Bisogno
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Enciclopedia online
Nella storia della filosofia il b. è trattato principalmente sotto
due punti di vista: morale, con riferimento all’atteggiamento da
assumere nei confronti dei b., se limitarli o incoraggiarli (in
questo senso il problema della ‘disciplina’ dei b. si confonde con
quello della virtù); antropologico, come segno o elemento della
condizione umana. In questo secondo aspetto già Platone riconobbe
nel b. un tratto caratteristico dell’amore come privazione e pose
nel b. la ragione dell’aggregarsi degli uomini in società. In
Aristotele la nozione di b. si riferisce non tanto alle esigenze
dell’origine, quanto a quelle della vita sociale già costituita,
finalizzata al ‘viver bene’.
Nella filosofia post-aristotelica non si riscontra uno specifico
interesse verso questo problema e la classificazione che Epicuro dà
dei b., distinguendoli in naturali e necessari, naturali non
necessari, non naturali e non necessari, è piuttosto in funzione
della problematica relativa ai piaceri.
Nella filosofia cristiana e medievale il b. è inteso come un segno
della perdita della beatitudine eterna seguita al peccato.
Nel Rinascimento si affermò una valutazione positiva del b. legata
all’apprezzamento dell’operatività umana e si collegò con G. Bruno
al tema della civiltà e del progresso.
L’età moderna sottolineò piuttosto l’indipendenza dell’uomo
razionale rispetto ai bisogni. Paradigmatica a questo proposito è la
posizione di Kant che nella resistenza al b., legato alla natura
sensibile dell’uomo, pone l’espressione più evidente della sua
razionalità e autonomia. Hegel pone la ‘mediazione’ dei b. alla base
della società civile, rilevando come, a differenza dell’animale,
l’uomo abbia la possibilità di dominarli, attraverso la
scomposizione e moltiplicazione loro e dei mezzi per soddisfarli.
Un rilievo particolare assume la teoria dei b. nella filosofia
post-hegeliana: in Schopenhauer il b. è l’essenza stessa della
volontà, sempre spinta dalla mancanza e dal dolore; Feuerbach e Marx
vedono nel b. la forma immediata del rapporto dialettico uomo-natura
e l’elemento propulsore della trasformazione economico-sociale che
l’uomo opera nella natura mediante il lavoro.
Nella filosofia contemporanea il tema del b. riveste notevole
significato tanto nel filone naturalistico, con Dewey che pone il b.
in rapporto alla ‘matrice biologica’ di ogni attività umana e ne fa
il segno della rottura dell’equilibrio organico, quanto nel filone
esistenzialistico, con Heidegger che pone l’accento sulla condizione
di dipendenza dell’uomo nel mondo, caratterizzata da quella «cura» o
«preoccupazione del vivere» di cui il b. è appunto parte
costitutiva.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
di Stefano Zamagni e Riccardo Luccio
Economia
di Stefano Zamagni
Sommario: 1. Introduzione. 2. I bisogni
nell'economia politica classica. 3. Marx e la teoria dei bisogni. 4.
I tre principî fondamentali dei bisogni. 5. Riducibilità dei bisogni
e utilità. 6. Bisogni di base e approccio delle capacità. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Il problema della soddisfazione dei bisogni e della ricerca dei
mezzi più idonei a tal fine ha rappresentato lo scopo 'naturale'
dell'economia politica fin dal suo costituirsi come disciplina
scientifica autonoma nella seconda metà del Settecento. Parecchie, e
talvolta profondamente diverse, sono state le risposte che le varie
scuole di pensiero economico hanno dato alla domanda: quali sono i
bisogni da soddisfare e quali le modalità per soddisfarli?
All'origine di tale pluralità sta l'ambiguità della nozione stessa
di bisogno, un'ambiguità che a sua volta discende da un'altra più
profonda: quella dell'uomo che è essere sociale e naturale a un
tempo. Già gli autori del XVIII secolo distinguevano due categorie
di bisogni, quelli naturali e quelli artificiali, una distinzione
che, con denominazioni appena diverse (bisogni necessari e
superflui, biologici e culturali, e così via), si ritrova in tutti
gli studiosi che si sono occupati e si occupano della tematica dei
bisogni. Scriveva Condillac (v., 1776; ed. 1948, p. 244): "I bisogni
naturali sono una conseguenza della nostra conformazione: noi siamo
conformati in modo da aver bisogno di nutrimento o da non poter
vivere senza alimenti". Quanto ai "bisogni artificiali", essi sono
"una conseguenza delle nostre abitudini. Una certa cosa, di cui
potremmo fare a meno perché la nostra conformazione non fa sì che ne
abbiamo bisogno, ci diventa necessaria in seguito all'uso e talvolta
tanto necessaria come se fossimo conformati in modo da averne
bisogno". Quanto a dire che da un lato i bisogni derivano dalla
costituzione dell'uomo, dal suo corpo; dall'altro, dalla storia e
dalla cultura proprie di ciascun gruppo sociale.
È un fatto che tutte le risposte ai bisogni, e prima ancora la loro
formulazione, passano attraverso una dimensione simbolica. L'uomo
non mangia solo per necessità biologica, ma il suo consumo di cibo
subisce un'elaborazione culturale e immaginaria: attraverso questa
griglia va colto il senso degli atti legati, direttamente o
indirettamente, alla soddisfazione dei bisogni. I bisogni dunque, e
soprattutto il modo di soddisfarli, appaiono sempre in qualche modo
socialmente determinati. E ciò non solo perché i bisogni
'artificiali' non preesistono ai beni atti a soddisfarli - ma anzi
si sviluppano in seguito all'esposizione agli stessi - ma anche
perché, dal momento che i beni sono usati in attività socialmente
definite, il processo di interazione tra bisogni e beni è mediato
dal significato che i beni stessi assumono nel contesto
socioistituzionale di riferimento del soggetto (v. Consumi). Come
vedremo, la diversità dei modi in cui la categoria 'bisogno' è stata
teorizzata nella storia del pensiero economico trova la sua radice
ultima in questo divario tra una concezione essenzialistica -
secondo cui i bisogni generano, fin dall'emergere della specie, i
nostri comportamenti individuali e collettivi - e una concezione
convenzionalista, secondo cui i bisogni sono storicamente e
socialmente determinati. Secondo il primo punto di vista i bisogni
si identificano con ciò che è richiesto dalla natura umana, senza di
cui il soggetto risulterebbe danneggiato. Il danno è poi variamente
definito in termini di "conseguenze patologiche" (v. Bay, 1968, p.
242), oppure di impedimento allo "sviluppo naturale della persona"
(v. McCloskey, 1976, pp. 5-7), e ancora di vincoli alla razionalità
(v. Nielsen, 1976). Nell'ottica convenzionalista, invece, i bisogni
sono ciò che la società ritiene che gli individui non possano non
avere. Per Townsend (v., 1979, p. 413) "le persone vanno considerate
bisognose se mancano dei tipi di cibo, vestiario, alloggio, delle
condizioni sociali e di lavoro che sono comuni nelle società cui
appartengono".
2. I bisogni nell'economia politica classica
Nel pensiero classico la riflessione sui bisogni è legata a doppio
filo allo studio sistematico di quella nuova forma di organizzazione
socioeconomica che prende corpo nell'Inghilterra del Settecento: il
capitalismo industriale. Nel 1776 Adam Smith pubblica l'Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, uno dei più
significativi punti di riferimento della cultura occidentale.
Obiettivo primario di Smith è spiegare come il perseguimento da
parte degli individui dell'interesse personale, in un'economia in
cui i soggetti interagiscono tra loro solo per mezzo di scambi
volontari, dia origine a un'organizzazione della produzione e della
distribuzione della ricchezza che è, a un tempo, efficiente e
mutuamente benefica. In altri termini, si tratta di spiegare come
un'economia di scambio riesca a garantire il soddisfacimento dei
bisogni dei suoi componenti e in tal modo l'armonia sociale.
Per Smith ciò che consente un livello sempre più elevato di
soddisfazione dei bisogni è il meccanismo dello scambio, che è alla
base dell'economia di mercato. Lo scambio consente, in primo luogo,
di confrontare e rendere compatibili i vari bisogni individuali:
ognuno, scambiando i propri beni con quelli di un altro, può
aumentare il proprio benessere e ampliare la gamma dei suoi bisogni.
Dietro l'interesse privato del singolo agisce, sul mercato, una
"mano invisibile" che unifica e concilia le differenti situazioni di
bisogno. D'altro canto, lo scambio non è il risultato di una
previdente invenzione, ma la conseguenza di un'inclinazione
naturale, innata, dell'animo umano, che costituisce la base stessa
della socialità.
Nella forma che esso assume nell'economia di mercato, lo scambio è
comune a tutti gli uomini e a essi soltanto. Non si è mai visto un
cane - dice Smith - scambiare un osso per un altro con un altro
cane. Solo l'uomo dice all'altro uomo: "dà a me quello di cui ho
bisogno e avrai ciò di cui hai bisogno". Inoltre, solo l'uomo può
volgere a proprio vantaggio l'interesse degli altri così come gli
altri fanno con il suo. Resta celebre l'affermazione smithiana
secondo cui " non è dalla benevolenza del macellaio, del produttore
di birra, del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal
riguardo che essi prestano ai loro interessi" (v. Smith, 1776; tr.
it., p. 17). Quanto a dire che non è dalla benevolenza degli altri
uomini che ognuno ottiene ciò di cui ha bisogno, ma solo dalla
considerazione che egli stesso ha del proprio interesse. I bisogni
sono infatti vari e molteplici - ricorda Smith - e la vita troppo
breve per guadagnarsi l'amicizia di tutti coloro da cui i nostri
bisogni dipendono; è dunque solo attraverso lo scambio che possiamo
soddisfarli.
L'altro momento dell'economia politica classica in cui il concetto
di bisogno gioca un ruolo fondamentale è quello della definizione
del livello salariale di sussistenza. Sono infatti i bisogni a
definire il contenuto della sussistenza, cioè il paniere dei beni di
consumo senza i quali la classe lavoratrice non può riprodursi nella
quantità e nella qualità richieste dal processo di accumulazione
capitalistico. Il livello del salario naturale dipende solo dalle
condizioni di offerta del lavoro, vale a dire dal costo della
sussistenza del lavoratore e della sua famiglia. Il principio della
popolazione di Malthus garantisce che il prezzo d'uso del lavoro,
cioè il salario, non potrebbe mai scostarsi, nel lungo periodo, dal
costo della sussistenza. Il rigore di questa legge ferrea dei salari
viene mitigato da David Ricardo allorché osserva che il livello di
sussistenza è definito non in termini del mero costo di riproduzione
del lavoro, ma del costo calcolato tenendo conto anche dei beni di
consumo generalizzato, i cosiddetti beni 'convenzionalmente
necessari', legati al grado di sviluppo raggiunto dal sistema.
3. Marx e la teoria dei bisogni
Se si analizzano le scoperte che Marx si attribuisce rispetto
all'economia politica classica, si trova che, in qualche modo, esse
sono tutte costruite sul concetto di bisogno. Marx (v., 1867-1894;
tr. it., vol. I, t. 1, p. 47) definisce la merce come valore d'uso
nel modo seguente: "La merce è [...] una cosa che mediante le sue
qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo". Tuttavia Marx
non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non spiega nemmeno
cosa si debba intendere con tale termine, anche se, più di una
volta, egli ribadisce la storicità dei bisogni, la loro dipendenza
dalla tradizione, dal grado di cultura e così via.
Lo sviluppo della divisione del lavoro e della produttività crea,
con la ricchezza materiale, anche la ricchezza e la molteplicità dei
bisogni; è però sempre in seguito alla divisione del lavoro che
anche i bisogni si ripartiscono: il posto occupato all'interno della
divisione del lavoro determina la struttura dei bisogni o, almeno, i
suoi limiti. Questa contraddizione raggiunge il suo culmine nel
capitalismo.
Secondo Marx, la riduzione del concetto di bisogno al bisogno
economico - riduzione tipica dell'economia politica classica - è
un'espressione dell'estraniazione (capitalistica) in una società in
cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni ma
la valorizzazione del capitale; in cui il sistema dei bisogni è
determinato dalla divisione del lavoro e il bisogno incide sul
mercato soltanto nella forma di domanda solvibile. Invero, le
categorie marxiane di bisogno non sono categorie economiche, ma
categorie antropologiche di valore e dunque non passibili di
definizione entro il sistema economico.
Solo in quella che Marx chiama la società dei "produttori associati"
può svilupparsi negli uomini una struttura dei bisogni tale da
rendere possibile l'impiego del tempo libero per la soddisfazione di
"bisogni superiori". Infatti, in questa società è di primaria
importanza la valutazione dei bisogni e la conseguente ripartizione
di forza lavoro e di tempo di lavoro; in tal modo viene modificata
tutta la struttura dei bisogni (anche il lavoro diventa un bisogno
vitale): gli uomini partecipano dei beni conformemente ai loro
bisogni e sono primari non i bisogni riguardanti beni materiali, ma
quelli diretti alle "attività superiori". Nulla di simile, sentenzia
Marx, può riscontrarsi nel capitalismo. Qui la struttura dei bisogni
si riduce al bisogno di avere, che subordina a sé l'intero sistema.
Tutto ciò si manifesta nei membri della classe dominante come
aumento quantitativo dei bisogni di uno stesso tipo e degli oggetti
necessari alla loro soddisfazione, mentre nella classe operaia si
manifesta come riduzione ai meri bisogni vitali, cioè ai "bisogni
naturali" e alla loro soddisfazione. I bisogni qualitativi sono
quantificati, da bisogni-scopo diventano bisogni-mezzo. Poiché non
possono svilupparsi bisogni di qualità eterogenea, i piaceri degli
uomini restano "rozzi" e "brutali" e alcuni dei loro bisogni si
"fissano".
È di un certo interesse notare che è nei Grundrisse che si trova una
delle più chiare descrizioni di Marx della società postindustriale e
della nuova condizione del lavoro liberato dalla ossessiva
ripetitività della fabbrica. "Il risparmio del tempo di lavoro
equivale all'aumento del tempo libero - osserva Marx - ossia del
tempo dedicato allo sviluppo dell'individuo, sviluppo che a sua
volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del
lavoro [...]. Il tempo libero, che è sia tempo di ozio che tempo per
attività superiori, ha trasformato naturalmente il suo possessore in
un soggetto diverso ed è in questa veste di soggetto diverso che
egli entra poi anche nel processo di produzione immediato" (v. Marx,
1953; tr. it., vol. II, p. 410). In queste circostanze "non è più il
tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza"
(ibid., p. 405). Come si comprende, sono qui abbozzati due spunti di
riflessione di grande interesse. Il primo è che col progredire delle
condizioni generali di vita nasce e si afferma un nuovo bisogno, il
bisogno di tempo libero. La seconda idea importante riguarda
l'aspetto 'produttivistico' della soddisfazione dei bisogni, e ciò
nel senso che quanto meglio vengono soddisfatti i bisogni del
lavoratore tanto più elevata risulterà la sua produttività.
4. I tre principî fondamentali dei bisogni
Il punto di vista che caratterizza il sorgere del marginalismo e
l'opera di alcuni tra i suoi più autorevoli esponenti individua nel
concetto di bisogno il fondamento di una teoria economica
dell'azione umana. L'asserto di base è che ciò che determina il
comportamento economico dell'individuo è la sua situazione di
bisogno. I beni sono utili in quanto hanno la capacità di soddisfare
i bisogni, e quindi la scelta dei beni da parte del soggetto dipende
dalle proprietà strutturali dei bisogni. La più importante di queste
proprietà è che i bisogni si presentano gerarchizzati, ed è una
proprietà da sempre riconosciuta, se è vero che addirittura Platone
poteva scrivere: "Ora il primo e principale dei nostri bisogni è la
provvista di cibo per l'esistenza e la vita. Il secondo è
l'abitazione e il terzo è l'abbigliamento e cose simili"
(Repubblica, II, 369 d).Già in T. C. Banfield, uno dei maestri di W.
Stanley Jevons, troviamo chiaramente esposta "la prima proposizione
della teoria del consumo: che la soddisfazione di ciascun bisogno
inferiore della scala crea un desiderio di carattere più elevato
[...]. La rimozione di un bisogno primario usualmente sollecita più
di una privazione secondaria: così una disponibilità piena di cibo
ordinario non solo stimola il piacere del buon mangiare, ma
sollecita l'attenzione al vestirsi [...]. Ed è la costanza di un
valore relativo negli oggetti di desiderio e l'ordine fisso di
successione in cui questo valore sorge che rende argomento di
calcolo scientifico la soddisfazione dei nostri bisogni" (v.
Banfield, 1844, pp. 11-21).
È questo il principio di subordinazione dei bisogni, secondo cui il
soddisfacimento di certi bisogni è condizione necessaria del
manifestarsi di altri - un principio che alcuni decenni dopo
l'economista austriaco Carl Menger illustrerà e renderà celebre con
la ben nota parabola del coltivatore solitario che procede a
ripartire i frutti del proprio raccolto in relazione al grado di
urgenza dei propri bisogni.
Dall'affermazione che esistono priorità nell'ordine dei bisogni
discende immediatamente un secondo principio, per la prima volta
esplicitamente enunciato dall'economista tedesco Hermann Gossen: il
principio dei bisogni saziabili, secondo cui l'intensità di un
bisogno finisce col decrescere, fino a diventare zero e poi
negativa, all'aumentare delle dosi di beni impiegate per
soddisfarlo. Invero, la nozione di gerarchia implica che il soggetto
soddisfi i propri bisogni in ordine di importanza, ma è evidente che
solo se il bisogno più importante è saziabile, quello successivo
potrà essere soddisfatto: un punto questo che Maurice Halbwachs pone
in chiara evidenza in un'opera monumentale dedicata allo studio
delle correlazioni tra bisogni e consumi (v. Halbwachs, 1913).
D'altro canto, se è vero che esiste una saturazione (relativa) per
qualsiasi bisogno, è altresì vero che un bisogno successivo ne
prende sempre il posto. È proprio questo terzo principio, noto come
principio della crescita dei bisogni, a escludere situazioni di
saturazione assoluta. In L'ideologia tedesca Marx scrive al
riguardo: "Il secondo punto è che, soddisfatto il primo bisogno,
l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa
soddisfazione portano a nuovi bisogni: è questa produzione di nuovi
bisogni la prima azione storica" (v. Marx ed Engels, 1845-1846; tr.
it., p. 25).
Come avvenga questo sviluppo dei bisogni, secondo quali modalità e
con quali conseguenze è un problema che non può essere ignorato se
non si vuol rinunciare a cogliere alcuni aspetti centrali del
funzionamento del sistema economico. Di ciò ha chiara percezione
Menger che pone la teoria dei bisogni a fondamento di tutta la sua
teoria economica. L'uomo è soggetto, al pari degli animali, a
provare impulsi e appetiti che lo spingono a procurarsi mezzi di
soddisfazione immediati, che però non sono in grado di assicurargli
vita e benessere. Data la sua natura, tuttavia, l'uomo è in grado di
percepire anche i suoi bisogni veri e propri, ovvero ciò che gli è
necessario per la "conservazione e lo sviluppo armonico della natura
nella sua totalità" (v. Menger, 1871; tr. it., p. 76).
Ma da cosa dipende la possibilità di percepire i bisogni? La
riflessione mengeriana acquista, a tale proposito, il valore di
un'intuizione di grande momento. Poiché la percezione del bisogno è
indotta da necessità pratiche, quanto più limitati sono i mezzi di
cui un individuo dispone, tanto minori saranno le occasioni che egli
avrà di conoscere i propri bisogni. Al contrario, "tanto più
abbondanti sono i mezzi di cui una persona dispone, tanto maggiore è
il suo desiderio di comprendere chiaramente le esigenze della
propria personalità" (ibid., nota a). Sono dunque le condizioni
soggettive dell'individuo, e in primo luogo i suoi mezzi (potere
d'acquisto, informazione, ecc.), a fissare le modalità di crescita
dei suoi bisogni. È questo un punto della più grande importanza, che
purtroppo è stato accantonato negli sviluppi della teoria economica
post-mengeriana, in cui il numero dei bisogni è invece un dato, e
non una variabile che risente delle condizioni generali di crescita
dell'economia.
5. Riducibilità dei bisogni e utilità
I tre principî costituiscono, seppure in nuce, una felice
schematizzazione della psiche del soggetto economico. Essi
sottolineano, perlomeno, tre fatti fondamentali: a) il processo di
produzione dell'esistenza è un processo temporalmente ordinato. Non
è indifferente per il soggetto soddisfare un bisogno o un altro; vi
sono certe priorità nel soddisfacimento che debbono essere
rispettate; b) i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di
consumo sono variabili e oltre un certo punto decrescenti; c) il
processo di produzione dell'esistenza non implica soltanto delle
priorità, ma comporta anche delle insostituibilità. Il mancato
soddisfacimento di certi bisogni non può essere compensato dal
soddisfacimento di altri: non è possibile, altro che in
ristrettissimi limiti, attenuare i morsi della fame dormendo di più.
Eppure la scelta teorica dell'economia neoclassica, nei suoi
sviluppi a partire dalla rivoluzione marginalista, è contraddistinta
da un netto abbandono dell'impostazione precedente. Sostituendo ai
tre principî dei bisogni la funzione di utilità, il pensiero
neoclassico riesce a ignorare sia il principio della subordinazione
sia quello della crescita dei bisogni, e a porre a fondamento del
proprio edificio il solo principio dei bisogni saziabili,
opportunamente qualificato come principio dell'utilità marginale
decrescente: i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di
consumo sono non solo variabili, ma oltre un certo punto
decrescenti.In questa nuova impostazione il soggetto possiede un
unico bisogno fondamentale: il bisogno di utilità. All'origine
dell'azione economica del soggetto vi è cioè un unico motore, la
massimizzazione dell'utilità (poco importa se cardinale o ordinale)
intesa come entità unica che sussumerebbe tutti i suoi bisogni. E
poiché la funzione di utilità è posta come funzione diretta della
quantità dei beni consumati, il risultato è che i beni sono tutti
riducibili a un'unica sostanza, a una comune base che è appunto la
loro capacità di produrre utilità. La struttura dei bisogni viene
così appiattita su un unico bisogno, quello di utilità, col
risultato, certo non secondario, che la pluralità di significati e
le differenziazioni qualitative degli oggetti concreti di consumo
vengono dissolte in una unidimensionale diversificazione di grado.
Perché se tutti i beni servono, in definitiva, a generare utilità,
il criterio per distinguere tra essi non può che essere quello della
loro maggiore o minore capacità di produrre utilità. Come scrive con
forza Nicholas Georgescu-Roegen (v., 1971, p. 52), nell'economia
neoclassica "lo spettro dialettico dei bisogni umani (forse
l'elemento più importante del processo economico) viene ridotto e
nascosto nel concetto numerico e senza colore di utilità, per il
quale, oltre tutto, nessuno è ancora riuscito a fornire un'effettiva
procedura di misurazione".
Quali le ragioni di una siffatta operazione di riduzione? Se si
considera che il problema della crescita dei bisogni è inscindibile
da quello del rapporto tra struttura sociale, sue trasformazioni e
valori ispiratori che ordinano i bisogni degli individui nella
società - perché, se l'appagamento dei bisogni tende a elevare il
livello di aspirazione, ogni nuova fase di sviluppo porta a una
ristrutturazione dei bisogni - la scelta teorica dell'economia
neoclassica diviene intelligibile. Si tratta di rinunciare alla
valenza esplicativa della teoria economica a favore dell'eleganza e
determinatezza dei suoi risultati (v. Consumi). Un vuoto non più
colmato si apre così fra le indagini empiriche sui consumi, che
seguitano a rilevare relazioni del tipo contemplato dal primo e dal
terzo principio dei bisogni, e la teoria economica ormai
impermeabile a quei fenomeni. Riprendendo ancora Georgescu-Roegen
(v., 1967, p. 169): "Come effetto di questo modo di procedere,
problemi molto importanti a cui non si poteva dare risposta che in
termini dei principî ignorati [primo e terzo] furono gradualmente
cacciati nella categoria delle questioni senza senso".
È significativo che, da quando l'utilità è entrata come categoria
fondamentale nel discorso economico, la teoria neoclassica abbia
finito con l'escludere dal proprio campo di ricerca quei processi di
formazione, diffusione e diversificazione dei bisogni che avrebbero
potuto costituire la base solida di uno studio rigoroso e
soddisfacente non solo della domanda dei beni di consumo ma anche
dell'evoluzione nel tempo storico del sistema economico. Col
risultato collaterale che l'analisi ha finito con l'ignorare o col
delegare a una letteratura di tipo sociologico e antropologico lo
studio di tutte le attività economiche che intervengono su quei
processi. Pertanto la base che la teoria dell'utilità - anche nelle
versioni più recenti - offre alle ricerche empiriche è praticamente
inesistente, il che dà conto del fatto che non pochi ricercatori
empirici tentino di fondare le loro ricerche esclusivamente sul buon
senso e sulla percezione intuitiva dei nessi causali.
6. Bisogni di base e approccio delle capacità
In parziale ma significativa risposta alla situazione di disagio
provocata dalla scelta riduzionista della teoria economica
dominante, è andata prendendo corpo, in epoca recente, una nuova
linea di riflessione centrata sulla nozione di bisogno di base
(basic need: v. Streeten e altri, 1981). Non v'è dubbio che
un'efficace sollecitazione a procedere in tal senso sia venuta dalla
riapparizione di un approccio etico nel discorso economico. Il fatto
che il problema dei bisogni rappresenti uno dei nodi centrali degli
studi e dei progetti riguardanti lo sviluppo dei paesi del Terzo
Mondo ha contribuito non poco al risveglio di interesse nei
confronti di una tematica che - come abbiamo sopra ricordato - aveva
occupato gli economisti all'epoca della prima rivoluzione
industriale.
Scrive Paolo Sylos Labini (v., 1983, p. 106): "L'area delle persone
che non riescono a soddisfare pienamente i bisogni essenziali -
l'area della vera e propria miseria, ovvero della povertà assoluta -
rappresenta una malattia che non è solo vergognosa dal punto di
vista etico, ma ha effetti deleteri sull'intera società".Non vi è,
né forse mai vi sarà, una nozione unica dei bisogni di base, i cui
indicatori sono molteplici: durata media della vita, mortalità
infantile, percentuale di analfabeti, disponibilità pro capite di
calorie e proteine, disponibilità di alloggi, e così via. C'è
tuttavia convergenza di opinioni sul fatto che si tratti di un
concetto normativo e derivato a un tempo. Normativo perché per
riconoscere che certe necessità o mancanze di un individuo sono
bisogni occorre ammettere, da un lato, che esse sono urgenti, e
dall'altro che esse rappresentano un obbligo per la società.
Invero, il riconoscimento dei bisogni di particolari individui o
gruppi costituisce per la società un impegno assai più forte che non
il mero riconoscimento di voleri o preferenze: affermare che certi
bisogni devono essere soddisfatti significa appellarsi a una qualche
nozione di giustizia, mentre affermare che certi voleri o preferenze
vanno soddisfatti significa, sotto il profilo della giustizia,
fornire ragioni per cui questo debba avvenire - ad esempio,
specificando il contributo che l'individuo deve offrire.D'altro
canto i bisogni, a differenza delle preferenze, costituiscono una
categoria derivata nel senso che affermare che qualcosa (ad esempio
mangiare) è un bisogno per un soggetto presuppone che ci si
riferisca a voleri o diritti che vengono riconosciuti a quel
soggetto (ad esempio il diritto di non morire di fame). Una
preferenza può essere un fine in sé; non così un bisogno. Dunque, a
differenza delle preferenze, i bisogni sono normativamente primari,
ma derivati (v. Fitzgerald, 1977).
Uno dei problemi centrali del dibattito contemporaneo sul tema dei
bisogni di base è quello di identificare i bisogni meritevoli di
speciale considerazione da un punto di vista pubblico. È
interessante, al riguardo, la nozione di "interessi centrali"
proposta da Thomas Scanlon (v., 1975): gli "interessi centrali" si
distinguono dagli "interessi periferici" di un individuo o di un
gruppo sulla base del criterio che i primi concernono, virtualmente,
tutti. L'idea soggiacente a questa definizione è che gli individui
sono portatori di un bisogno prioritario e fondamentale: quello di
essere protetti dalle evenienze più socialmente inique. Qualsiasi
teoria interessata ai bisogni, infatti, dà necessariamente rilievo
all'idea intuitiva implicita nella nozione di bisogno, e cioè che il
bisogno non costituisce una pretesa arbitraria. Le pretese valide
sono quelle che, riguardando le condizioni generali dell'esistenza
umana, risultano del tutto impersonali.
Un altro aspetto importante della problematica dei bisogni di base,
che recentemente ha alimentato un vivace dibattito, è quello del
nesso tra malnutrizione e livelli produttivi. La malnutrizione non
produce solo disagio e sofferenza, ma anche una minore capacità di
intraprendere attività fisiche o mentali. A bassi livelli
nutrizionali si determina un legame molto forte tra assorbimento di
cibo e capacità di lavoro. Eppure è ancora frequente il luogo comune
secondo cui i trasferimenti di cibo ai più poveri rischierebbero di
abbassare ulteriormente i saggi di crescita del prodotto nazionale a
causa della loro influenza negativa su risparmio, investimento,
incentivi e così via. Si continua così a ignorare il fatto che
provvedimenti del genere tendono ad accrescere la produzione
attraverso un aumento della capacità lavorativa. Ora, è ben vero che
è difficile sapere in anticipo quale dei due (effetto positivo sulla
capacità lavorativa ed effetto negativo sull'incentivo a lavorare)
sarà l'effetto maggiore, ma - come ricorda Sylos Labini (v., 1983,
p. 107) - "è anche certo che, se si lascia languire nella miseria
una parte della popolazione, lo sviluppo produttivo non può non
soffrirne".
Rompendo con l'impostazione neoclassica tradizionale, una linea di
ricerca recente cerca di riportare la categoria di bisogno al centro
dell'analisi del comportamento dei soggetti economici, basandosi
sulla nozione di capacità intesa come capacità dell'individuo di
esercitare certe funzioni. Secondo Amartya Sen (v., 1985) conviene
muovere dalla semplice osservazione che quasi ogni bisogno può
essere soddisfatto, in linea di principio, da diverse forme generali
di consumo (individuali, familiari, sociali) e, all'interno di
ciascuna di esse, da beni differenti. Inoltre l'individuo riconosce
i beni specifici che possono soddisfare i suoi bisogni solo tra
quelli prodotti e già esistenti sul mercato. Ciò posto, Sen propone
di partire dalla nozione di 'capacità di soddisfare un bisogno'. La
capability ha come oggetto diretto e immediato il bisogno; i beni
servono quali strumenti, peraltro non univoci, per soddisfare i
bisogni. La capacità nel senso di Sen è dunque un tratto distintivo
di una persona in rapporto a un bene. E la capacità di esercitare
una funzione riflette ciò che la persona può fare con i beni che ha
a propria disposizione. "La persona che soffre per un parassita che
le impedisce l'assimilazione di nutrimenti può morire di fame anche
se consuma lo stesso ammontare di cibo di un'altra per la quale
quell'ammontare è del tutto adeguato" (v. Sen, 1985, p. 9).
Proprio perché la capacità di esercitare una funzione appartiene
alla categoria dei diritti, essa ha valore a prescindere
dall'utilità che l'esercizio effettivo di quella funzione può
eventualmente produrre. La teoria dominante, in quanto parte dal
presupposto che la sola cosa che ha valore per il soggetto è
l'utilità, non riesce a recepire nozioni quali quelle di 'diritto a'
o 'libertà di'. All'origine della povertà della struttura
informativa della teoria tradizionale sta l'insistenza a giudicare
degno di considerazione solo quello che può essere misurato col
metro dell'utilità, come se il giudizio sull'importanza di qualcosa
potesse essere ridotto alla misura dell'utilità associata a quel
qualcosa, o come se la relazione 'migliore di' potesse essere
trasformata, senza scarto, nella relazione 'maggiore di'. Alan
Gibbard è vicino a questa posizione quando osserva - disapprovando -
che l'unità di misura della teoria economica neoclassica è la
soddisfazione delle preferenze e non già la soddisfazione dei
bisogni dell'individuo. E si chiede: "Perché mai dovremmo accettare
che il benessere di una persona sia costituito dal grado al quale le
sue preferenze sono soddisfatte anziché dal grado al quale essa si
dichiara felice?" (v. Gibbard, 1986, p. 169).
Quali i vantaggi più significativi dell'approccio suggerito da Sen?
In primo luogo esso consente di superare alcune grosse difficoltà
implicite nel fatto che i beni oggetto della scelta del consumatore
non sono da lui stesso proposti, ma da altri soggetti economici, ad
esempio dai produttori. La più grave di tali difficoltà è che in
contesti del genere le preferenze dei consumatori possono non
esprimere i loro bisogni. Questo non costituisce un problema per la
teoria tradizionale in quanto, partendo dalle preferenze assunte
come un prius, questa teoria non ritiene di dover indagare sui
rapporti intercorrenti fra preferenze e bisogni, ammettendo
implicitamente che le une siano espressione perfetta degli altri.
Eppure le preferenze hanno come referente i beni e non i bisogni, si
esercitano cioè sui beni e non sui bisogni. Solamente se il soggetto
dei bisogni fosse, al tempo stesso, anche colui che 'definisce' i
beni atti a soddisfare quei bisogni non vi sarebbe alcuno scarto tra
bisogni e preferenze. Ma chiaramente così non è in un'economia di
mercato.
Un secondo importante terreno di feconda applicazione dell'approccio
basato sulla nozione di capacità concerne la teoria del mutamento
strutturale e in modo particolare la teoria dello sviluppo
economico. L'impostazione tradizionale, mentre è adeguata a
risolvere problemi di natura allocativa - problemi nei quali
occorre, in buona sostanza, decidere non quali ma quanti beni
produrre -, si trova del tutto impotente di fronte all'obiettivo di
spiegare i processi di sviluppo economico. Come insegna la celebre
legge di Engel questi processi sono infatti caratterizzati da
mutamenti qualitativi del pattern dei consumi e dunque la
comprensione della loro evoluzione non può che passare attraverso la
comprensione dell'evoluzione della struttura dei bisogni.
Psicologia sociale
di Riccardo Luccio
Sommario: 1. Premessa. 2. Aspetti
psicologici. 3. Aspetti sociologici. □ Bibliografia.
1. Premessa
Il concetto di bisogno ricorre frequentemente nella psicologia
contemporanea, ma la sua definizione è tutt'altro che univoca e
varia da autore ad autore. In linea di massima, il concetto è legato
a quello di omeostasi: in altre parole, le teorie psicologiche che
concepiscono il comportamento in termini di tendenza all'equilibrio
vedono il bisogno come una condizione di allontanamento o di
carenza, che spinge l'organismo ad agire per riottenere la
condizione di equilibrio perduto. Vi è quindi una duplice accezione
del termine: bisogno come stato di disequilibrio, o di mancanza, e
bisogno come tensione o pulsione, che spinge l'individuo all'azione
per compensare la mancanza. A questa dicotomia ne corrisponde
un'altra, più operativa, proposta da Murray (v., 1938), forse il più
grande studioso in questo campo: bisogno come tendenza osservata
oggettivamente, e bisogno come effetto che il soggetto dice di
desiderare. In senso non strettamente tecnico, la più diffusa
accezione del termine è comunque quella del bisogno come spinta
all'azione; non vi è quindi da meravigliarsi se nella letteratura
psicologica e sociologica si parla spesso di bisogno, al di là di
una definizione specifica, come se si trattasse di pulsione (drive),
tensione, spinta, o semplicemente motivo. D'altro canto, diversi
autori hanno utilizzato nei loro sistemi teorici termini che erano
strettamente tecnici, ma il cui significato si sovrappone in larga
misura da un sistema all'altro, e si sovrappone a questo uso meno
tecnico del termine bisogno. Così non è sempre facile distinguere,
appunto, tra bisogno e alcune accezioni specifiche dei termini
valore, interesse, atteggiamento, motivo, erg, tratto e così via.
Questa relativa ambiguità ha fatto quindi storcere la bocca a molti,
tanto che non è mancato chi ha definito tout court i concetti
motivazionali psicodinamici di questo tipo, dai bisogni alle
pulsioni, dei "relitti fossili" di cui la psicologia moderna farebbe
bene a sbarazzarsi (v. Heckhausen, 1980). In realtà, come ad esempio
osserva Thomae (v., 1983), al di là delle imprecisioni, questi
"relitti fossili" appaiono ancora vitalissimi, in campi anche assai
diversi e tuttora in sviluppo, dalla teoria della personalità
all'etologia.
In linea generale, il concetto di bisogno si è comunque affermato in
psicologia, tra le due guerre mondiali, sulla scia, come si è detto,
delle concezioni biologiche e soprattutto di quelle omeostatiche.
Per omeostasi si intende quel complesso di processi che si svolgono
nell'organismo per mantenere le condizioni di equilibrio. Il
concetto di omeostasi è stato enunciato dal grande fisiologo
americano W. B. Cannon (v., 1932), ma concetti analoghi erano già
presenti, nel secolo scorso, nella biologia positivistica e in
particolare in Claude Bernard (v., 1878-1879), che aveva rilevato
come i limiti di variazione dei fluidi che compongono il milieu
intérieur (l'ambiente interno, contrapposto al milieu extérieur,
l'ambiente esterno) fossero ristretti e come ogni scostamento dai
valori medi producesse quindi delle risposte automatiche per
ricondurre la situazione all'equilibrio.
Il concetto di omeostasi di Cannon rappresenta una sistematizzazione
e un ampliamento delle primitive intuizioni di Bernard. Cannon, che
si occupò non superficialmente anche di psicologia, descrisse
accuratamente dei meccanismi omeostatici per la concentrazione di
acqua nel sangue, per la concentrazione di sale, per la glicemia,
per la lipemia, e per altri indici fisiologici. Tra gli anni trenta
e gli anni quaranta furono date delle clamorose dimostrazioni
sperimentali, per merito soprattutto di C.P. Richter e di Paul T.
Young, di come gli squilibri fisiologici influissero anche sul
comportamento, indirizzato verso azioni che consentono di tornare a
un equilibrio omeostatico. Un semplice esempio è quello della
ricerca di determinati cibi da parte di animali che sono stati
tenuti a dieta con carenze specifiche.Il concetto di bisogno
acquista quindi uno specifico significato in primo luogo in
riferimento al concetto di omeostasi. Come nota infatti Young (v.,
1961), il concetto di bisogno è valutativo e implica un giudizio di
valore, relativo o assoluto. Quando si dice che un organismo 'ha
bisogno' di qualcosa, si intende che l'avere quel qualcosa sarebbe
per lui una cosa positiva. Ma per definire un concetto valutativo
occorre un criterio, e il concetto di omeostasi è evidentemente un
criterio oggettivo e valido a questo scopo. In questi termini il
bisogno si definisce come mancanza di un elemento necessario
all'omeostasi e tendenza dell'organismo all'attività, sino alla
rimozione della mancanza.
A fianco dell'omeostasi, il concetto di sopravvivenza ha anch'esso
un indubbio valore come criterio di definizione del bisogno. È
superfluo ricordare che si tratta di un concetto che si affaccia
prepotentemente nelle scienze naturali con Charles Darwin (1859) e
che ha profondissime influenze anche sulla psicologia, essendo
determinante per la nascita del funzionalismo nel secolo scorso e
improntando in questo secolo numerose dottrine: per quel che ci
riguarda più da vicino, dalla teoria degli istinti di McDougall
all'etologia, fino all'ultima nata, la sociobiologia. Anche qui,
comunque, il criterio della sopravvivenza diventa definitorio dei
bisogni. Si crea un bisogno quando manca qualcosa di indispensabile
alla sopravvivenza e si genera una tensione che spinge l'organismo
all'attività. Palesemente questo criterio può essere considerato il
più generale e il criterio dell'omeostasi ne può essere ritenuto un
esempio particolare.
Evidentemente, tuttavia, possono essere individuati anche molti
altri criteri. Si possono definire i bisogni in base alle necessità
della riproduzione (ad esempio, la carenza di vitamina E rende
impossibile questo processo); o ancora, in relazione allo stato di
salute; o alla normalità dello sviluppo dell'individuo.
Se questi bisogni hanno tutti comunque una base biologica (v.
Becker-Carus, 1983), si assume comunemente, come meglio vedremo in
seguito, che a fianco dei bisogni cosiddetti primari, definiti sulla
base di carenze fisiologiche, ne debbano essere individuati anche di
secondari, legati a necessità più propriamente psicologiche
dell'individuo; si ritiene spesso che essi derivino, secondo
meccanismi non individuati univocamente nelle diverse teorie, dai
primi. Così, il bisogno di successo o il bisogno di affiliazione si
presentano come tipici bisogni secondari: l'individuo sente il
bisogno di ottenere dei risultati dalle attività che svolge; o sente
il bisogno di appartenere a un certo gruppo, essere riconosciuto
come membro dagli altri membri di questo; e così via. È certamente
importante la determinazione del meccanismo genetico che fa sorgere
questi bisogni, magari in modo differenziato nelle diverse culture e
nelle diverse classi sociali (per fare un esempio, nella classe
operaia sarebbe più diffuso il bisogno di affiliazione, con
conseguente maggiore solidarietà tra i membri della classe; nelle
classi superiori prevarrebbe invece il bisogno di successo, con
conseguente prevalere della competitività). Da questo punto di
vista, la psicologia (e la sociologia) di orientamento marxista ha
particolarmente insistito sulla determinazione storica dei bisogni,
che, come dice Rubinštejn (v., 1946), nei loro concreti contenuti
derivano dallo sviluppo dei rapporti di produzione e riproduzione
all'interno della società. Notiamo, tra parentesi, come nel corso
degli anni settanta abbia incontrato in Occidente una straordinaria
popolarità (i cui echi sono oggi molto attutiti) l'analisi marxista
dei bisogni della scuola di Budapest, e in particolare dell'allieva
di Lukács, Ágnes Heller (v., 1976; v. anche Schmieder, 1981). Forse
più importante è però l'individuazione di criteri che siano cogenti
quanto quelli di ordine biologico, che consentano cioè di definire i
bisogni secondari in modo altrettanto attendibile e non ambiguo.
Purtroppo possiamo dire subito che probabilmente questo è tuttora il
punto debole delle teorie prevalenti dei bisogni.
2. Aspetti psicologici
Come abbiamo già avuto modo di dire, sono molte le teorie
psicologiche in cui è stato fatto uso di concetti largamente
sovrapponibili per significato a quello di bisogno, anche se i
termini impiegati sono diversi. Prima di affrontare le classiche
teorie dei bisogni affermatesi tra le due guerre, vediamo
rapidamente l'uso di almeno due termini in diversi contesti teorici:
quelli di istinto e di pulsione. Entrambi questi termini, assieme
comunque a quello di bisogno, possono essere riassunti sotto il
termine più comune di motivo. Vedremo allora, sia pur molto
schematicamente, le principali teorie psicologiche che hanno
affrontato il problema del comportamento motivato sulla base di
questi concetti.Il concetto di istinto è forse quello che nella
psicologia della motivazione vanta la storia più illustre. Con esso
si intende, in genere, una struttura ereditaria, legata in larga
misura alle caratteristiche biologiche della specie, che indirizza
il comportamento in determinate direzioni. Nella psicologia moderna
esso è stato utilizzato soprattutto da parte di tre indirizzi
abbastanza distinti: la psicanalisi, la teoria emergentista-dinamica
di McDougall e l'etologia.
Per quel che riguarda la psicanalisi, ci limitiamo qui a ricordare
che Freud prevede, come concetti distinti, sia gli istinti che le
pulsioni. Per Freud gli istinti sono schemi ereditari di
comportamento, secondo la classica definizione che abbiamo dato
sopra, sono schemi filogenetici, a cui corrisponderebbero nell'uomo
dei 'fantasmi originari'. Peraltro maggior rilievo hanno nel sistema
freudiano le pulsioni, e particolarmente, nella versione più matura,
le pulsioni di vita (Eros) e di morte (Thanatos), che rappresentano
rispettivamente la tendenza della materia organica alla
sopravvivenza e alla riproduzione, e la tendenza contraria a tornare
all'inorganico. Purtroppo, pur essendo i concetti di pulsione
(Trieb) e di istinto (Instinkt) nettamente distinti in Freud, il
primo termine è stato spesso tradotto, in inglese come in italiano,
con istinto, il che ha generato una notevole confusione. Rileviamo
ancora che il termine 'bisogno' (Bedürfnis) è viceversa
sostanzialmente assente dalla psicanalisi, comparendo solo nel
'bisogno di punizione'; il termine è stato probabilmente scelto da
Freud per sottolineare l'origine organica, biologica, di questa
tendenza.
Nella psicologia generale è stato indubbiamente William McDougall
(v., 1908), che peraltro si ispirava largamente a William James, a
rendere popolare il concetto di istinto. Per McDougall l'istinto è
una certa tendenza specifica della mente umana, innata o ereditata,
che costituisce la molla delle attività e dei pensieri dell'uomo,
che vengono così orientati, individualmente e collettivamente, verso
una meta. A fianco di queste tendenze specifiche, che sono gli
istinti, esistono però anche tendenze aspecifiche, che dipendono
dalla costituzione della mente e dalla natura dei processi mentali e
che diventano sempre più importanti con l'aumentare della
complessità dei processi mentali nel corso dell'evoluzione. È
importante rilevare che per McDougall tutta l'attività sociale, e
non solo il comportamento individuale, si fonda su schemi
istintuali.
Questo concetto di istinto entrò tuttavia in crisi, specie in
psicologia comparata, apparendo a molti autori, come nota Gottlieb
(v., 1979), circolare (gli uccelli si accoppiano, fanno nidi e
allevano i piccoli per istinto riproduttivo. Cos'è l'istinto
riproduttivo? È ciò per cui gli uccelli ecc.). Negli anni trenta e
quaranta, però, per merito soprattutto di Lorenz (v., 1935) e
Tinbergen (v., 1942), il concetto di istinto ebbe una nuova
formulazione nella scuola dell'etologia. Venne così formulata la
teoria oggettivistica dell'istinto, attraverso cui venivano
identificati gli atti motori corrispondenti ai comportamenti
istintivi e si sosteneva che questi erano, come gli organi,
invarianti, adattivi ed ereditabili. In questo modo gli istinti
potevano essere utilizzati, come la morfologia, per determinare le
omologie tra specie, e cioè le rassomiglianze tra specie diverse
assunte come derivanti da un progenitore comune.
Particolare rilievo aveva però per l'etologia l'interazione tra
schemi istintuali e azione dell'ambiente sull'organismo.
Esisterebbero nell'animale dei meccanismi innati che, per tradursi
in atti motori attuali, devono essere attivati da determinate
stimolazioni ambientali. Si parla così di 'meccanismi innati di
liberazione', che obbligano coercitivamente a determinati
comportamenti, se sono date certe condizioni ambientali. Ma questi
meccanismi innati hanno anche dei periodi critici di maturazione,
nei quali è indispensabile che l'organismo riceva gli stimoli giusti
nel tempo giusto. Se viene saltato il tempo critico, o se viene dato
al tempo giusto uno stimolo improprio, il meccanismo innato non
maturerà, o maturerà in modo alterato. È questo il caso, reso
popolarissimo da Lorenz, dell'imprinting, il meccanismo attraverso
cui il piccolo riconosce la madre, e nello stesso tempo la femmina
della specie, e che orienta così tutto il futuro comportamento
sessuale.Il termine pulsione, al di là della sua presenza nella
psicanalisi freudiana, viene introdotto nella psicologia generale da
Robert S. Woodworth a partire dal 1918 e si è affermato soprattutto
nel neocomportamentismo americano degli anni trenta, in particolare
nelle accezioni di Clark Hull e Kenneth Spence (la cosiddetta scuola
di Yale). Il termine viene utilizzato in molte diverse accezioni;
secondo Young (v., 1961), per esempio, sono almeno sei i suoi
principali significati: 1) energia che muove il corpo; 2) stimolo o
condizione tissulare interna che libera energia e induce
all'attività; 3) stato generale di attività; 4) tendenza
comportamentale diretta a una meta; 5) attività specifica diretta a
una meta; 6) fattore motivante: interesse, scopo o volere.
L'accezione che più si sovrappone a quella di bisogno è la seconda,
ed è quella utilizzata dalla scuola di Yale. Così per Hull (v.,
1943) lo stato tissulare che genera lo stimolo pulsionale è appunto
il bisogno. Se il comportamento così stimolato porterà a una
riduzione della pulsione, tenderà a ripetersi, ed è questo
meccanismo il cardine del processo di apprendimento.
Molto schematicamente, secondo questo modello, il processo di
apprendimento si svolgerebbe allora così: se un animale è in stato
di bisogno, si genera una pulsione che stimola l'animale all'azione.
È importante rilevare che la pulsione, contrariamente al bisogno, è
aspecifica. C'è pertanto un bisogno legato alla fame o alla sete, ma
le pulsioni che ne derivano non si differenzierebbero. Accanto alla
pulsione si generano però stimoli interni (ad esempio stimoli
provenienti dalla contrazione delle pareti dello stomaco nel caso
della fame), che, in interazione con stimoli esterni, orientano il
comportamento. Il soddisfacimento del bisogno riduce la tensione
generata dalla pulsione e questa riduzione costituisce un rinforzo,
che fissa il comportamento che ha portato a tale riduzione.
È importante rilevare che all'interno del modello si prevede la
possibilità dell'esistenza di pulsioni acquisite o secondarie. Le
pulsioni primarie, generate da bisogni fisiologici quali la fame o
la sete, che hanno un ruolo preminente negli animali e nei bambini,
non sono infatti in grado di spiegare una serie di comportamenti, i
più tipici dell'uomo adulto, che chiaramente non sono motivati da
questo genere di disequilibri tissulari.
Il concetto di bisogno, come autonomo e distinto da quelli di
istinto o di pulsione, si afferma comunque nella psicologia generale
soprattutto a seguito di quel vigoroso movimento sviluppatosi nella
psicologia americana degli anni trenta in diretto riferimento alla
teoria della personalità. Il movimento personologico tende
soprattutto a rivalutare l'individuo, studiato come singolo e nelle
sue differenze da tutti gli altri individui, contro la tendenza, che
si va affermando viceversa nei laboratori comportamentisti, di
annullare qualsiasi differenza individuale, con la presunzione di
cogliere leggi psicologiche valide per tutti gli uomini, se non per
tutti gli organismi, dal ratto all'Homo sapiens. In questo
movimento, assai composito, il concetto di bisogno viene a svolgere
in molte teorizzazioni un ruolo centrale, contrassegnando il momento
della necessità individuale, che spinge il singolo all'azione.
È Kurt Lewin (v., 1935), psicologo tedesco di formazione gestaltista
costretto a emigrare negli Stati Uniti durante il nazismo, che ne dà
una prima formulazione divenuta molto rapidamente popolarissima. La
teoria dinamica di campo di Lewin ha al suo centro il concetto di
spazio vitale, e cioè quell'insieme di fatti e valori, obiettivi,
ostacoli, barriere, attrazioni e repulsioni, che costituisce la
totalità dell'ambiente psicologico in cui l'individuo vive e che è
unico per ogni individuo. La teoria afferma che il comportamento C
di una persona che ha caratteristiche psicologiche P, e vive in un
ambiente di cui percepisce le caratteristiche A, è funzione delle
caratteristiche della persona e dell'ambiente: C = f (P, A). Secondo
Lewin per bisogno va inteso ogni stato motivato. La presenza di un
bisogno corrisponde a una tensione che spinge a un comportamento.
Ma, sempre secondo Lewin, è fuorviante cercare di definire
immediatamente i bisogni in termini fisiologici, perché si tratta di
stati psicologici, così come è sbagliato tentare di inquadrarli
subito in una serie di categorie precise.
Se con Lewin si ha quindi una rapida diffusione del concetto di
bisogno, che rimane comunque in quanto tale in uno stato di relativa
indeterminatezza, nella teoria della personalità questo concetto
viene comunque definito in altri contesti con più precisione e si
afferma decisamente, sulla fine degli anni trenta, grazie
soprattutto a Murray (v., 1936 e 1938). La teoria di Murray è
indubbiamente la più completa e coerente teoria dei bisogni che sia
mai stata prodotta in psicologia. Per di più questo autore ha
stimolato un numero enorme di ricerche, nonché di applicazioni in
campi diversi, da quello clinico, all'industriale, al sociale;
alcuni suoi concetti, come quello di "bisogno di successo" (need for
achievement), sono diventati un cardine della teoria della
motivazione. Per questa ragione ci diffonderemo un po' più a lungo
sulla teoria dei bisogni di Murray (come faremo, tra breve, e per
motivi analoghi, su quella di Maslow).
Henry A. Murray, medico di formazione biologica giunto abbastanza
tardi alla psicologia a seguito della lettura di Jung, tenta una
difficile conciliazione tra la psicologia sperimentale e la
psicanalisi. Murray definisce "regno" il processo cerebrale che si
instaura in un dato tempo, attivato dalle eccitazioni provenienti
dall'interno o dall'esterno dell'organismo, e che determina
un'attivazione in uscita. Un processo regnante è allora per Murray
un processo cerebrale che influenza nella sua globalità l'organismo.
Di qui segue la sua definizione di bisogno, in larga misura derivata
dalla definizione di istinto di McDougall: una tensione regnante (o,
in altri suoi scritti, una 'forza' nella regione cerebrale) che
viene evocata dalla percezione, consapevole o meno, di un certo
stato interno o di una certa situazione nel mondo, e che tende a
persistere, stimolando l'attività dell'organismo in una determinata
direzione, sinché non verrà raggiunto un certo stato interno o una
certa situazione esterna. Per dirla in modo diverso, un bisogno è
una forza che, se inibita, tende a produrre un'attività; se questa
attività è efficace, genera una situazione tendenzialmente opposta a
quella che ha generato il bisogno.
La capacità che ha una situazione interna o esterna di spingere un
individuo all'azione viene detta da Murray "pressione"; in altri
termini, gli stimoli interni o esterni non vanno considerati
isolati, ma in termini di raggruppamenti strutturati e
significativi, vere e proprie 'Gestalt di stimolazione', dotate di
un significato. Le pressioni vengono distinte in alfa e beta, a
seconda che il loro significato sia proprio della situazione di
stimolazione o sia solo percepito. L'unità di comportamento, che
Murray chiama "tema", è quindi costituita da un complesso di cui
fanno parte pressione e bisogno. La vita di un individuo può essere
concepita come una serie di temi in successione.
Murray distingue quindi i bisogni in base a varie caratteristiche;
essi possono essere così processuali o modali: i primi sono diretti
al puro svolgimento di un'attività, i secondi determinano le
modalità di tale svolgimento. Possono poi essere manifesti o
latenti, a seconda del livello di coscienza a cui operano. Possono
essere ancora focali o diffusi, a seconda dell'ambito che
abbracciano.
Le due categorie generali di bisogni di maggior rilievo, e più
ampiamente riprese da altri autori sulla scia di Murray, sono quelle
dei bisogni primari, o viscerogenici (somagenici), e secondari, o
psicogenici (distinzione molto prossima a quella tra pulsioni
primarie e pulsioni acquisite del modello neocomportamentista). I
primi sono la risultante diretta della percezione, consapevole o
meno, di uno stato corporeo. Sarà soprattutto lo stato fisiologico
interno dell'organismo a generare il bisogno, ma esso potrà sorgere
anche in seguito a stimoli esterni. Così, sarà lo stato fisiologico
della carenza di cibo a provocare la fame, e la ricerca di cibo si
avrà anche indipendentemente dalla percezione di cibo all'esterno;
ma la vista del cibo potrà in determinati casi suscitare il bisogno
prima della percezione dello stato fisiologico di carenza.
Murray distingue tre categorie di bisogni primari, che a loro volta
possono essere positivi o negativi. Si hanno così bisogni di
'mancanza' (tutti positivi), che conducono a un'assunzione:
inspirazione di ossigeno, assunzione di acqua, di cibo, piaceri
sensoriali; bisogni di 'distensione', che inducono all'emissione:
possono essere di secrezione (positivi), come il sesso o la
lattazione, e di escrezione (negativi), come l'espirazione,
l'urinazione e la defecazione. Infine si hanno bisogni di 'danno'
(negativi): evitare il dolore, il caldo, il freddo, le lesioni. Vi
sarebbero poi bisogni di 'passività': necessità di rilassamento, di
riposo, di sonno.
Dai bisogni primari deriverebbero i bisogni psicogenici, secondari,
non legati direttamente a stati organici. Va peraltro rilevato che,
contrariamente ad altri autori, non è chiara in Murray la
derivazione dei bisogni secondari da quelli primari. L'elenco dei
bisogni psicogenici è troppo lungo perché possa essere qui
integralmente riportato, ed è stato inoltre oggetto di numerosi
rimaneggiamenti. Ci limitiamo quindi a presentarne alcuni dei più
noti e utilizzati nelle ricerche e nelle applicazioni.Abbiamo così
bisogni di acquisizione (bisogno di acquisire in proprietà cose o
denaro, e di lavorare a tal fine); di conservazione (collezionare,
conservare, anche curare i propri possessi con pulizie, restauri,
ecc.); di ordine (mettere in ordine, essere precisi, ecc.); di
ritenzione (conservare sino all'avarizia); di costruzione
(organizzare e costruire); di superiorità (bisogno di potere), a cui
sono subordinati il bisogno di successo, di riconoscimento, di
esibizione; di inviolatezza (bisogno di evitare un deprezzamento del
rispetto di sé), a cui sono subordinati il bisogno di evitare
situazioni di inferiorità (infavoidance, bisogno di sfuggire alle
cattive figure), di difesa, di controreazione; e ancora il bisogno
di dominanza, di autonomia, di aggressione, di affiliazione, di
gioco. E molti altri se ne potrebbero aggiungere.
È interessante il fatto che Murray ha sviluppato un test proiettivo,
il TAT (Thematic Apperception Test), che consente di rilevare i
'temi', e cioè i complessi di bisogni e pressioni, come sopra
definiti, che sono presenti nella struttura della personalità
dell'individuo. Come tutti i test proiettivi (di cui il più famoso,
anche a livello di divulgazione popolare, è il celebre test delle
macchie di inchiostro di Rorschach), anche il TAT si avvale di un
materiale poco strutturato a cui il soggetto deve attribuire un
significato, 'proiettando' su tale materiale elementi propri della
struttura della sua personalità. Nel caso del TAT il test si compone
di una serie di tavole che rappresentano delle persone in
atteggiamenti ambigui. Ad esempio, una tavola rappresenta un bambino
che ha davanti un violino, ma la sua espressione non consente di
dire quale sia il suo rapporto con il violino e quale atteggiamento
abbia di conseguenza nei suoi riguardi. Il soggetto viene invitato a
dire cosa rappresenta la scena, cosa è accaduto prima, cosa accadrà
poi. Si assume allora che i temi che emergeranno in queste sue
risposte saranno propri della struttura tematica (bisogni e
pressioni) della sua personalità. Il TAT è oggi dopo il Rorschach
(di cui è certamente più attendibile e valido, essendo quest'ultimo
uno strumento molto dubbio sul piano psicometrico) il più diffuso
test proiettivo nell'uso non solo clinico, ma anche per tutte le
applicazioni della psicologia che richiedono un'analisi
personologica.
L'altra grande teoria dei bisogni in ambito
motivazionale-personologico è quella di Abraham H. Maslow (v. 1943 e
1954), sviluppata a partire dagli anni quaranta. La prospettiva di
Maslow è 'olistica': in altri termini questo autore, che parte dalla
tradizione funzionalistica americana dei James e dei Dewey, rimane
profondamente influenzato dalla psicologia della Gestalt, e in
particolare da Max Wertheimer e da Kurt Goldstein, che lo spingono a
considerare sempre l'individuo come una "totalità integrata".
Secondo Maslow, infatti, il punto di partenza per lo studio di
motivazione e personalità è l'individuo intero, nel suo complesso, e
ogni analisi che non inizi e non acquisti significato da questo
punto globale di partenza diventa fuorviante. Ma vi è un altro
apporto fondamentale nel pensiero di Maslow, ed è quello
psicanalitico, che egli tenta di conciliare con questi apporti
tipici della psicologia generale e sperimentale.
Contrariamente a quanto riteneva Murray, per Maslow è "impossibile e
vano" cercare di stendere un elenco dei bisogni fisiologici
fondamentali, quelli cosiddetti primari, perché il loro numero
dipende dal livello di specificità della descrizione dei meccanismi
fisiologici. Così, se esiste il bisogno di cibo, si può indurre il
bisogno di una certa categoria di cibo, e quindi di una
sottocategoria, e così via all'infinito. Di più, Maslow critica le
definizioni di bisogno in termini di puri meccanismi omeostatici, a
cui non sono riconducibili, a suo avviso, molti bisogni fisiologici:
il desiderio sessuale, il sonno, la spinta al comportamento materno.
Ma, osserva Maslow, nell'uomo la spinta all'azione per squilibri
fisiologici è atipica, mentre è tipica nell'animale. L'organismo è
allora soggetto a una gerarchia di bisogni, e quelli che dominano
l'uomo sono bisogni più 'elevati'. Una volta soddisfatti i bisogni
fisiologici, i primi a emergere sono, nell'ordine, quelli di
sicurezza; una volta soddisfatti questi, emergono i bisogni d'amore,
che comprendono i bisogni d'affetto e di appartenenza; vengono
successivamente i bisogni di stima e quelli di autorealizzazione.
Peraltro Maslow avverte che tale gerarchia non va vista come una
necessità assoluta; l'ordine non è identico per tutti gli individui.
Vi sono persone per le quali il bisogno di stima precede quello
d'amore; altre per le quali, ad esempio, la pulsione alla creatività
sarà talmente forte da manifestarsi anche se i bisogni più basilari
non sono soddisfatti; e gli esempi potrebbero continuare.
Con Murray e con Maslow si chiude la stagione dei grandi
'personologi', che hanno posto al centro dell'analisi del
comportamento motivato il concetto di bisogno. La tendenza attuale è
sostanzialmente diversa. In questi ultimi anni, infatti, le teorie
della motivazione, seguendo l'andamento generale che si è potuto
constatare in tutta la psicologia, si sono fatte sempre più
'cognitive', hanno sempre più abbandonato il terreno psicodinamico,
ma nel contempo, scostandosi dalle teorizzazioni
comportamentistiche, si sono allontanate anche dalle concezioni
pulsionali. Si sono affacciati nuovi concetti a spiegare il
comportamento motivato, dalla teoria della dissonanza cognitiva ai
processi di attribuzione, ai modelli di helplessness o di locus of
control. Nelle stesse teorie del comportamento più legate a modelli
biologici si è assistito a un profondo ripensamento di concetti come
quello di bisogno, ma anche di istinto, sul versante etologico e
comparato; sul versante psicofisiologico si è dato maggior peso a
modelli neurologici in termini di attivazione o di arousal, più che
di carenza.Il concetto di bisogno è quindi relativamente scomparso
dalle più attuali teorizzazioni del comportamento motivato, se si fa
eccezione per le teorizzazioni di stampo marxista, specie della
Heller, che in Italia hanno avuto un ruolo particolarmente
importante nel dibattito sociologico (ma forse in misura ancora
superiore nel dibattito sulla nuova psichiatria), ma che hanno
notevolmente perso di rilievo in questi ultimi anni.
Se ha perso di precisione teorica e di spessore specialistico, mai
forse come in questi ultimi anni il concetto di bisogno è stato
tuttavia tanto presente nella sua accezione relativamente
aspecifica, inteso soprattutto come tendenza all'azione, venendo
decisamente a soppiantare i suoi rivali di sempre: istinto,
pulsione, tendenza, motivo, e così via. E forse i tempi sono maturi
perché un nuovo Murray o un nuovo Maslow lo rimettano al centro
della teorizzazione del comportamento motivato.
3. Aspetti sociologici
In sociologia il concetto di bisogno presenta delle chiare analogie
con quello impiegato in psicologia (e da cui frequentemente viene
fatto derivare, in un parallelismo tra organismo vivente individuale
e organismo sociale, soprattutto in alcune teorizzazioni di stampo
positivistico). Sono quindi sempre presenti i concetti di
privazione, di necessità, di ricerca di elementi indispensabili alla
sopravvivenza o al benessere (in questo caso del gruppo sociale). In
linea assolutamente generale, si afferma poi in larga misura, sulla
scia soprattutto di quanto osservato in antropologia culturale da
Malinowski (v., 1944), che la cultura va considerata una risposta
storica che un gruppo sociale dà ai bisogni degli individui che lo
compongono; e che dai bisogni 'primari', legati a stati di
privazione biologica, derivano dei bisogni 'secondari', legati ai
rapporti sociali. In realtà, con poche eccezioni, è però ben
difficile che nelle scienze sociali si approfondisca in modo
sistematico il concetto di bisogno, e se nelle teorizzazioni si
parla dei rapporti che sussistono tra i bisogni e le funzioni, o le
norme, o i valori, per il versante 'bisogno' lo scienziato sociale
tende poi sempre a rimandare al concetto come è definito in
psicologia. Vengono così affacciati alcuni concetti di bisogno
'sociale', spesso vaghi sul piano definitorio: Goldschmidt (v.,
1959) parla di 'bisogno di risposta positiva', Linton (v., 1945) di
'bisogno di risposta emotiva favorevole', di 'bisogno di sicurezza',
di 'bisogno di esperienze nuove'.
Ma le classificazioni dei bisogni secondari sono infinite e, come si
è detto, spesso piuttosto vaghe. Tra i bisogni sociali di cui più
spesso si parla vi sono il bisogno di potere come realizzazione
(potere 'di') e come dominazione (potere 'su'), il bisogno di
relazione, come comunicazione o come affiliazione, e così via.
Evidentemente nelle scienze sociali il bisogno viene visto in
funzione non tanto della natura dell'organismo individuale, quanto
dell'interazione sociale. Così, per fare un esempio (v. Johnson,
1960), se, come affermava Hobbes, la scarsità di beni in rapporto al
numero di persone che vorrebbero entrarne in possesso provoca, in
assenza di norme regolative, una lotta continua per il potere, e se
organizzazione e stabilità devono invece caratterizzare la vita
sociale, allora sorge un bisogno sociale di mitigare la lotta per il
potere. I modelli culturali che possono poi derivare da questo
bisogno sociale non sono necessariamente gli stessi per ogni
cultura, né, all'interno di una cultura, per ogni gruppo sociale.
Non tutti gli autori, peraltro, accettano in sociologia (e in
antropologia culturale) il concetto di bisogno, per le implicazioni
teleologiche che esso presenta. Così, ad esempio, Radcliffe-Brown
(v., 1935) sostiene che in luogo di bisogni occorrerebbe parlare di
'condizioni necessarie di esistenza'; anche in questi termini,
comunque, è implicito che ci sono effettivamente condizioni
necessarie di esistenza per le società umane, in stretta analogia
con quanto avviene per gli organismi animali.
Da un punto di vista sociologico il concetto di bisogno è
strettamente legato da un lato a quello di funzione, dall'altro a
quello di valore. Il rapporto tra bisogno e funzione viene affermato
probabilmente per la prima volta, nella sociologia moderna, nel 1895
da Durkheim, secondo il quale la 'funzione' di un'istituzione
sociale è la corrispondenza che esiste tra l'istituzione stessa e i
'bisogni' dell'organismo sociale. E di converso, si può dire di ogni
istituzione, o di ogni struttura sociale, che possiede una funzione
se dà il suo contributo alla soddisfazione dei bisogni sociali.
Sulla base di queste considerazioni è quindi possibile utilizzare,
come strumento potente di analisi delle strutture sociali, la
cosiddetta analisi funzionale, che occupa una posizione centrale
nella teoria sociale contemporanea (v. Merton, 1957, in particolare
il cap. 1).
In questa prospettiva, il concetto di bisogno assume un risalto
notevole nella teoria dell'azione sociale, il cui principale
esponente è Talcott Parsons (v., 1937; v. Black, 1961; v. Parsons e
altri, 1953). In questa teoria vengono classicamente distinti
quattro ordini di problemi funzionali, la cui soluzione porta alla
soddisfazione dei bisogni sociali. Ogni sistema sociale deve infatti
risolvere: a) il problema della conservazione del modello (pattern
maintenance) e del controllo delle funzioni; b) il problema
dell'adattamento; c) il problema del perseguimento dello scopo (goal
attainment); d) il problema dell'integrazione. I bisogni acquistano
rilievo come variabili interne, di orientamento agli oggetti, che
possono essere distinte per specificità o diffusione, e per
neutralità o affettività. Si hanno così bisogni (o meglio,
interessi) per l'utilizzazione strumentale (neutrali e specifici);
bisogni consumatori (di portare, cioè, a compimento degli atti
preparatori; affettivi e specifici); bisogni di eseguire (neutrali e
diffusi); bisogni affiliativi (affettivi e diffusi).
Come si è detto, il concetto di bisogno è in sociologia
particolarmente legato a quello di valore, e da questo punto di
vista particolarmente preziosi sono stati i contributi di Clyde
Kluckhohn (v., 1951), che non a caso ha collaborato
significativamente negli anni trenta con H. A. Murray, il
personologo americano, al centro del cui sistema vi è, come abbiamo
visto, quella che senz'altro può ritenersi la più importante teoria
dei bisogni sviluppata nella psicologia. Secondo Kluckhohn un valore
è una concezione, che può essere esplicita o implicita, tipica di un
singolo individuo o propria di un gruppo sociale, che rappresenta un
fattore determinante nella scelta dei possibili modi, mezzi e fini
dell'azione. I valori regolano così la soddisfazione degli impulsi,
ma nel far questo essi si fondano sulla struttura gerarchica dei
bisogni che costituisce la struttura della personalità
dell'individuo; e soprattutto, si fondano su due bisogni
determinanti: quello d'ordine, proprio della personalità e del
sistema sociale, e quello del rispetto degli interessi degli altri e
dei gruppi come un tutto nella vita sociale.
È evidente che una definizione così ampia non consente poi di
individuare operativamente i reali rapporti tra valori e bisogni. In
particolare, non è facile determinare il processo attraverso cui la
cultura determina quelle scale differenziali su cui collocare gli
oggetti e le persone, sulla base dei cosiddetti valori attributivi,
che deriverebbero da un bisogno sociale di scelta comparativa. Vi è
poi spesso una certa confusione terminologica, che fa sì che il
termine 'valore' venga usato in modo interscambiabile con altri
termini che indicano stati motivazionali (in primo luogo,
evidentemente, i bisogni).
Peraltro, come nota Williams (v., 1972), il fatto che venga in
genere accettato che il sistema di valori entra a far parte
integrante della personalità dell'individuo appartenente a una certa
cultura non significa che i valori abbiano lo status di elementi
motivazionali, dovendo essere invece tenuti ben distinti dai motivi
(e, sull'altro versante, dalle norme). Come diceva il già citato
Kluckhohn (v., 1951, p. 425), "un dato valore può avere una forza
relativamente indipendente da ogni motivo specifico, pur rimanendo
in un certo senso funzione del sistema motivazionale totale".
In conclusione, il concetto di bisogno ha certamente esercitato, e
seguita a esercitare, una considerevole influenza sulla
teorizzazione in campo sociale. Questa influenza è derivata
storicamente soprattutto dall'analogia tra organismo sociale e
organismo individuale, ma si è particolarmente affermata sulla scia
delle teorizzazioni funzionalistiche e grazie all'impatto che la
personologia degli anni trenta ha avuto sulle scienze sociali.
Peraltro il concetto di bisogno, mai troppo approfondito in ambito
sociologico e fatto derivare spesso senza sufficiente analisi dalla
psicologia, non sempre si rivela sul piano operativo uno strumento
idoneo. Forse per questo motivo, sempre più spesso gli studiosi
tendono ad abbandonarlo a favore di altri concetti motivazionali. È
comunque un chiaro caso in cui, come denunciato da tanti scienziati
sociali (v., per esempio, Kardiner e Ovesey, 1951), la
frammentazione delle scienze dell'uomo porta a una perdita di
spessore scientifico nel trasferimento di concetti da un ambito
disciplinare a un altro.