Negazione esplicita e consapevole dell’esistenza di Dio (dal gr.
ἄϑεος «senza Dio»).
Riguardo al tema dell’a. è necessario distinguere tra l’ambito
religioso e l’ambito più propriamente filosofico. Muovendo,
infatti, dalla propria peculiare rappresentazione di Dio, ciascuna
religione positiva ha sempre condannato come atee tutte le
rappresentazioni non conformi alla propria: nel mondo antico i
Greci e i Romani considerarono atei gli ebrei e i cristiani in
quanto rifiutavano l’adorazione a singoli dei, a loro volta i
cristiani considerarono atei i pagani in quanto politeisti e
quindi adoratori di demoni; nell’età moderna simile accusa fu
rivolta dai teologi cattolici ai protestanti, dai teologi
riformati ai cattolici, e così via.
Più volte nei secoli l’accusa di a. è stata motivo di
persecuzioni: da Socrate a Bruno, fino a Spinoza, sovente ne
furono colpiti i filosofi che dissentivano (o si pretendeva che
dissentissero) dalla concezione religiosa del loro paese e del
loro tempo; e spesso furono considerati atei coloro che non
concepivano Dio come persona o come causa prima o come creatore,
bollando perciò di a. tutte le dottrine panteistiche, deistiche, e
così via.
Nella storia della filosofia una distinzione può essere posta fra a. dogmatico (negazione vera e propria dell’esistenza di Dio), a. scettico o agnostico (disconoscimento dell’umana capacità di scoprire e dimostrare l’esistenza di Dio), e a. critico (confutazione delle varie prove avanzate per dimostrarne l’esistenza).
L’ateismo antico.
Nella Grecia antica l’a. ha i suoi rappresentanti più decisi nei
sofisti. In un frammento del dramma satiresco Sisyphos del
sofista Crizia (Sesto Empirico, Adversus mathematicos,
IX, 54; framm. 25 Diels-Kranz) è svolta la teoria che gli dei sono
una pura invenzione degli uomini affinché nessuno rechi ingiuria
per paura di un castigo divino. Oltre a sofisti, come Protagora,
Prodico, Crizia, sono qualificati nella tradizione antica come
atei Diogene di Apollonia, Ippone di Reggio, Diagora di Melo,
Teodoro di Cirene, Bione, Evemero, Epicuro.
In realtà, tra i sofisti alcuni negarono l’esistenza stessa degli
dei, altri, per es. Protagora, si fermarono all’agnosticismo;
mentre Evemero negò la loro divinità, lasciandoli sussistere come
uomini illustri, divinizzati per le loro gesta.
Nel pensiero antico si può inoltre individuare un filone di
monismo materialistico, che vede nella materia l’unico fondamento
della realtà; è questo il caso di Eraclito, secondo il quale il
mondo non è stato creato da nessun dio, ma è sempre stato e sempre
sarà «un fuoco eternamente vivente». Le posizioni, tuttavia, più
rilevanti sono quelle dell’a. epicureo e dell’a. scettico. Epicuro
e Lucrezio non negano l’esistenza degli dei, ma li considerano
lontani negli intermundia, dove vivono beati e
indifferenti alle vicende umane, come dimostra la presenza, non
eliminabile, del male nel mondo (De rerum natura, II,
1093 ss.). L’esistenza degli dei è dunque irrilevante per
l’esistenza degli uomini, né rappresenta un principio di ordine o
di razionalità del mondo.
Altra forma di a. è quella del neoaccademico Carneade di Cirene, che rivolge al concetto di divinità argomentazioni di tipo scettico (Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 139-140): gli dei, se esistono, sono viventi; se sono viventi, provano sensazioni di piacere e di dolore, sono capaci di turbamento e passibili di mutazioni in peggio, dunque sono mortali; applicando cioè il predicato dell’esistenza alla divinità, si finisce con l’assimilarla ai mortali.
L’ateismo moderno. Durante il Medioevo,
cristiano e teocentrico, non c’è spazio per l’ateismo. Inoltre, si
fa ora riferimento a una concezione di Dio diversa e ben più
determinata di quella del mondo antico, e cioè un Dio che si è
rivelato e che parla attraverso le Sacre Scritture. Posizioni
ateistiche riaffiorano con il Rinascimento, e soprattutto nel
Seicento. In polemica con una concezione del mondo come organismo
animato, pervaso da spiriti e demoni, si ritorna all’antica
posizione già anticipata dai sofisti: demoni e dei sono stati
inventati dagli uomini, o meglio da abili legislatori che
fondarono il loro potere politico sulla superstizione e sulla
credulità del popolino.
È questa la prospettiva del libertinage érudit erede
della tradizione rinascimentale; testo esemplare della posizione
degli esprits forts è il Theophrastus redivivus,
manoscritto anonimo che a metà del 17° sec. ebbe una cospicua
(anche se pur sempre elitaria) circolazione clandestina, nel quale
gli esiti scettici della critica libertina della religione e del
creazionismo evolvono verso l’affermazione di un netto ateismo. In
questo documento la tradizione filosofica antica viene utilizzata
in maniera nuova, per ritrovare non i presupposti della tradizione
spiritualista cristiana, ma i fondamenti di una filosofia libera
ed ‘empia’.
Alla fine del secolo Bayle nei Pensieri sulla cometa
(1682) sostiene che è possibile una società di atei virtuosi:
emancipa così i principi della morale e della politica dalla legge
divina e allarga i confini della tolleranza religiosa fino a
comprendere per la prima volta gli atei.
Nel secolo successivo, con l’Illuminismo, l’a. continua a
svilupparsi sulla stessa linea, in rapporto cioè all’erosione di
scale di valori spiritualistico-cristiane e al costituirsi di
orizzonti di pensiero gelosi dell’autonomia umana e mondana, retta
da un uso critico della ragione.
Un ruolo rilevante ha, nel corso del sec. 18°, il materialismo
meccanicistico di La Mettrie e d’Holbach che riconducono ogni
fenomeno alla materia in movimento: Dio viene così eliminato come
principio metafisico di spiegazione causale.
Con Hume (Dialoghi sulla religione naturale, post. 1779)
si ritorna a un a. scettico: una prova a priori dell’esistenza di
Dio è impossibile, perché l’esistenza è sempre materia di fatto,
ma neppure attraverso l’esperienza si possono dare prove
soddisfacenti; viene così negato il potere dell’uomo di risolvere
un problema che eccede i suoi strumenti conoscitivi.
Alla fine del secolo (1789) scoppia una vivace polemica quando
Fichte pubblica sul Giornale filosofico di Jena un
articolo nel quale si identifica Dio con l’ordine morale del
mondo: accusato di a., il filosofo deve lasciare l’insegnamento
universitario.
Durante l’Ottocento grande importanza ha la posizione di
Schopenhauer, che, connotata in senso fortemente pessimistico, si
contrappone alla fede positivistica nella linearità di un
progresso che porterà inevitabilmente all’emancipazione
dell’umanità dall’errore e dalla superstizione religiosa.
Schopenhauer nega l’esistenza di Dio in quanto il male e il dolore
che dominano nel mondo confutano ogni possibilità di ottimismo
metafisico; tale ottimismo, quotidianamente contraddetto dai
fatti, è pericoloso perché porta l’uomo a legarsi illusoriamente a
quella spietata volontà di vita, cioè a quella affermazione di
individualità che occorre invece negare (Il mondo come volontà
e come rappresentazione, 1818, II).
Feuerbach, in L’essenza del cristianesimo (1841), mette
in luce il contenuto interamente secolare dell’elemento religioso
proponendone una trascrizione in termini umani. Il cristianesimo
ha operato un vero e proprio capovolgimento in quanto ha separato
dall’uomo i suoi predicati essenziali, i suoi attributi più alti,
e li ha proiettati su un essere superiore e immaginario, Dio, che
diventa così il vero soggetto, dal quale l’uomo finisce con il
dipendere in quanto è concepito come creato dalla divinità. La
religione è pertanto il prodotto di tale «alienazione», nasce cioè
da un’inversione in base alla quale ciò che è primo diventa
secondo e ciò che è secondo diventa primo. L’uomo quindi si
«estranea» nell’esperienza religiosa per superare le limitatezze
della concreta realtà: tocca ora alla filosofia, mettendo a nudo
il carattere puramente umano della religione, restituire all’uomo
ciò che egli ha alienato in Dio.
Marx accetta l’interpretazione di Feuerbach e la riconduce alla
struttura di classe della società: l’alienazione religiosa
descritta da Feuerbach ha il proprio fondamento mondano nel
dominio, nella società capitalistica, di grandi forze anonime,
oppressive e incontrollabili: il denaro, il capitale, lo Stato. Il
materialismo storico, facendo dipendere lo sviluppo della realtà
storica dalle condizioni economiche e sociali in cui l’uomo opera,
esclude quindi ogni possibile giustificazione teologica e riduce
anche l’esperienza religiosa alla struttura di potere della classe
dominante.
Alla fine del secolo, e a conclusione di un lungo percorso, il
rifiuto di Dio («la morte di Dio» nella Gaia scienza,
1882, 125) diventa per Nietzsche la condizione essenziale perché
l’uomo possa emanciparsi e vivere la pienezza della sua esistenza.
Nel Novecento per Sartre è la precarietà dell’esistenza umana,
gettata nel mondo e affidata soltanto alla propria libertà di
scelta, che dimostra l’impossibilità dell’esistenza di Dio. Non
c’è quindi Dio, bensì l’essere che progetta di farsi Dio, cioè
l’uomo; in questo suo progetto egli coglie la sua massima libertà,
ma anche il suo destino di fallimento (L’essere e il nulla,
1943).
All’indomani della Seconda guerra mondiale, la tragedia della
shoah ha portato a nuove riflessioni (Buber, Néher, Bloch) sul
tema dell’assenza di Dio nel silenzio di Auschwitz.
In partic. Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 1987) ha messo in luce come l’irruzione della libertà in quanto indipendenza dalla natura biologica e lo sviluppo tecnologico abbiano messo l’uomo di fronte a sé stesso e alla sua solitudine nel cosmo.