé stesso l'Illuminato, il Buddha, ma sempre
il Tathāgata. Comune è pure l'epiteto di bhagavā "l'Eminente";
sakyamuni, "l'asceta dei Sakya", ricorre raramente nei testi pāli.
Siddhattha aveva diciannove anni quando sposò la cugina Yasodharā,
figlia di un fratello di sua madre. I testi pāli la chiamano
semplicemente Rāhulamātā "la madre di Rāhula", il figlio del Buddha.
Ma poiché essa porta in altri testi altri nomi, Bhaddakaccā, Gopā,
ecc., sorse spontaneo il dubbio che Gotama avesse avuto più di una
moglie.
Per quanto la cosa non abbia nulla d'inverosimile, dati i costumi
del tempo, ci atteniamo alle testimonianze più antiche, che
attribuiscono a Gotama una sola legittima sposa, e spieghiamo i
diversi nomi con epiteti della stessa persona, "dalla bella
cintura", alla Protettrice", ecc. Gotama passò la giovinezza a
Kapilavatthu nel lusso e nella mollezza. A ventinove anni lo assalì
improvvisamente il disgusto di quella vita di piacere e risolse di
abbandonare la famiglia e la casa per indossare la veste gialla
dell'asceta mendicante. A ciò fu indotto, secondo
l'Anguttara-nikāya, III, 38, 2, dalla meditazione sul dolore umano
nelle sue forme precipue della malattia, della vecchiezza e della
morte.
La leggenda ha dato corpo alle riflessioni dell'Illuminato narrando
com'egli successivamente incontrasse, per volere degli dei e
malgrado la vigilanza del padre desideroso di occultare al figlio i
mali dell'esistenza, un vecchio, un malato e un putrido cadavere.
Gli incontri avvennero nel parco reale, dove Gotama andava a
passeggiare in carrozza, e ogni volta Channa, l'auriga, spiegò al
futuro Buddha esser quello il destino di tutti i viventi. L'ultima
volta si offerse al principe l'immagine serena di un giocondo
fraticello, che ispirò a Siddhattha il desiderio della vita
ascetica. Già quasi deciso di farsi monaco, faceva ritorno al
palazzo reale, quando un messo gli portò la notizia della nascita di
un figlio. "Rāhula è nato, un vincolo è nato", si narra esclamasse
Siddhattha, e triste e pensoso rientrò nella reggiạ. A corte intanto
si festeggiava la desiderata nascita e Gotama fu attorniato da una
schiera di ancelle, che cercarono di distrarlo con musiche e danze.
Non fu certo un meschino poeta quegli che ideò per il primo
l'episodio dell'abbandono della famiglia e della casa, quale è
descritto dalle seriori biografie leggendarie. Stanco e annoiato, il
principe si assopisce nella sala ancor piena del tripudio della
festa, e il sonno vince a poco a poco anche le ancelle.
Nel cuor della notte Gotama improvvisamente si desta e vede le
danzatrici giacere come altrettanti cadaveri attorno a lui. I loro
atteggiamenti, non più dominati dalla volontà, appaiono ripugnanti.
Questa russa a bocca aperta stillando bava dalla bocca; quella
borbotta in sogno coi capelli sparsi e in disordine, e una terza,
con le vesti slacciate, scopre imperfezioni nascoste. Nauseato, il
principe va in cerca del fido Channa, che monta la guardia, e gli
comanda di sellargli il cavallo. Il ricordo del figlioletto, che
ancora non ha veduto, lo spinge alla soglia della stanza nuziale.
Yasodharā dorme sopra un letto di fiori, l'una mano protesa sulla
testa del figlio, onde Gotama, per non destarla, reprime il
desiderio di prendere in braccio il piccino e si allontana
promettendo a sé stesso di tornare dopo aver conseguito la dignità
di Buddha. Fuori lo attende Kanthaka, il bianco palafreno, a cui gli
dei fanno tappeto della palma delle loro mani per impedir che si
senta il rumore dei passi. Gotama parte in compagnia del fido
Channa, le porte della città si spalancano silenziosamente davanti a
lui, e il principe scompare senza traccia nella notte plenilunare.
La grande rinunzia è compiuta, ma sei anni di vani sforzi dovranno
passare prima che la mente di Gotama s'apra alla sospirata
chiaroveggenza. Intanto Māra, il principio della distruzione
personificato, re della caducità e della morte, vede il pericolo
della rivelazione di Gotama, intesa a strappare al suo dominio
miriadi di esistenze, e dall'alto cielo apostrofa il partente
promettendogli, entro sette giorni, la signoria dei quattro grandi
continenti, se desiste dal suo proposito. Gotama respinge il
tentatore, che da allora lo segue come la sua ombra, spiando il
momento nel quale un pensiero impuro o malvagio gli dia in possesso
il formidabile rivale. Anche qui la fantasia del poeta ha
trasformato un'interna lotta nella concreta rappresentazione di un
duello fra il Bodhisattva (v.) e il demonio buddhistico,
personificante la tentazione.
Dopo aver rapidamente percorso trenta leghe, Gotama giunge all'alba
sul fiume Anomā, di là dal territorio dei Koliya. Quivi scende da
cavallo, si recide con la spada le lunghe chiome e consegna al fido
Channa gli ornamenti e il cavallo perché li riporti alla reggia. Le
vesti di fine mussolina di Benares non son più adatte a un asceta
mendicante. Egli le depone e il dio Ghaṭīkāra, disceso dal cielo,
gli fornisce il corredo del samaṇa: abito monastico, cintura,
pignatta da elemosine, rasoio, ago e colino per filtrar l'acqua.
Così trasformato, Gotama s'incammina verso Rājagaha (oggi Rājgīr),
ove risiedeva Bibbhisāra, re del Magadha. Assisa ai piedi del
Vindhya, Rājagaha era la meta preferita degli asceti girovaghi, che
trovavano nelle grotte de' suoi monti tranquillità e sicurezza, e
nella vicina città gli aiuti di cui avevano bisogno. Spinto alla
rinuncia dal saṃvega, "subitaneo turbamento" o vocazione, come
diremmo modernamente noi, Gotama non era preparato alla vita
religiosa. Egli dunque seguì l'uso comune di ricorrere a un maestro
spirituale, che lo iniziasse alle discipline ascetiche.
Qui la verità storica traspare, e noi possiamo senz'altro sceverarla
dalle amplificazioni della leggenda, continuando la narrazione di
ciò che serba l'impronta del vero. In quel tempo era in onore lo
Yoga, metodo pratico per raggiungere la suprema conoscenza, basato
sulla psicologia del Sāṃkhya. Era naturale ehe Gotama si rivolgesse
alle dottrine e ai maestri più in voga. N'ebbe successivamente due:
Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, brahmani e maestri di quella
concentrazione mentale (jhāna, sanscr. dhyāna), ch'ebbe poi tanta
importanza nell'etica buddhistica come ultimo stadio dell'"augusto
cammino". Āḷāra aveva raggiunto "la sede della nullità"
(ākiñcaññãyatana), era assorto alla contemplazione del nulla, la
qual cosa tuttavia presuppone un'attività del pensiero. Più oltre
era quindi arrivato Uddaka, che si era spinto, mediante il jhāna,
fino alla "subcoscienza" (nevasaññāññãyan Mvatana), quella forma di
estasi, prossima a traboccare nella catalessi e nell'ipnosi, nella
quale la coscienza non è ancora del tutto spenta.
Ma pur avendo appreso tutto quanto i suoi maestri erano in grado
d'insegnargli, Gotama non fu soddisfatto e lasciò con altri cinque
anacoreti la scuola di Uddaka, deciso a raggiungere con le sue
proprie forze la chiaroveggenza. Si ritirò in un bosco sulle rive
della Nerañjarā, oggi Phalgu, presso Uruvelā, l'odierna Urel a
mezzogiorno di Patna, e quivi si sottopose alle più dure penitenze,
sempre assistito e incoraggiato dai cinque compagni, desiderosi di
farsi suoi discepoli appena egli avesse raggiunto il supremo grado
di santità. Racconta egli stesso nel Majjhima-nikāya, 12 (ed.
Trenckner, Londra 1881, p. 81), di avere spinto talvolta il digiuno
fino a nutrirsi di un granello di riso al giorno, talché perdette il
bel colorito e divenne emaciato e livido. Per sei anni egli sostenne
la tremenda lotta, finché le forze gli vennero meno e restò come
morto.
Quando rinvenne, la luce si era fatta nel suo spirito; riconobbe che
la via delle mortificazioni non conduceva alla sospirata
chiaroveggenza, e trascinando penosamente il corpo affranto fino al
prossimo villaggio, andò in cerca di cibo. Ma i suoi compagni di
solitudine, perduta in lui ogni fiducia, invece di porgergli aiuto;
lo abbandonarono. Ristorato di abbondante cibo da una pia campagnola
per nome Sujātā, "Eugenia", Gotama restò lunghe ore seduto sotto un
albero di pīpal (ficus religiosa) in preda allo scoraggiamento e al
dubbio. Per lunghi anni aveva avuto in dispregio il mondo e i suoi
beni. Ma ora, perduta la fede nell'efficacia delle mortificazioni,
il miraggio tentatore delle ricchezze e dei piaceri risorgeva
dinanzi alla sua mente e il dubbio dell'inutilità della rinunzia si
faceva più tormentoso e più vivo.
La leggenda ha nuovamente trasformato le lotte spirituali di Gotama
in una battaglia da lui sostenuta con Māra, che, aiutato dal suo
esercito, mise questa volta a soqquadro il cielo e la terra nel vano
sforzo di scuotere la fermezza del Bodhisattva. Al cader della notte
Gotama, purificato dalla vittoria sulle ultime tentazioni, vide
brillare dinanzi alla sua mente la luce del vero. Il mistero della
rinascita gli si fece improvvisamente palese, intuì le cause del
dolore mondiale e scoperse la via che conduce alla liberazione dal
dolore. Da quel momento egli fu il chiaroveggente, il Tathāgata;
sentì di aver raggiunto il nibbāna, sanscr. nirvāṇa (v.). Il
Mahavagga (I, 1, 1) racconta che il Buddha rimase sette giorni sotto
l'albero di pīpal, godendosi la "gioia della liberazíone"
(vimuttisukha). Il fico che protesse con la sua ombra le lunghe
meditazioni dell'Illuminato divenne sacro col nome di "albero della
chiaroveggenza" (bodhirukkha) o più brevemente "albero Bo". Gli
ultimi avanzi della pianta sacra, senza dubbio rinnovata più di una
volta, furono distrutti da un uragano nel 1876. Ma un ramo
dell'antico bodlhirukha, trasportato a Ceylan nel sec. III a. C., fu
piantato con grande solennità presso Anurādhapura e divenne un
albero tuttora venerato dai buddhisti dell'isola. La certezza di
possedere la verità incuorava il Buddha a divulgare la sua dottrina,
ma il dubbio di non esser compreso lo rendeva perplesso.
La leggenda vuole che il dio Brahmā in persona vincesse le ultime
riluttanze dell'Illuminato, inducendolo a iniziare la sua
predicazione. Per un sentimento di gratitudine, il Buddha avrebbe
desiderato che i suoi antichi maestri venissero per i primi a
conoscenza della sua scoperta, ma seppe che erano morti. Allora
pensò ai cinque compagni di penitenza e s'incamminò verso Benares,
dov'essi erano andati a cercar rifugio nel parco Isipatana.
La predica di Benares, con la quale l'Illuminato "mise in moto la
ruota della Dottrina", fu tenuta a questi cinque anacoreti, di cui
il Buddha fece altrettanti apostoli. Ma non senza contrasto, poiché
solo dopo lunghe discussioni i cinque s'indussero ad accettare la
rivelazione del Tathāgata, di cui furono i primi discepoli. La
piccola "comunità monastica" (saṅgha) si accrebbe tosto di un nuovo
seguace, il giovane Yasa, figlio del ricco capo di una corporazione
mercantile. Suo padre e quella che era stata sua moglie fecero
professione di fede con la formula: "cerco rifugio nel Buddha, cereo
rifugio nella Dottrina, cerco rifugio nella Comunità", e furono i
primi "adoratori" (iupāsaka) laici dell'Illuminato. Sebbene infatti
la sola vita monastica possa, secondo l'antica dottrina, conferire
"la santità" (arahatta), chi non si sente di rompere i legami di
famiglia può, con una vita conforme ai principî buddhistici, meritar
dopo morte una rinascita atta a conseguire ìl nirvāṇa. Dopo Yasa
presero la veste gialla e la tonsura molti altri suoi compagni di
gioventù, sicché gli "asceti mendicanti" (bhikkhu) raggiunsero
presto il numero di sessantuno. Eran tutti di nobile famiglia,
perché la dottrina del Buddha non poteva esser compresa senza un
certo grado di raffinatezza e d'istruzione.
Perciò il buddhismo fu sin da principio un movimento di carattere
aristocratico, come attesta la qualità dei discepoli che vissero in
intimità con l'Illuminato. Ānanda e Devadatta, il Giuda della
comunità buddhistica, erano della stirpe di Gotama, e alla nobiltà
militare apparteneva anche Anuruddha. Sāriputta e Mogallāna eran
brahmani e Upāli barbiere, ma nella famiglia dei Sakya, i quali lo
trattavano come uno dei loro. L'eguaglianza proclamata dal Buddha
era religiosa soltanto. Il grado sociale, la casta, conseguenza del
karman (v.), aveva la sua profonda ragione etica, per quanto ogni
distinzione venisse a cessare sotto l'uniformità dell'abito
monastico.
Il Buddha passò a Benares la stagione delle piogge (21 giugno 21
ottobre) e mandò poi i discepoli a predicar la dottrina "per la
felicità degli dei e degli uomini". "Non fate in due lo stesso
cammino" disse congedandoli. "Insegnate la dottrina benefica in
principio, benefica nel mezzo, benefica alla fine. Divulgate la vita
di santità, interamente perfetta e pura tanto nella sostanza quanto
nella forma" (Saṃyutta, IV, 1, 5). Da allora il Buddha fu sempre
solito raccogliere intorno a sé i discepoli nella stagione delle
piogge e dedicare alla Predicazione i mesi rimanenti. Tornato a
Uruvelā, convertì, operando prodigi, mille anacoreti brahmani,
fedeli al rito sacrificale. Egli tenne ai neofiti la predica che va
sotto il nome di "sermone della montagna" perché fu tenuta sul monte
Gayāsīsa, ora Brahmāyoni in prossimità di Gayā. Un incendio
divampava sull'opposta collina; il Buddha ne trasse argomento per
mettere in guardia i suoi proseliti contro il fuoco distruttore dei
sensi e della passione, che si estingue soltanto in chi segue
l'augusto cammino. In compagnia dei suoi monaci, il Buddha fece
quindi ritorno a Rājagaha, ove il re Bibbhisāra gli rese omaggio e
lo invitò a desinare coi discepoli, facendogli altresì donazione di
un "bosco di bambù" (veḷuvana), residenza preferita dell'Illuminato
durante la stagione delle piogge. A Rājagaha il Buddha acquistò
anche i due discepoli destinati a divider con lui il primato
nell'ordine: Upatissa, soprannominato Sāriputta o "figlio di Sāri",
e Mogallāna, già seguaci di Sañjaya.
La narrazione continuata degli avvenimenti posteriori alla
chiaroveggenza, che ha per fonte precipua il Mahāvagga, I, 1-24, è a
questo punto interrotta e riprende soltanto dagli ultimi tre mesi di
vita dell'Illuminato (Dīghanikāya, XVI). Quarantacinque anni di
peregrinazioni e di apostolato giacciono fra questi due estremi, e
del lungo periodo restano soltanto episodî staccati e privi di nesso
cronologico, sparsi nel canone pāli e nelle fonti più tarde. Il più
importante è quello, evidentemente storico, della visita che il
Buddha fece ai suoi parenti per desiderio del padre Suddhodana, dopo
il ritorno a Rāiagaha. Gotama giunse a Kapilavatthu e si fermò, come
soleva, in un bosco di sicomori vicino alla città, dove il padre e
gli zii andarono a visitarlo. Ma i Sakya rimasero in genere
mortificati di avere per parente un accattone, e nessuno lo invitò a
pranzo. Peggio fu quando il Buddha comparve a questuare per le vie
della città. Suddhodana stesso corse a rimproverarlo di quel
contegno disdicevole al decoro della famiglia, ma, placato dal
figlio con ispirate parole, finì per ospitarlo nel suo palazzo. Il
giorno seguente il Buddha fece prender l'ordinazione al fratellastro
Nanda, che stava per ammogliarsi, e conferì sei giorni dopo il
noviziato al figlio Rāhula in età di soli sette anni. Il dolore
della separazione da Rāhula, ultima speranza della famiglia, indusse
Suddhodana a pregare il Buddha che l'ammissione all'Ordine di un
figlio non fosse per l'avvenire consentita senza il consenso del
padre e della madre. La preghiera fu accolta e l'ordinazione venne
da allora in poi subordinata al duplice consenso.
Tornato a Rājagaha, il Buddha si era fermato nel bosco di manghi di
Anupiyā, quando vennero a lui, per farsi suoi seguaci, i cugini
Ānanda (v.) e Devadatta, in compagnia di Anuruddha e Upāli. Ma la
conversione di Devadatta non fu sincera. Invidioso del Buddha e
smanioso di succedergli nella dignità di capo dell'Ordine, tentò
ripetutamente di farlo morire, e quando vide frustrate le sue
speranze abbandonò la Comunità per fondare una setta rigidamente
ascetica, che esisteva ancora nel sec. VII d. C. I nomi di Anuruddha
e Upāli sono legati alla formazione del Canone, essendo il primo
riguardato come il fondatore dell'Abhidhamma (v.) e il secondo come
il più autorevole conoscitore del Vinaya, la Regola monastica. Nel
quinto anno di apostolato del Buddha, morì Suddhodana e Pajāpatī,
rimasta vedova, sollecitò per sé e per altre gentildonne dei Sakya,
fra le quali la stessa Yasodharā, l'ammissione all'Ordine. Per
intercessione di Ānanda e non senza riluttanza, l'Illuminato si
arrese alle reiterate suppliche della sua seconda madre e fondò la
Comunità femminile, alla quale impose speciali regole.
Gli ultimi anni di vita dell'Illuminato furono fecondi di
conversioni, ma anche contristati da grandi amarezze, come
l'apostasia di Devadatta, avvenuta quando il Buddha aveva
settantadue anni, e l'eccidio dei Sakya tre anni prima della sua
morte. Kapilavatthu sarebbe stata infatti distrutta da Viḍūḍabha, re
del Kosala, per vendicare un'antica offesa. Alla scarsezza di
notizie sugli ultimi anni di apostolato del Tathāgata fa contrasto
l'abbondanza di particolari intorno alla sua morte, fedelmente
tramandati dal "Gran discorso sulla totale estinzione". L'autorità
morale del Buddha si era a tal segno accresciuta, ch'egli poté
impedire un conflitto tra il Magadha e la confederazione de' Vaji,
sconsigliando la guerra al re Ajātasattu. Passando per Pāṭaligāma,
villaggio fortificato che divenne poi Pātaliputta, l'odierna Patna,
il Buddha profetò la futura grandezza della città. A Vesālī, ora
Besarh, accettò l'invito di Ambapālī, "la bella della città", che
dopo avere udito la parola dell'Illuminato sollecitò l'onore di
averlo seco a pranzo coi suoi discepoli. Quando i Licchavi, signori
di Vesālī, vennero a fare solennemente al Buddha lo stesso invito,
seppero che Ambapālī li aveva preceduti e offersero inutilmente
all'etera centomila monete d'oro in cambio del privilegio di
ospitare il Buddha. Ambapālī, che entrò poi nell'Ordine, fece anche
dono alla Comunità del giardino dov'era stato apparecchiato il
convito.
Il Buddha passò a Beluva, in prossimità di Vesālī, l'ultima stagione
delle piogge, quarantacinquesima del suo apostolato. A Beluva
infermò. Fu assalito da violenti dolori e la sua fine parve
imminente. Ma l'indomita volontà fece violenza alla natura, e
l'infermo si riebbe, tanto da poter riprendere le sue
peregrinazioni. Con Ānanda e altri discepoli s'incamminò verso Pāvā,
l'odierna Padraunā, dove si fermò a riposare nel giardino
dell'orefice Cunda. Questi invitò gli asceti a desinare e offerse
loro, con altri cibi, carne di maiale grassa (sūkaramaddava),
cagione al Buddha, ottuagenario, di una dissenteria che lo trasse a
morte. Ripreso infatti il viaggio verso Kusinārā, oggi Kasia, si
sentì a mezza strada mancare e solo dopo lunghe soste raggiunse la
capitale dei Malla, ove giacque per non più rialzarsi nel parco
vicino alla città. Quivi Ananda gli apprestò un giaciglio fra due
sāl gemelli, che fuor di stagione si copersero di fiori. Il Buddha
vi giacque sul fianco destro col capo rivolto a settentrione. Con
grande semplicità dettò poi ad Ananda alcune regole da osservare
dopo la sua morte (con particolare riguardo alla Comunità femminile)
e impartì le istruzioni per i suoi funerali. Incapace di contenersi
più a lungo, Ananda scappò a piangere in disparte, ma il Buddha,
fattolo chiamare, lo consolò: "Basta, Ānanda, non ti affannare, non
piangere! Non ti ho già detto prima che bisogna una volta staccarci
da quanto è piacevole e caro, separarci, dividerci da esso? Com'è
dunque possibile che quanto è nato, prodotto, composto e per natura
destinato a perire non abbia fine? Sarebbe assurdo! "Per lungo
tempo, Ānanda, hai assistito il Tathāgata coi pensieri, con le
parole e con le opere, con immutata fedeltà e infinito amore,
unicamente sollecito della sua felicità e del suo benessere. Hai
fatto opera meritoria; intendi ora seriamente alla liberazione, e
sarai presto scevro di ogni umana debolezza".
Avvertiti da Ananda che il Buddha era ormai moribondo, i Malla
accorsero con le mogli ed i figli per rendere aI Tathāgata l'estremo
omaggio. Venne anche un asceta girovago per nome Subhadda, che, dopo
un colloquio col Buddha, chiese l'ammissione all'Ordine. Egli fu
l'ultimo discepolo convertito personalmente dal Beato. Quindi il
Buddha, rivolgendosi ad Ānanda, gli diede gli ultimi ammonimenti:
"Potrebb'essere, Ananda, che vi venisse l'idea: ‛Il Maestro che
c'insegnò la dottrina è scomparso; non abbiamo più Maestro!' Ma non
dovete, Ānanda, pensar così. La dottrina e la regola che ho
insegnate e divulgate, ecco i vostri maestri quando io non sarò
più". Tornò sull'argomento delle regole disciplinari dando altre
istruzioni, e finalmente disse ai discepoli, che gli facevano
corona: "Qualcuno di voi ha forse dubbî o incertezze riguardo al
Buddha, alla Dottrina, alla Comunità, alla via o al metodo di
liberazione? Domandate, asceti, perché non dobbiate poi fare a voi
stessi il rimprovero: ‛Il Maestro dimorò fra noi e non fummo capaci
d'interrogarlo personalmente'".
Ma gli asceti tacquero. Ripeté la domanda una seconda e una terza
volta. Lo stesso silenzio. Ormai sopraggiungeva la fine. "Su via,
discepoli" riprese il Buddha "ascoltate quel che ancora ho da dire.
Per natura transitorie son le forme dell'essere. Sia vostra difesa
la vigilanza!" Furono le sue ultime parole. Percorse e ripercorse i
varî stadî di concentrazione mentale, e dal quarto grado di
meditazione estatica entrò nel nirvāṇa (circa 487 a. C.). Nello
stesso istante sopravvenne un terremoto, e il tuono rumoreggiò. Dopo
sei giorni di onoranze funebri, otto dei Malla più ragguardevoli
trasportarono sul rogo il corpo del Buddha, che fu arso col
cerimoniale conveniente a un dominatore mondiale. Sopra una parte
delle reliquie concesse loro dai Malla, i parenti del Buddha
scampati all'eccidio di Viḍūḍabha, se pur questo massacro è un fatto
storico, eressero uno stūpa. Nulla vieta di credere che sia quello
stesso esplorato dal Peppé nel 1898, come non è improbabile,
nonostante autorevoli obiezioni, che l'urna di steatite trovata nel
tumulo contenga i resti mortali di colui che scoperse la via del
nirvāṇa.
Buddhismo
Enciclopedia del Novecento (1975)
di Giuseppe Tucci
Sommario: 1. Il Buddha e la sua dottrina. 2. Il buddhismo e la nuova
situazione politica in Asia. 3. Il buddhismo in Asia: a) Sri Lanka
(Ceylon); b) Birmania e Thailandia; c) Vietnam; d) Cambogia e Laos;
e) India; f) Nepal; g) Cina; h) Corea; i) Formosa; l) altre scuole;
m) Giappone; n) scuole di ispirazione politica; o) altre scuole
moderne; p) lo Zen. 4. Il buddhismo in Occidente. 5. Il buddhismo in
America. 6. Crisi interne nel buddhismo. 7. Il buddhismo e l'arte
contemporanea. 8. Meditazione e psicanalisi. 9. Gli
Occidentali e la meditazione buddhistica. 10. Crisi e prospettive
del buddhismo contemporaneo. □ Bibliografia.
1. Il Buddha e la sua dottrina
Il buddhismo deve il proprio nome all'appellativo dato al suo
fondatore: il Buddha, ‛colui che si è risvegliato alla conoscenza'.
Di lui non conosciamo neppure il nome, perché Śākyamuni, ‛l'asceta
della famiglia Śākya', è anch'esso un appellativo. Però sappiamo che
nacque intorno al 560 a.C. da una famiglia di proprietari terrieri a
Lumbinī (ora Rummindei) nel Terai (Nepal) e che morì fra il 486 e il
480. Conseguì l'illuminazione a Gayā, detta in seguito Bodhgayā. La
leggenda che intorno a lui crebbe e le numerose aggiunte, o
interpolazioni, a quella che si presume essere stata la sua dottrina
non sono riuscite a modificare i punti essenziali della sua
predicazione; questa fu tramandata, nei primi tempi, oralmente dai
suoi discepoli (evaṃ mayā śrutam, ‛così fu da me udito') e poi
codificata in successivi concili che provocarono diversi scismi.
L'insegnamento è semplice: tutto è impermanente (in pāli: anicca; in
sanscrito: anitya), sia le cose, ciò che appare reale e a noi
esterno, sia il complesso psicofisico; tutto è un susseguirsi e
vario combinarsi di punti-istanti (dhamma, dharma). Al contrario di
quanto affermano le correnti upanisadiche (da upaniṣad su cui si
fonda gran parte della teorica dell'induismo), non esiste in noi
un'entità metafisica come l'ātman, l'io; ne deriva il corollario
dell'anattā; ‛non esistenza di un io eterno'; però ogni atto
consapevole e voluto deliberatamente produce un effetto che
fatalmente maturerà nella vita presente o nelle future; ogni
individuo eredita, nel suo modo di essere e di pensare, le
conseguenze del suo precedente, responsabile agire. Così si svolge
un ciclo di nascite e di morti (saṃsāra) cui soltanto la conoscenza
della dottrina predicata dal Buddha e la pratica di quest'ultima
possono porre fine.
Vivere è dolore: come è detto nelle quattro verità da lui proclamate
(āriyasaccāni, ār̄yasatyāni): verità del dolore (duḥkha), verità del
suo sorgere in noi (samudaya), la possibilità della sua soppressione
(nirodha) attuabile seguendo il cammino appropriato (mārga). Questo
cammino si compie praticando la meditazione sullo svolgersi delle
varie situazioni in cui l'uomo si trova, l'una, la presente,
determinata dalla precedente, e a sua volta condizionante la
seguente (paticcasamuppāda, pratītyasamutpāda); ignoranza (avijjā,
avidyā) e agenti cooperanti coesistono nel meccanismo della persona
umana (saṃskāra); poi la percezione (viññāna, vijñāna), quindi
nāmarūpa, il dar nome alle cose e il percepirle come si presentano,
i sei organi del senso che comprendono anche le reazioni consapevoli
che essi ci suggeriscono (saññā; saṃjñā); queste determinano i
nostri rapporti o contatti (phassa, sparśa) con gli oggetti che
costituiscono le percezioni tattili; da queste ultime deriva la
vedanā; cioè la reazione psichica e mentale causa della nostra
tensione verso quegli oggetti, la nostra ‛sete' di essi (taṇhā,
tṛṣṇā); da ciò l'appropriazione (upādāna); quest'ultima opera come
elemento essenziale perché si determini in noi l'inserimento nel
tempo-spazio, cioè nell'esistenza (bhava) con tutte le sue
conseguenze: nascita, vecchiaia, morte, cioè dolore.
La meditazione su questa legge, dello svolgersi della vita, ci
conduce a conoscere come si origina il dolore e il nostro essere
nello spazio-tempo e quindi il desiderio di liberarcene. Non basta
tuttavia la meditazione: occorre altresì una prassi morale molto
rigida che si riassume nell'ottuplice sentiero: retto modo di vedere
le cose, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di
vivere, retto esercizio in ogni situazione, retta rinuncia, retta
meditazione.
Il fine che il Buddha propone agli uomini è il nibbāna, nirvāṇa,
estinzione nell'atemporale; ma egli non lo definisce, non afferma
cioè che è né che non è, perché ciò equivarrebbe a costringerlo nei
termini di una definizione verbale, mentre il nirvāṇa è una
situazione che trascende la nostra ragione: è soltanto la
soppressione definitiva del karma e perciò il superamento del
saṃsāra. Così si fondò la prima comunità (San̄gha), vagante,
soggetta alla disciplina di tutte le comunità ascetiche del tempo;
essa poi diventò una comunità monacale. Non esiste differenza fra
gli uomini: tutti possono essere accolti come discepoli. Con una
certa riluttanza da parte del Buddha, fu permesso anche alle donne
di prendere i voti.
Malgrado la scissione in diversi successivi indirizzi (diciotto già
se ne noveravano nell'India antica), l'insegnamento elementare di
Śākyamuni, sopra riassunto, ha rappresentato sempre il fondamento
immutabile del buddhismo, al di sopra delle dispute teologiche; esso
si riduceva a quei pochi assiomi ma costituì la fonte da cui
dovevano scaturire circa duemila e cinquecento anni di sviluppo e di
evangelizzazione; alle quattro verità su cui meditare e ai precetti
morali da attuare faceva seguito la negazione di Dio; anche se in
appresso gli dei apparvero nel Mahāyāna, di fatto essi sono immagini
suscitate dalla nostra mente immatura e credula, ed emergono dal
vuoto di un'indefinibile, incolore, luce-coscienza la quale è
l'essere del Buddha. Non esiste l'anima, ma soltanto la
responsabilità morale la quale, dopo la morte, agisce come forza di
propulsione verso il futuro; le nostre azioni non si esauriscono.
La legge di causa ed effetto, che regola l'universo fisico,
condiziona ugualmente lo svolgersi delle azioni umane: ciascuna di
esse produce inevitabilmente il proprio effetto, e pertanto, siccome
ogni azione è il risultato di una volontà consapevole, questa
volontà è una forza che, nel momento della morte, proietta verso il
futuro, carica com'è delle esperienze accumulate, un impulso che
determina il formarsi di un altro complesso psicofisico, cioè un
nuovo individuo, effetto del precedente. A ciò si aggiunga
l'affermazione dell'uguaglianza di tutte le creature, collegate nel
medesimo destino di vivere e morire, solidali, per questa sorte
comune, nella stessa avventura; nella società umana, tale
uguaglianza è appunto l'aprirsi del buddhismo a tutti, senza
distinzione di caste o di classi; un universo dunque retto da
un'inderogabile serie di principi etici e quindi dall'onnipotenza
sovrana della propria responsabilità.
Quando il Buddha giaceva moribondo ed un discepolo gli domandò che
cosa egli lasciasse dopo di sé, egli rispose ‟la mia propria
parola". Nient'altro cioè che il suo insegnamento; ne veniva esclusa
quale che sia deificazione; anche nel Mahāyāna tale principio resta
immutato, perché alcuni suoi maestri identificarono (Dinnāga) il
Buddha con la sua dottrina o con la pura essenzialità.
Nella vita, l'uomo ha il sostegno di alcune virtù che possono
aiutarlo a raggiungere il nirvāṇa: sono le sei (o dieci)
‛perfezioni'; anzitutto la liberalità, il dono, la generosità,
naturale effetto della maitrī e della karuṇā, simpatia e pietà,
l'osservanza dei precetti morali, la costanza, cioè il non cedere,
una volta deciso quale sia il proprio dovere, a nessuna lusinga e a
nessun compromesso, a costo di ogni sorta di sacrifici. Quindi la
pazienza; il vivere insieme implica la tolleranza e la comprensione
degli altri ed è accettazione del proprio destino, perché questo ce
lo siamo creato noi stessi; poi la meditazione; la situazione nella
quale l'uomo vive è di distrazione o di dissipazione; egli è
coinvolto in una serie di eventi che lo costringono a dimenticare
quale sia il proprio destino; la meditazione aiuta l'uomo non
soltanto a concentrarsi su quello che il Buddha ha insegnato, ma
altresì a favorire un'analisi di se medesimo che chiarisca non
soltanto ciò di cui è consapevole, ma anche esplori il mondo del
subconscio. Il risultato sarà la conoscenza, mediante la quale
possiamo conseguire la liberazione dal ciclo delle nascite e delle
morti. L'uomo non ha nessuno cui pregare: basta il triplice
‛rifugio'. ‛Rifugio' nel Buddha in quanto da lui, come Maestro,
deriva la scelta di sentirsi buddhista, suo scolaro e seguace,
‛rifugio' nella dottrina, (Dhamma, Dharma) da lui predicata, e
‛rifugio' nel San̄gha, nella comunità, intesa come l'insieme di
tutti i fedeli non laici (upāsaka), di quanti hanno volontariamente
rinunciato alla vita laica e perciò debbono rispettare precetti più
rigidi e si dedicano alla meditazione e alla predicazione. La
predicazione è rivolta a tutti, agli umili e ai potenti, perché
tutti hanno il diritto di essere aiutati e salvati. Quindi non
soltanto non si frapponevano barriere di casta ma neppure si
ammetteva distinzione di sorta fra uomini di diversa origine o
lingua o nazione.
Da queste idee fondamentali derivò una fervida attività missionaria
ed evangelica che condusse il buddhismo a propagarsi in India e poi
a Ceylon, quindi a conquistare l'Asia centrale, la Cina, la Corea,
il Tibet, il Giappone e il Sud-Est asiatico. In questa sua diaspora
il buddhismo non fu alieno dall'assimilare culti locali con cui
veniva a contatto, o dall'accogliere abiti mentali delle popolazioni
presso cui si diffondeva, sia per la sua tolleranza, sia per ragioni
pratiche di penetrazione e infine anche per vantaggi economici,
appena il Saṅgha proliferò in monasteri; perciò, purché i conversi
avessero accettato i principi essenziali della dottrina, permise che
essi seguitassero a praticare riti di esorcismo o di propiziazione
delle forze occulte che li minacciavano e persino che rendessero
omaggio ai dii minores cui per secoli avevano creduto,
trasformandoli tuttavia in epifanie di deità buddhistiche.
Nella sua preoccupazione essenzialmente etica, il buddhismo antico
non si interessò ad altri problemi, sebbene nella dogmatica più
tarda troviamo incluse una cosmologia ed una cosmogonia, che,
generalmente, riproducono gli schemi diffusi presso le altre scuole
indiane. Tuttavia di questa parte non fece un dogma indiscutibile.
Il Buddha resta sempre il Maestro, un uomo (soltanto fra gli uomini
può nascere il Buddha, non fra gli dei dell'Olimpo indiano) che dopo
anni di meditazione ha intuito, da solo, la propria Verità; questa
non gli è stata rivelata da nessuno; è la scoperta di un uomo che
l'ha tramandata ai discepoli, perciò si può discutere.
L'antidogmatismo del Buddha è così espresso in un suo discorso: ‟O
monaci, non accettate neppure la mia parola senza analizzarla, per
mostrare rispetto per me".
Di contrasto fra buddhismo e scienza non esiste traccia; la scienza
è una cosa nella quale il buddhismo non interferisce: la mente umana
è libera di proseguire nelle proprie conquiste; il buddhista può
accettarle o respingerle, perché tutto ciò non ha nulla a che fare
con lo scopo che egli persegue. Il buddhismo, all'infuori del Tibet,
non ha una Chiesa con un capo o pontefice; tuttavia, i grandi
monasteri sono divenuti spesso potenti organizzazioni politiche ed
economiche, come nel Tibet e nel Giappone; l'alleanza fra essi e i
grandi proprietari terrieri e l'aristocrazia feudale era
inevitabile: l'aderire alla setta arroccata in una serie di
monasteri coinvolgeva i laici in una cooperazione, dalla quale
entrambi traevano un reciproco vantaggio. Ma il popolo rendeva
omaggio od offriva ugualmente donazioni in beni o di danaro
indiscriminatamente all'uno o all'altro monaco che gli si
presentasse, perché di lui e della sua sacralità era timoroso.
Il buddhismo è tuttora diviso in due gruppi che convenzionalmente si
è usato definire, per molto tempo, Hīnayāna e Mahāyāna: ‛la via da
percorrere da un più ristretto numero di persone' e ‛la via aperta
al più gran numero di persone'. Non v'è nell'espressione Hīnayāna
nessun senso limitativo o dispregiativo; ma è più esatto dire che
nel buddhismo si distinguono due correnti: quella che preserva le
tradizioni antiche, genericamente detta Theravāda, e il Mahāyāna,
che comunemente si traduce ‛grande veicolo'. Ma le due scuole hanno
spesso convissuto nello stesso luogo.
In senso lato si può sostenere che il Mahāyāna, anche se così non
veniva chiamato ai tempi del Buddha o subito a lui posteriori, è
quasi coevo con le origini del buddhismo com'era inteso e praticato
dai convertiti laici (upāsaka) i quali, pur accettando il suo
insegnamento, non del tutto abbandonano le superstizioni avite e che
il Buddha aveva tollerato, consapevole che le masse non potevano
d'un tratto rinunciare ai loro convincimenti, o riti o feste.
Questa duplice divisione s'impone perché il Mahāyāna, come
formulazione dogmatica e teorica, è più tardo rispetto al Theravāda
e altre sette affini e si è conformato lentamente, a mano a mano che
il buddhismo si diffondeva in ogni parte dell'India e fuori
dell'India. Il Mahāyāna prosperò, almeno fino al 1948, nel Tibet e
nella Mongolia nella sua forma lamaista, e in parte anche in Cina
fino al sorgere della Repubblica Popolare Cinese (1949); esso poi
domina, diviso in diverse sette, in Giappone dove le scuole
dell'altra corrente sono del tutto estinte, e anche nel Vietnam
(dove penetrò, in epoca recente, anche qualche gruppo Theravāda). Il
Theravāda, la scuola antica, lo si ritrova a Sri Lanka (Ceylon) che
ne è il centro principale, in parte del Bangla Desh (Chittagong), in
Birmania, in Thailandia. Tanto l'una che l'altra corrente possiede
il proprio ‛canone' detto Tipiṭaka, Tripitaka (‛le tre ceste') cioè
le tre raccolte: a) la rivelazione del Buddha, i suoi discorsi, la
sua predicazione; b) le regole disciplinari; c) la parte dogmatica e
speculativa (Abhidhamma, Abhidharma), certamente lentamente
elaboratasi.
Dalle primitive modeste comunità, che vagavano elemosinando, si
isolavano in romitori o parrocchie, si radunavano in luoghi
prestabiliti durante la stagione delle piogge, si arrivò presto ad
un'organizzazione monastica. Così ebbero origine i conventi. La
fondazione dei conventi non soltanto modificò le tradizioni
primitive, ma condusse ad un inserimento della comunità buddhistica
nella vita sociale e politica; i monasteri ricevevano donazioni,
furono fondati e protetti da mercanti e da dinastie, divennero
potenti centri economici, possedevano vaste proprietà; perciò furono
guardati con sospetto in Cina dove la loro ricchezza, la condotta
non sempre ineccepibile dei monaci, l'influenza che essi avevano
sulle masse, il fatto che la vita monastica sottraeva molta gente al
lavoro e ai doveri civili, lo sciupio di metalli e di oro per le
immagini indussero il governo a una vigile sorveglianza che causò
anche persecuzioni, di cui alcune durissime.
Il buddhismo divenne religione di Stato nel Tibet perché la
religione indigena, detta Bon, non rappresentò mai un ostacolo; essa
anzi accetta molti principi dottrinali del buddhismo.
In Giappone i grandi monasteri in lotta fra di loro, ricchissimi,
esenti da tassazioni, si inseriscono per diversi secoli come fattore
determinante nella storia politica del paese. Il buddhismo vi
prosperò a fianco della religione originaria, lo shintō; fin dai
primi tempi avvenne un'osmosi fra le due religioni; divinità
buddhistiche furono accolte dai seguaci dello shinto e viceversa.
Anche dopo la rivoluzione Meiji (1858) prevalse, per legge, lo
scintoismo, come religione di Stato, ma i buddhisti non ne ebbero a
soffrire.
È impossibile dire quanti oggi siano i buddhisti nel mondo; nel
Tibet, per esempio, la popolazione sembra in gran parte ancora
seguire la religione avita, ma i monasteri e le istituzioni monacali
sono scomparse. Se molti si dichiarano buddhisti, ciò non significa
che il buddhismo sia da essi praticato secondo le regole o
conosciuto nei suoi principi reali; viceversa in molti paesi, dove
la situazione politica è cambiata, non pochi sono restati nei propri
convincimenti buddhisti, sebbene apertamente non lo dichiarino. Da
ciò deriva l'impossibilità di un calcolo approssimativo dei seguaci
del buddhismo; secondo alcune statistiche recenti essi sarebbero fra
i 170.000.000 e i 200.000.000.
2. Il buddhismo e la nuova situazione politica in Asia
Se il potere politico ed economico delle comunità buddhistiche nei
paesi asiatici è diminuito, tuttavia nel momento attuale esse sono
coinvolte nei moti che agitano la società nel Sud-Est asiatico, in
Giappone, a Sri Lanka (Ceylon), in Birmania e in Thailandia. Il
buddhismo non ha potuto ignorare le lotte che, fin dai primi di
questo secolo, hanno agitato e sconvolto molta parte dell'Asia;
alcune società segrete che prepararono il terreno alla rivolta dei
Boxers furono di ispirazione buddhista (l'Associazione del loto
bianco, ecc.).
Appena le prime ribellioni al colonialismo ebbero l'avvio e presero
consistenza audaci correnti nazionaliste, il buddhismo le sostenne.
Nei paesi in cui il buddhismo è stato per secoli fiorente e
predominante (gran parte dell'Indocina, la Birmania, la Thailandia,
restata sempre indipendente, Sri Lanka), esso si assunse il compito
di difensore dei valori spirituali e culturali che quelli avevano
ereditato. In alcuni di questi paesi, come la Cambogia, la
Thailandia e la Birmania, il re era, se non il capo, il protettore
della religione, colui che la impersona, anche se a fianco al
buddhismo si trovavano minoranze seguaci di altre fedi. La
propensione a definirsi ugualitario e democratico trova la propria
giustificazione nella predicazione del Buddha; appena nei paesi
asiatici si organizzò una contrapposizione spirituale all'Occidente,
il buddhismo la favorì. Fin dal 1913 il monaco Dharmapāla pose in
rilievo i caratteri che distinguono il buddhismo dalle altre
religioni e la sua tendenza a secondare il nazionalismo risorgente.
Il buddhismo è sociale ed umanitario; la stessa comunità monacale
(Saṅgha) veniva retta da principi democratici, che essa era riuscita
a salvare malgrado le vicende storiche; quella comunità monacale può
aver avuto, nel corso dei tempi, rapporti di subordinazione o di
prevalenza nei riguardi della cosa pubblica, ma la sua gestione era
restata autonoma. Inoltre la dottrina predicata da Śākyamuni priva
l'uomo dell'istinto della proprietà; anche quando i monasteri
assunsero un grande prestigio economico, ciascuna comunità
conventuale amministrava liberamente i propri beni; il monaco per se
stesso non doveva possedere nulla: la proprietà apparteneva in toto
al monastero.
Perciò non farà maraviglia che Laksmi Narasu proclami che il
buddhismo è anticapitalista. Appena la Birmania acquistò
l'indipendenza, il primo ministro U Nu, fervente buddhista,
parteggiò per le correnti socialiste, affermò che il socialismo è la
conseguenza dei principi sociali e morali del buddhismo e approvò la
nazionalizzazione delle terre.
Più ardito ancora U Bu Swe; egli ritorna al concetto della doppia
verità proclamata dal buddhismo: verità convenzionale, adatta cioè
alla comprensione di tutti, e verità vera, riservata soltanto alle
persone di mente più accorta e sottile; egli dunque sostiene che la
verità convenzionale è il marxismo, mentre la verità vera è quella
del buddhismo; è innegabile che il capitalismo esiste e proprio a
questo Marx si oppone; ma se si tornasse all'insegnamento originale
del Buddha, il capitalismo non potrebbe esistere, né vi potrebbe
essere lotta di classe. Il rapporto fra marxismo e buddhismo è
dialettico, né acquiescenza completa né opposizione. Altri ancora
speculando sul buddhismo e sul marxismo vorrebbero dimostrare che il
buddhismo è oltre il marxismo, ma nel senso che, per i suoi
presupposti, l'uomo è sì nella società, che la società di tipo
marxista è un ideale che tutela la dignità umana, ma che l'uomo, per
il fatto che la sua condizione nel mondo e nel tempo dipende dal
karma, è, in realtà, solo.
Quando si dice che non esiste l'anima si vuole intendere che non c'è
un io statico e sempre identico, ma una continuità di azioni o modi
di essere e di pensare separati, eppure indissolubilmente connessi e
relati; se non esiste un ‛io' non ci può essere un ‛mio'. Questo
elemento di coesione è rappresentato dal karma che non è di uno
soltanto, ma di tutti e quindi condiziona un periodo storico e ne è
a sua volta condizionato in questa tela di interrelazioni e
multideterminanti componenti karmiche.
Il determinismo marxista muove da una situazione di assoggettamento
dell'uomo, con l'intento di superano, per attuare una vera libertà.
L'uomo non nasce libero, ma può soltanto divenirlo quando avrà
superato la situazione morale, intellettuale e sociale nella quale
si trova; quindi, per l'interrelazione sopraddetta esistente fra
tutti gli individui di una determinata società, si avrà libertà
quando queste situazioni sociali e morali saranno superate. Ma il
punto essenziale di diversità fra le due posizioni, marxista e
buddhista, consiste nel fatto che, mentre la prima considera
soltanto la situazione economica, il karma involve tutte le attività
umane e in primo luogo i valori etici; inoltre il karma e i suoi
effetti sono polivalenti, non unidimensionali, in quanto investono
completamente la persona umana e quindi rendono la conquista della
libertà un fatto puramente individuale che, come tale, supera le
situazioni obiettive storiche e sociali nelle quali l'uomo si trova
a vivere. In altre parole l'uomo libero è l'uomo solo. Perciò il
buddhismo viene considerato come una dottrina che ha punti di
contatto con il marxismo ma ne supera l'unilateralità; tende ad una
evasione singola che consiste nella piena realizzazione di ciascuno,
con l'interruzione del processo karmico. Ma questo modo di pensare è
proprio di alcuni teorici e non largamente condiviso,
3. Il buddhismo in Asia
a) Sri Lanka (Ceylon)
Dal 22 maggio 1972 è stata proclamata la nuova repubblica di Sri
Lanka; essa ha denunciato la sua condizione di colonia della Corona
britannica, ma resta nel Commonwealth; si è proclamata stato
secolare nel quale si riconosce la preminenza del buddhismo, ma
tutte le religioni sono ugualmente tollerate.
Nella Sri Lanka, dopo la conseguita autonomia, presero consistenza i
movimenti che si proponevano di eliminare le sopravviventi ingerenze
politiche ed economiche dell'Occidente, e di contrapporre la
dottrina tradizionale buddhistica alla classe dirigente di
formazione cattolica o protestante, che aveva maggior potere, perché
più preparata culturalmente; allora, molti buddhisti, meno colti
perché, specialmente quelli delle classi povere, avevano frequentato
soltanto le scuole dei monasteri, si avvicinarono, per seguire una
comune azione sociale, al trotzkismo; vi fu chi affermò che il
marxismo è un foglio strappato dal buddhismo.
Questo perciò, pur propendendo, nella Sri Lanka, almeno in alcuni
settori, verso interpretazioni trotzkiste, restò fermo nelle proprie
posizioni; una forza autonoma che rappresentava un insopprimibile
patrimoniò spirituale del paese. Esistono molti fattori a favore
ditali tesi; anche se il Buddha nelle folle sperdute nei villaggi è
oggetto di culto, resta sempre un maestro il quale, oltre che
insistere sull'uguaglianza di tutti, inculcò il senso della carità,
della compassione, della responsabilità morale, la solidarietà con
tutto ciò che vive. In questi suoi principi si possono trovare le
premesse di certe istanze che oggi si vanno dappertutto diffondendo:
necessità di eliminare o ridurre la sperequazione delle classi,
libertà di pensiero, dovere dell'assistenza sociale che spetta alla
comunità, miglioramento delle condizioni economiche. Tali principi
permisero a S. W. R. D. Bandaranaike, in Ceylon, di opporsi, come il
rappresentante o il portavoce dei valori tradizionali del paese, a
coloro che professavano una religione importata. Perciò egli
combatté il Fronte Unito Popolare, troppo legato a una cultura non
proprio indigena, e proclamò il buddhismo religione di Stato.
Naturalmente, anche i monasteri, con le loro ricchezze ed i loro
privilegi, rappresentavano un ostacolo: essi volevano restare
autonomi, senza nessuna ingerenza dello Stato, sia
nell'amministrazione dei propri beni, sia nella conduzione delle
loro scuole. Bandaranaike, associatosi nel governo Gunavardena, del
partito di sinistra, fondò due università sul modello delle europee
e un Ministero per gli Affari Culturali. Così egli si trovò ad avere
contro di sé non soltanto i seguaci del Fronte Unito Popolare, ma
anche parte della comunità buddhistica (Saṅgha), lesa nei propri
interessi e nella propria autonomia. Considerato un Bodhisattva
(cioè una persona incamminatasi con successo nella via che conduce
alla condizione di Buddha) fu poi ucciso proprio da un monaco. Ma la
vedova Sirimavo Bandaranaike, che gli succedette nel governo, attuò
la nazionalizzazione delle scuole, presentò una legge che aboliva il
privilegio concesso ai monasteri di non pagare le tasse, strinse
rapporti diplomatici con la Cina, Hanoi, la Corea del Nord.
b) Birmania e Thailandia
Il buddhismo della scuola Theravāda ha antiche tradizioni in
Birmania; non appena cominciò la lotta contro gli Inglesi i monaci
buddhisti vi parteciparono attivamente e molti di essi furono anche
carcerati. Conseguita l'indipendenza (1947) il buddhismo si
riorganizzò con tendenze spiccatamente socialiste; il principale suo
organizzatore fu U Nu. Egli convocò il Sesto concilio buddhistico e
il 17 agosto 1961 proclamò, come primo ministro, il buddhismo
religione di Stato, sebbene tutte le religioni fossero ugualmente
ammesse e tollerate.
Le cose cambiarono quando il potere passò nelle mani del generale Ne
Win, che accentuò il contenuto socialista del governo e cercò anche
di limitare il potere dei monaci e proclamò la Repubblica Socialista
della Birmania. La compatibilità del buddhismo e del marxismo non è
un fatto nuovo nel Sud-Est asiatico e in Sri Lanka, ma essa ha avuto
in alcuni pensatori birmani i suoi maggiori assertori (per es. U Ba
Sue).
Nella Thailandia il buddhismo Theravāda è la religione di Stato,
sebbene vi si trovino minoranze di tribù che tuttora seguono le
proprie primitive tradizioni religiose, del tutto estranee al
buddhismo, all'infuori di alcune contaminazioni avvenute per causa
di contatti secolari.
Il governo svolge un'intensa propaganda mediante missionari che, sul
modello di quanto hanno fatto altrove i cristiani, in parte
insegnano e predicano, in parte svolgono opera assistenziale. Altri
missionari dovrebbero convertire le tribù non buddhiste. La comunità
è centralizzata e divisa in due gruppi: Mahānikāya (la grande setta)
e Dhammayutuka-nikāya (la setta dei seguaci del Dhamma, la Legge
buddhistica). Cotesta casta monacale ha al sommo un patriarca
nominato dal re su proposta del Ministero degli Affari Religiosi.
Egli è assistito da un Gabinetto di dieci membri e diviso in quattro
dipartimenti: amministrazione dei beni della Chiesa, educazione,
propaganda ed opere assistenziali. In un paese che ha una tradizione
di cultura buddhistica molto antica, ma nel quale, soprattutto nelle
province nord-orientali, incombono minacce di correnti comuniste, lo
Stato ha cercato di rendere possibile ai monaci un'istruzione più
adatta ai tempi moderni, di permettere cioè a molti di essi, educati
nei monasteri sperduti nei villaggi, di ricevere un'educazione più
adeguata e completa: tanto moderna che non sono mancate le critiche
degli ambienti più conservatori, i quali vedono nei nuovi
ordinamenti (in gran parte dovuti ad ispirazione americana) la
tendenza a politicizzare i monaci. Nelle due università buddhiste
Mahākuṭa e Mahāchulalongkorn ci si propone non soltanto di
approfondire la conoscenza della lingua pāli, nella quale sono
scritti i sacri testi, o della filosofia buddhistica, ma anche di
estendere lo studio ad altre discipline: sociologia, economia,
diritto, storia dell'Asia sud-orientale, archeologia. I monaci nei
tempi passati vivevano nello stesso ambiente culturale del popolo;
oggi, se la loro cultura non si adeguasse alle esigenze dei tempi
moderni, verrebbe a crearsi un'incolmabile differenza fra essi ed i
laici; i monaci quindi debbono trovarsi nel piano culturale alla
pari con i laici.
c) Vietnam
Negli altri paesi del Sud-Est asiatico gli avvenimenti non
permettono di seguire con precisione le vicende del buddhismo e i
suoi rapporti con il pensiero e la vita politica dei popoli, perché
monaci e laici, qualunque sia la loro fede, sono tuttora coinvolti
in una situazione che non possono controllare.
I Vietnamiti del Nord e del Sud erano restati, nelle campagne,
fondamentalmente fedeli alle proprie tradizioni animistiche, nelle
quali si sono, nel corso dei tempi, inserite tre correnti: la
confuciana, la taoistica, la buddhistica. Ma negli ultimi 70 anni il
buddhismo ha preso il sopravvento. Dal 1931 esso si rinnovò nel
senso che sulle liturgie popolari e sui riti propiziatori o
esorcistici cominciò a prevalere una nuova corrente, favorita dai
Francesi, più dotta, che si volse allo studio del buddhismo tornando
alle fonti.
Dal 1931 al 1934 si fondarono tre associazioni buddhistiche che
hanno tradotto opere dei vari canoni. Due scuole si affiancarono: la
mahāyānica, più antica, e il Theravāda introdotto in tempi più
recenti. Nel 1951 ebbe luogo a Hue un congresso nazionale
buddhistico cui presero parte monaci e laici, si fondò
un'organizzazione unitaria (Tong Hoi Phat Giao) che accolse i
buddhisti del nord, centro e sud, pubblicò anche una rivista ‟Phat
Giao Vietnam" (Il buddhismo vietnamita) e aderì alla World
Federation of Buddhists, inviando giovani a studiare all'estero e
partecipando a congressi a Tōkyō e a Rangoon. In seguito sorsero
delle sette particolari, notevolmente impegnate nella lotta
politica; la più importante fu quella del caodismo, che, pur avendo
remote affinità con il buddhismo, ne è assai diverso e ad esso
spesso si contrappose. Sotto Ngo Dinh Diem si accentuò la lotta
contro il potere del dittatore e il buddhismo assunse sempre di più
un carattere politico, assimilando la propria tradizione religiosa
con il nazionalismo e opponendosi alla cultura straniera importata
dal cristianesimo.
Dal 21 dicembre 1963 al 3 gennaio 1964 ebbe luogo un imponente
congresso di buddhisti vietnamiti che condusse ad un'unificazione o
piuttosto cooperazione fra le due scuole: quella del Mahāyāna e
quella del Theravāda, e si fondarono una chiesa detta ‛Chiesa unita
del buddhismo vietnamita', un Istituto degli Affari Religiosi e un
Istituto per la Propagazione della Fede. La Chiesa unificata che
mirava ad una collaborazione delle due correnti (Mahāyāna e
Theravāda) sotto la spinta, in modo particolare, dei seguaci della
prima si inserì nella vita politica del paese, convogliando le masse
popolari nazionaliste e patriottiche. Ma fu appunto questa tendenza,
espressa in forme più accese, che alla fine produsse la scissione e
l'affievolirsi dell'importanza della suddetta Chiesa come fattore
politico, sopraffatto dalle vicende belliche che sconvolsero il
paese.
Neppure la guerra è infatti riuscita a ravvicinare i due gruppi, ma
i buddhisti hanno spesso dato prova della sincerità delle proprie
convinzioni con il sacrificio, dandosi fuoco, come testimonianza
della propria fede.
Il suicidio dei monaci per mezzo del fuoco o in altro modo, di cui
abbiamo avuto molti esempi nel Vietnam e che è stato imitato, come
protesta, anche in Occidente, è suggerito in parte da un capitolo
del Saddharmapuṇdạrīka (il ‟Loto della buona Legge") che ebbe molta
fortuna nell'Asia centrale ed in Cina. Ma Bhaiṣajyaguru, del resto
figura leggendaria e mai esistito, lo compì, secondo quel libro,
come modo di venerare il Buddha eterno, non certo per ragioni
politiche. Altri monaci si suicidarono nella stessa guisa in Cina
per imitare le buone opere dei Bodhisattva, e per protestare contro
persecuzioni o situazioni politico-religiose non approvate. Tale fu,
per esempio, il caso di Tao-chi che, durante la dinastia dei Chou
settentrionali (557-581), quando la corte ordinò la persecuzione del
buddhismo, digiunò fino alla morte insieme con sei compagni, o di
Ta-chih che ai principi del sec. VII esortò il re a sospendere il
decreto di persecuzione del buddhismo, bruciandosi un braccio. Altri
esempi di suicidio con il fuoco, come testimonianza dell'aver
superato ogni attaccamento alla vita e intuito la vacuità del tutto,
non sono rari nella letteratura buddhistica cinese. Sebbene il
suicidio sia stato condannato dalle regole disciplinari, se ne
ricordano casi anche in India ma in più scarso numero; è probabile
che in Cina il suicidio religioso ricevesse uno stimolo dalle idee
confuciane (Confucio disse ad uno dei suoi scolari che un uomo
virtuoso non deve anteporre la vita al rispetto dell'onore).
d) Cambogia e Laos
Nella Cambogia il buddhismo Theravāda fu introdotto da tempi
antichi; i monasteri, oltre ai propri compiti religiosi, assolvevano
anche quello dell'insegnamento; poi, a poco a poco, con il sorgere
delle scuole statali, diminuì il numero degli studenti che
frequentavano quelle monacali; il buddhismo che si pratica è
piuttosto elementare e si ravviva specialmente nelle feste o in
occasioni particolari come i matrimoni o i funerali. I monaci
possono ritornare a vita laica salvo a rientrare nei conventi come
amministratori o maestri. Quando si costituì, nel 1935, il partito
socialista, questo pose in rilievo il valore sociale del buddhismo
ed entrò attivamente nella vita politica; Sihanouk fu promotore di
un movimento detto Sangkum Reastr Niyum, ‛Comunità socialista
popolare', che si propose di restaurare, con valore non più
contemplativo ma sociale, la trinità: nazione, religione, re.
Anche nel Laos il buddhismo fu coinvolto nei movimenti politici; e
nel Pathet Lao fu costituito un Ministero per gli Affari Religiosi.
Durante il colpo di stato di Vientiane i monaci erano in testa alla
dimostrazione contro l'America. Naturalmente in questi paesi del
Sud-Est asiatico gli avvenimenti attuali hanno sconvolto la
situazione religiosa e quindi, prima di esprimere un giudizio sugli
effetti che in essi potrà produrre il buddhismo, occorrerà attendere
la sedimentazione che avverrà soltanto a conflitto ultimato.
e) India
Il buddhismo in India si spense lentamente assorbito dall'induismo o
sopravvisse, in forme piuttosto degeneri, in alcune parti fino a
tempi recenti (Dharmaṅgala nel Bengala); la sua filosofia confluì in
quella vedantica; le sue forme gnostiche (Tantra) si confusero con
quelle śivaite. L'interesse per il buddhismo si risvegliò dopo le
ricerche dell'orientalismo occidentale e la fondazione della
Mahābodhi Society (originariamente Gayā Mahābodhi Society) per opera
di D. Hewavitarne che, presi i voti, assunse il nome di Anāgārika
Dharmapāla (morto nel 1933); la società ebbe il suo inizio con lo
scopo principale di far risorgere Gayā, il posto dove il Buddha
aveva conseguito l'illuminazione, sottraendola agli Indù; fu poi nel
1892 trasferita a Calcutta e dette inizio alle sue pubblicazioni: H.
S. Olcott, E. P. Blavatsky e Annie Besant ne seguirono le sorti,
sebbene la Blavatsky e la Besant finirono con il propendere verso le
scuole indù e le correnti teosofiche. Dharmapāla intraprese un lungo
viaggio di propaganda nel 1899 in molte parti dell'India e la
Mahābodhi Society si adoperò perché altri centri sorgessero nei
diversi luoghi consacrati dalla tradizione buddhistica. La sua
attività consistette soprattutto nella predicazione, ma non si può
dire che egli abbia esercitato un grande influsso sul popolo:
piuttosto su intellettuali e studiosi che furono attratti dal
buddhismo per curiosità scientifica o propensioni spirituali e che
possedevano buona conoscenza del pensiero dell'india; fu così che, a
poco a poco, si fondarono nelle università centri di studi
buddhistici; uno dei primi fu quello della Vidyābhāvanā di
Shantiniketan, voluta da Tagore; poi seguirono quelli di Calcutta,
Bombay, Poona. Dopo l'indipendenza dell'India la società prese il
nome di Mahābodhi Society of India; il suo centro resta a Calcutta,
ma ha diramazioni e sedi a Bodh-Gaya, Sarnath, Nuova Delhi, Sanchi,
Bombay, Lucknow, Kalimpong, Bangalore e in altri luoghi.
Un impulso nuovo venne dato al buddhismo da Ambedkar (morto nel
1956) che condusse a compimento l'opera intrapresa da Gandhi per la
redenzione degli intoccabili. Egli ottenne l'iniziazione a Nagpur,
poco prima della morte scrisse il libro Buddha e il suo Dhamma e in
virtù della sua personalità, della fermezza dei suoi convincimenti,
della sua attiva propaganda, persuase gli intoccabili, che
l'induismo aveva escluso dalla società, ad accettare il buddhismo
come propria religione. I paria accolsero con favore questo nuovo
messaggio che era non soltanto religioso, ma politico e che
presentava il Buddha come un rivoluzionario ed affermava tre
principi fondamentali: libertà, uguaglianza, fraternità. Le
statistiche hanno fatto ammontare il numero dei convertiti ad oltre
tre milioni.
La semplicità dell'ammissione alla religione e della sua pratica
(invocazione: onore sia al Buddha, il Beato, l'arhant, il perfetto
svegliato; formula, recitata tre volte, del triplice rifugio: prendo
rifugio nel Buddha, nella Legge da lui predicata, nella comunità;
osservanza delle cinque regole: astensione dal fare offesa ad ogni
creatura vivente, astensione dal furto, astensione da atti impuri,
astensione dalle menzogne, astensione dalle bevande alcoliche) rese
facile il successo. Naturalmente bisogna ben distinguere la
conversione degli intellettuali, o degli studiosi che possono
accedere alle stesse fonti della dottrina nelle sue forme più
complesse, da quella della gente semplice, derelitta, spesso
analfabeta, che parla diverse lingue o dialetti. La vera forza di
coesione che tiene unite queste umili creature è la nuova dignità
che sanno di aver acquistato ed in molti anche le implicazioni
sociali e politiche che l'accettazione della nuova religione, se
religione si può chiamare, conteneva. Non può tuttavia affermarsi
che essa abbia sempre prodotto un mutamento radicale delle
convinzioni religiose piuttosto primitive dei nuovi conversi. Da
quanto si può dedurre dalle informazioni, di diversa origine e
quindi di vario peso, sembra che mentre alcuni dei nuovi buddhisti,
sperduti nei villaggi o ai margini delle città, hanno distrutto le
immagini (qualche volta rappresentate da una pietra informe) delle
loro deità avite, alle quali si offrivano spesso sacrifici cruenti,
quasi per dar atto di ribellione o di una rottura con il passato,
altri non sono riusciti a liberarsi dalle vecchie superstizioni, e
pur dichiarandosi buddhisti seguitano a compiere riti ancestrali che
con il buddhismo non hanno nulla a che vedere.
Ambedkar aveva fondato una Società per l'educazione del popolo e una
Società buddhistica dell'India. La prima si rese necessaria perché
l'India è uno stato laico e quindi nelle scuole indiane non si
insegna nessuna religione; pertanto l'insegnamento religioso può
avvenire soltanto al di fuori dell'orario prescritto e gli
insegnanti sono monaci o laici, siano essi indiani, ceylonesi,
thailandesi o anche tibetani. Vi sono dei Buddhācārya (‛Maestri
buddhisti'), ai quali è affidata la parte rituale: consacrazione,
imposizione del nome, matrimoni e liturgie funebri.
A questa comunità buddhista, che si ispira alle elementari norme del
Theravāda, bisogna aggiungere i molti monaci e laici immigrati in
India appena il Tibet fu conquistato dai Cinesi. Il Dalai-Lama
fuggito dal Tibet nel 1959 vive in Dharamsalā e con lui i seguaci
della setta dei dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa); i rÑiṅ ma pa
(pronuncia: Nyningmapa) hanno il loro capo a Kalimpong; i bKa'
brgyud pa (pronuncia: Kaghiüpa) in Dalhousie e in Darjiling e così
via. La divisione fra sette, che nel Tibet non di rado era stata
addirittura reciproca, irriducibile avversità, sta scomparendo in
India; debbono ricordarsi l'Istituto di Studi Buddhistici nel
Bengala a Buxa, e a Nuova Delhi la Tibetan House. Il Dalai-Lama è
favorevole ad un programma che elimini le vecchie discordie fra le
sette, a riorganizzare gli studi e i corsi dedicati alla meditazione
e a introdurre l'insegnamento di altre lingue, o hindī o inglese.
Oltre a questi gruppi ecclesiastici, esiste in India un gran numero
di laici e di giovani tibetani occupati in diversi lavori, in
villaggi appositamente ad essi destinati, ma non tutti tollerano
fisicamente il clima umido e caldo dell'India. Naturalmente,
malgrado gli sforzi che si compiono, questo buddhismo trapiantato in
India fuori del suo ambiente naturale e posto a contatto con diverse
culture subisce le conseguenze della mutata situazione. Essendo
l'organizzazione monacale tibetana piuttosto chiusa, non c'è da
pensare ad un'efficace opera di propaganda nelle masse indiane: al
massimo alcuni tibetani che conoscono l'hindī potranno insegnare in
alcuni centri, essere impiegati come assistenti nelle università
dove esiste una cattedra di studi buddhistici, ma il buddhismo
tibetano, nella sua maggior parte esoterico, non mi sembra possa
avere grandi possibilità di successo. Esso rappresenta un modo di
essere che non corrisponde alle mutate esigenze sociali e
all'atteggiamento delle classi colte indiane, le quali cominciano a
dubitare della loro stessa religione tradizionale, sebbene si
glorino delle superbe costruzioni del loro pensiero filosofico, e si
proclamano indú, in quanto ne rispettano i precetti teorici, e
tuttavia non ne seguono più i riti e non hanno più fede negli dei
antichi.
f) Nepal
Nel Nepal il Congresso nepalese, formatosi sull'esempio del
Congresso indiano, riuscì ad abbattere il regime dei Rana, per
riportare al trono la democrazia; agitato per molti anni da scontri
fra vari partiti, fra i quali uno ispirato dal comunismo cinese, il
Nepal subisce di riflesso il moto delle idee che si agita
nell'India; ma la popolazione nel suo insieme resta fedele alle sue
tradizioni religiose. I Nepalesi sono in parte indù e in parte
buddhisti, specialmente seguono il buddhismo tantrico che ha molte
affinità con quello tibetano. Le varie sette e scuole vivono in buon
accordo e non si notano voci di protesta degne di rilievo; le
vecchie tradizioni ancora resistono sebbene fra le nuove generazioni
si noti un minor conformismo. Ma è troppo presto per parlare di una
crisi religiosa del Nepal.
g) Cina
Quando i primi contatti con l'Occidente divennero più facili e
frequenti, dopo il crollo del ‛Celeste impero', e fu proclamata la
Repubblica Cinese (30 dicembre 1911), si riscontrano in Cina i primi
tentativi di adeguamento del buddhismo alla nuova situazione. Da una
parte il governo cerca di limitare la potenza dei monasteri e di
ridurne o addirittura confiscarne le proprietà, dall'altra le
comunità monastiche si accorgono del pericolo che esse corrono e
vorrebbero rammodernarsi; esse aprono perciò scuole nelle quali si
insegnano i primi rudimenti della scienza, si fondano ospedali e
brefotrofi; è non soltanto una politica che subisce l'influsso della
nuova situazione, ma anche un abile tentativo di salvare il
salvabile, tanto più che le difficili condizioni economiche, in cui
si dibatteva il paese, provocavano una sensibile riduzione dei
contributi dei fedeli per i riti usuali, specialmente quelli
funebri, e inoltre i contadini che coltivavano le proprietà terriere
dei conventi si rifiutavano di pagare le decime. Sotto la spinta e
il controllo della comunità si costituirono molte associazioni
buddhistiche; a fianco a queste, ma indipendenti, si formarono pure
associazioni di laici, le quali con l'aiuto degli iscritti o di
altri benefattori aprirono scuole, ospedali, ospizi e favorirono
riunioni settimanali, veri e propri servizi religiosi, nei quali si
recitavano in comune le preghiere, si celebravano ‛giorni di
digiuno', si recitavano o si facevano recitare e spiegare da monaci,
di proposito invitati, alcune sacre scritture; queste erano scelte
fra le meno complicate, e tali da accendere nei fedeli la speranza
post mortem di facili beatitudini; la preferenza veniva data ad
alcuni testi, come quelli del ‟Paese felice" (Sukhāvatī), che
celebrano le glorie del paradiso di Amitabha. La situazione della
comunità religiosa, la quale era stata considerata in Cina
un'istituzione che rispondeva alle esigenze spirituali di larga
parte del popolo, ma che lo Stato teneva sempre sotto il proprio
controllo, ebbe tutto l'interesse a mantenersi estranea a quale che
sia movimento politico: era infatti combattuta fra l'aspirazione a
non esser del tutto privata dei privilegi, assicurati da tradizione
secolare, e la consapevolezza dei mutamenti radicali attesi dai
giovani. Questi ultimi infatti sempre più numerosi si distaccavano
dalla religione, qual era rappresentata dai monasteri, come da
consuetudini antiquate; perciò la comunità era in una situazione
difficile, dovendo barcamenarsi fra i vari governatori provinciali,
i generali che si alternavano, la simpatia o l'antipatia delle
persone al potere, l'invasione giapponese (1937). Inoltre di fronte
al risorgere del Theravāda si era ritrovata in posizione di
svantaggio.
Vi furono tuttavia uomini di grande levatura, come Yang Wen-hui, i
quali tentarono di seguire l'esempio di Dharmapāla e si proposero di
preparare persone capaci di svolgere un'opera missionaria o di
prendere contatti con buddhisti di altri paesi. Però, mentre queste
missioni non ebbero quasi nessun risultato, la Cina apriva le porte
a quelle straniere; infatti le sette giapponesi Jōdo Shinshū e
Higashi Honganji inviarono in Cina alcuni loro rappresentanti e i
Cinesi più che missionari furono per forza di cose costretti a
mandare discepoli in Sri Lanka, Burma, Thailandia per meglio
studiare il buddhismo nei suoi diversi aspetti. Questa era una
decisione importante perché il Mahāyāna in Cina, come nel Tibet,
aveva avuto per il Theravāda scarsa considerazione ed ora
quest'invio di monaci cinesi nei paesi dove il Theravāda era
fiorente significava un tentativo di ritorno alle origini. Tuttavia
è interessante notare come dalla fine del secolo passato, fino al
trionfo della Repubblica Popolare Cinese (1949), il buddhismo cinese
comincia ad uscire dal proprio isolamento, avverte la necessità di
rinnovarsi, di organizzarsi in forme che non di rado tradiscono
imitazioni delle organizzazioni missionarie cristiane.
La persona nella quale meglio si esprime quest'ansia di riforma è
T'ai-hsü (1890-1947), fondatore di una rivista ‟Hao-ch'ao-yin"
(1920), promotore di una conferenza mondiale del buddhismo a
Lu-shan, desideroso di indebolire la potenza dei monasteri o per lo
meno di dare maggior peso alle attività sociali e missionarie che
alle liturgie o ai riti, che facilmente tralignavano in esorcismi e
magia; egli visitò l'Europa e l'America, promosse l'istituzione di
una Unione mondiale dei buddhisti e nel 1945 divenne il capo
dell'Associazione buddhistica della Cina.
Dopo l'avvento della Repubblica Popolare Cinese Mao Tze-tung
affermò, in principio, che la religione non si può abolire con un
decreto amministrativo: occorre soltanto rimuovere a poco a poco le
ragioni delle sue incongruenze e dimostrare la sua inutilità.
Occupato il Tibet, il governo della Repubblica Popolare Cinese
assicurò che il Dalai-Lama sarebbe restato nella sua carica e che la
religione sarebbe stata rispettata. Ciò fu la conseguenza di un
calcolo politico, perché Mao Tze-tung era consapevole che molta
parte dell'Asia era buddhista e che sia nel Sud-Est asiatico sia nel
Giappone il buddhismo era stato introdotto dalla Cina insieme con la
vasta mole della sua letteratura canonica. Nel 1952 alcuni buddhisti
cinesi furono invitati ad una conferenza per la pace dei popoli
asiatici; il tibetano Šes rab rgya mts'o (pronuncia: Sherapghyatsho)
fu eletto presidente di una Società buddhistica, che si rivolgeva
soprattutto ai tibetani; il buddhismo non poteva essere, si disse,
in opposizione alla nuova democrazia, perché rappresentava una
visione della vita in se stessa rivoluzionaria; i monaci però invece
di dedicarsi ai riti liturgici dovevano inserirsi nel nuovo sistema
sociale, secondare le riforme, diventare maestri di scuola. In
seguito, di fronte alla resistenza dei monaci tibetani, si ricorse
alla maniera forte; il Dalai-Lama fuggì dal Tibet; anche il Pan c'en
Lama, la maggiore autorità spirituale tibetana, il grande abate di
Tashilhünpo, che i Cinesi stessi avevano educato, ma che non volle
seguirli fino alle estreme conseguenze, cadde in disgrazia e non si
seppe più nulla di lui. Tuttavia pare che dal 1952 al 1962 i
comunisti spesero per restaurare i templi una somma corrispondente
alla media di quanto nello stesso periodo elargiva la dinastia
Ch'ing (1644-1912) con la differenza che i monaci erano costretti a
servizi di Stato, e non più a pregare, come allora, per la longevità
e il bene dei grandi burocrati. Vi furono nel 1950 e 1952 a Pechino
e altrove recitazioni di libri sacri (Vajracchedikā) contro i demoni
imperialisti o per assicurare la vittoria in Corea. Nel 1955 i
monaci raccolsero firme contro la bomba atomica: il monaco Pen-huan
ridorò una statua del Buddha per onorare i patrioti e per invocare
la pace; ma l'iniziativa venne poi dichiarata illegale e Pen-huan
venne arrestato nel 1958.
Nel 1964, ricorrendo l'anniversario del nirvana del Buddha, il
vice-primo ministro Ch'en Yi con sua moglie si recarono a far visita
al tempio di Kelaniya in Ceylon; secondo i riti tradizionali, a
Pechino, Shang hai e Lhasa si fece il bagno della statua del Buddha;
nel mese di marzo fu celebrato il 1300° anniversario della morte del
celebre pellegrino cinese Hsüan Tsang (602-664) che nel VII secolo,
traversando l'Asia centrale, si recò in India per raccogliere libri
e studiare la situazione del buddhismo; nello stesso anno furono
ricevute missioni buddhistiche da tutti i paesi dell'Asia: Cambogia,
Ceylon, Giappone, Laos, Sud e Nord Vietnam, Indonesia, Mongolia,
Nepal.
Fin dal 1951 era stato creato un Ufficio per gli Affari Religiosi
con diramazioni in tutto il paese e nel 1953 un'Associazione
buddhistica cinese sotto la presidenza di Yüan-ying, già a capo
dell'Associazione buddhistica fondata nel 1924. In realtà l'ufficio
era un organo che si opponeva alle comunità (Saṅgha) e che dirigeva
la confisca dei beni dei monasteri, costringendo i monaci a svolgere
altre attività della vita sociale e a coltivare la terra; i riti
religiosi furono considerati pratiche superstiziose; sembra che dopo
il 1957 nessuno venne più consacrato monaco. L'Associazione
buddhistica per mezzo della sua rivista, soppressa nel 1965;
diffondeva idee laiche e antireligiose; vi si scriveva che l'ideale
del Bodhisattva è il lavoro; il concetto dell'‛io', che il buddhismo
aveva ripudiato, si attua nella vita collettiva. Il paradiso di A mi
t'o fu (Amit̄bha) è la società comunista; la stessa compassione
inculcata dal buddhismo si manifesta anche nell'uccidere i cattivi
per salvare i buoni; è un principio che trova la sua giustificazione
in alcuni libri classici del buddhismo stesso (il mahāyānico
Mahāparinirvāṇasūtra). Per ragioni politiche e soprattutto di
politica estera fu fondato un Istituto buddhistico cinese che era di
fatto un organo di propaganda politica.
Con la rivoluzione culturale tutto ebbe fine. Nelle attività
buddhistiche sopra ricordate vi sono al fondo due cause: la prima è
un tentativo, del resto fallito, dei monaci di inserirsi in qualche
modo nel nuovo ordinamento sociale, profittando del non ancora
sopito sentimento religioso delle masse; la seconda, da parte del
governo, è la suddetta ragione di politica estera, la volontà di non
accrescere i motivi di preoccupazione o di timore nei paesi
buddhistici dell'Asia.
h) Corea
In Corea il buddhismo era stato introdotto dalla Cina, in tutte le
sue forme e scuole; anzi, per quanto concerne la diffusione del
buddhismo, la Corea fece da tramite fra la Cina ed il Giappone. Ma
sotto la dinastia Yi (1392-1910) il confucianesimo aveva preso il
sopravvento e il buddhismo, che aveva subito anche delle
persecuzioni, s'era ritirato sopratutto nei luoghi di montagna.
Durante l'occupazione, nell'ultima guerra, i Giapponesi favorirono
il buddhismo, ma lo tennero sotto un rigoroso controllo, nominando
essi stessi gli abati dei principali monasteri. Dopo la fine della
guerra si determina un risveglio; i monasteri ricchissimi d'opere
d'arte sono restaurati, l'interesse per il buddhismo rinasce:
naturalmente si intende il buddhismo mahayanico, perché soltanto le
scuole di quest'ultimo erano rimaste. Il presidente Rhee era
d'opinione che il decadimento del buddhismo fosse dovuto al fatto
che i monaci non rispettavano più l'antica regola del celibato ed
impose (1954) che essi non dovessero sposarsi. Ma in pratica la
norma non è regolarmente seguita. E neppure sopravvivono le antiche
sette introdotte un tempo dalla Cina. Nello stesso tempio si possono
recitare i sūtra o praticare le liturgie delle differenti scuole.
Nell'università buddhista di Dongguk i professori sono generalmente
uomini sposati e non celibi e il buddhismo si insegna sui testi e
non in forma apologetica. A Seul è stata aperta un'Organizzazione
Centrale del Buddhismo (setta Chogye) di cui fanno parte i monaci
celibi, che si propone di rammodernare la religione, renderla più
consona allo spirito dei nuovi tempi, e sovraintende ai monaci e
alle monache. Essa è affiancata da due organi: l'uno amministrativo,
l'altro giuridico, che sorvegliano l'amministrazione, le finanze e
la disciplina; gli iscritti recitano le preghiere, si confessano, si
prostrano per centinaia di volte innanzi alle immagini del tempio,
ma buona parte del tempo loro e dei discepoli è dedicato agli studi;
la meditazione Zen sembra occupare un posto preminente; lo studio
stesso si orienta verso indagini scientifiche più che teologiche. Vi
è anche un'associazione, che comprende parecchie migliaia di
studenti, la quale svolge attività sociali come la diffusione del
pensiero e della prassi del buddhismo e l'insegnamento, perché il
loro motto è ‟in alto, pensare all'illuminazione, in basso, educare
le creature". Si pubblica altresì un giornale ‟Il buddhismo
coreano".
A fianco a questo buddhismo ufficiale, si trova una setta, quella
del buddhismo Won, fondata da Soe-tae San (1891-1943), la cui
dottrina esalta il Dharma-kāya, il cosiddetto ‛corpo del Buddha'
cioè il piano dell'essenzialità, rappresentato da un simbolo nero su
un fondo quadrato. Oggi la setta pare conti qualche centinaia di
migliaia di seguaci e molti luoghi di culto; la sua dottrina è
rivolta al popolo, i libri buddhistici su cui si basa sono tradotti
in coreano parlato; è una setta aperta a tutti, laici e monaci che
non hanno l'obbligo del celibato; il Buddha è immanente in ciascun
essere o cosa, nel perpetuo divenire dell'universo; su questo si
deve meditare per attuare in se medesimi l'unità della nostra
personalità, indissolubile coesistenza di materia e spirito.
i) Formosa
Nell'isola di Formosa ritroviamo il buddhismo quale era conosciuto
in Cina. L'Associazione buddhistica pubblica un giornale,
‟Fo-hsüeh-yüan"; esistono pure un Istituto per gli studi buddhistici
e un altro per lo studio della filosofia cinese, ma il popolo
pratica un buddhismo non privo di contanimazioni con culti e
credenze tradizionali; d'altro canto si riscontra una notevole
indifferenza nei riguardi del problema religioso, cui si contrappone
presso gli intellettuali un desiderio di purificare il buddhismo e
di restituirlo alla primitiva chiarezza e semplicità. Le persone
colte sono cioè propense a riconoscergli una validità scientifica e
filosofica da seguirsi per quanto concerne sia il lato etico sia
l'analisi della realtà delle cose: nel medesimo tempo riconoscono
che il buddhismo non è l'espressione di un pensiero soltanto cinese,
ma un vincolo che accomuna i credenti in un credo di carattere
universale. Il numero dei buddhisti nell'isola di Formosa è
difficile a calcolare soprattutto perché molti si dichiarano
buddhisti, senza sapere che cosa sia il buddhismo.
l) Altre scuole
Non debbono tacersi alcune scuole sincretistiche ma con forti
elementi buddhisti che, nate in Cina, sono tuttora vitali presso le
comunità cinesi del Sud-Est asiatico e specialmente Malaysia,
Thailandia, Indonesia. Tale è ad esempio la religione del ‛perfetto
vuoto' (Chung-k'ung Chiao) fondata nel 1862 nel Chiang-hsi da Liao
Ti-p'in (1827-1893), laico di formazione confuciana, che divenne poi
monaco Ch'an (Zen) e si considerò incarnazione del Wu-chi, il
Non-essere. Allora si distaccò dal buddhismo e creò una setta
sincretistica che si propagò rapidamente: fino a pochi anni fa si
contavano circa 180 chiese.
Sebbene il Non-essere ricordi il wu e il Tao dei taoisti, non è
dubbio che il fondatore della scuola sia stato influenzato dal
buddhismo, soprattutto dalla scuola Ch'an (si confronti il suo
‛Vuoto' e il ‛Vuoto' delle scuole Mādhyamika), sia pure giuntogli
con la mediazione di testi più accessibili e popolari. Questa scuola
predica altresì la prossima fine di un ciclo cosmico (kalpa della
concezione buddhistica-indù). Avversa l'adorazione delle immagini,
stimola ad opere di carattere assistenziale, promuove la
riabilitazione dei fumatori d'oppio.
Nella Mongolia esterna, dopo la rivoluzione, molti monasteri furono
distrutti, ma nel 1958 alcuni furono riedificati. Nel 1961 O.
Lattimore trovò nel monastero di dGa' Idan (pronuncia: Gandin) un
centinaio di monaci; è stato riaperto il grande monastero di Urga
(ora Ulan Bator) e s'è ridestato, per opera dell'Accademia mongola,
un notevole interesse per il buddhismo; ma questo interesse è
soprattutto scientifico con il proposito di raccogliere e pubblicare
tutto ciò che resta della letteratura nazionale, ispirata in gran
parte al pensiero buddhistico o di contenuto storico-genealogico. Lo
scopo è evidente: cercare di avviare sulle basi dell'antica unità
culturale un pan-mongolismo da opporsi alla Cina.
Anche in Russia la situazione sembra mutata; il buddhismo del
Mahayana aveva seguaci presso i Calmucchi e i Buriati i quali erano
in parte lamaisti; ciò ha indotto i Russi a rinunciare alla
tolleranza che in un primo tempo avevano mostrato, cercando di
convogliare i buddhisti a loro soggetti nel marxismo. Ma nel 1945
sembra che alcuni templi buddhisti siano stati ricostruiti. Ora gli
studi buddhistici sono molto fiorenti in Russia, specialmente le
ricerche sul lamaismo tibetano.
m) Giappone
Il paese dove il buddhismo presenta tuttora segni di maggiore
vitalità è il Giappone: una vitalità che mira a profonde riforme, e
cui corrisponde, nell'ultimo cinquantennio, il sorgere di nuove
sette, tutte ramificazioni delle già esistenti; alla crescente
semplicità dei mezzi di espressione o liturgici si accompagna lo
stimolo allo sviluppo di una personalità umana più completa,
sinceramente attiva, ansiosa di inserirsi nella vita sociale e anche
politica: religione fondamentalmente aperta ai laici, quasi
secolare.
In Giappone convivono tre religioni o dottrine: la tradizionale e
aborigena cioè lo shintō; il buddhismo, che venne introdotto da
Shōtoku Taishi (che regnava in nome della zia Suiko Tennō,
1593-1621) e si divise in molte scuole, alcune meditative, altre
esoteriche, altre combattive e inclini ad intervenire nella vita
pubblica, o addirittura a controllarla; infine la teorica
neoconfuciana, che pone l'accento sui doveri dell'uomo verso la
società. Recentemente anche il cristianesimo.
È una convivenza pacifica che, per quanto concerne shintō e
buddhismo, ha tradizioni antiche di buon vicinato e di confluenze
reciproche.
Durante lo Shōgunato Tokugava (1600-1868), il buddhismo, che aveva
proliferato in molti modi contrastanti, venne irreggimentato nel
senso che le famiglie dovettero raggrupparsi intorno ad un tempio;
così il paese si trovò diviso in una serie di parrocchie; le singole
sette ricevettero favori e sovvenzioni, ma furono private di ogni
potere politico concentrato nel governo, largamente influenzato dal
neo-confucianesimo e dallo shintō. I templi sorvegliavano le varie
associazioni di carattere laico, professionale e religioso e
disimpegnavano un compito quasi notarile (registrazione delle
nascite, morti, matrimoni), controllavano e organizzavano le feste,
celebravano i funerali; così vi erano due poteri dai quali il
cittadino dipendeva: quello dei Daimyō - il principe feudale - cioè
l'autorità laica o dello Stato e quello religioso. Tuttavia ciò non
impedì che una scuola derivata da quella della ‛Terra pura' cioè lo
shinshu fondato da Shinran Shanin (1173-1262) si organizzasse in
modo da assumere un potere, in alcuni casi superiore a quello dei
Daimyō. Era una setta i cui capi si succedevano ereditariamente,
perché ai seguaci non era imposto il celibato.
All'inizio dell'epoca Meiji (1858) si sostituì alle tre religioni o
modi di pensare, lasciati alla libera scelta dei fedeli, nella quale
il governo non interveniva, una religione che non era di fatto una
religione: lo shinta di Stato, incentrato nel trono imperiale
simbolo dell'unità nazionale che ripudiò il Ryōbushintō; cioè lo
shinto per secoli vissuto a fianco del buddhismo con reciproca
tolleranza e notevoli scambi di dei e di liturgie. Inoltre si ebbero
allora movimenti antibuddhistici.
Ciò finì con il produrre un risultato contrario: anzitutto le masse
restarono nella propria fede, e l'élite buddhista (per es. Fukuda
Kyodai, 1806-1888) trovò in questo movimento antibuddhistico lo
stimolo per sottrarre il buddhismo agli eccessivi contatti con il
mondo politico ed economico che lo avevano tenuto lontano dalla
purezza degli insegnamenti predicati dagli antichi maestri. Si
determinò pertanto una tendenza a ricercare i principi veri e sicuri
del buddhismo; ne derivò, anche sotto l'influsso della ricerca
filologica occidentale, un desiderio di tornare alle fonti; si
studiò il sanscrito e il pali allo scopo di acquistare una
conoscenza diretta dei testi su cui il buddhismo era fondato; il
risultato fu una proliferazione inconsueta di pubblicazioni
scientifiche di grande valore, di traduzioni in giapponese del
canone cinese, di enciclopedie che sono insuperabili strumenti di
lavoro.
Questo stato di cose produsse una specie di scissione: da una parte
i dotti che si attengono alla purezza dogmatica, basata sulla
comprensione di testi difficili, ma nell'insieme una modesta cerchia
di persone che non possono avere grande influsso sulle masse;
dall'altra il popolo che fa professione di buddhismo, ma di un
buddhismo nel quale prevalgono le correnti esoteriche, le
superstizioni, le complicazioni dei riti funebri, il conformismo e
il disinteresse per la dottrina nelle sue strutture teologiche.
A ciò si aggiunga, nel dopoguerra, la soppressione dell'esenzione
delle tasse, concessa prima ai monasteri. Il crollo dell'ordinamento
delle antiche parrocchie, e la migrazione della gente dai villaggi
nelle grandi città costituirono nuove cause di questa situazione.
D'altra parte, non può negarsi che è sempre esistita una corrente
restata fedele a quell'ideale nazionalista che dalla rivoluzione
Meiji si è rafforzata nel Giappone; essa si propone di eliminare le
scorie accumulatesi intorno alla tradizione buddhistica, e considera
il buddhismo come una forza spirituale e morale capace ancora, come
alle origini, di espandersi e di colmare il vuoto prodottosi nella
società moderna agitata da continue tensioni, volta ad altri
interessi e dominata dalla scienza pura e dalla tecnica.
Non è il caso di insistere troppo su qualche filosofo la cui opera è
accessibile a pochi, ma la cui importanza consiste nell'aver tentato
di riconciliare il pensiero buddhistico, spesso forzatamente, con
alcune correnti speculative dell'Occidente; ma non si può tacere il
nome di Nishida (morto nel 1945); egli intende Dio come
contraddizione in sé o l'assoluto: intrinseca identità con la
contraddizione di se medesimo. Dio si contrappone come negazione
assoluta a se stesso, in una corrispondenza o relazione di polarità
diversa. Quindi, siccome è l'assoluto Nulla, è anche l'assoluto
Essere. La sua filosofia è l'incontro o lo scontro del buddhismo
mahāyānico (soprattutto Zen) e delle correnti speculative
occidentali, specialmente del pensiero kantiano e
dell'esistenzialismo.
Non può dunque passare inosservata la progressiva laicizzazione del
buddhismo; questo non è più il monopolio di una casta sacerdotale,
gelosa delle proprie liturgie o custode combattiva delle proprie
posizioni dogmatiche: è un patrimonio spirituale a tutti comune; non
si può più parlare di rinuncia; il buddhista dovrebbe realizzare nel
consorzio civile la propria umanità in un'assoluta dedizione ai suoi
simili.
Il sistema sopra accennato della dipendenza delle famiglie da
rispettive parrocchie, che rappresentava una specie di unità tra
famiglia e tempio, ha subito un grave colpo. La riforma del
1948-1950 produsse gravi conseguenze nei riguardi dei monasteri che
possedevano terre ma non le coltivavano; e i templi poveri non
ricevettero più dai proprietari di terre le stesse donazioni di
prima; inoltre lo spostamento di molta parte della popolazione nei
grandi centri, la sempre maggiore indipendenza delle donne e la loro
maggiore educazione, il confluire di esse nelle città in cerca di
occupazione influirono molto sulla tradizione familiare: alla
famiglia unita, incentrata sotto l'autorità paterna e materna,
legata a tradizioni antiche si sostituirono i singoli nuclei
separati.
I dogmi di alcune scuole teologiche vengono respinti perché
stabiliscono privilegi od esclusioni che contraddicono il principio
dell'uguaglianza, essenziale nel buddhismo: l'uomo è fatto per agire
e la sua fede lo redime. Hanno torto pertanto quelle sette le quali
pretendono di escludere dal consorzio buddhistico certe categorie di
persone a causa della professione che esercitano: per esempio i
macellai. Il buddhismo non condanna l'azione, ma la sublima: la
contemplazione è per pochi, non per tutti.
La scuola di Nichiren (1222-1282), che ispira molte correnti
moderne, non fu contemplativa ma attiva e fin dal tempo della sua
fondazione ebbe parte preminente nelle lotte per la difesa degli
interessi del paese; al contrario, le scuole amidiste (culto di
Amitābha), in virtù della teoria della grazia, promettevano la
salvazione a chiunque invocasse, con fede sincera, il nome del
Buddha; il monachismo poi aveva indotto ad un deprezzamento del
lavoro rispetto alle esaltazioni mistiche o alla rinuncia o alla
liturgia.
Ora i nuovi valori e obblighi sociali (non senza resistenza, ma
sempre minore, da parte dei difensori della tradizione) sono dalle
correnti rinnovatrici caldeggiati come espressione, non soltanto
della dignità umana, ma persino del servizio del Buddha. Un seguace
dello Zen afferma che la condizione di Buddha si consegue mediante
il lavoro, perché non esiste lavoro che non sia una pratica
buddhistica. Insomma si avverte in Giappone un'insistenza sulla vita
vissuta, nella sua complessità di obblighi e doveri; alle liturgie
incentrate nel culto di Amida (Amitābha) si contrappone un rinnovato
senso della vita sociale; gli insegnamenti del Buddha debbono essere
volti al miglioramento di quest'ultima; la rinascita nel paradiso di
Amida è secondaria rispetto ai doveri che la società o la famiglia
esigono. Questa convinzione è assai viva presso le persone più
inclini ad una profonda riforma, le quali trovano in una larga
solidarietà umana l'attuazione del messaggio di Śākyamuni, una
solidarietà che dovrebbe interessare non soltanto il Giappone, ma
estendersi a tutta l'umanità; non si tratta di una solidarietà
teorica, ma di una solidarietà positiva che mira ad eliminare sia le
differenze di classe sia le disparità economiche. Insomma il
buddhismo dovrebbe investire tutta la vita.
La liturgia passa in secondo posto rispetto a questa esigenza
urgente e necessaria; così soltanto il buddhismo si può sottrarre al
conformismo rituale o all'inerzia in cui una tradizione secolare
l'ha costretto. Per tale scopo sono sorte molte società e
organizzazioni promosse specialmente dai giovani, uomini e donne
(l'Associazione delle donne, la Lega dei giovani, ecc.).
Le formule tradizionali sono ormai superate: i testi classici del
buddhismo sono stati tradotti nella lingua moderna, non sono più un
privilegio di pochi; le sette debbono trovare un punto d'incontro in
questa progressiva modernizzazione, che si propone non soltanto di
eliminare le veccbie controversie, ma di ritornare alle origini. Il
buddhismo primitivo, quello probabilmente predicato dal Buddha, non
presentava complicazioni dogmatiche, anche se ha dato origine a
infinite successive speculazioni; esso è di una semplicità
elementare, come del resto è elementare l'invocazione del nome di
Amida (Amitābha): quasi un richiamo alla identità di tutti gli
uomini che si deve riscoprire e a quella fondamentale semplicità
della natura umana in cui questa si ritrova nella sua essenzialità,
la sua ‛buddhità' che la distingue da altre esperienze; la
distingue, ma non la esclude; l'Oriente e l'Occidente non si
affrontano come due culture reciprocamente chiuse e ostili, ma al
contrario si incontrano come due modi di vita che possono intendersi
e collaborare.
Per le nuove generazioni non hanno senso i contrasti teologici e
dottrinali; i monasteri sono diventati, più che meta di
pellegrinaggio, luoghi di convegno durante i giorni festivi per la
bellezza dei posti in cui sorgono e la magnificenza delle opere
d'arte che contengono. Nell'insieme tuttavia il buddhismo alimenta
una sincera deferenza nei riguardi delle tradizioni spirituali, vive
nel fondo degli animi, che tanto hanno contribuito alla formazione
del carattere e della cultura giapponese.
Il sistema delle parrocchie che legava le famiglie ad un tempio è
per forza di cose in declino, le entrate dei monasteri si stanno
esaurendo, il monaco presta servizio nel tempio per i riti abituali,
ma spesso ha altre e più proficue occupazioni; in alcune scuole Shin
si proclama che l'illuminazione si apre a tutti, senza distinzione
fra preti e laici; è una religione ‛basata sulla casa'. Ma anche se
molti appartenenti alle classi colte non sanno bene che cosa sia il
buddhismo o la dottrina della scuola cui dichiarano che la propria
famiglia appartiene, difficilmente si sottraggono ai riti della
setta nei momenti più importanti della vita: nascita, matrimonio o
morte. Maa questo vuoto, avvertito da molti, si vuole sostituire
qualche cosa d'altro: un'ispirazione religiosa che stimoli ad agire,
una fusione fra religione e vita. Non deve dunque meravigliare se
alcune di queste organizzazioni si sono mutate in movimenti
politici.
n) Scuole di ispirazione politica
Tale è il partito Sōka Gakkai che si riconnette con la setta di
Nichiren (ramo Nikkan - 1665-1725), il combattivo monaco dell'epoca
Kamakura (1185-1333). La cosa non sorprende: Nichiren fu oltre che
un rinnovatore un grande patriota; in lui la fede si congiunge con
un entusiasmo pugnace; d'altra parte in Giappone predomina una
coscienza collettiva che tutti unisce nella medesima dedizione al
paese; anche i rinnovamenti estremisti lottano per una piena
indipendenza, che elimini le ingerenze straniere di ogni origine e
carattere. Il saka Gakkai fu fondato da Makiguchi Tsunesaburo
(1871-1944) intorno al 1930 e poi, sotto l'impulso di Toda Jōsei
(1900-1958) ha superato i 12.000.000 di seguaci. La sua bibbia è
l'Hokkekyō (Saddharmapuṇḍarīka) e la sua formula di preghiera è
‟Namu Amida Butsu": ‟Onore sia a Amida Buddha", il compassionevole
Buddha del paradiso d'Occidente. Ma a questo spirito religioso si
congiunge l'attività politica, una coincidenza di principi religiosi
con gli interessi della vita nazionale e il miglioramento sociale
mediante un'autoelevazione; infiltratosi fra i lavoratori, il Sōka
Gakkai si affermò dopo il primo scontro con i proprietari delle
miniere dell'Hokkaidō: i seguaci sono organizzati militarmente.
Il Sōka Gakkai si incentra nel daimoku, la formula: ‟Omaggio al
sūtra della Santa Legge" (Saddharmapuṇḍarīka). Questa formula deve
mutare l'atteggiamento mentale e spirituale, la personalità insomma
dell'adepto, suscitare in lui nuove esperienze, sincerità di fede e
responsabilità, messe alla prova e stimolate da un gran numero di
vigili missionari. È un insegnamento carismatico; i missionari si
propongono non soltanto la salvezza del singolo ma di tutti; i
seguaci hanno ramificazioni dappertutto e si esaltano nelle
radunanze annuali nel Taiseki-ji presso il monte Fuji, nelle quali
si cementa la solidarietà degli iscritti e si canta in coro il
daimoku (tremila volte al giorno).
Il Sōka Gakkai ha un notevolissimo peso politico; la sua emanazione
è la ‛federazione' politica, che ha i propri rappresentanti nella
Camera e costituisce una forza che non si può ignorare; il suo
programma è semplice: unità della legge laica ed ecclesiastica;
rispetto della dignità umana e benessere del popolo mediante un
socialismo umanistico; garanzia dei diritti dell'uomo, libertà di
parola, libertà di pensiero e libertà di religione; lotta contro la
corruzione politica.
o) Altre scuole moderne
Nel 1914 Tanaka Chigaku fondò un movimento che si può definire una
religione popolare a sfondo nazionalista; ma dopo la guerra esso si
propose come scopo essenziale l'ottenimento della felicità umana e
della pace; il Giappone è il paese eletto, nel quale è apparso
Nichiren, l'ultima manifestazione del Buddha sulla terra; il
carattere nazionalista è evidente nel proporre una specie di
cooperazione fra il messaggio di Nichiren e il trono imperiale, il
Tennō. La scuola si chiama Nichirenshugi, ‛l'esser seguaci di
Nichiren ; l'aspetto messianico della setta è comune ad un'altra: il
Nihonzan Myōhonji Daisanga; quest'ultima fu incline, fin dal
principio, ad un apostolato che ne diffuse la predicazione e
l'attività anche fuori del Giappone, non soltanto nei paesi allora
controllati dal Giappone (Manciuria, Corea, Cina), ma anche in
India. Dopo la fine della guerra, essa abbandonò il carattere
combattivo e si trasformò in una corrente pacifista, che predica
l'amore e la concordia fra tutte le genti. Nella ‛pagoda della pace'
essa raccoglie i propri fedeli per la recitazione del nome
dell'Hokkekyō (Saddharmapuṇḍarīka).
Un altro movimento notevolmente importante è il Risshō Kōseikai
ufficialmente fondato nel 1948 da Niwano Nikkyō e da una donna,
Nagamuna Myōkō. Anche questa scuola prende le mosse dall'Hokkekyō e
nei suoi inizi non fu esente da contaminazioni con superstizioni e
magie sempre vive nel popolo, ma pose in primo piano la liberazione
dal dolore, quale esso sia e anche dall'indigenza, come presupposto
necessario per conseguire una umana perfezione. L'Hokkekyo resta
l'ispirazione iniziale, ma in quanto vi si rivela la verità eterna
di cui Śākyamuni è stato l'apostolo, perché quella verità eterna si
era incorporata in lui. Nel loro tempio principale si trova una
grande immagine del Buddha, quale simbolo della verità che Śākyamuni
ha reso manifesta agli uomini.
La setta rappresenta un tentativo di tornare al buddhismo originario
mediante la rivelazione mahāyānica. Con ciò lo si sfronda di ogni
mito e lo si interpreta come una dottrina etica e sociale: il
nirvāṇa non è una situazione extraumana indefinita e indefinibile,
ma come un'armonia che congiunge in sincerità e amore tutte le
creature, solidali in una pace universale, mediante l'annullamento
di ogni egoismo, e la conquista di una libertà che è abbandono al
supremo essere. Questo essere è il ‛vuoto', lo ‛sūnya' del Mahāyāna,
la grande vita e sorgente dell'Universo, si chiami esso Dio o
Buddha. Non si può parlare di un culto vero e proprio: i seguaci si
raccolgono a discutere insieme sui principi della scuola, su
problemi etico-religiosi, ascoltano discorsi sugli stessi argomenti,
praticano una specie di confessione pubblica, riconoscono l'unità
essenziale di tutte le religioni, tolleranti verso tutte le fedi; il
culto dei morti, così importante in Giappone, consiste soprattutto
nei ricordarli e onorarli due volte al giorno, spesso raccogliendosi
in silenzio per due minuti; è un movimento anch'esso pacifista che
tuttavia insiste sulla separazione fra religione e politica.
Anche la scuola Reiyūkai (fondata ufficialmente nel 1925 e il cui
primo presidente fu una donna) si ispira all'Hokkekyo; essa richiede
ai fedeli una vita buona al servizio della società. È una corrente
che tollera, anzi favorisce, culti popolari, è largamente
influenzata dalla tradizione magico-religiosa e celebra riti di
origine shintō, religione con la quale è più di ogni altra scuola
buddhista in stretto rapporto. Nonostante la sua derivazione dalla
setta di Nichiren e l'importanza soterica riconosciuta all'Hokkekyō;
il bodhisattva cui è particolarmente devota è Miroku (Maitreya). È
dunque una corrente di chiare tendenze popolari, che tuttavia
inculca nei seguaci l'amore del prossimo, svolge attività sociali
secondo l'indirizzo che prevale ormai in quasi tutte le scuole
giapponesi, non escluso neppure lo Shingon; questa è la setta più
esoterica, nella quale si compiono ancora, secondo una tradizione
secolare, liturgie e riti complicati, e si fa uso dei maṇḍala
(psico-cosmogrammi con figure di divinità o lettere) com'è
consuetudine in tutte le scuole tantriche o gnostiche, che appunto
lo Shingon rappresenta in Giappone.
Una derivazione dello Shingon è la scuola Gedatsukai che pone al
centro della sua dottrina la liberazione non più, al modo del
buddhismo antico, dal ciclo delle nascite e delle morti, ma la
liberazione da tutto ciò che è male, penoso, la soppressione di ogni
preoccupazione o di ogni causa che di questa possa esser l'origine.
Ciò allo scopo di attuare un bene comune, uno stato di serenità, di
purezza d'animo, un paradiso sulla terra, una realizzazione di
quelle ricchezze spirituali che si trasformano in felicità propria e
di tutti.
Come si vede nel buddhismo giapponese si riscontra anzitutto la
grande vitalità della scuola di Nichiren, la quale, pur
ramificandosi in vario modo, resta l'ispiratrice di molte delle
correnti o scuole nuove, anche se nei particolari queste se ne
allontanino ; il testo fondamentale che le accomuna è l'Hokkekyō
(Saddharmapuṇḍarīka), un libro che non ha avuto in India, per quanto
sappiamo, la stessa fortuna che ha goduto in Asia centrale, in Cina
ed in Giappone; insieme con esso si ricorre a libriccini brevi che
celebrano Amitābha (A mi t'o fu, Amida), il Buddha che regna nel
paradiso d'Occidente, la Sukhāvatī.
È un buddhismo semplificato, liberato dalle strutture dialettiche e
teologiche e dalle complicazioni esoteriche: la fede intensa e
sincera basta da sola a vincere la ferrea legge del karma e ad
annullarla. Questo buddhismo è per le masse, ispira la fiducia che
la devozione o la semplice invocazione del Buddha Amitābha e del
titolo dell'Hokkekyō - che riassume la quintessenza
dell'insegnamento supremo del buddhismo - possano operare il
miracolo della salvazione, non più del singolo ma di tutti; un
umanesimo che ha convogliato in sé le aspirazioni dei tempi moderni
e le ha fatte proprie fino ad inserirsi nella lotta politica.
Insomma, sia pure inconsapevolmente, tutto ciò sembra instillare
quasi un senso messianico nel buddhismo nipponico, il quale può
anche fornire una giustificazione ideale a quel fervore di attività
di cui il Giappone offre un innegabile esempio.
Ma questo ideale umanistico di cui le scuole giapponesi sono
ispirate è attuabile? Esse difficilmente possono promuovere un
movimento ecumenico perché troppo legate alle tradizioni di un paese
o addirittura ad un libro come l'Hokkekyō o al convincimento che la
sola invocazione del suo titolo possa trasformare, dal fondo, lo
spirito, le tendenze, le aspirazioni di tutti i popoli. Questo sarà
possibile dove siffatti ideali si sono realmente espressi nella vita
di una nazione: ma come pensare che, restando sempre nel buddhismo,
i Theravadin traggano la stessa ispirazione soterica dall'Hokkekyō o
credano nel paradiso di Amida?
p) Lo Zen
Ben diverso è il caso di un'altra scuola che del resto è la più
conosciuta in Occidente, lo Zen. Questa fu introdotta in Giappone
dalla Cina dove fu chiamata Ch'an e ad una originaria ispirazione
indiana sovrappone notevoli influssi del pensiero cinese
specialmente taoista.
Lo Zen esprime forse meglio di altre correnti quella che si potrebbe
chiamare la quintessenza del pensiero mahāyanico reinterpretato
dalla speculazione e dalla mistica cinese e giapponese; per dirlo
con le parole di Shenkei Shibayama lo Zen è ‟una specie di mistica
esperienza personale che non può essere conseguita pensando secondo
la nostra comune ragione dualistica, ma è affermata intuitivamente
da quel potere spirituale unitario che esiste nel profondo della
natura umana". Esso rappresenta un'opposizione alle inibizioni e
repressioni non soltanto imposte da una società molto formale e
normativa, ma alle stesse complicazioni che avevano avviluppato il
pensiero e la prassi buddhistica: è insomma un tentativo di
superamento della tensione, o meglio conflitto, fra due componenti
che coesistono, contraddicendosi, nell'esperienza umana: il finito e
l'infinito. Lo Zen è in altre parole un'evasione, un esistenzialismo
asiatico che prende le mosse da una tradizione millenaria di
pensiero e di mistica, che ha tuttavia in sé un valore universale:
ciò spiega appunto l'interesse che ha suscitato in Occidente e anche
il successo che riscuote specialmente nelle giovani generazioni: non
a caso J. Kerouac e molti altri scrittori si proclamano seguaci
dello Zen, sebbene cotesto loro Zen abbia ben poco a che vedere con
quello dei monaci nipponici o la laboriosa meditazione e la
disciplina della loro vita. In Giappone (e fuori del Giappone)
esistono molte comunità e gruppi Zen, frequentati da giovani i
quali, senza votarsi alla vita monacale, traggono dalla
concentrazione mentale Zen un beneficio psichico e spirituale: uno
di questi centri è il Sanzen Club presso l'Università Komazawa.
Questa corrente riconduce lo Zen allo stesso Śākyamuni, non nega il
valore delle scuole disciplinari (Ritsushū) né di quelle che si
incentrano in alcuni testi dottrinali (Kyōshū), ma considera lo Zen
come una sintesi capace di esprimere e facilitare una resistenza
morale ed utili adattamenti del buddhismo alle nuove aspirazioni
della società.
4. Il buddhismo in Occidente
In Occidente il nome del Buddha compare per la prima volta in
Clemente di Alessandria; nel Medioevo l'eco della sua vita giunge
traverso una mediazione iranica nella leggenda di Barlaam e Joasaph
di Giovanni di Damasco; in Joasaph è facile riconoscere la
corruzione di ‛Bodhisattva'; cotesta leggenda ebbe molta fortuna e
circolò in molte lingue.
In seguito, Marco Polo, a Ceylon, raccoglie notizie sul Buddha e
conclude che se fosse stato cristiano ‟sarebbe divenuto un gran
santo". Poi le informazioni sul buddhismo sono fornite dai
missionari, di solito poco favorevoli; la liturgia lamaista è da
essi considerata una demoniaca parodia di quella cattolica: l'unica
eccezione è il gesuita Ippolito Desideri di Pistoia che mostra molto
e imparziale interesse per il buddhismo tibetano e ne traduce la
grande Summa, il Lam rim c'en mo di Tsongkhapa, poi confutandolo.
Perciò il giudizio di Voltaire, basato sulle Lettere dei missionari,
non può essere che negativo o inadeguato. Lo stesso può dirsi di
Hegel il quale ignorando i valori etici della dottrina predicata dal
Buddha afferma che ‟il Buddha propone il disprezzo dell'uomo",
mentre, come si è detto, è proprio il contrario, e peggio ancora
scrive che ‟un uomo sia considerato Dio è una concezione delle più
ripugnanti". Schopenhauer più accorto, a differenza del Renan, si
accorge che il nirvāṇa non è il nulla, ma l'opposto del saṃsāra, il
giro delle nascite e delle morti, il quale è privo di ogni carattere
che possa servire alla definizione del nirvāṇa stesso, ma a torto
considera buddhismo e cristianesimo come religioni affini per il
loro fondamentale pessimismo.
Per quanto concerne una prima conoscenza scientifica del buddhismo,
l'Inghilterra con l'Hodgson, residente inglese nel Nepal, contribuì
a fornirne le prime valide conoscenze nei riguardi del Mahāyāna,
come si praticava nel Nepal.
Alexander Csoma de Körös si recò nel Tibet (1823) mosso dalla
convinzione di trovare colà le origini del popolo ungherese; egli
non poté entrare nel Tibet vero e proprio, ma visse a lungo nel
Ladakh, nello Zanskar e soprattutto nell'alta valle della Sutlej
(Kanam), dove studiò a fondo il canone tibetano, esplorò e fece un
riassunto della letteratura religiosa del Tibet, compose un
dizionario e contribuì insieme con gli altri ricercatori, che
lavoravano su fonti cinesi o indiane, a diffondere una più adeguata
conoscenza del pensiero lamaista.
Le lezioni di E. Burnouf al College de France e la sua Introduction
a l'histoire du buddhisme indien (1844) rivelavano un nuovo mondo
spirituale; il Michelet vi trovò la predicazione di una dottrina
parallela alla cristiana e si felicitò che la ‟scienza occidentale
fosse di nuovo rischia- rata dal sole dell'India".
E. Arnold in Light of Asia (1879), con il fascino della sua poesia
suscitò un vasto interesse nel pubblico colto non soltanto di
Europa, e favorì indirettamente l'urgenza della ricerca metodica;
tale fu quella intrapresa da T. W. Rhys Davids che, come funzionario
inglese a Ceylon, aveva intrapreso lo studio approfondito del
buddhismo Theravāda e del canone pālico (il suo libro sul buddhismo
fu pubblicato nel 1878). Nel 1881 fu fondata la Pali Texts Society.
L'opera di Rhys Davids fu continuata dalla moglie, C.A.F. Rhys
Davids, la quale dette nuovo impulso alla società stessa e diresse
oltre alla pubblicazione dei testi anche quella di alcune
traduzioni. La Pali Texts Society, che ancora continua; è un centro
al quale i migliori studiosi di buddhismo Theravāda e conoscitori
del pāli di tutto il mondo occidentale e orientale cooperano;
speciale ricordo deve farsi del libro dell'Oldenberg sulla vita del
Buddha, tuttora valido.
A poco a poco la buddhologia diventa una scienza; i pensatori o gli
storici delle religioni non possono ignorarla. Nietzsche chiama
Zarathustra un ‟risvegliato", ma poi, dopo l'intuizione che gli
balenò ‟dell'eterno ritorno", preferisce alla liberazione dalla
reincarnazione la sua nuova scoperta; l'ideale dunque non è più il
nirvāṇa, ma il riverificarsi delle stesse situazioni nello stesso
luogo e nel medesimo modo in una specie di saṃsāra, ma sottratto
all'imprevedibile effetto del karma. Tuttavia la rinuncia al nirvāṇa
rappresenta l'essenza stessa del Bodhisattva; il Superuomo
nietzschiano ha molti punti in comune con il Bodhisattva:
soprattutto la sua libertà e la sua indipendenza da quale che sia
ingiunzione esterna, la negazione di ogni norma religiosa e sociale
perché egli ha attuato in sé l'ideale della suprema perfezione. Lo
studio del buddhismo si diffonde; dallo studio si passa alla
conversione; l'inglese Bennett (1872-1923) prende i voti e assume il
nome di Ananda Metteya, il tedesco A. Gueth (1878-1957) va a Ceylon,
viene iniziato alla vita monacale assumendo il nome di Nyānatiloka,
e diventa uno dei massimi interpreti della filosofia del buddhismo
ceylonese; il suo esempio è seguito da altri (Nyānaponika); nel 1891
si apre a Calcutta la Mahābodhi Society che nel 1950 si allarga
nella World Federation of Buddhists (W.F.B.). La primitiva Buddhist
Society of Great Britain and Ireland (fondata nel 1907) nel 1924 si
trasforma nella Buddhist Society e quindi nella Loggia Buddhistica.
A quest'opera di diffusione del buddhismo ha dato grande impulso Ch.
Humphreys, il quale ha allargato i suoi interessi, perché non si
limita soltanto al Theravāda, ma si occupa anche del buddhismo
Mahāyanico e ultimamente ha volto la propria attenzione anche allo
Zen.
I centri buddhistici si moltiplicano in Europa. K. E. Neumann in
Austria intraprende la traduzione delle opere buddhistiche del
canone ceylonese, seguito in Italia dal De Lorenzo che si converte
al buddhismo e lascia, poco prima di morire, il testamento della
propria fede. Anche il cristianesimo ha cambiato il suo
atteggiamento nei riguardi del buddhismo; il padre Guardini pone il
Buddha fra le massime figure religiose, anche se in molti punti le
due religioni divergono. Nel medesimo tempo i buddhisti orientali
rinnovano l'apostolato dei tempi antichi: il promotore ne fu il già
ricordato Dharmapāla. T'ai-hsü propone il buddhismo come il
messaggio della fratellanza umana.
Nyānatiloka partecipò al Sesto concilio buddhistico che ebbe luogo a
Rangoon nel 1956-1957 (2.5000 anniversario del nirvāṇa del Buddha) e
affermò la necessità di una nuova edizione critica del canone palico
e di accurate traduzioni; morì durante il congresso, ma il suo
scolaro Nyānaponika, anch'egli tedesco, divenuto monaco a Ceylon è
autore di molte traduzioni e libri di grande valore per la
comprensione del pensiero buddhistico. A questo indirizzo,
prevalentemente volto allo studio del Theravāda, si accompagna ora
anche un intenso interesse per lo Zen, interesse al quale diede
inizio R. Otto. Questi recatosi in Oriente pubblicò nel 1923 un
saggio sulla meditazione zazen e ne trasse motivo per chiarire il
suo concetto dell'irrazionalità o paradossalità della mistica.
Il divulgatore infaticabile dello Zen fu tuttavia D. T. Suzuki che
espose il valore spirituale dello Zen e soprattutto del satori, cioè
del risveglio subitaneo esploso improvvisamente da un paradosso
(kōan); ma egli ha troppo insistito sulla scuola subitista (Rinzai)
e trascurato altre come quella Soto che si incentra sul zazen, una
meditazione progressiva o piuttosto un'introspezione graduale, la
quale rivela al meditante la realtà essenziale di sé e del tutto; lo
Zen è non soltanto vita contemplativa ma anche di lavoro, quasi al
modo dei monaci benedettini.
La prima società buddhistica si costituì in Germania nel 1903 dove
venne pubblicata anche una rivista. La Buddhistische Haus in Frohnau
fu fondata nel 1924 da P. Dalke, non soltanto per lo studio ma anche
per la meditazione, mentre già esisteva una Buddhistische Gemeinde
für Deutschland sorta per opera e sotto l'auspicio di K.
Seidenstücker e Grimm. Sospesa l'attività durante il periodo
nazista, nel 1952 ebbe origine una Società buddhistica tedesca con
sede principale a Stuttgart, la quale raccolse i seguaci delle
diverse scuole senza più attenersi unicamente al Theravāda. La
corrente mahāyānica, specialmente quella di tradizione tibetana, si
espresse nell'Ārya Maitreya Maṇḍala fondata da E. L. Hoffmann che,
presi i voti, assunse il nome di Anāgārika Govinda e passò molto
tempo in India nella regione himalayana e anche nel Ladakh. Egli è
il maestro (ācārya) di questo gruppo che rappresenta la più avanzata
delle correnti mahāyāniche cui si contrappongono gruppi di origine
giapponese della scuola Jōdo Shin-shū.
I Tibetani che sono fuggiti dal Tibet non soltanto hanno trovato
rifugio in India e nel Nepal, ma molti di essi sono stati accolti in
paesi europei. Ve ne sono in Germania, in Inghilterra e in America;
la più numerosa colonia è forse quella che si trova a Rikon presso
Zurigo dove è stato costruito anche un tempio con lama della scuola
dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa) i quali regolarmente vi compiono i
propri riti. Una Vajrabodhi Society prospera in America
(Bloomington, Ind.) e pubblica un suo bollettino (‟The Tibet Society
bulletin").
5. Il buddhismo in America
Il paese nel quale il buddhismo si è maggiormente diffuso e prima
che altrove è l'America. Fin dal secolo passato Giapponesi e Cinesi
immigrarono in California e colà eressero i loro templi ed
esercitarono il proprio culto; quando l'immigrazione fu proibita,
cotesta immigrazione si spostò verso le Hawaii, dove essa continuò e
da dove, in seguito, poté liberamente riprendere il proprio cammino
verso l'America; missionari e propagandisti giapponesi si trovano
nelle Hawaii fin dagli ultimi anni del sec. XIX, e organizzano
centri notevoli con templi, scuole, istituti. Tutto ciò spiega come
le principali scuole giapponesi siano rappresentate in America,
soprattutto lo Zen nelle sue ramificazioni: Rinzai e Sōtō, quella
Shingon, altre del Honganji, quella di Nichiren (1222-1282) e quella
della ‛Terra pura', Jōdo (incentrata nel culto di Amida).
Tale inserimento delle comunità buddhistiche nella società americana
e i matrimoni misti hanno prodotto notevoli mutamenti se non nelle
strutture, ravvivate dalle frequenti visite di monaci dal Giappone,
per lo meno nella liturgia che non è stata del tutto esente, almeno
nell'aspetto esteriore, da contaminazioni con il culto cristiano. Né
i missionari erano tutti giapponesi; il già ricordato Dharmapāla
partecipò al Parlamento delle religioni che ebbe luogo nel 1893 a
Chicago; il suo intervento suscitò molto interesse, proprio mentre
dall'Europa penetravano le prime opere divulgative e scientifiche
del buddhismo; quindi ai templi buddhisti già esistenti in America
si aggiunse anche una sede della Mahābodhi Society; poi sorsero
molte associazioni buddhistiche: The American Buddhist Academy, The
American Buddhist Association a Chicago, a Berkeley, a New York, a
Cambridge (Mass.). A queste associazioni, cui parteciparono i
simpatizzanti del buddhismo, fa riscontro il grande interesse per
uno studio scientifico del buddhismo, cui, in questi ultimi anni,
hanno contribuito notevolmente le ricerche favorite e intraprese in
molte università.
Inoltre esiste in America, fondata di recente, una Società del
Vajrayāna, nella quale tutte le principali scuole di questo
indirizzo sono ammesse. Vi insegnano la tecnica della meditazione e
spiegano i testi alcuni monaci venuti da Hong Kong. Gli adepti
europei prendono nomi cinesi.
Anche il Sāka Gakkai ha ramificazioni a Los Angeles, San Francisco,
Hawaii, Hong Kong, nel Sudamerica, nelle Filippine, pubblica
giornali a Los Angeles e a Okinawa e diffonde la propria dottrina in
varie altre parti del mondo.
Dunque il buddhismo sembra incline a intraprendere un nuovo
apostolato che svolge con scritti, periodici e missioni, venendo
incontro alla curiosità o al desiderio di molti Occidentali di
sperimentare nuove forme spirituali e religiose.
6. Crisi interne nel buddhismo
Tuttavia anche il buddhismo si trova in crisi; questa crisi è stata
determinata da molti fattori: l'ultima guerra che ha sconvolto l'Est
e il Sud-Est asiatico, gli attuali avvenimenti nell'Indocina, il
celere contatto con il pensiero occidentale, l'invasione della
tecnica, lo sconvolgimento delle comunità rurali, l'attività
riformatrice e combattiva delle nuove generazioni, il prevalere
degli interessi economici, la tendenza al rinnovamento che agita
dovunque gli ordinamenti sociali e politici e scuote le tradizioni
antiche, siano esse culturali o religiose. Tuttavia, e ciò accade
soprattutto in Giappone, si riscontra una presa di coscienza
buddhistica più sana, meno legata al passato, incline a rinnovamenti
i quali sembrano indicare una reviviscenza del buddhismo. A ciò si
aggiunga la critica cui le varie correnti buddhistiche sono
sottoposte dagli stessi credenti: tutto il passato viene riesaminato
e discusso.
Le nuove generazioni, guidate da un'élite di intellettuali,
ritornano al buddhismo antico, agli insegnamenti del Buddha, nella
loro essenzialità morale, privati delle sovrastrutture determinate
dall'espansione in paesi di varia cultura, e dalle vicende storiche.
Non può negarsi infatti che in certe sue forme, come le mahāyāniche,
il buddhismo si presenta con un pantheon immenso, con immagini di
dei che appaiono assurde: molte teste, molte braccia, aspetti
terrificanti; queste divinità polimorfe hanno sopraffatto l'immagine
serena del Buddha meditante, gli occhi volti non all'esterno, ma
all'interno per esplorare i misteri dello spirito. Naturalmente
quelle immagini, che si moltiplicano all'infinito nei templi
mahāyānici, hanno un significato soltanto per chi le sa intendere;
nella maggior parte sono simboli, o meglio ancora sintesi figurate
di libri esoterici, intesi a facilitare, quando se ne intenda il
senso, la pronta liberazione e un sollecito conseguimento del
nirvāṇa.
Alla mente occidentale, le complicazioni rituali e yoga che essi
presuppongono e che negli iniziati aiutano un processo psico-fisico
che ci solleva dallo spazio-tempo, in cui siamo, al piano che è
fuori dello spazio-tempo, restano incomprensibili. Ciò spiega la
repulsione che molti viaggiatori hanno provato visitando i templi
lamaisti del Tibet, della Mongolia, della Cina e anche le gallerie
delle immagini sacre che si ammirano in molti santuari giapponesi
appartenenti alle medesime scuole mahāyāniche o gnostiche; per non
dire delle immagini accoppiate, maschio-femmina, così comuni nelle
scuole esoteriche, il cui significato altissimo anticipa alcune
conquiste della moderna psicanalisi; si può rimproverare agli
ideatori di tali raffigurazioni l'esser ricorsi ad una simbologia
erotica per esprimere concetti che con l'erotismo non hanno nulla a
che fare, perché quell'accoppiamento vuoi dire tutt'altra cosa;
infatti il significato di siffatta iconografia è proprio quello di
riconoscere che la libido, come l'intelligenza o la necessità
dell'azione, insite in noi, può altresì essere, mediante l'analisi
contemplativa, non già repressa - cosa che costituirebbe un maggior
pericolo - ma trasfigurata, volta a un transfert, a una sublimazione
che ci liberi dal nostro esser qui, e può agire come forza soterica
per ritornare all'Essere, Coscienza pura, essenziale, nella quale si
estingue ogni individualità.
7. Il buddhismo e l'arte contemporanea
L'arte moderna contemporanea buddhista segue generalmente gli schemi
tradizionali, anche se si possono citare esempi di influenze
occidentali, soprattutto in Giappone; ma, mentre l'architettura
degli edifici pubblici segue sempre più apertamente i modelli
europei ed americani, quella religiosa non si è discostata dagli
schemi usuali (Higashi Honganji, circa 1895). Nei riguardi della
pittura il discorso è diverso. Fino all'epoca Meiji (1868) i
Giapponesi seguirono i modelli ispirati generalmente dalla Cina,
preferendo in modo particolare il paesaggio; le rappresentazioni
delle deità buddhistiche contenute negli schemi iconografici
tradizionali, specialmente quelle a colori, non subirono mutamenti
notevoli; in seguito, i contatti con il mondo occidentale, la
presenza di pittori, anche italiani, come il Fontanesi, additarono
nuove vie e si determinò pertanto un grande interesse per la maniera
di dipingere europea. A questa tendenza si opposero O. Tenshin
(1862-1913) e Y. Taikan che fondarono musei per raccogliere i tesori
nazionali d'arte, nel timore che l'attrazione esercitata dalla nuova
moda facesse perdere il gusto per la tradizione antica. Segue il
loro esempio S. Kanzan (1873-1916).
I soggetti che essi trattano sono soprattutto i paesaggi
tradizionali, ma non trascurano temi religiosi; merita di essere
ricordato lo Hibo Kannon (Kuan yin, Kannon, Avalokiteśvara, il dio
della compassione) di K. Hōgai (1828-1880); T. Tessai (1836-1924)
dipinge un gruppo di santi buddhisti (arhant) intenti a giocare in
una grotta, e una Kannon meditante nel Potala, ma si ispira anche a
motivi Zen: per esempio, il Dialogo fra saggi (un monaco che si
addormenta su una statua di Buddha e quando è risvegliato da un suo
compagno scoppia a ridere insieme con lui). Ma la grande tradizione
pittorica Zen è in realtà finita con G. Sengai (1750-1837).
K. Okakura, recatosi in India, contribuì al risveglio degli antichi
modi di dipingere, cercando di sottrarre l'arte a quell'accademismo
convenzionale che ripeteva sempre lo stesso linguaggio; egli
esercitò, in Calcutta, una notevole influenza sulla nuova scuola, la
bengalica, che ebbe i suoi maggiori interpreti nella famiglia di
Tagore (Abanindranath Tagore) e dominò nella Kalābhāvanā di
Shantiniketan, ove per molti anni operò Nandalal Bose. Naturalmente
i soggetti rappresentati erano soprattutto indù, ma non mancò un
ritorno ad ispirazioni buddhistiche che si erano fatte varco in seno
all'induismo.
Quest'arte è un ritorno alle tradizioni classiche dell'India e
specialmente delle grandi composizioni di Ajaṇṭā. Essa va di pari
passo con il formarsi della nuova coscienza politica, che doveva
condurre lentamente all'indipendenza, ed esprime la consapevolezza
che anche nell'arte l'India può ritrovare una spiritualità che la
distingua dall'Occidente. Non a torto forse alcuni critici
affermarono che Abanindranath Tagore rappresenta per l'arte ciò che
Gandhi fu nella politica. Per causa dei facili contatti con la Cina
e il Giappone, per l'influsso di Okakura e l'istigazione di un
professore d'arte inglese, che ebbe il merito di rivelare agli
stessi Indiani il valore universale delle tradizioni artistiche
dell'India in particolare e dell'Oriente in generale (Havell), al
risorgere dell'interesse per l'arte antica si accompagna la tendenza
allo studio delle correnti artistiche cinesi e giapponesi. In questa
prospettiva si colloca il Buddha e Suiatā di Abanindranath Tagore,
certamente superiore per il contenuto spirituale all'Adorazione
della moglie di Aśoka all'albero della bodhi. Piuttosto oleografica
e inespressiva è la Predicazione del Buddha ai suoi discepoli di
Venkatappa dell'India meridionale, ma ha spicco la Naṭir pūjā,
L'adorazione della danzatrice, ispirata da un dramma di Rabindranath
Tagore, di Nandalai Bose. La staticità delle figure è compensata dai
felici raggruppamenti, dalla lieve, quasi timida sinuosità delle
linee e da un senso della composizione, che diventa quasi un
immobilità fotografica nella scena dei Piaceri del Buddha prima
della rinuncia di Venkata Rao.
L'arte del Roerich, che si ispira, in maniera imaginifica, al
paesaggio tibetano e suggerisce con felice accostamento di colori
l'immensità silenziosa dei pianori e delle solitudini tibetane,
trovò un seguace in Karwal Krishna in certe sue composizioni che
riproducono in allusioni fantastiche il groviglio dei monasteri
tibetani.
Gran rilievo occorre dare a G. Keyt, un tormentato pittore di
Ceylon, a conoscenza delle vicende coeve dell'arte europea, che
sembra trovare la tranquillità serena negli affreschi per il centro
buddhistico di Borella vicino a Colombo (1940); il soggetto stesso
sembra avergli indotto una pace e una serenità che mancavano nelle
sue prime opere.
8. Meditazione e psicanalisi
D'altro lato non difettano aspetti del buddhismo che particolarmente
attraggono l'attenzione dell'Occidente: la tendenza
all'introspezione, la propensione (che si ritrova anche
nell'induismo) a un esame del profondo, a indagare le sopite
tensioni del subconscio, ad accettare come un fatto indiscutibile
che l'uomo è non soltanto ragione ma anche emozione, l'una e l'altra
in equilibrio instabile, ma capace di essere ristabilito mediante il
meccanismo di una tecnica meditativa molto complessa. Il buddhismo
che, per esempio, ha anticipato di secoli la teoria freudiana del
‛complesso di Edipo'; offre un campo nuovo di ricerche alla
psicanalisi, a un introspezione la quale ha il grande vantaggio che,
mentre lo psicanalista occidentale indaga su un oggetto, il
paziente, che gli è estraneo, è fuori di lui, nella meditazione
buddhistica è il soggetto che esamina se stesso, scruta nel profondo
le forze ivi dormienti e le ridesta, inserendole nell'unità dell'io,
fino a dilatare il suo intelletto in uno stato di paracoscienza la
quale trascende ogni dicotomia di io e mio, soggetto e oggetto.
Questo risulta chiaro dalla letteratura sempre maggiore e più
impegnativa che studia il buddhismo, non filologicamente, ma come
ispirazione o suggerimento a nuove ricerche sulla psiche umana. La
meditazione che esso prescrive e descrive è un'autoconquista.
Lo Jung ha intuito il grande valore che sotto questo punto di vista
hanno i maṇḍala. Si può dire che il suo libro sul maṇḍala, Il
segreto del fiore d'oro, è essenziale per la comprensione dei
diagrammi mandalici che rappresentano per mezzo di simboli, lettere
o figure di divinità, l'espandersi dal
centro=luce=illuminazione=Essere, dell'universo e dell'uomo,
macrocosmo microcosmo e quindi il ritorno o il riassorbimento in
quel principio-luce-illuminazione, mediante l'esperienza dello
spazio-tempo; e l'Uno, luce, illuminazione, Essere è al centro del
maṇḍala, rappresentato sotto forma di un dio o di una sillaba: ciò
perché l'uomo ha bisogno di un'immagine o di un simbolo come
sostegno alla meditazione che lo condurrà alla reintegrazione. Lo
stesso può dirsi nei riguardi della meditazione Zen che è stata
oggetto da parte dello stesso Jung di sottili analisi, le quali
presentano soluzioni diverse a mano a mano che egli approfondisce le
sue indagini (Guérison psychologique, Genève 1953). Alla meditazione
buddhistica, che affonda le proprie radici nell'esperienza yoga
dell'India, ma anche se ne distacca per la sua struttura e forma,
l'Occidente è oggi particolarmente interessato, anche al di fuori
della cerchia degli specialisti.
Ciò non vuol dire però che a questa attrazione corrisponda sempre
una profondità di intenzioni e una serietà di intenti e una costanza
nella pratica. La meditazione orientale, specialmente quella
buddhistica, anzitutto non è unitaria nella sua forma e nei suoi
propositi. Essa si presenta in due aspetti distinti, tuttavia
complementari: anzitutto un modo analitico: cioè un'introspezione la
quale indaga i vari processi del nostro pensiero, e così
analizzandoli li svuota, li cancella, ne dimostra la relatività e
quindi la precarietà; non è nel pensare che noi possiamo trovare la
nostra segreta identità: l'analisi insomma e l'introspezione servono
ad eliminare il pensiero medesimo nelle sue dicotomie; la mente è
ricettività di quanto le giunge dal di fuori o in se stessa
immagina; le cose sono fantasmi del nostro pensiero, ma questo non è
il nostro essere; il quale è piuttosto una vacuità non pensante,
immota, ma nel contempo un'inesauribile possibilità di pensieri, che
tuttavia esprimendosi diventa altro da sé, diventa soggetto ed
oggetto. La recuperata sintesi di conscio e di inconscio (che i
buddhisti del Mahāyāna chiamano śamatha) è uno stato di assoluta
lucentezza, l'illuminazione primordiale: non può dirsi un'estasi, né
un immersione o sprofondamento nell'inconscio. La meditazione è
un'acquisizione durevole e costruttiva, un espandersi luminoso della
nostra conoscenza, una para-conoscenza la quale è visione intera,
l'illuminazione del Bodhisattva che è arrivato alla decima ‛terra'
ed è diventato Buddha.
La meditazione, come disse U. Thittila nel 1962, ha il compito di
far emergere dall'oscurità ciò che giace nel meccanismo del profondo
e induce gli uomini a trovare in essa un elemento di vivente ed
armonica solidarietà; essa è un fattore positivo, capace di
infrangere le consuetudini vuote di senso e di efficacia morale,
perché addormentate in una tradizione incapace di rinnovarsi, un
processo di autopurificazione, tentativo, mediante il modo di vita,
l'introspezione e la concentrazione, di dar forma ad un restaurato
equilibrio fra ragione ed emozioni, una tendenza a servirsi di nuovi
simboli contro il ritualismo.
9. Gli Occidentali e la meditazione buddhistica
Gli Occidentali, che cominciano ad occuparsi di siffatti problemi,
ne studiano le tecniche; ma queste diventano comprensibili se sono
direttamente sperimentate. Le varie associazioni buddhistiche di
ispirazione tantrica o Zen oggi di moda richiamano o raccolgono
molti discepoli; ma qui si incontrano due difficoltà: da una parte
non sempre l'allievo è capace della costanza che questi esercizi
richiedono, o meglio, raramente si tratta di discepoli i quali
abbiano una vocazione sincera. Bisogna tener conto della curiosità
che induce alcuni a frequentare tali centri; né può trascurarsi il
cumulo di esperienze, completamente diverse, che costituiscono
un'eredità inconsapevole, come l'appartenenza a tradizioni
religiose, spirituali e culturali distinte, in essi latenti. Perciò
si corre il rischio di pericolosi scontri fra due personalità
diverse, l'una innata, l'altra avventizia o sovrapposta, oppure di
sperimentare coteste tecniche, non certo facili, senza costanza o
una seria volontà di approfondimento. Ne derivano approssimazioni
superficiali e anche pericolose. Come che sia tutto ciò è l'effetto
di una vaga consapevolezza che alcuni valori tradizionali
dell'Occidente non sembrano rispondere alle esigenze delle nuove
generazioni, che cercano altrove ispirazione o consiglio.
L'esempio più evidente lo si riscontra nella fortuna che hanno lo
Zen e con esso anche altre scuole buddhistiche, i cui problemi o le
cui tesi sono entrati nella cultura moderna, non più come argomento
di indagine teorica, ma come possibilità di rinnovamento spirituale.
Naturalmente fra le due scuole Zen, quella Rinzai e quella Sōtō,
l'ultima ha maggiori possibilità di diffusione, sebbene l'altra sia
apparentemente più facile ma anche rischiosa; il paradosso del kōan
può restare mero paradosso, stranezza ambigua, essere insomma
frainteso da chi non rispetti scrupolosamente la disciplina morale e
mentale che lo Zen richiede ed impone. Ad ogni modo è innegabile che
il buddhismo non è più soltanto una vicenda religiosa, il cui studio
è riservato a pochi specialisti, ma si presenta come una
problematica nuova che riscuote larghi consensi. Il suo relativismo,
già formulato da Nāgārjuna nel III sec. d.C. e che anticipa Bradley,
non è in contrasto con le conquiste scientifiche e matematiche.
U. Thittila nel 1961, in occasione dell'inaugurazione della World
Peace Pagoda, pone l'accento sulla necessità che i giovani studino
scienze politiche e matematiche. Secondo Ch. Hartshorne il buddhismo
e la scienza sono probabilmente i due più validi strumenti di
autocorrezione nel mondo moderno.
Partendo dalla teoria postulata dal Buddha che tutto ciò che esiste
in noi o fuori di noi, nella natura o nel complesso psicofisico, si
riduce a punti istanti (dhamma, dharma), Suriyabongse non soltanto
afferma che il Buddha è stato il più grande scienziato di tutti i
tempi, ma aggiunge che il buddhismo e la scienza pienamente
concordano; più si conosce la scienza della natura tanto meglio si
conosce il buddhismo. La scienza ha recentemente scoperto l'energia
atomica e ciò concorre a dimostrare che l'assunto del Buddha della
mutazione infinita (anicca-dukkha, anattā) è una realtà. Soprattutto
poi il buddhismo porta non tragicamente ma serenamente l'attenzione
sulla presenza della morte, che il mondo moderno, pur sfidandola,
sembra ignorare, e quindi s'accorda con il pensiero di Heidegger.
10. Crisi e prospettive del buddhismo contemporaneo
Il crescente interesse per il buddhismo nel mondo occidentale è
dunque il riflesso della crisi spirituale da cui questo ultimo è
sconvolto: il buddhismo, secondo alcuni pensatori, dovrebbe non già
soddisfare la diffusa curiosità per l'esoterico, il magico o il
miracoloso, a cui esso stesso in Asia si ribella, ma reintegrare
l'armonia fra intelletto e sentimento in un'esperienza pacificatrice
e sinceramente vissuta. Ma quale buddhismo? Mahāyāna o Theravāda? Il
Theravāda è più rigido, si vanta di conservare integro
l'insegnamento del Buddha. Tuttavia la sua scolastica non gli
impedisce di inserirsi nei moti nazionalisti e anche rivoluzionari:
ma la continuità della sua tradizione, i suoi legami con le vicende
dei singoli paesi dove ha resistito per secoli, limitano forse le
sue aspirazioni a quella universalità che giustamente è considerata
motivo essenziale della predicazione di Śākyamuni ed è stata
confermata dalla sua espansione: se non la limitano, la rendono
piuttosto teorica e meno atta ad esprimere quell'umanesimo ecumenico
che è alla base del Mahāyāna e sul quale specialmente si insiste in
Giappone. Tuttavia la tendenza a rinnovarsi l'abbiamo già
riscontrata in Sri Lanka, e la ritroviamo anche in Thailandia,
sebbene in questo paese la tradizione sia più conservatrice.
Ne è esempio Buddhadāsa il quale, pur vivendo in un eremo, si serve
persino del teatro per diffondere nelle masse la dottrina del
Buddha; egli ha raccolto una ricca biblioteca e riproduzioni o
calchi di alcuni dei monumenti o delle antiche sculture buddhiste
dell'India, e riafferma il principio della doppia verità: una verità
secondo la Legge, al di là del comune intelletto, intuibile ma non
esprimibile, ed una verità relativa, detta in parole che tutti
possono capire; le immagini, come le parole, sono un modo di rendere
accessibile ad ogni persona, anche la meno colta, la Verità che
trascende la ragione. (Ciò vale, egli sostiene, tanto per i
buddhisti quanto per i cristiani). Perciò egli ricorre al simbolo di
un circolo bianco che rappresenta il suñña, il ‛vuoto', non perché
il vuoto sia il nulla, ma perché il vuoto è al di là di ogni
dicotomia, l'assoluto reale e quindi ineffabile. Dunque anche
Buddhadāsa riconosce l'urgenza di liberare il buddhismo dalle
sovrastrutture che l'hanno modificato, e di uscire dalla cerchia dei
monasteri per recuperare il mondo dei laici: come una reviviscenza
dei tempi di Śākyamuni.
Ma basta tutto questo perché nei popoli si diffonda quel senso di
fratellanza che li dovrebbe congiungere con tutti coloro che
professano la stessa fede? I Tibetani avevano fatto una demarcazione
fra quelli che ‛stanno fuori' (p'yin pa), coloro cioè che non
conoscono la predicazione del Buddha, e coloro che ‛stanno dentro'
(nan pa), i seguaci del Buddha: divisione questa che implicava già
un'unità malgrado la varietà e molteplicità delle scuole.
Il Mahāyāna è stato sempre più duttile del Theravāda, ma è altresì
sovraccarico di architetture metafisiche o gnostiche, difficili a
comprendere; la sua affermazione della essenziale identità della
natura umana e di quella del Buddha può indurre a vaghi
atteggiamenti mistici, e a sottovalutare o porre in secondo piano la
normativa etica del buddhismo antico; oppure a dar credito a coloro
che reputano molto facile la liberazione che esso promette. Ciò
perché alcune sue scuole propongono agevoli mezzi di redenzione;
l'invocazione, gli inni, la devozione, che possono produrre un
rovesciamento di piani, la fede nella beatitudine dei paradisi, e
quindi liturgie che introducono un evidente fervore teistico e
possono esercitare una forte attrazione sulle masse. Ma così si
corre il rischio di trasformare l'austero insegnamento di Śākyamuni
in un formalismo che male s'accorda con la sua originaria semplicità
etica.
D'altro canto in tempi nei quali si assiste allo scontro di molti
dogmatismi e di diverse ideologie, il buddhismo ha il vantaggio di
non essere dogmatico, come si constata tuttora dalla fioritura delle
diverse sette che convivono l'una a fianco dell'altra, senza ombra
di odium theologicum; ciò è l'effetto di quel principio dell'abilità
dei mezzi di predicazione (upāyakauśālyatā) che risale ai primordi
del buddhismo; molte sono le vie, perché molti sono i modi mediante
i quali gli individui possono convertirsi, a seconda della loro
diversa maturità intellettuale, morale e spirituale. Naturalmente il
presupposto inderogabile sono il self-restraint, serenità e
semplicità (Shambala publications, Berkeley); troppo poco in
apparenza, ma, di fatto, quanto basta per trovare punti comuni oltre
le divergenze dottrinali sulle quali incombe tuttavia l'imprevisto
di possibili, libere proliferazioni.
Come che sia, il fatto più importante che si riscontra nel mondo
asiatico è la secolarizzazione del buddhismo; il potere della
comunità (Saṅgha) è in decadenza, i giovani preferiscono le scuole
laiche a quelle religiose, pur professandosi buddhisti, le
consorterie laiche stanno diffondendosi; gli avvenimenti politici
favoriscono anch'essi l'aspirazione a liberarsi da tradizioni in
parte desuete; il buddhismo si inserisce nella vita politica, i suoi
stessi principi lo rendono incline alle riforme in senso molto
vasto, ed a forme di governo di tipo socialista, perché ne trova la
giustificazione nell'insegnamento stesso del Buddha. Nel medesimo
tempo vorrebbe assumere un valore ecumenico: Asia buddhista di
fronte ad Occidente cristiano o all'Islam, non come opposizione, ma
come possibile convivenza. Il buddhismo oggi si propone di
promuovere l'unità fra i diversi popoli asiatici, perché quello che
c'è di meglio e di più creativo nell'Asia è stato il buddhismo; è
vero che il buddhismo è scomparso dall'India e soltanto ora vi
rinasce, ma è pur vero che dall'India partì la colonizzazione
culturale di molta parte del mondo asiatico; in Giappone esso ha
conformato notevolmente lo spirito e la cultura del paese, pur
subendo l'influsso dello shinta e della particolare visione
nipponica della vita; in Cina, penetrato come religione straniera,
esso ha stimolato un mirabile ardore speculativo, alimentato
dall'incontro del suo pensiero con quello puramente cinese, fino a
dar forma a sistemi filosofici e teologici (per es. la scuola
Hua-yen) di somma vitalità e originalità, e ad ispirare alcune delle
massime espressioni artistiche, dimostrando un'adattabilità, unica
nella storia, alle tradizioni culturali e religiose dei popoli fra i
quali si diffondeva. Non mancano quindi i presupposti per una sua
nuova ripresa evangelica. Già si notano sempre più numerosi incontri
fra le varie scuole nelle quali il buddhismo si era diviso: la
scissione fra Mahāyāna e il Theravāda non è incolmabile. C'è stato
già nel Vietnam il tentativo, però fallito, dell'unificazione delle
comunità al cui governo si alternano un monaco seguace del Mahāyāna
e uno del Theravāda.
Si aggiungono poi a vantaggio del buddhismo la mancanza di una
Chiesa, la libertà concessa a chi si professa buddhista di intendere
a suo piacimento le parole di Śākyamuni, salva restando
l'invalicabile validità della sua normativa morale e del suo
primitivo, elementare insegnamento: la tendenza a insistere sul
carattere scientifico della fondamentale visione del buddhismo; non
esiste nel buddhismo il problema della creazione: il mondo non è
stato creato, è il risultato di infinite combinazioni di elementi:
il buddhismo non è una dottrina rivelata, basata su testi divini.
Ciò induce molti buddhisti a credere che il buddhismo sia in
condizione di dare una più profonda ed aperta risposta alle
richieste delle nuove generazioni; una socievolezza solidamente
umana, fondata sulla comprensione e quindi sul desiderio di
assicurare non soltanto la propria serenità spirituale, ma quella di
tutti: liberare il mondo dalle opposizioni teoriche, dalle ideologie
che si contrappongono scatenando gravi sciagure, favorire una libera
discussione che il Buddha stesso reputava necessaria, perché le sue
stesse parole - egli disse - non dovevano essere accettate per pura
fede, ma dopo un'indagine logica e una discussione costruttiva.
Conviene poi porre in rilievo il grande peso che il buddhismo
attribuisce alla responsabilità dell'uomo, che deve rispondere di
quello che fa unicamente alla propria coscienza, indipendentemente
da qualsiasi autorità esterna.
Naturalmente quando si afferma (Masunaga Reihō) che il buddhismo,
verso cui ci avviamo, annulla tutte le differenze fra uomo e donna,
dotto e ignorante, nobile e umile e che la sua filosofia è basata
sulla scienza della natura e che esso non è altro che un umanesimo
il quale onora, libera e educa la natura umana, si presuppone che
occorra anzitutto svuotare il buddbismo - e qui si intende
soprattutto il buddhismo del Mahāyāna - di tutte le strutture
mitiche da cui è stato avvolto. Ma, oltre a ciò, occorre anche una
completa revisione del passato, in un'assoluta libertà di esprimere
le proprie critiche, talché a ciascuna persona sia permesso di
adottare per sé quella particolare forma di buddhismo più consona
alle sue propensioni morali, intellettuali, politiche. A tale
smitizzazione del buddhismo e alla necessità di tornare alle
origini, sembrerebbero estranee le scuole che pongono la rinascita
nel paradiso di Amitābha al centro della loro fede: una fede che,
per prima cosa, priva il karma della sua inesorabile maturazione e
antepone la devozione all'azione; ma tale fede non impedisce ai
sostenitori del processo di smitizzazione del buddhismo di sostenere
che questo discorso sul paradiso è uno dei mezzi adoperati dal
Buddha perché le creature meno preparate intellettualmente possano
essere convertite: alcuni arrivano a definire il paradiso un sogno.
Per concludere dunque, il primo compito che i pensatori buddhisti
più autorevoli si propongono di attuare è promuovere l'accordo fra
le scuole, unificarle, indurle a superare le differenze dottrinali;
ciò è avvenuto in Giappone per quanto concerne alcune sette (per es.
Nishi Honganji e Higashi Honganji). Ma il problema più importante da
risolvere è quello di superare le distanze fra Theravāda e Mahāyāna;
di ritrovare quell'unità che può conferire al buddhismo un valore
ecumenico. Il problema è argomento di discussioni continue; si
moltiplicano i congressi buddhisti di ogni scuola; le residue
resistenze delle comunità monastiche cominciano a cedere, né trovano
modo o ragione di opporsi alle richieste dei laici o delle giovani
generazioni che, organizzandosi in varie maniere, rappresentano una
valida forza innovatrice; i paesi che possono assolvere questo
compito sono quattro: il Giappone anzitutto, Sri Lanka, la Birmania,
e forse in minor misura, ma per ragioni contingenti, la Thailandia.
Quindi, secondo gli stessi pensatori, il buddhismo è teoricamente in
condizione di svolgere un nuovo apostolato, proponendosi non più
come un modo puramente asiatico di concepire la vita, ma come una
dottrina che, per la sua stessa polivalenza, la sua tolleranza, la
sua adattabilità, può intensificare, con maggior impeto, una
missione universale.