Capitolo Settimo


Il Fascismo


Perchè parlarne

Gli anni in cui Pirandello scrive e dà alle scene Sei perso­naggi in cerca d'autore e l'Enrico IV, sono gli anni stessi della crisi politica del dopoguerra e dell'avvento del fascismo.

Il sommovimento antidemocratico dei nazionalisti in cami­cia azzurra, dei dannunziani, e di tutti gli sbandati in camicia nera, che Mussolini ha raccolto nei Fasci di combattimento, poi nel Partito fascista, deve avere richiamato, per subliminale sim­patia, l'attenzione del disattento Pirandello anarchico e distrut­tore nell'opera di quegli anni.

Il fascismo, nel suo primissimo periodo, appare, alla super­ficie, come un puro movimento irrazionale, quasi insensato, per non dire nichilista (anche se di esso si servono calcolatamente gli interessati e facilmente, dato il grado di corruttibilità dei capi fascisti). Nel programma ancora disorganico del movimen­to emergono infatti il repubblicanesimo, l'anticlericalismo, una istanza antimilitaristica: tutti punti che Pirandello, repubbli­cano, anticlericale e sostanzialmente, in pace, antimilitarista, approva in pieno. Ma c'è anche, inconscio, probabilmente, quel­lo stesso amor destruendi che Nino Valeri ha intuito nella psi­cologia dei legionari fiumani e che fu l'impronta segreta del primo fascismo1: «...Una febbre fatta, nei più risoluti, di or


rore per la vita dura e grigia di tutti i giorni, di disprezzo per gli ordini costituiti, di disinteresse per il passato e per l'avve­nire, di irridente spregio per la virtù e per il risparmio, per la famiglia, per gli avi, per la religione, per la monarchia e per la repubblica: di nichilistica aspirazione, in fondo, di finirla in bellezza questa inutile e stupida vita, in una specie di orgia eroica. Sono sentimenti codesti, che giacciono anche nel remoto sottofondo di molti benpensanti, ma normalmente repressi e condannati in nome della rispettabilità. L'esplosione sfrenata di essi fu forse la caratteristica più importante dell'ambiente legionario fiumano e segno di una situazione politica intrinse­camente rivoluzionaria».

Da una tale implicita, o talvolta esplicita volontà di distru­zione, e dal senso fortemente antisociale e antiistituzionale del­le manganellate, Pirandello fu probabilmente attratto; ma fu affascinato e lo dichiarerà pubblicamente nel 1923, come si vedrà soprattutto dalle pubbliche ripetute dichiarazioni di Mussolini, che affermava allora essere dottrina dei fascisti il fatto, e rifiutava qualsiasi organica ideologia pregiudiziale.

Tutto ciò attrasse Pirandello; ma, ripetiamo, in quegli anni di intensa produzione teatrale, e di acerbe distrazioni fami­liari, rimase, la sua attenzione, scarsamente impegnata. Egli approvò e lodò di certo quanto andava leggendo su II popolo d'Italia (più tardi più volte affermerà di stimare Mussolini da molto tempo), su L'Idea Nazionale, il giornale dei nazionalisti, i quali, auspice Enrico Corradini, nel 1922 si allearono formal­mente coi fascisti (e i primi articoli di Pirandello sul fascismo apparvero, nel 1923, appunto su questo giornale), e d'altron­de, anche sul Corriere della Sera, del quale era collaboratore fisso e che allora guardava con simpatia al movimento fascista; ma fu lontano dal sentirsi, per il momento, chiamato a un im­pegno preciso ed esplicito. È dimostrato, ciò, da indizi suffi­cienti. Per esempio, in una lettera alla figlia Lietta, del 29 ot­tobre 1922 \ e cioè scritta il giorno successivo alla Marcia su

Roma, è come se egli non si fosse accorto dell'avvenimento, o per lo meno come se non gli avesse dato molta importanza. Nella lettera si lamenta infatti di una sciatica che non gli dà requie, della faticosa messa in scena di Vestire gli ignudi, ma a Facta, ai fascisti a Roma, al mancato stato d'assedio, non ac­cenna neppure. La Marcia su Roma capita poi fra due messe in scena di opere pirandelliane (L'imbecille, dato al Quirino il 10 ottobre, e Vestire gli ignudi, data nello stesso teatro il 14 no­vembre), le quali mostrano una vertiginosa distanza fra le vi­cende esterne, fascismo o meno, e la camera interiore in cui si sviluppa la creazione pirandelliana, interessata se mai, in queste due opere, a un ambiente politico-sociale che segna il passo ai tempi prebellici. La quale distanza continuerà a sus­sistere in quasi tutte le opere successive, che risentiranno di altri cedimenti e di impercettibili sfumate e trasposte affinità con i tempi nuovi; ma non col fascismo come ideologia.

Coloro che in questi ultimi vent'anni hanno parlato di Pi­randello hanno ignorato la vicenda del suo fascismo, sebbene abbastanza clamorosa ed esplicita. Tutti si sono sentiti legati quasi a una doverosa discrezione al riguardo e le eccezioni si contano sulle dita di una mano. Soltanto Leonardo Sciascia ha riportato alla luce alcuni importanti documenti del fascismo pirandelliano \ Il curatore della recente riedizione di tutte le opere pirandelliane, nella «Cronologia della vita e delle opere di Luigi Pirandello»1, che precede i due volumi delle Novel­le per un anno, ha accuratamente censurato, d'accordo con l'Editore, ogni accenno al fascismo di Pirandello. Quei critici di parte marxista che hanno trovato un Pirandello tutto dalla loro parte, hanno preferito non dirne nulla. Altri probabilmente hanno trovato inutile e di cattivo gusto accennarvi. Che senso ha il fascismo di Pirandello? Che peso sull'opera? Allora è meglio non tenerne conto. Altri forse non ne hanno più par­lato per non essere tirati personalmente in ballo. Qualcuno, come Corrado Alvaro1 ha preferito attenuare e velare il fa­scismo pirandelliano. Alvaro dice che «al regime dominante egli non poteva piacere per la sua natura e per la sua visione della vita. Bastava guardarlo. Non aveva niente della mitolo­gia allora in uso...».

L'atteggiamento preso quasi unanimamente dai critici e dai biografi può anche avere qualche giustificazione. Ci si vuole attenere all'opera trascurando i fatti di una biografia che ne appaiono molto lontani, anzi opposti e nemici. Di Pirandello conta ciò che ha detto nelle novelle e nel teatro, e non ciò che ha potuto pensare e scrivere in termini di politica e di com­promessa prassi. In realtà inneggiare a Mussolini e scrivere opere come Ciascuno a suo modo sono fatti cronologicamente contemporanei, ma senza legami fra loro.

D'altra parte Pirandello autoproclamantesi antidemocrati­co, è, al contrario, il più democratico fra gli autori di teatro che sia dato conoscere. Il suo teatro è, in un certo senso, l'ipostasi e la prosopopea della democrazia: vi è in vigore la legge dell'egua­glianza e della libertà di parola; e ogni possibilità, per ciascu­no, di un personale e ribollente comizio. Non c'è in Pirandello senso e gusto della società organizzata; ma certo c'è il piacere degli estremi anarchici insiti in una struttura democratica. Ognuno dei suoi personaggi ha il diritto a un certo punto di salire su una sublimata panchina e di proclamarvi il proprio pri­vato ed eccentrico pronunciamento. Pirandello in alcune sue commedie appare figlio piuttosto del protestantesimo anti­dogmatico e democratico, che di una società cattolica abituata da secoli a subire passivamente i regimi integralisti e autori­tari. Spesso i suoi personaggi sembrano far parte di una setta di protestanti, di strenui predicatori moralistici, che si difen­dono e attaccano nella stretta di un assedio cattolico.


Ma Pirandello era cattolico quanto protestante, era anar­chico quanto moderato e infine anche un fascista: le sue per­suasioni emergevano, scaricandosi, dal piano dell'istintività più di quanto non uscissero disciplinate da un controllato e armo­nico cielo razionale. Per questo, per l'inevitabile porgersi con­traddittorio dell'esperienza vitale pirandelliana che si riflette nell'opera, nei diversi piani dell'opera, è necessario che nulla sia ignorato della sua vita e tanto meno quando si tratti dei fatti del suo comportamento sociale, poiché tout se tìent. Pirandello era un introverso e le sue dichiarazioni verso l'ester­no non possono non avere una radice intima e segreta, un senso di illuminazione di fatti importanti della coscienza. Occorrerà, in un secondo tempo, risolvere il problema dell'apparente dis­sociazione fra le singole parti della vita e dell'opera; qui si vuole anzitutto offrire una stretta ed esauriente cronaca docu­mentaria dei fatti.

Mussolini

Mussolini riceve, per la prima volta, Pirandello, a Palazzo Chigi, il 22 ottobre 1923. Non sappiamo chi avesse predisposto il colloquio, ma non mancavano, fra gli amici di Pirandello, quelli che potessero servire da intermediari, da Interlandi a Ojetti. Mussolini stesso, avendo sentito parlare della simpatia per il fascismo dell'ormai celebre commediografo che, fra il 1922 e il 1923, era stato rappresentato a Londra, a New York, ad Atene, a Parigi, a Cracovia, a Praga, che stava per essere rappresentato ad Amsterdam, a Varsavia, a Barcellona, e che era chiamato proprio in quei giorni a New York, avrà voluto parlargli da vicino: per affascinarlo-, perchè gli serviva avere dalla sua quella neonata gloria nazionale. E sembra in verità che Mussolini sia riuscito ad affascinare Pirandello. Inorgoglito anche da quel sentirsi quasi ufficialmente chiamato al Ministero degli Esteri, come un ambasciatore della Patria, dal Capo del governo, sembra di punto in bianco volere uscire dal suo ri­serbo politico e trasformarsi in un fedele di Mussolini. Una fedeltà che sarà dimostrata al momento buono, cioè l'indomani del delitto Matteotti, contro tutto e contro tutti.

Già sei giorni dopo, sul numero del 28 ottobre del 1923 de L'Idea Nazionale, dedicato al primo annuale della Marcia su Roma, appare un caldo omaggio di Pirandello a Mussolini, che però, nelle parole pirandelliane, si trasforma in un personaggio quanto mai pirandellizzato (secondo il recente schema tilgheriano di cui Pirandello era allora entusiasta). La firma di Pirandel­lo appare fra quelle di Federzoni, di Corradini, di Gentile, di Forges-Davanzati, di Giovanni Giuriati, di Alfredo Rocco, di Roberto Cantalupo e di Francesco Coppola. Il corsivo di Piran­dello intitolato «La vita creata», un po' eccentrico in verità, e non solo nell'impaginazione, rispetto agli articoli degli altri, diceva: «Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo, ha bisogno d'una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perchè do­vendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede come imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade: Mussolini che così chiaramente mo­stra di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento, e che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma dentro accolga pulsante e fremente la vita, per modo che essa ne sia di momento in momento ri­creata e pronta sempre all'atto che la affermi a se stessa e la imponga agli altri.

Il moto rivoluzionario da Lui iniziato con la marcia su Roma e ora tutti i modi del suo nuovo governo mi sembrano, in po­litica, l'attuazione propria e necessaria di questa concezione della vita».

Pirandello appare ora disposto alla disciplina; la teoria della forma e della vita si presenta plastica alle manipolazioni del­l'ordine, dell'autorità, e contenta alle incongruenti metafore della retorica. Non sembra scontento che ci sia un clima di «normalizzazione», che qualcuno, «con tanta potenza voglia che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno», e si affianca (rimandando in un'accademica attesa da filosofo tilgheriano i risultati del fremere e pulsare della vita nella forma) alle parole di disciplina che Luigi Federzoni detta nello stesso numero de L'Idea Nazionale: «... pace sociale, sicurezza pubblica... La Marcia su Roma suggellò dunque, anzitutto, la vittoria dell'ordine nazionale sui tentativi sovvertitori; vittoria che praticamente si è concretata nella cessazione dei conflitti interiori, nella scomparsa della epidemia scioperaiola, nella ri­stabilita continuità dei servizi pubblici, nel restaurato prestigio dell'Esercito e della Marina...».

Siamo alla fine del 1923, già il successo e una fiducia mag­giore nel proprio lavoro allontanavano Pirandello dalla solitu­dine sociale, anarchica e protestataria di prima, dai già accen­nati probabili motivi di una sua simpatia per i fascisti degli anni dell'immediato dopoguerra; seguendo l'evoluzione di que­sti si riavvicinava, sia pure da lontano, al gusto dell'ordine bor­ghese, alla retorica esteriore, che si era travasata dal naziona­lismo antidemocratico nel fascismo demagogico, affiancato al­lora, in quel primo governo mussoliniano, all'ideologia della destra conservatrice. La coalizione dei fascisti moderati con i liberali-nazionali salandriani, con elementi del partito popolare, con i nazionalisti, con personalità simbolico-patriottiche come il generalissimo Diaz e l'ammiraglio Thaon de Revel, aveva il senso per molti (e per Pirandello) di una restaurazione energica dei miti traditi dell'Italia risorgimentale e dell'autorità dello Stato. Nella realtà, l'energia, fu quella della Milizia fascista, e quella dimostrata nell'eccidio degli operai torinesi del dicem­bre 1922.

Pirandello cede anche un poco, in questi giorni, fatto nuovo così allo scoperto, alla vanità. A O. V. (Orio Vergani?) che l'intervistava subito dopo il colloquio di Palazzo Chigi, diceva con qualche compiacimento1 : «... prima di congedarmi, l'ono­revole Mussolini mi ha, con grande cordialità, espresso, anche a nome del governo, gli auguri per il successo del mio teatro in questa complessa prova americana. E mi ha annunziato che sarà molto lieto di manifestarmi il gradimento del governo, " che è un governo nuovo, come lei sa ", ha soggiunto, per la mia opera di scrittore, offrendomi un'alta onorificenza dell'or­dine di San Maurizio e Lazzaro...».

È lieto, anche, del conto che Mussolini sembra fare, in un giudizio personale, di lui e della sua opera: «... il Presidente diceva a O. V. che io non avevo mai conosciuto prima di oggi, mi ha subito espressa la grande simpatia che ha per me e per il mio teatro. E poi ha aggiunto che, schiettamente, da profano, mi avrebbe detto quello che pensa di alcuni miei la­vori: di quelli che ha ascoltato in questi ultimi tempi. La più bella fra le mie cose, quella che più gli piace e gli interessa è i Sei personaggi in cerca d'autore, e poi, Enrico IV. Mi ha detto di aver trovato alta e potente la concezione de La vita che ti diedi. Invece, schiettamente, non gli piace Vestire gli ignudi. Mi ha chiesto poi quando parto per gli Stati Uniti... Ha voluto sapere quali commedie mie si rappresentano all'estero, e parti­colarmente nei paesi del Nord e in quelli scandinavi. A questo proposito gli ho potuto dire che entro l'inverno i Sei personaggi andranno in scena in Svezia, in Norvegia in Finlandia. Mi ha domandato se qualcosa di mio si rappresenta in Russia...». Quest'ultima domanda di Mussolini è dettata da curiosità po­litica. Niente di strano che anch'egli, con tanti altri, vedesse una qualche affinità fra Pirandello e il bolscevismo. Ma non si trattava di preoccupazione; il commediografo era pubblica­mente dalla sua parte.

In queste interviste Pirandello rivela un certo ingenuo pia­cere di arrivato. È stata in questi ultimi tempi troppo veloce la carriera della sua fama. Dalla solitaria passeggiata serale per via Nomentana, dal suo ritiro fra la scuola e i pochi amici, dal lavoro sedentario e mal ricompensato, egli è arrivato a un trat­to, e senza che se lo aspettasse, a un grado di fama eccezionale. È esaltato a Parigi, chiamato in America, convocato dal Capo del governo. È troppo turbinoso tutto ciò perchè le sue pur grandi facoltà di controllo e di resistenza alla vanità gli ba­stino. E si lascia forse un po' andare. Inavvertitamente gli si pongono sullo stesso piano, se non altro cronologico, il pro­gresso politico di Mussolini e del fascismo, e il suo stesso nel successo e nella fama; quasi due incongruenti forze che la for­tuna ha voluto benedire ed esaltare nello stesso momento. Tale suo inganno fu, per i fascisti, comodo pretesto per una doppia adulazione. Subito, e a distanza di anni, essi faranno infatti ri­corso allo strano apparigliamento di questi due autentici «geni della stirpe». Dirà per esempio Telesio Interlandi (L'Impero, 19 settembre 1924): «Ecco che due squisiti interpreti del tra­vaglio della nostra età, due implacabili navigatori del procel­loso fiume della vita, Mussolini e Pirandello, si dànno la mano». E Carlo Ravasio, alla morte di Pirandello1: «... Pirandello, ge­nio della stirpe, aveva sentito che al di sopra dei fatti e dei mi­sfatti [!] della cronaca quotidiana, l'altro genio Mussolini, puntava verso la storia...».

Il confronto con Pirandello non dovette dare fastidio a Mussolini, e pour cause, se tutto era buono al fine della sua esaltazione.

Pirandello, da parte sua concludeva l'intervista con il croni­sta de L'Idea Nazionale (del 23 ottobre del 1923) dicendo: «Io ho sempre avuta per lui (Mussolini) una grandissima ammira­zione, e credo anzi di essere come pochi in grado di compren­dere la bellezza di questa continua creazione di realtà che Mussolini compie: una realtà italiana e fascista che non subisce la realtà altrui. Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta sol­tanto in potere dell'uomo di costruirla, e che la si crea soltanto con l'attività dello spirito».

Ma nei contemporanei lavori teatrali, La vita che ti diedi, Ciascuno a suo modo, non dimostrava la stessa fiducia, relati­vizzava, negava, volgeva alla catastrofe ogni costruzione che si fondasse sull'illusione. (E non r'pfann altre possibilità fuori dell'illusione).

Pirandello trascorre la fine del 1923 in America, a New York, dove si danno alcune sue opere; al ritorno i suoi senti­menti non sono mutati, anzi, a contatto con la società ameri­cana, si è di più rafforzato in una concezione aristocratica (cioè, in questo caso, fascista) della vita politica. L'8 maggio 1924, nel corso di una interessante intervista avuta a Milano con Giu­seppe Villaroel per II giornale d'Italia, egli, nonostante uno ste­rilizzato, ma quasi impudico esordio: «Sono apolitico: mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco; se vuole potrei aggiungere casto...», nel corso dell'inter­vista dichiara invece precise idee politiche: «L'errore fonda­mentale su cui riposa tutta la vita americana è quello stesso che, secondo me, informa la concezione democratica della vita. Sono antidemocratico per eccellenza. La massa per se stessa ha bisogno di chi la formi, ha bisogni materiali, aspirazioni che non superano le necessità pratiche. Il benessere per il benessere, la ricchezza per la ricchezza non hanno nè significato nè valo­re». E qui l'impulso sciovinistico lo spinge a dire qualcosa di curiosamente stravagante: «Il denaro inteso così è carta sporca. Da noi avrebbe ben altro scopo e susciterebbe ben altre energie. In Italia la ricchezza avrebbe valori spirituali».

Uno sciovinismo siciliano spingeva questo stesso Pirandello retour d'Amérique, in un'intervista concessa, a Palermo, al Giornale di Sicilia (10 aprile 1924), a indignarsi e a insultare Maeterlinck che aveva osato, qualche mese prima, di dir male della Sicilia: «Il signor Maeterlinck è uno straccione. A parte la sua arte, egli ha lasciato in America un'impressione disastro­sa. Aveva fra l'altro imparato a memoria una conferenza in inglese, che sciorinò in una riunione intellettuale senza che il pubblico ne capisse un'acca, suscitando ilarità generale e i com­menti più frizzanti.

Egli ha dimostrato di non aver capito nulla della Sicilia e di avere un'anima piccoletta, che dei ragazzi mocciosi possono turbare profondamente...».

Nella stessa intervista, Pirandello ricorda che alla fine del banchetto dato in suo onore a New York egli, richiestone, ha espresso la sua opinione sulla «Società delle Nazioni, nella quale gli Americani credono ciecamente». «Io, dice, scari­cai nette nette le mie opinioni demolitrici dal punto di vista pratico e le mie parole, sebbene fossero paragonabili a una specie di doccia fredda, furono ascoltate con molto interesse».

Contemporaneo è un altro giudizio su Mussolini1 : «Ho grandissima stima di lui; è datore di realtà perchè ha potenza di sentimento e mirabile lucidità di intelligenza», cui segue una critica: «Vorrei che fosse più coerente all'azione che egli stesso dovrebbe e potrebbe svolgere», subito ammorbidita: «Forse al suo posto io stesso vedrei le difficoltà che ora non posso prevedere. Queste difficoltà gli impediscono, forse, di andare fino alle estreme conseguenze delle sue idealità. Tut­tavia ha l'altissimo merito di avere creato e di avere messo in valore l'Italia».

Pirandello, con la sua semplicità politica e con la sua ansia del «leviamoci questo pensiero», vorrebbe che Mussolini fosse meno machiavellico e più coerente nel suo autoritarismo, più pronto e sicuro di sè nell'eliminazione dell'opposizione de­mocratica. L'unica riserva che in questo periodo dimostra nei riguardi di Mussolini si appunta infatti sul presunto rispetto di costui per l'opposizione, che per Pirandello è anche un er­rore tattico (come si vedrà più oltre). Ma Mussolini riteneva allora più opportuno procedere senza eccessivamente allarma­re l'opinione pubblica. La simpatia dei liberali che l'hanno fino allora appoggiato sembra a poco a poco deviare da lui. Anche se la Camera, eletta nell'aprile del 1924 con la nuova leg­ge elettorale, in un ambiente di sopraffazione, era risultata in gran parte favorevole al governo fascista, gli oppositori che controllavano il quaranta per cento dei seggi, mostravano una maggiore combattività. La forza morale di Matteotti e di Amendola e adesso di Nitti, di Albertini, per non dire di Sal­vemini, di Gramsci, di Gobetti, degli altri, si faceva nel paese sempre più efficiente. E, come si sa, Mussolini ritenne oppor­tuno di porre fine alla «normalizzazione» e ispirò l'assassinio di Matteotti, eseguito nel pomeriggio del io giugno 1924.

L'iscrizione al Partito

L'iscrizione di Pirandello al Partito fascista fa spicco, ostentatamente, nella paura fascista di quei mesi, a contrad­dire la reazione antifascista del Paese, a dichiarare una fedeltà e un coraggio che potessero essere esemplari, a dare insomma una mano a Mussolini in pericolo. (E Mussolini conservò qual­che avara gratitudine a Pirandello, gli consentirà in un certo margine qualche scatto di personale protesta, lo proteggerà dall'ostilità degli altri fascisti).

L'indomani del delitto, la rivolta morale degli Italiani mise in pericolo Mussolini. I fascisti sparirono dalle strade, o na­scosero il distintivo che prima ostentavano all'occhiello. La stessa Milizia fascista era prossima a disperdersi. Trenta o quaranta deputati, fascisti e fiancheggiatori, guidati da Raffaele Paolucci, furono sul punto di presentarsi a Mussolini per chiedergli le dimissioni. Amendola, uscendo dalla camera, era accompagnato in trionfo dalla folla alla redazione de II mondo. Francesco Saverio Nitti scriveva al re: «... ridotta la camera (in seguito all'Aventino) ad una misera accolta di violenti e d'ignoranti, ridotta la funzione del Re a riconoscere le quoti­diane violazioni dello statuto, l'Italia è ormai un carcere. La costituzione è stata di fatto abolita. Tutti i partiti sono con­tro il governo, tutti gli uomini notevoli, tutti gli intellettuali, tutti gli spiriti liberi... Migliaia di operai e di contadini sono stati massacrati, tormentati, bastonati... tutti i giornali sono contro il fascismo, e la stampa fascista raccoglie i profughi di tutti i partiti, i traditori di tutte le cause. Ma i giornali che difendono il fascismo sono mantenuti da tutti i grandi pescicani...».


A uno di questi giornali fascisti cui accenna Nitti, Piran­dello affida copia della lettera scritta a Mussolini per chiedere l'iscrizione al Partito. È, su L'Impero, infatti (19 settembre 1924), uno dei più agitati e facinorosi giornali fascisti, che essa potè essere letta, e fece scalpore. La lettera diceva: «Ec­cellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l'È. V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fasci­sta, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera».

Il tono modesto nei riguardi di Mussolini e implicitamente provocante nei riguardi degli altri, questa volta era calco­lato. Pirandello sapeva bene che in quel momento il suo gesto aveva qualche importanza. Infatti, più tardi, dirà, in un'inter­vista al Piccolo della sera del 21 ottobre 1924, che il suo «re­cente atto di adesione era stato compiuto per aiutare il fasci­smo»; e a Telesio Interlandi che gli andava a chiedere, a casa, l'indomani della sua iscrizione, il perchè del suo gesto, rispon­deva (L'Impero, 23 settembre 1924) «con una sola parola: " Matteotti "». E Interlandi spiega-, «L'oscena speculazione compiuta sul cadavere del deputato unitario, l'industrializza­zione di quel cadavere spinta fino alle più rivoltanti conse­guenze, la campagna di menzogne e di falsità prosperante su quel macabro terreno, il tentativo in parte riuscito di ridurre il Fascismo da fenomeno storico a fenomeno di malavita poli­tica, la chiara percezione del tremendo pericolo che corre il paese abbandonato ai suoi avvelenatori; tutto questo ha spinto Pirandello a dare forma concreta a quello che fu sempre un atteggiamento del suo spirito. Antiretorico per eccellenza, e odiatore del superfluo, egli ha adoperato il minor numero di parole, scelte fra le più umili per render pubblica la sua fede... Non è da mettere in seconda linea, fra le cause che determina­rono Pirandello a qualificarsi fascista, il bisogno di pubblica­mente reagire alle verbose e inconsistenti manifestazioni poli­tiche di alcuni letterati...».


Lo sfruttamento del gesto di Pirandello è, da parte dei fa­scisti, immediato. Esso è preso esplicitamente per quello che vuole essere. Sullo stesso giornale si legge infatti : «La lettera con cui Pirandello chiede l'iscrizione al Partito Nazionale Fa­scista, è un atto di coraggio e di fede: nel momento in cui il Partito Nazionale Fascista attraversa quella che noi chiamere­mo la " crisi del coraggio ", nel momento in cui, cioè, il Partito per definizione dinamico, sta a segnare il passo non si capisce bene a che scopo, la lettera di Pirandello viene ad assumere un significato che forse non è stato compreso bene neppure dai fascisti; è un sasso gettato meditatamente nella conca in cui pare stiano per quietarsi le già turbinose acque fasciste. Se Pirandello, uomo, come suol dirsi, di lettere, spirito quanto mai lontano dalle competizioni di parte, assunto da tempo a una rinomanza mondiale, sazio e ormai forse insofferente di clamori e di onori, libero da influenze di qualsiasi specie, se Pirandello ha deciso di farsi gregario del Partito politico oggi più aspramente combattuto, una ragione ci deve essere: e una ragione che può illuminare molte cose e molti aspetti di esse».

Il commento redazionale che seguiva la lettera di Pirandello diceva: «Lo scrittore più rappresentativo d'Italia e forse d'Eu­ropa, uno dei più alti spiriti che onorino oggi la Patria, ade­risce alla dottrina fascista con una lettera che è, soprattutto, un atto di fede. Se il più tormentato spirito dell'età contempora­nea, nella sua spasimosa negazione d'ogni certezza vede il Fa­scismo come l'unica dottrina atta a creare di continuo una sempre nuova realtà contingente che può permettere a un grande popolo slanci verso un avvenire di potenza, veramente il Fascismo deve essere un fatto storico d'importanza capitale. Ecco che la creazione politica più originale è intesa, cioè giu­stificata al lume dell'intelligenza, dal creatore della più origi­nale visione della vita contemporanea... Più tipico crisma non poteva dare l'intelligenza al fascismo».

Nella stessa pagina del giornale, su quattro colonne, era un grosso titolo che limitava, tipograficamente, l'importanza della lettera stessa di Pirandello. Questo titolo diceva: «La stampa e la parola contro la maschiezza fattiva e combattiva sono le armi dei vili e dei deboli»; da intendere «la maschiezza fat­tiva e combattiva» come quella che aveva eliminato Matteotti e bastonato Amendola e «la stampa e la parola» come quelle che avrebbero provocato l'uccisione del deputato fascista Casalini (avvenuta peraltro per la mano di un pazzo). In verità l'ingenuo Pirandello era finito in ben triste mani.

Telesio Interlandi riferisce così il lungo colloquio del 22 set­tembre con Pirandello (L'Impero, 23 settembre 1924: «Per­chè Pirandello è fascista»): «Siamo andati a trovar Piran­dello nella sua solitaria casa... chiunque abbia avuto qualche dimestichezza con il grande commediografo sa che egli è, per natura, un antidemocratico, un nemico dichiarato d'ogni ideo­logia intessuta d'immortali principii. Andavamo a sentire il per­chè della richiesta della tessera, atto che aveva sconcertato gli avversari del Fascismo, in special modo quelli che cianciano d'una presunta incompatibilità fra Fascismo e Intelligenza...». La relazione che Interlandi fa del colloquio e che subito ripro­duciamo, ha qua e là l'apparenza del paradosso e della parodia, rispetto al teatro e ai concetti pirandelliani di quei giorni, ma non è un apocrifo, è una riproduzione fedele delle parole dello scrittore. Fedele per due ragioni: la prima, perchè Pirandello stesso aveva detto analoghe e quasi identiche cose, quando aveva già capziosamente distorto in chiave politica (L'Idea Na­zionale, 28 ottobre 1923) i concetti di forma e vita, e quando (Giornale d'Italia, 8 maggio 1924) aveva espresso il suo di­sprezzo politico per le masse (e un implicito nietzschismo di marca fascista); la seconda, perchè egli sottoscriverà in pieno l'articolo di Interlandi, smentendo, come si vedrà, confusa­mente, una sola di quelle dichiarazioni.

«Da questa conversazione, continua Interlandi, abbiamo tratto il convincimento del resto ovvio per chi conosce il pensiero pirandelliano che il grande commediografo sia lo spirito più adatto a intendere ed amare l'essenza attivistica del Fascismo. La intuizione pirandelliana della vita politica è so­stanzialmente fascista (e tale era anche prima che il Fascismo si definisse) in quanto nega i concetti di assoluto e afferma la vitale necessità della continua creazione di illusioni, di realtà relative... Il Fascismo infatti nega l'assoluto di ideologie che furono ieri realtà relative e nobilissime mete: il Fascismo af­ferma che la vita d'un popolo non può raggelarsi in una forma che, per essere forma non è più dunque vita, impetuoso dive­nire senza requie. Il Fascismo crea per sè; e impone a quelli che non sanno crearsene una per proprio conto, la nuova realtà verso cui occorre tendere con tutte le forze, salvo poi a supe­rarla nel momento stesso in cui la si conquista. In questo per­petuo implacabile tendere verso forme nuove, in questo dive­nire affannoso è la vita dei popoli, è La vita-, e quella che gli avversari e gli spiriti deboli chiamano normalizzazione, altro non è se non Morte, l'adagiarsi in un sarcofago dal quale non sarebbe più possibile slancio alcuno.

In questo senso Pirandello vede in Mussolini un formida­bile creatore di realtà contingente, un superbo animatore, un artefice di vita. Non tutte le creature umane sono capaci di crearsi un'illusione cui tendere con tutte le forze: lo spirito non è egualmente ripartito fra queste forme umane che noi uomini siamo. V'è chi ne contiene una così povera quantità, da non avere possibilità di crearsi per sè la più modesta realtà su cui poter poggiare i piedi per uno slancio: costui chiede e aspetta che altri gli imponga la sua. I popoli sono appunto la somma di tanti esseri incapaci di crearsi realtà proprie: le chiedono ai grandi capi. Mussolini ha il compito di imporre al popolo italiano la sua realtà: che è, oggi, il Fascismo. Nella inconsistenza d'una verità assoluta immutabile, accettabile ad occhi chiusi, Pirandello vede giganteggiare dei formidabili pi­lastri cose morte che non è possibile negare in quanto costi­tuiscono delle necessità elementari. Necessità appunto le chia­ma Pirandello. Codeste necessità sono ad esempio, nel campo politico la Monarchia, lo Stato unitario, la Famiglia, la .Chiesa, blocchi statici che non vivono perchè nella vita troverebbero la loro morte. Noi stessi dunque per necessità, collochiamo fuori del travolgente corso del fiume della vita alcune realtà relative appunto perchè non siano travolte e distrutte». Dove riaffiora la sempre presente disponibilità di Pirandello al com­promesso moderato, o reazionario, qui con l'aggravante della sofisticazione, e si scopre uno stretto concorrere dei tempi nuovi colla prossima produzione dei regressivi miti del dram­maturgo, e col suo equivoco tentativo finale di ritorno a uno stato di religione positiva. «La situazione odierna, continua Interlandi, è vista da Pirandello così: da un lato un partito che ha al suo attivo dei fatti, e dall'altro un agglomerato di persone che s'adoperano a distruggere questi fatti con parole. Queste persone non hanno una realtà nuova da imporre al po­polo, perchè rappresentano la realtà di ieri, superata e quindi morta. D'altra parte questa gente dichiara di non aspirare al governo del paese; che cosa e chi, dunque, si vuole sostituire al Fascismo e a Mussolini?

Mussolini e il Fascismo hanno avuto il torto di valorizzare i loro avversari. Questo Pirandello non lo perdonerà mai, spe­cialmente al Duce. L'aver fatto d'un mediocre politicante [Amendola] una specie di Anti-Mussolini, l'aver parlato di Capi delle forze (?) avversarie, l'aver discusso tutti i gesti e tutte le parole degli oppositori, anche dei più spregevoli, que­sto è il torto marcio del Fascismo... Mussolini ha perduto molte buone occasioni per risolvere una situazione che non può es­sere risolta attraverso il compromesso di natura parlamentare. Qualunque cosa, del resto, possa e voglia fare Mussolini, il Fascismo attingerà le sue mète. Perchè esso non è un partito politico guidato da una o più volontà verso questo o quel­l'obiettivo: è un fenomeno storico che, con o senza Mussolini, raggiungerà per fatalità di eventi i suoi fini.

Non certo con l'intenzione di tracciare un programma, ma in conseguenza di un'osservazione attenta dei mali che trava­gliano il Paese, Pirandello pensa che la crisi odierna non si risolve se non sbarazzando il terreno dalle chiacchiere (sop­pressione della stampa avversaria, o, quanto meno, contrap­posizione ad essa d'una stampa fascista egualmente ben attrez­zata); sopprimendo la Camera dei deputati, istituzione super­flua, dannosa e in contrasto stridente con la intuizione fascista dello Stato; riformando il Senato nel senso di farne un'Assem­blea mista di tecnici e di rappresentanti delle istituzioni basilari dello Stato per metà di nomina regia e per metà formato da quelle deputazioni provinciali che sole possono portare nel­l'amministrazione della cosa pubblica la voce autentica delle province evitando ogni debolezza e ogni perplessità, accele­rando la liquidazione di ciò che è morto nello Stato e che ri­sulta d'impaccio...». Telesio Interlandi è lieto di concludere rilevando «identità non poche» di vedute, fra i fascisti e lo scrittore: «Come si vede, il pensiero di Pirandello sulla crisi attuale è molto chiaro. Ci si consenta di affermare qui la nostra soddisfazione per le identità non poche che vi abbiamo riscontrato col nostro modo di intendere una soluzione della crisi».

Ed ecco la lettera di Pirandello a Interlandi, pubblicata su L'Impero: «Roma, 24-IX-1924. Caro Interlandi, a chiari­mento del mio pensiero, mi permetto di farle osservare che

10 non dissi così recisamente e crudamente come appare dalla sua intervista, che avrei voluto " la soppressione della stampa avversaria ". Dissi che, applicato il decreto sulla stampa, come misura eccezionale per impedire una macabra e oscena propa­ganda d'odio partigiano, s'era represso ben poco e col solo risultato di render vana a un tempo e nociva l'applicazione di quel decreto. Vana, perchè la propaganda d'odio potè avere

11 suo frutto nefando nell'uccisione dell'on. Casalini; nociva perchè è stata e seguita a essere facile pretesto di gridar ven­detta " per la conculcata libertà ".

Beato paese il nostro, dove certe parole vanno tronfie per via, gorgogliando e sparando a ventaglio la coda, come tanti tacchini. Eppure s'è visto sempre che un po' di bene s'è avuto sol quando, senza gridare e senza neppure alzar le mani, sem­plicemente ma risolutamente, s'è andato incontro a queste pa­role, che subito allora sono scappate via, sperdendosi di qua e di là, con la coda bassa e illividita dalla paura. Mi creda con affetto, suo Luigi Pirandello».

A parte l'apparente confusione e l'equivoca contradditto­rietà del suo contenuto, e viceversa il senso fin troppo chiaro del suo significato, la lettera appare interessante perchè ci mo­stra un Pirandello atteggiato a una dura grinta squadrista. Riaf­fiora da certi sottofondi sepolti, sul suo volto, una smorfia mafiosa del tutto finora inedita: «senza gridare, senza neppure alzare le mani, semplicemente, ma risolutamente» andare in­contro a certe parole come «la conculcata libertà»! In fondo egli sembra dire, pur facendo mostra di rifiutarsi alle crudezze dell'espressione usata da Interlandi, che il decreto sulla stam­pa1 sia stato poca cosa di fronte a ciò che occorrerebbe, e sembra considerare coloro che gridano «come tanti tacchini» in nome della libertà, una massa di vigliacchi da disperdere con una contrazione dei muscoli del volto.

Quando poi, nel giro di qualche mese, verrà «la soppres­sione della stampa avversaria», Pirandello non disapproverà: rimarrà anzi fautore del regime.

Carlo Ravasio, un gerarca fascista, tredici anni dopo, rie­vocherà in uno stile ricco di involontaria parodia, l'evento del­l'iscrizione di Pirandello al P.N.F.2: «... data l'enorme ten­sione politica del tempo, lo scalpore fu enorme... Ogni sorta di accuse, di biasimi, di recriminazioni, furono pubblicate al­l'indirizzo del famoso scrittore. Era di moda, in quei giorni, presso il mondo dei cosiddetti intellettuali, essere antifascisti e negare al Fascismo ogni ragion di vita e di pensiero, al fine di potergli negare anche le capacità di governo. Gli intellettuali, quasi tutti sedentari ed esterofili, lontani da ogni movimento di popolo, uscivano dalle loro torri d'avorio solo per atteggiare una smorfia di superiorità e magari di disgusto verso la dina­mica nuova della nazione, che li disturbava, nella loro neutra­lità più di assenti che di contemplatori. Ed ecco come il gesto di Pirandello, come lo schiocco di una frustata li destava di soprassalto. Bisognava decidersi!... Registriamo l'iscrizione al Partito di Luigi Pirandello tra i capolavori della sua vita... Il «gregario più umile» fu invece uno dei più illustri. E oggi ancora, e domani e sempre, l'arte sua, sposata alla sua fede di fascista e d'italiano, lo rivendica come una fra le menti più felicemente rivoluzionarie del secolo di Mussolini».

Amendola

Chi si sentì più duramente offeso dalle dichiarazioni di Pi­randello riferite da Interlandi fu Giovanni Amendola, quali­ficato «un mediocre politicante». Egli perciò, il 25 settembre 1924, sul suo giornale, Il mondo, pubblicò un corsivo di rap­presaglia, in cui, già nel titolo, Pirandello veniva definito «un uomo volgare».

Amendola accusava Pirandello di fare «schiamazzo» sulla sua fede fascista, per distrarre l'altrui attenzione dalla sua mancata nomina a senatore. Egli formulava questa curiosa ac­cusa riferendosi a un trafiletto apparso su L'Impero, del 20 set­tembre precedente, che egli volle ritenere in qualche modo ispirato da Pirandello, in cui fra l'altro era detto: «... se l'elen­co dei nuovi senatori, annunciato fin da ieri sera fosse ufficiale, ci sarebbe qualche rilievo da fare: 1) ci sarebbero troppi nomi del passato... Tra gli intellettuali, vi potrebbe essere posto per uomini di genialità superiore come Marinetti e Pirandello... Basta col consesso dei paralitici e dei rimbambiti!». (Questo articolo costò il sequestro del giornale). Pare che Pirandello invece non avesse ambizioni di tal genere.

Amendola che, come rivelò Adriano Tilgher, non ebbe mai alcuna stima neppure letteraria di Pirandello e lo giudicò «in­finitamente inferiore alla sua fama», lo attaccò duramente: «Un uomo volgare: Si chiama e ce ne dispiace per la patria letteratura Luigi Pirandello.

Alcuni giorni fa, lo hanno sorpreso in gesto di accattone, a questuare il laticlavio. Costui considerava grande onore es­sere cinquantaquattresimo dopo i cinquantatre Achei intro­dotti, con ammirevole disinvoltura, entro le mura di Troia.


Deluso e confuso, ed imbarazzatissimo per una certa letterina che ha ridonato, per un quarto d'ora, la capacità di riso a que­sta malinconica Italia dell'èra nuova, il geniale uomo ha fatto una di quelle pensate che nel paese di Pulcinella (le cui ossa, di questi tempi sussultano spesso nel gioioso avello per... di­ritti d'autore) si chiamano mascole: e cioè alzare la voce, schia­mazzare, darsi un'aria congestionata e convinta, farsi apostolo mussulmano della fede fascista. Così, nel patetico schiamazzo, la storiella del laticlavio sognato e svanito sarà dimenticata e offuscata dall'immagine di Pirandello iperfascista.

Ed allora, lasciate ogni speranza o vilissimi omuncoli delle Opposizioni! Che si salverà più di noi, infelicissimi, sotto i fendenti del valoroso uomo? La stampa soppressa; la Camera dispersa ai venti; il Senato riformato: del Senato, anzi, rimarrà in tutto solo quel tanto che permetterà al decreto di nomina del senatore Pirandello, mancato ieri, di venire domani.

Audacie, insomma, da far vergognare, come pantofolaio della più deplorevole risma, il Duce medesimo ed i suoi più accesi seguaci che ancora non ci avevano pensato!

Ma a ciò non si arrestano i furori bellicosi di costui che avevamo creduto uno scrittore di commedie, di novelle e di romanzi e che invece si è rivelato, sotto panni borghesi, un Riccardo Cuor di Leone giacché non pago di combattere, di stroncare, di disperdere, di polverizzare gli oppositori, passa oltre e, colpito da subitanea rivelazione, si mette a gridare: " Ma perchè mai tutto ciò? Se gli oppositori non esistono! È il fascismo che li ha creati! È il Duce che ha commesso il gra­vissimo errore di crearli facendo loro la réclame\ Nessuno po­trà mai perdonargli questo gravissimo errore: di averli creati, parlandone! ".

Ahimè, povero autore di commedie! Si sente, si sente in queste tue volgari scemenze l'umile origine del fabbricatore nostrano di bella letteratura, prono dinanzi alla Dea réclame ed ai suoi sacerdoti... E così questo povero autore, che pere­grinò venti anni in cerca di fama come uno dei suoi perso­naggi... in cerca d'autore e che finalmente trovò il suo autore e l'inventore della sua più generosa valutazione non troppo lontano dal bersaglio odierno dei suoi strali sine ictu oggi generalizza da sè al prossimo e, cieco e sordo alla realtà che

10 circonda, proclama solennemente: senza la reclame del fa­scismo l'Opposizione non esisterebbe.

No, caro personaggio che ha trovato il suo autore! Noi sia­mo di quelli che fabbricano i giornali, non di quelli come voi che sono fabbricati dai giornali. E restate pure con la coscienza tranquilla: il vostro Duce e il vostro fascismo non ci hanno creati in alcun modo, perchè anzi ci avrebbero di­strutti assai volentieri».

«In una parola rispose, due giorni dopo, su L'Impero,

11 2 7 settembre, Telesio Interlandi lo sciagurato corsivista voleva dire che Pirandello è stato creato da Tilgher...».

Adriano Tilgher infatti era il critico drammatico de II Mondo.

La polemica divampò furiosa, la politica si confuse stretta­mente con la polemica letteraria e si venne a un incontrollato tono libellistico. Nè d'altra parte Pirandello di ciò fu il re­sponsabile minore, essendosi fatto per primo, paradossale anel­lo di congiunzione tra la filosofia irrazionalistica {forma e vita) propria, e di Tilgher antifascista, e il mito mussoliniano.

La polemica divenne sempre più velenosa e si diffuse a tutta la stampa italiana, anche a quella della provincia: Sicilia eroica ritenne opportuno ricordare a Pirandello la frase pub­blicata qualche mese prima: «Sono apolitico: mi sento sol­tanto uomo sulla terra...» \

Pirandello si trovò intorno molti difensori. Un gruppo di cinque suoi amici, Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli, Alfredo Casella, Silvio D'Amico, Cipriano Efisio Oppo si fece promotore di una pubblica protesta, contro «la torva mani­festazione di parte» e «il vilipendio della pura figura morale dell'uomo insigne».

La lettera, che fu firmata da molti scrittori, diceva: «L'adesione che Luigi Pirandello ha dato in questi giorni al Fasci­smo, seguendo convinzioni sempre da lui manifestate, e no­toriamente rifiutando " a priori " qualunque onore potesse apparire come ricompensa al suo libero atto, ha dato occa­sione ad alcuni fogli politici di vilipendere la pura figura mo­rale dell'uomo insigne, l'opera del quale sta raccogliendo in­torno all'arte l'interesse di tutto il mondo artistico.

Quanti viviamo di un ideale e di un lavoro d'arte e di pen­siero ci ribelliamo a questa torva manifestazione di parte.

Ci ribelliamo ad essa, come a cosa supremamente immo­rale...». Tilgher, invitato a firmare la protesta, non aveva dato risposta, e perciò, su L'Impero (27 settembre) apparve un trafiletto in cui si rilevava che dopo la pubblicazione del «ri­voltante corsivo» di Amendola ci si sarebbe attesa una mise à point di Tilgher: «ma si vede, aggiungeva l'articolista, che Tilgher è molto occupato».

Tilgher, il giorno dopo rispose {Il mondo, 28 settembre): «Signori, mettiamo bene i punti sugi'/.

Non l'adesione al Fascismo sic et simpliciter, ma l'attacco violento che egli ha sferrato contro l'opposizione e, specifica­mente, contro il capo dell'opposizione costituzionale, alle idee del quale il Mondo si ispira, ha attirato a Luigi Pirandello gli attacchi da voi deplorati, e che vanno evidentemente diretti non al Pirandello commediografo puro e semplice, ma al Pi­randello uomo politico. Ora chi si getta nella mischia politica, e soprattutto se in un tempo duro come l'attuale, si offre con tutto il suo corpo all'avversario, nè può pretendere esclusione di colpi». Tilgher dice quindi che «dati i nomi dei proponenti», la manifestazione gli ha «tutta l'aria di essere più politica che artistica». «Voi, aggiunse, potrete cancellare questa impres­sione che in me, e non in me solo, ha suscitato la vostra iniziati­va, associando a Luigi Pirandello Roberto Bracco e Sem Benelli, che anch'essi videro, e precisamente da giornali di parte fascista, dimenticato e cancellato l'onore e il rispetto penosamente con­seguito il giorno in cui, all'infuori del loro lavoro di artisti e di studiosi, si permisero di manifestare la loro fede politica...».

Seguiva un commento di Amendola che fra l'altro diceva: «...il sig. Pirandello... fa tanto scalpore non accorgendosi ad es. che mentre i suoi amici si costituiscono in legione sacra per proteggerlo da qualche scalfittura, i suoi famuli e padrini continuano a gettare in suo onore! manate di fango contro la vita pubblica e privata di uomini nostri, di fronte ai quali Pirandello e C.i possono benissimo levarsi il cappello fino a terra!». A Pirandello non si può concedere «la libertà di in­giuria e di denigrazione» che si riconosce «alla cialtroneria». Amendola concludeva: «Di fronte alla nostra legittima rea­zione egli provvederebbe oggi assai meglio non disturbando tanti amici per così sproporzionato clamore. Calma, egregi col­leghi! Gli uomini responsabili sanno che le loro parole ed i loro atti portano delle conseguenze. Perchè volete fare a Luigi Pirandello l'immeritata offesa di metterlo sotto tutela?».

Allora scatta velenoso Telesio Interlandi, che scrive un cor­sivo (L'Impero, 29 settembre 1924) che ancora una volta di­mostra a quale nobile penna era affidata la difesa di Piran­dello. Interlandi dice che Bracco e Benelli erano stati attaccati, non come scrittori, ma «come antifascisti che offendevano il Fascismo e i suoi uomini con una violenza e una inopportu­nità di linguaggio da far rabbrividire. Il Bracco, fra l'altro, disse che il Fascismo è la negazione del Diritto e della Morale, dipinse dei fascisti che avrebbero fatto vergogna a una tribù di cannibali... il Benelli usò termini diffamatori e antipatriot­tici...». «Quanto alla nota, seguitava Interlandi, che il signor Giovanni Amendola fa seguire alla dichiarazione tilgheriana, c'è questo da osservare che la demoniaca presunzione e boria di questo fallitissimo politicastro è tale da fargli perdere ogni controllo di sè quando qualcuno si permette di mettere in dub­bio il suo diritto all'immortalità. Secondo il signor Amendola, Pirandello dovrebbe incassare in silenzio i vituperi che con sublime incoscienza gli sono stati scagliati semplicemente per­chè egli, Amendola, ne ha incassati assai più. Adagio, Biagio: anzitutto tra Pirandello e Amendola corre un abisso insonda­bile: Amendola sta a Pirandello come che diremo? Lollobrigida sta a Dante Alighieri; in secondo luogo Amendola svolge da anni una raffinatissima opera d'avvelenamento e d'incanaglimento dell'opinione pubblica; semina a pienissime mani l'odio antifascista; denigra i nostri uomini migliori; li addita al disprezzo dei suoi lettori; con ogni mezzo allontana il giorno auspicato in cui potremo, tutti gli italiani, ricono­scerci fratelli nel nome della Patria grande. Egli s'è meditata­mente situato in posizione incomoda; ne busca: peggio per lui. Egli è un professionista della politica; non ha altro mestiere, non può ritornare alla tradita teosofia sotto pena di annegar nel ridicolo. Deve tenere il suo posto: e per questo che incassa e brama il martirio.

Il caso di Pirandello è più semplice e schietto: è stato vili­peso perchè fascista e perchè non appena Amendola quale capo ecc. ecc. ecc. Noi siamo famuli... Il signor Giovanni Amendola, capo ecc. ecc. ecc. incassi dunque anche questa, se così gli fa piacere».

L'uso ripetuto delle parole «incassare», «buscare», è in­dice di pura ribalderia fascista. Si vuole sottolineare l'allusione alla bastonatura che Amendola ha subito alle spalle da parte dei fascisti il 26 dicembre del 1923. (E Amendola morirà in conseguenza di un'altra più grave bastonatura)1.

Pirandello, che ritenne opportuno non intervenire più, per­sonalmente, nella polemica, rispose così, su L'Impero (3 otto­bre 1924) a coloro che avevano firmato la protesta:

«Agli amici: Fernando Agnoletti, Antonio Beltramelli,Emi­lio Bodrero, Massimo Bontempelli, Felice Carena, Alfredo Ca­sella, Alberto Cecchi, W. Cesarini-Sforza, Guelfo Civinini, Sil­vio D'Amico, Umberto Fracchia, Arnaldo Frateili, Lorenzo Gigli, Mario Labroca, Adriano Lualdi, Corrado Marchi, Fau­sto M. Martini, Renzo Massarani, Tomaso Monicelli, Ada Ne­gri, Ugo Ojetti, C. E. Oppo, Paolo Orano, Giuseppe Ravegnani, Ottorino Respighi, Vittorio Rieti, Attilio Selva, Ardengo Soffici, Guido Sommi, Curzio Suckert, Vincenzo Tieri, Giu­seppe Ungaretti, Orio Vergani, Giuseppe Zucca.

Miei cari amici, se quelli che tra voi proposero codesta pro­testa di cui vi sono tanto grato, me ne avessero dato notizia prima di seguire l'impulso generoso del loro animo sdegnato, io mi sarei in tutti i modi adoperato a sconsigliarli, perchè il vostro nome insieme col mio non fosse trascinato nel fango di questa insulsa e vilissima polemica.

Chi mi conosce sa bene che io non sono «un uomo volgare». Chi non mi conosce, poteva facilmente considerare che sarei stato, più che un uomo volgare, un uomo inverisimilmente stu­pido, se per la vanità di vedermi compreso nella lista dei nuovi senatori, proprio alla vigilia fossi andato a iscrivermi al Partito Nazionale Fascista. Mi pare d'aver veramente il diritto di rite­nere stupidi piuttosto coloro che non han saputo fare una così ovvia considerazione, e han potuto prestar fede a una tale scimunitaggine.

Bastava che voi, miei cari amici, nel vedermi così balorda­mente oltraggiato per un peccato di meschinissima vanità, pro­prio nel momento che a una tal vanità io facevo (e senza alcun sacrificio) rinunzia assoluta, bastava che voi mi esprimeste pri­vatamente, come tanti hanno fatto, il vostro disgusto. Con ri­conoscente affetto. Vostro Luigi Pirandello».

Poco più tardi Pirandello ritornò ancora a una parziale di­chiarazione di apolicità. A un redattore de II piccolo di Trieste (21 ottobre) che l'intervistava disse: «... La mia vita non è che lavoro e studio. Le mie opere, che alcuni credono non meditate e buttate giù di getto, sono invece il risultato di un lungo pe­riodo di incubazione spirituale. Sono isolato dal mondo e non ho che il mio lavoro e la mia arte. La politica? Non me ne occupo, non me ne sono mai occupato. Se alludete al mio re­cente atto di adesione al fascismo, vi dirò che è stato compiuto allo scopo di aiutare il fascismo nella sua opera di rinnovamento e di ricostruzione...». Ma, così dicendo, continua anche a di­chiarare che la sua fede fascista rimaneva salda, come del resto è confermato da altre dichiarazioni alla stampa. Il 4 novembre, su L'Impero, si riferisce una conversazione con lo scrittore: «... Pirandello ha affermato che i recenti attacchi non l'hanno scosso dalla sua fede fascista «nutrita e servita sempre in silen­zio». Egli è più fermo e più risoluto che mai in questa sua fede ed ammette che nella sua Arte v'è qualcosa che s'avvicina ai concetti audaci e rinnovatori che informano il Fascismo. Accen­na al rollandismo apatico di molti intellettuali che disdegnano la politica senza comprendere che anche la politica è un'arte e fra le più difficili! — e d'altronde essa è vita e nessuno e tanto meno gli artisti, ha diritto di sottrarsi al conflitto, spesso triste, ma sempre necessario delle idee».


Mussolini all'Odescalchi


Nel frattempo Mussolini mostrava di ricambiare la stima che Pirandello aveva di lui. Perchè se è vero che il Duce aveva mostrato il suo dispregio per gli intellettuali e aveva dichiarato che per lui uno squadrista valeva più di un letterato o di un filosofo, era viceversa ben lieto di quanti letterati e filosofi si mettevano dalla parte del fascismo. Pirandello, nel suo tenta­tivo molto spericolato di assimilare il fascismo alle sue convin­zioni intellettuali era prossimo ai tanti italiani di quei tempi che, come ha osservato Nino Valeri1 «in numero sempre mag­giore, cercavano d'inquadrare storicamente il fascismo».«... Il fascismo accettava [sia pure] con chiaro dispregio, qualunque forma di esaltazione culturale, purché servisse a rafforzare, in qualsiasi modo e direzione, il regime, o almeno a tener tran­quilli i " borghesi " spaventati per le novità».

Pirandello, ancora una volta, in quel 1924, se vogliamo considerare l'episodio della sua adesione al fascismo dal punto di vista specifico della sua appartenenza a una determinata classe sociale, e perciò del suo condizionamento economicopolitico, si trova non troppo distante dall'aborrito Croce, che, dopo l'uccisione di Matteotti, continuò a votare in favore del governo fascista \

Mussolini volle porgere a Pirandello un aiuto concreto quando questi fondò, nel 1925, con altri scrittori e uomini di teatro, un Teatro d'Arte. Dice Nardelli*: «Come si può far dell'arte "pura" senza il Governo? Pirandello va dal Duce. Il Duce lo riceve con benignità, l'ascolta, l'approva, l'inter­roga. Il piano finanziario importa un fabbisogno di circa tre­centomila lire. Il Duce accetta l'idea, promette aiuto: anzi versa subito cinquantamila lire per l'inizio immediato dei lavori».

Quando, con un'opera di Pirandello, La sagra del Signore della Nave, il 4 aprile 1925, nella Sala Odescalchi, si inaugurò il Teatro, Mussolini volle essere presente: (Nardelli) «All'inau­gurazione il Duce presenzia la recita. Misura, con un batter delle ciglia sui suoi rapidi occhi, la portata morale della cosa e battezza il luogo: Teatro del Regime.

Ma quando s'alza per andarsene, gli tocca di sentire che l'im­pianto... va per le 700.000 lire. E tocca a Pirandello, dirglielo. Innocenti tutti e due: e intanto i soli alle prese con la realtà... Del Teatro d'Arte il Governo non si disinteressò, anzi fornì ogni aiuto possibile contro richieste... impossibili. E col tempo pagò tutto».


L'anno dopo, il 12 giugno 1926, si ha una nuova dichiara­zione di Pirandello, ed è forse l'ultima di questa prima fase del fascismo pirandelliano. A un giornalista de II pensiero, di Ber­gamo, egli diceva: «Io sono fascista. E non da ora; sono trent'anni ci ? faccio il fascista...».

Un teatro di carta

Si conclude così, nel 1926, il periodo più impegnato del fascismo di Pirandello: quello successivo, che va fino alla sua morte, ha, relativamente, una minore importanza, perchè egli distratto e lontano da una reale partecipazione politica, appare ormai guidato da sentimenti contrastanti e annullantisi a vi­cenda: da un desiderio di coerenza col comportamento di pri­ma, da una volontà opposta di protesta, nonché dall'opportu­nismo. Si può dire perciò che un vero, partecipato fascismo di Pirandello si trova solo in questi primi anni di cui abbiamo scorso le cronache, e che, dopo, si tratterà di una non medi­tata, confusa acquiescenza di comodo.

Vogliamo perciò, prima di riferire gli episodi successivi, indicare quelle che sono le presumibili ragioni di questa par­tecipazione politica apparentemente inspiegabile.

Pirandello si sentì attratto dal fascismo, senza la provoca­zione di calcoli e di personali tornaconti. Fu una simpatia di complessa origine che corona una storia, segreta e personale da un lato, e dall'altro coincidente o confluente con la storia comune del gruppo sociale piccolo-borghese italiano. Al di sotto dell'apparente flagrante contraddizione fra il senso mo­rale dell'opera di Pirandello e un comportamento politico tanto aberrante, sono alcuni filoni perseguibili come cause e ragioni.

Anzitutto bisogna richiamare la forte componente di incon­scia opposizione e ostilità dello scrittore in quanto scrittore nei riguardi del gruppo sociale di cui egli stesso era parte in­tegrante. Non è, il suo, il primo caso di simili apparentemente inconciliabili situazioni. Si sono avuti in letteratura al riguardo i casi classici di un Balzac o di un Belli, di un Verga o di un Dostoevskij, scrittori armati di terribile giudizio critico-sociale nell'opera, e disarmati e talvolta rinnegati nella professione della vita quotidiana.

Come scrittore antiborghese Pirandello si fa l'esecutore te­mibile e impietoso o peggio falsamente compassionevole della sentenza che la storia ha pronunciata nei riguardi della borghesia, più precisamente della piccola borghesia italiana. Pirandello, questi piccoli-borghesi se li è portati nel suo labo­ratorio per sfigurarli, per distribuire loro un retaggio di pic­cole follie, di tic, di ironiche angosce, per trasformarli in «pensiero sofferente», in patetico farnetico, per eseguire su di loro, in corpore vili, i suoi esperimenti da laboratorio eticometafisico, ma, volendolo o non volendolo, anche etico-socio­logico, comportandosi nei loro riguardi come quel suo perso­naggio *, prete, che per essere provocato a un vomito simpatico infligge ogni giorno al suo sagrestano la medicina emetica.

I piccoli borghesi italiani erano coloro che dovevano ri­dursi nell'infausto gregge fascista. E Pirandello stranamente, nel chiaro della storia oggettiva, si trovò con loro.

Si accomunò perciò alla loro sorte ai due poli: nella atroce assurda prassi della marchiatura metafisica, e nel teatro di carta del mettersi il distintivo, la divisa e, lui magari solo metafori­camente, marciare. Che ne è, in questa apparenza, di quel Pi­randello, diavolo di Malebolge intorcigliante le anime allo spiedo per farle friggere figuralmente1 sull'abisso?

La sua vita, fuori della caverna delle metamorfosi e dei dinamismi visionari, ritagliata nettamente dall'opera, potreb­be essere letta, nel comportamento superficiale, come una co­mune, piccola vita di italiano tipico del primo cinquantennio dell'Unità, e dei più sprovveduti.


Una tale storia, astratta quanto si voglia, è presto tracciata: figlio di onesti eroi risorgimentali, educato in una scuola uma­nistica dove la storia è «sfiguramento patriottico i cui due ele­menti essenziali sono l'esaltazione di Roma e dell'impero ro­mano e il racconto del Risorgimento ad usum Delphini...» (Salvatorelli)1; dopo aver subito l'avvicendarsi dei due richiami del radicalismo e della retorica antiparlamentare carducciana e nazionalistica, neutralizzantisi a vicenda, finisce involontaria­mente per partecipare della sorte del piccolo borghese seque­strato da un'integra vita sociale. Come questo, avendo assimi­lato di valori sociali un concetto idealistico astratto, appena a contatto con i processi reali della vicenda storica, prova una vivace repulsa moralistica. «Contro quel mondo ch'egli con­sidera naturalistico [il piccolo-borghese]... eleva il suo mondo ideale; alla realtà economica delle classi producenti e lottanti egli contrappone il mito della Nazione astratta e trascendente, credendo di affermare così, di contro alle odiate classi produt­trici, una sua superiorità morale; e considera, nel suo amora­lismo apolitico, come malvagi e venduti, come nemici della pa­tria» (Salvatorelli) tutti coloro che sono sollecitati da interessi più pratici e concreti. Non appaia esorbitante questa citazione. Pirandello, fuori della stanza ultima delle sue introspezioni, non diversamente dal piccolo borghese italiano descritto da Salvatorelli, è vittima di tali astrazioni e appare in un'analoga secessione dalle classi della produzione, soprattutto dal prole­tariato inteso come classe politica. Il socialismo e la demo­crazia sono stati da lui semplicemente rifiutati.

Per convincersi di più di ciò, è facile rileggere qualche frase di un articolo del 1918 2, in cui egli dichiara fra l'altro che la responsabilità di Caporetto è dei socialisti (e dei politici alla Giolitti): «Non invano per tant'anni s'insegna al popolo che il tabernacolo ov'è custodito il vero Dio da adorare è la pan­cia, e che son tutte superstizioni e trappole tese dai lupi agli agnelli le idealità finora ritenute sante. Il popolo fa presto a imparare...». Non meno acritica e ritagliata secondo un uma­nesimo umiliato, piccolo-borghese, è l'accezione del popolo, per un Pirandello commentatore politico che si approssima al­l'esperienza del fascismo. Nello stesso articolo egli dice: «... questo Morgante... questo Margutte... come non ci ave­vamo pensato? Ma sono proprio le due facce del popolo! La faccia buona e la faccia trista: il grosso buon popolo, credu­lone e badiale, generoso e forte, che si converte senza starci a pensar due volte a ogni buona causa e s'arma come può, anche d'un battaglio di campana, e si gitta tutto alla buona impresa; e il popolo che perde ogni fede e a un certo punto s'arresta e s'intozza e s'ingaglioffa, abbandonandosi tutto ai suoi più bassi istinti... ma è certo che Margutte non prevarrà...». E meno male, il «caro grosso amletico barbuto scimmione», che è Tu­rati, il quale, a Montecitorio, «non l'ha voluta mai (la guerra), perchè, Dio mio, questo stivale che è l'Italia, questi stivali che sono le patrie, è tempo di buttarli via, per camminare tutti fratelli scalzi per le vie del mondo, che è uno di tutti senza confini... (ma) all'ultimo, ecco qua, sissignori, ha dovuto cal­zarselo questo povero stivale che è l'Italia... Il buon popolo Morgante, t'ha battuto le mani, e a Margutte, vedi? è bastato l'insolito gesto improvviso di vederlo calzare anche a te, que­sto vecchio stivale d'Italia, è crepato. Fa' che non rinasca per te, domani...».

E qui è una strana non avveratasi profezia (e purtroppo da lui dimenticata per quanto aveva di preallarmante) sui tempi avvenire: «Ma se pure (Margutte) dovesse rinascere, non di­speriamo! Può ben Margutte, finito lo spettacolo di Monteci­torio, crepar dalle risa per altre scimmie e per altri spettacoli. Vi dico che non ne mancano e che non ne mancheranno», per­chè (con Margutte) «c'è questo di buono, che basta poco, la vista degli sciocchi lezzii d'una scimmia che si metta e si cavi un paio di stivali, a farlo non già per modo di dire, ma real­mente crepare dalle risa...».

Quanto all'antiparlamentarismo, precedente e sintomo del fascismo di Pirandello, esso è di data antica e si è parlato, a suo tempo, del Senato definito da lui «gerontocomio», dei parlamentari visti come «bertuccioni» e come «buffoni». Ora lo scrittore ci dà un'altra immagine belluina di Monteci­torio: «... grosse scimmie politiche, uranghi e scimpanzè... in quel grosso gabbione di Montecitorio...». Quando Mussolini parlerà in termini sprezzanti del Parlamento ricorrerà all'im­magine della stalla.

La tensione antidemocratica di Pirandello ha in superficie una ragione di falso moralismo, apparendo egli persuaso di una corruzione, di una stupidità e di una buffoneria insite nel regime stesso parlamentare; ma era un antiparlamentarismo, il suo, che, a parte le ragioni più nascoste, attingeva da un lato nel poco ragionevole clima nazionalistico che egli sfiorava senza incontrare, dall'altro nel confronto intimo, inevitabile nel platonico Pirandello, con l'indefinita, indecifrata immagine di uno stato perfetto e mitico. Nella sua fiducia nel fascismo ci sarà anche questo. Infine Pirandello è antidemocratico per­chè la disarmonica e compromessa libertà delle istituzioni par­lamentari di uno Stato democratico, lo disturba, gli procura rimorso e panico, mette equivoco e confusione nella sua pri­vata libertà che tende bensì, nell'opera, a una pedagogia di contrasti, di dibattiti e di antitesi, a una distillazione anarchica esemplare, ma contemporaneamente rifugge e teme le verifiche «volgarmente» pratiche.

Ma fuori delle ragioni fin qui indicate ci interessa segnalare qualche ragione forse più segreta dell'adesione al fascismo di Pirandello, tenendo conto della nascita contemporanea di opere come Sei personaggi in cerca di autore ed Enrico IV, che rap­presentano l'acme negativo del suo pessimismo.


Il fascismo in quel periodo era un torbido movimento po­litico, privo di ogni chiarezza ideologica, e nella realtà di ogni giorno, per le strade e le campagne, assumeva l'aspetto di una forza eversiva, di un bieco rivoluzionarismo. Si esprimeva nella violenza, nelle purghe inflitte sadicamente agli avversari poli­tici, nel manganello che rompeva teste e ossa, nel revolver, nel fuoco appiccato alle case, nelle bombe a mano sulla folla iner­me. I fascisti erano nella cronaca di ogni giorno quei figuri che si attaccavano a grappoli triviali agli autocarri per l'orga­nizzato pestaggio delle ragioni degli altri. In tale veridica im­magine, per chi, come Pirandello, viveva dentro di sè e non fuori, per chi fuggiva il peso specifico e concreto delle cose, il fascismo era una vivace figurata rappresentazione simbolica di attori male in arnese, in sintomatica divisa, che affossavano l'ordine, la legge, la costituzione ragionevole delle cose, il buon senso, l'organizzazione sociale. Era il segno della violenza esplo­sa per la violenza, e figuriamoci se la sensibilità morale di Pi­randello non sarebbe stata capace, in zona di super-io, di per­cepire l'abisso d'immoralità rappresentato dalla prassi crimi­nale dei fascisti! Ma in Pirandello si erano liberate in quei giorni come provano quelle sue opere possenti energie dell'Ei, contro le intelaiature di ferro della società e della sto­ria, come contro l'organizzazione della sua vita personale, den­tro cui era rimasto preso e impigliato finora come in una ca­micia di forza. Sentì allora, segretamente, i fascisti come i suoi alleati in campo sociale, una proiezione delle sue esigenze di­struttive.

È, questo di un nichilismo assoluto, un momento solo della vita e dell'opera dello scrittore, ma il legame con il fascismo rimarrà preso in un cemento affettivo più tardi solo in parte sgretolato e sempre, prima e poi, salvato nella sublimazione patriottica. I tentativi futuri di svincolarsene saranno labili e senza conseguenze. Egli segue il fascismo in ogni opposta vicis­situdine, fino allo stabilizzarsi definitivo di esso: lo segue in tutte le fasi, dal rivoluzionarismo negativo, alla normalizza­zione, all'autoritarismo della dittatura, all'instaurazione della gerarchia, all'Accademia e all'Impero.


Si potrebbe dedurre perciò che le segrete spinte eversive dell'anima dello scrittore, escano placate da questi tre o quat­tro anni intorno al 1920. Placate almeno per alcuni aspetti. Lo sfogo è già soddisfacente in prima persona, per la profon­dità radicale dell'esplosione e del crollo provocato dai Sei personaggi, ma anche, in terza persona, oggettivamente, per il vasto raggio del riecheggiamento sociale di quel fatto indi­viduale, dato anche il clamore dell'insuccesso e del successo.

Lo scrittore custodiva dentro di sè, da tempo ormai imme­morabile, una male esorcizzata paura dell'autorità, di qualun­que immagine che comunque raffigurasse il padre: il vincolo della legge sociale e la maschera dell'uomo sociale furono sem­pre per lui (nell'intimo e talora anche alla superficie) le raffi­gurazioni, inalienabili e ossessive, di quell'immagine. Adesso queste, e tutte le immagini dell'autorità, letterarie, teatrali, sociali, della famiglia, e i legami dell'amore e del rispetto erano naufragate insieme. Nei Sei personaggi il parricidio ideologico era stato compiuto, e tutti avevano applaudito: a Milano, a Londra, a Parigi. Anche i fascisti avevano applaudito, Musso­lini e gli altri, Ciano e Interlandi, perchè in quel momento era da abbattere ogni immagine dell'autorità, cioè la figura della società organizzata secondo legge e norma. In Italia, in ter­mini politici, era la costituzione democratica, quella che doveva essere distrutta.

Ma dopo le vicende che vanno dal 1919 al 1922, fu neces­sario sostituire, alla vecchia, una nuova immagine dell'auto­rità, e questa si chiamò, in termini politici fascisti, «norma­lizzazione». Pirandello, dal canto suo, si era liberato abba­stanza, con la sua opera, finalmente vittorioso, dall'ossessiva immagine della regola sociale nemica, di un padre vessatorio: si era sostituito penosamente a lui, aveva raggiunto finalmente una sia pure stentata e tardiva maturazione virile. Ora, avve­nuta la pacificazione di alcuni conflitti più acuti (anche se ri­maneva insopita la sua nevrosi di fondo) egli poteva accettare questa nuova immagine dell'autorità: accettarla e anzi vagheg­giarla, farsene paladino all'occorrenza, anche per mettere a ta­cere ogni residuo rimorso per la violenta ribellione di qualche anno prima. Da questo punto in poi infatti Pirandello mo­difica il suo nichilismo, lo riduce a una misura meno sofferta, più astratta e più simbolica, non si pone più contro ostacoli diretti e concreti. Ricorda e riproduce il suo nichilismo di pri­ma, più che sentirselo dettare dentro tormentoso e immediato.

Basti ripensare ancora a quella abilissima manipolazione del disordine (o normalizzazione del disordine) che si fa pura bra­vura in Ciascuno a suo modo, a quel mirabolante meccanismo teatrale che è Questa sera si recita a soggetto, che sono ripe­tizioni in una più appariscente spericolatezza delle ribellioni autentiche del 1921 e 1922. Lo stesso avviene del relativismo radicale, tanto sincero e genuino nel Pirandello di prima (di Così è (se vi pare), per esempio), che si esaurisce ora nella falsa vitalità, nella monotona dialogante accademia, interpre­tata e corretta da Tilgher (di Diana e la Tuda, per esempio). Si verifica anche la tentata inversione del nichilismo nei miti, che vorrebbero essere, ma non sono, correttivi e positivi mes­saggi di speranza. Mentre il teatro nuovo ancora vivo rimane quello legato alle vecchie intuizioni, quello che nasce diretta­mente e semplicemente da una trasposizione tecnica, cioè da una diversa e più pura pronunzia, di novelle e storie raccon­tate nella prosa narrativa molti anni prima, come avviene per L'imbecille, per L'uomo dal fiore in bocca, per La sagra del Signore della Nave, per Bellavita.

Evoluzione verso l'ordine e il tecnicismo teatrale che si svolge in sincrono parallelismo coll'evolversi del fascismo mi­litante dalla negazione blasfema dell'ordine alla organizzata re­staurazione. Non si può dire fino a che punto si sia verificato in Pirandello un transfert subliminale e una immedesimazione affettiva del proprio successo nel successo cronologicamente coincidente del fascismo \

Esiste però forse anche un'altra traccia per toccare le ra­gioni del fascismo di Pirandello, che si somma e si fa comple­mentare, anche se apparentemente in qualche contraddizione, con quanto si è fin qui detto. E si specchia, questo terzo aspet­to, nell'equivoca confusione storica di quel movimento politico.

Risulta che Pirandello, nonostante il liberatorio sfogo e la pro­clamazione del suo nome nel mondo, continui a soffrire di una invariata e nevrotica solitudine. Ci sono varie sue confessioni di questo periodo che ce ne danno testimonianza.

Egli subisce il tormentoso bisogno di trovare un rifugio in qualcuno e in qualche cosa; per quanto in apparenza possa amaramente compiacersi del suo isolamento, egli poi affanno­samente cerca di trovare un modo di reinserirsi nella comunità degli affetti. Ma è per lui ormai un ricupero estremamente dif­ficile se non impossibile.

Per tutta la vita, specialmente in queste ultime fasi, è come se egli non abbia fatto altro che scavarsi (sono le sue parole) una fossa sempre più profonda e privata, come se abbia senza riposo continuato a tagliarsi tutti i ponti che lo legherebbero ancora agli altri. Un uomo che gli fu vicino negli anni succes­sivi, Guido Salvini, ha potuto dire di lui: «Pirandello disprez­zava l'umanità» (e intendeva dire proprio questo). Tutta l'ope­ra di Pirandello era stata intenta a dimostrare la fragilità metafisica dell'uomo davanti a un dio abolito, ma anche la debolezza dell'individuo di fronte alla società e l'inutilità della protesta. Ora succede una fase in cui prevale un bisogno di fiducia. Occorre un principio generale di organizzazione che raccolga intorno a sè e rincanali in una condotta forzata i dis­sipati prodotti del disordine. Toltesi le vie razionali per rein­tegrarsi socialmente, il processo in tal senso avviene seguendo vie imprevedibili e irrazionali, cioè in un inconscio regredente passo verso le convinzioni di una semplificata etica di massa, la meno differenziata che si possa dare.


In Pirandello, si tentava paradossalmente di ristabilire un equilibrio fra l'ambito del raziocinio cosciente che aveva sof­ferto fino alla feccia e goduto di tutti i ritrovati sofistici della scepsi, e la zona affettiva, e perciò per definizione irra­zionale, parzialmente, ma disperatamente alla ricerca di una razionalità di convivenza sociale. Questo rovesciamento del comportamento etico (mente irrazionale, cuore tendenzial­mente razionale) finiva per concludersi nel grave equivoco etico dell'adesione al fascismo. Il fascismo, da un certo momen­to in poi, per Pirandello rappresenta, ambivalentemente, in simbolo (e inizialmente senza sospetto della retorica trionfan­te), il principio positivo, l'affermazione, la costruzione prepo­tente, le gesta; mentre l'opposizione democratica al fascismo si assimilava involontariamente ai movimenti disintegratori dell'anima, rimorso segreto dello scrittore. In lui non c'è coe­renza. C'è una primitiva necessità di riequilibrio che egli tenta di raggiungere nel modo meno riflessivo possibile, perchè una matura riflessione impedirebbe la fiducia.

I precedenti tentativi di inserimento in una ideologia, non totalitaria o di massa, si erano succeduti nella vita di Piran­dello e avevano seguito vie affettive scarsamente responsabili, contraddittorie l'una rispetto all'altra. Prima si era trattato del giovanile radicalismo e socialismo (si ricordi che egli appoggiò, nel 1893, il candidato dei Fasci di Girgenti), poi dell'adesione alle idee divulgate del riformismo, poi dell'abbandono patriot­tico all'interventismo del 1915. La storia del fascismo di Pi­randello deve essere cercata infatti anche lontano, in ogni suo frustrato tentativo di applicazione e di appropriazione della lotta politica contemporanea: tanto nel campo democratico che in quello opposto.

Inoltre ci sembra inevitabile come una caduta gravitale l'adesione di Pirandello al fascismo, che si presentava a chi non avesse chiarezza di sguardo come rivoluzionario e con­servatore nello stesso tempo, distruttore delle istituzioni civili e paladino di ritorni all'antico. Conosciamo la irrisolta doppia tensione pirandelliana verso la distruzione e verso la conser­vazione: la volontà di distruzione sociale nelle forme più estre­me e il desiderio di conservazione di alcuni miti del presente e del passato; e conosciamo l'inconscia difesa di classe attuata dallo scrittore, che si nascondeva (tolte le opere più eversive) nel tentativo frequente di purificazione e salvataggio in extre­mis di dati della storia borghese, come per esempio un concetto di Patria su cui non si eserriti un controllo razionale.

In Pirandello esiste, visibile, la dimensione del pentimento. Se egli si muove a viaggi senza ritorno, tende anche a ritorni meno eroici. Se da un lato si vanta di essere andato al di là di ogni altro, di avere abbattuto le statue che costituivano il limi­te sacro dell'abisso, dall'altro mostra a fior di pelle un rimorso del suo mancato engagement, della sua inettitudine sociale: sente ancora in fondo all'anima le parole suadenti che nell'in­fanzia e nell'adolescenza lo persuadevano al dovere sociale, al bene patriottico. Scaturiscono perciò solo apparentemente improvvisi e ingiustificati questi tentativi di allineamento, e invece da un'antica sete di obbedienza, primitiva e radicale. L'uomo ha subito un destino di disobbedienza e ha amato no­stalgicamente l'obbedienza. L'obbedienza e la distruzione del­l'oggetto di essa: ecco i fondamentali termini dialettici della vita affettiva dello scrittore.

Egli poteva affermare di essere stato fascista da trent'anni, cioè da sempre: infatti quell'adesione al fascismo è congruente con molti filoni non superficiali della sua storia umana.

Il rigore morale di Pirandello aveva fasi di pura luce, splen­didamente protestante, ma spento quel bruciare puro, l'anima tornava in un groviglio confuso, in una visione scarsamente critica, involuta in una spirale introversa.

Accademico

Se tutte queste sono le ragioni particolari che valgono per il primo periodo del fascismo di Pirandello, e generali che coin­volgono tutto l'arco di tempo in cui egli fu tesserato e giurò fede e portò il distintivo fascista, si verificano però, a partire dal 1927, nuovi interessanti episodi di cui è necessario dar cenno per meglio render conto di quel margine di difesa che finiva per salvare l'uomo da una troppo coerente fedeltà a prin­cìpi e sistemi tanto aberranti.


La soppressione della libertà di stampa, l'emanazione della legge di polizia, l'istituzione del tribunale speciale, il ripristino della pena di morte, l'istituzione dell'O.V.R.A., e tutte le leggi «fascistissime» emanate prima, debbono avere cominciato a turbare, o per lo meno a disturbare, la sua coscienza morale; e, variabile di umore come era, gli venne voglia di far parte per se stesso.

Perciò, nei riguardi del fascismo, ora egli si comporta con­traddittoriamente. Da un lato si sente forte abbastanza per dichiarare, con qualche coraggio, dati i tempi, la propria indi­pendenza di artista e di uomo, dall'altro continua ad aderire, sia pure con allentata persuasione, e anche perchè, come (con involontaria ironia) volle Alvaro, «non aveva nulla del cospi­ratore», alla prassi giornaliera del regime, non rifiutando que­gli onori che da questo, avaramente, continuavano a venirgli. Nè va dimenticato che egli aveva posto ingenuamente, una volta per sempre, il fascismo sul piano dei miti patriottici, assimi­landolo confusamente a retorici sogni mai in lui maturatisi.

I primi episodi in cui si rivela la sua volontà di ritrovarsi al di sopra della politica e dei politici, e di non tollerare inti­midazioni, si verificano nel 1927, durante la tournée della sua Compagnia in Brasile e al ritorno in Italia, alla fine di quel­l'anno.

In Brasile, egli, riferisce Corrado Alvaro1 : «si era trovato di fronte a italiani fuorusciti che stampavano là un loro gior­nale. Pirandello, interrogato, uscì nella singolare dichiarazione che " all'estero non ci sono fascisti nè antifascisti ma siamo tutti italiani". Tornato a Roma, fu chiamato dal Segretario del Partito, il quale aveva sul tavolo una voluminosa docu­mentazione di ritagli di giornali messi insieme da Enrico Corradini, allora aspirante al ruolo di drammaturgo nazionale, sull'atteggiamento di Pirandello all'estero. Pirandello reagì in un modo inatteso: cavò di tasca la tessera del partito, la lacerò e la buttò sul tavolo sotto gli occhi del gerarca; si strappò il distintivo dall'occhiello e lo scaraventò in terra e uscì sdegnato. Dovettero corrergli dietro, calmarlo, chiedergli scusa...».

L'episodio dimostra, fra l'altro, che Pirandello ebbe tra i fascisti un certo numero di avversari (che facevano capo a Farinacci e a Corradini) i quali non mancarono, quando fu loro possibile, di rendergli la vita difficile.

In ogni modo, egli, nel marzo del 1929, fu del primo grup­po dei chiamati all'Accademia d'Italia (con Gioacchino Volpe, Francesco Orestano, Pietro Mascagni, Marcello Piacentini, Antonio Beltramelli, Filippo Tommaso Marinetti, Alfredo Panzini).

L'atteggiamento politico di Pirandello si fa man mano più contraddittorio. Egli soffre da una parte di mettersi in feluca e di farsi fotografare vestito di quella strana divisa, dall'altra si serve di quella assemblea (una «parata di scheletri», se­condo la sua stessa espressione1 ), per pronunciare un discorso su Verga molto anticonformista, molto antidannunziano, fra lo scandalo generale.

Quello stesso discorso che era stato da lui pronunziato a Catania nel 1920, e che allora era solo una implicita, dissimu­lata apologia del proprio stile di uomo e di scrittore, ora in quella seduta pubblica dell'Accademia d'Italia, diventava una esplicita e quasi provocatoria vendetta per quel trentennio di fama usurpatogli da D'Annunzio: «... due tipi umani, disse in quell'occasione Pirandello che forse ogni popolo esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso... gli osservatori disattenti, italiani o stra­nieri che siano, restano facilmente ingannati dal rumore, dalla pompa, dalla ricchezza delle manifestazioni di quelli che ho chiamati " dallo stile di parole " e credono che in Italia esi­stano soltanto questi... veramente l'Italia pare fatta apposta per loro, per dar risalto, colore, significato a quelle loro ma­nifestazioni doviziose, i bei gesti, le belle parole, e le passioni decorative, e le rievocazioni solenni. Tanto che... è quasi im­possibile, per uno straniero, non raffigurarsi gl'Italiani tutti perduti a vivere nei sensi, ebbri di sole, di luce, di colori, ebbri di canzoni e tutti sonatori di facili strumenti, un po' avven­turieri, un po' attori, fatti per l'amore e per il lusso anche se miserabili; e i loro uomini rappresentativi, immaginosi letterati dal linguaggio sonoro, e magnifici decoratori... Naturalmente non è così. Ci sono in Italia anche gli altri: quelli che appaiono di meno e giovano di più: quelli che ho chiamati " dallo stile di cose "...».

«D'Annunzio ricorda Alvaro2 era considerato il cam­pione del regime. Nella sala, e tra i membri dell'Accademia, erano molti dei suoi amici politici. Alcuni non si tennero più sulle loro sedie, percorrevano a passi nervosi le sale adiacenti mentre Pirandello parlava implacabile3. Le signore del pubblico erano sbalordite. Era un'accusa a tutta la società d'allora. Si temette un incidente da un istante all'altro, e sarebbe bastato poco, se il timore di uno scandalo più grave non avesse con­sigliato prudenza».

Fatto sta che, per Pirandello, le inimicizie politiche si tra­sformarono anche in sabotaggi al suo teatro. Le sue commedie trovavano meno spesso capocomici disposti a recitarle. Cosa che solo in minima parte era dovuta al mutamento del gusto e alla minore validità del nuovo teatro pirandelliano, ed era invece in stretta connessione con fatti extra-artistici.

Ormai lo scrittore, che è sempre in viaggio, e si trasferisce per molti anni all'estero, a Berlino, a Parigi, preferisce che le prime delle sue opere siano date a Huddersfield, a Koenigsberg, a Praga, perfino a Lisbona e a Buenos Aires, piuttosto che in Italia. Il 24 marzo del 1934, al Teatro Reale dell'Opera di Roma, La favola del figlio cambiato, musicata da Malipiero, cade clamorosamente tra i fischi per preciso sabotaggio di un folto gruppo di fascisti farinacciani, qualche giorno dopo che il Ministro del Culto d'Assia, per conto del governo nazista, su relazione dei critici e dei referendari del dicastero, aveva proibito la rappresentazione dell'opera perchè «sovvertitrice e contraria alle direttive dello Stato popolare tedesco».

In realtà non si potè capire bene la ragione della censura tedesca. Nel gennaio, alla rappresentazione dell'opera, che aveva avuto successo, aveva assistito lo stesso Hitler. Proba­bilmente si trattò, secondo il parere dello stesso Pirandello1, di una reazione di carattere razzista, poiché nell'opera si esal­tava abbastanza esplicitamente la solarità e la vitalità meridio­nale e mediterranea contro «il paese buio e freddo del nord, dove è nebbia amara»; oppure fu una reazione contro «l'ato­nalità della musica e il disfattismo culturale» che vi si scor­geva 2.

Ma lo scrittore che, lontano dalla famiglia, viveva in una grande tristezza, cedette alla fine all'invito di Mussolini, che vedeva quella sua assenza dall'Italia quasi come un atto di ostilità al regime e tornò in patria. Egli si consentiva ora un abito di distratto compromesso, che scadeva ogni tanto nella insincerità e nell'adulazione del Duce.

Certe pubbliche lodi troppo smaccate che egli dedica a Mussolini, e il controcanto delle mormorazioni private contro di lui, dànno la misura di tale stato d'animo.

I fatti politici salienti di questi ultimi anni, sono quelli che seguono. A pochi mesi dalla caduta de La favola del figlio cam­biato, dall'8 al 14 ottobre 1934, Pirandello presiede il quarto


Convegno Volta, che in quell'anno si occupò del teatro. In tale occasione, a Mario Missiroli che l'intervista per L'Illustra­zione Italiana1, egli fa le lodi di «un ordinamento corpora­tivo, che vuole provvidamente disciplinare gli interessi di tut­ti», come è quello dell'Italia fascista. Contemporaneamente, dirige al teatro Argentina (interpreti Ruggero Ruggeri e Marta Abba), La figlia di Jorio di D'Annunzio, non sappiamo se per propria elezione o per suggerimento altrui. Però è certo che l'assunzione della regìa da parte di Pirandello assume il chiaro significato di una ritrattazione ufficiale e di un riappacificamento dopo tanta polemica antidannunziana e dopo il discorso del 1931. In privato, naturalmente le cose, e la stima, rimane­vano quelle di prima. Abbiamo uno scambio di corrispondenza in quest'occasione, fra D'Annunzio e Pirandello, dal tono ce­rimonioso e ufficiale. D'Annunzio scriveva a Pirandello, e i giornali pubblicarono la lettera2: «... sono molto contento che in tanta lontananza tu mi dia di improvviso [«' noti il " di im­provviso " ] questa prova fraterna nell'allestire e ispirare una nuova rappresentazione della Figlia di Jorio, che non è se non una grande canzone popolare per dialoghi. E non senti tuttora nell'orecchie gli accenti e le cadenze delle stupende canzoni di Sicilia? Dico che nessuno saprà intonare il verso del mio dram­ma come tu solo saprai e insegnerai agli attori...». Pirandello rispose di essere dispiaciuto perchè non era potuto andare a visitarlo e aggiungeva: «... sento anch'io La figlia di Jorio come una grande canzone da accentare popolarescamente, con ardore potente e in toni schietti. Farò di tutto perchè gli attori sotto la mia guida si guardino da quella preziosità letteraria di cui altre volte si sono compiaciuti... Ti abbraccio con la gioia che mi sia offerta l'occasione per darti questa prova di frater­nità artistica». Seguì un messaggio di D'Annunzio: «La me­schina infermità che perdura m'impedì di accoglierti nel Vittoriale non tanto per parlare della Figlia di Jorio, quanto per discorrere di molte altre cose in un incontro che desidero da troppo tempo. Forse tu non sai che ti sono vicino fin da quando tu eri un giovinetto e il buon Ugo Fleres mi parlava di te... Confido pienamente in te e negli attori da te scelti. Oso pre­garti di mandarmene la lista perchè io possa a ciascuno offrire un segno e un ricordo di me. La tua maniera di trattare l'anima umana mi dimostra che sei una specie di mago penetrante. Se per magia tu potessi celare la mia presenza, io saprei dominare i miei mali e la mia infelicità per assistere alla prima interpre­tazione geniale della mia tragedia, altamente compiuta dal­l'emulo ammirato...».

E Alvaro ci riferisce come Pirandello reagisse in privato ai doni e alle lettere di D'Annunzio ': «... accanto alla lettera dannunziana posata sul tavolo, c'era una scatola d'argento con sopra una delle imprese e un motto di D'Annunzio. La scatola era piena di sigarette. Pirandello ne offrì, ne accese una e la buttò disgustato. Erano sigarette profumate di una forte es­senza di rose. «Sempre il solito», disse riferendosi a D'An­nunzio. Messaggio e dono erano arrivati pel tramite d'una persona, perchè D'Annunzio pare ignorasse l'istituzione della posta... Si parlò di D'Annunzio. Pirandello lo aveva conosciuto nella sua giovinezza a Roma, e più visto che conosciuto...». In quei tempi, che sono i tempi del Fleres, ricordati da D'An­nunzio nella sua lettera, Pirandello trovava lo stile e i perso­naggi dannunziani «straordinariamente ridicoli» e si chiedeva «se, volendo così glorificare Gabriele D'Annunzio, per la cer­tezza della fama ch'egli ottiene in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi, non possa avvenire che da qui a tre secoli si debba per avventura rider di lui, così come noi oggi ridiamo del celeberrimo don Valeriano Castiglione, ornamento e splendorè della biblioteca dell'impareggiabile don Ferrante man­zoniano...» \

D'Annunzio, dal canto suo, al Vittoriale (secondo un'aned­dotica non controllabile) pare che una volta legasse due rane per una zampetta, e dopo averle battezzate una «Pirandello», l'altra «Sem Benelli», si divertisse a vederle bisticciare e di­battersi fra loro.

Il Fascismo degli ultimi anni

Nel novembre del 1934 a Pirandello venne assegnato il premio Nobel, e nel dicembre egli si recò a Stoccolma, per ri­cevere gli attestati del premio. In quell'occasione scrisse un articolo per Le Journal di Parigi (i° dicembre 1934), intito­lato Suis-je un destructeur? dove si legge: «... si è scritto che sono stato un precursore del fascismo. Nella misura in cui il fascismo è stato il rifiuto di tanta dottrina preconcetta, la vo­lontà d'adattarsi alla realtà, di mutare l'azione man mano che questa realtà si modifica, credo che si possa dire che ne sono stato un precursore... Occorrono dei Cesari e degli Ottavii perchè possano esistere dei Virgilii...». Il Nobel dovette dare qualche capogiro a Pirandello se potè fargli slittare sulle lab­bra quel Virgilio riferito a se stesso, sotto la tutela storica di quel Cesare od Augusto che era Mussolini. (In privato invece qualche tempo prima aveva qualificato molto pesantemente il Ludwig che si era permesso di dire che la sua arte era un'arte fascista)1. Quanto a Pirandello precursore del fascismo, non

era mancata certo la superficiale piaggeria di coloro che gliene avevano dato la qualifica. Scriveva per esempio il Pasini «... la gente ragionevole non può non essere convinta che, se il fascismo ha avuto dei precursori, il Pirandello merita fra essi un posto, e non degli ultimi.

In lui c'era, assai prima che scoppiasse la guerra mondiale, la coscienza di una romanità...».

Di ritorno a Roma dal Nobel, Pirandello non ebbe alcun festeggiamento ufficiale. «... Fu veramente ventilata ricorda Gian Gaspare Napolitano1 la candidatura di Mussolini (al premio per la pace), come promotore del «patto a quattro»? Si spiegherebbero così certe zone di silenzio, imbarazzi, esita­zioni... 2». «Laureato sontuosamente a Stoccolma», continua Gian Gaspare Napolitano, al ritorno, al suo arrivo a Roma, alla stazione non c'era nessuno: solo «Massimo Bontempelli andò a prenderlo, un mattino presto, di freddo e nebbia. Lo accom­pagnava Paola Masino. Non c'erano giornalisti o fotografi ad attendere il premiato, nessuno. E sbucando dal treno e abbrac­ciando gli amici, dentro quella nebbia, la fantasia di Pirandello si accese all'improvviso. «Vedi, siamo solo noi tre al mondo, solo noi tre», disse a Massimo.

Qualche giorno dopo Bontempelli si fece promotore di una cena per Pirandello, alla «Trattoria del Buco», accanto al Col­legio Romano. Era stata preparata, nell'ultima saletta, una ta­vola a ferro di cavallo, ornata di qualche esausto garofano. Ma qualche cosa non dovè funzionare, perchè arrivò molta meno gente del previsto, e all'ultimo minuto, quando non era più possibile aspettare i ritardatari, furono levati in tutta fretta diversi coperti, perchè il festeggiato non si rendesse conto dei vuoti».

Pochi amici, più tardi, per iniziativa di Corrado Alvaro gli si riunirono intorno privatamente, i quali però, dice Alvaro, pareva avessero più che altro l'aria di chi si congratula con un fortunato.

Ma il Duce volle ufficialmente riceverlo. Si legge su L'Italia letteraria del 5 gennaio 1935 il breve comunicato: «Il Duce ha ricevuto Luigi Pirandello, che è rientrato a Roma dopo il suo giro nel nord, e gli ha espresso il suo compiacimento per Passegnazione del Premio Nobel. L'accademico ha riferito sul­le manifestazioni di Stoccolma e di Praga (dove era stata rap­presentata per la prima volta Noti si sa come) e ha presentato al Duce la proposta di creare a Roma un Teatro Nazionale di prosa per una Compagnia stabile, utilizzando il Teatro Argen­tina». (Infatti uno dei taciti propositi di Pirandello, in questo rinnovato accostarsi a Mussolini, era di ottènere gli aiuti neces­sari per fondare un teatro di Stato: la sua antica appassionata e sempre frustrata aspirazione).

Uscito dal colloquio, Pirandello tornò a casa alquanto urta­to. Erano gli anni in cui egli si era platonicamente innamorato della sua attrice preferita, Marta Abba. Riferisce Alvaro ': «(Di Mussolini) disse: «È un uomo volgare», e raccontò che colui gli aveva rimproverato il suo ritegno, e gli aveva detto testualmente: «Quando si ama una donna non si fanno tante storie, la si butta su un divano».

Così Pirandello, per caso, o, più probabilmente, per in­conscio ricorso, ritorceva su Mussolini l'epiteto ingiurioso che Amendola gli aveva inflitto dieci anni prima1.

Si succedono da ora in poi le testimonianze esteriori di una fede fascista di Pirandello di cui c'è motivo di dubitare.

Dichiarata la guerra d'Etiopia, Pirandello, di ritorno da una sua permanenza all'estero, a C. B. che l'intervistava per L'Italia letteraria (27 ottobre 1935), dichiarava: «Sono tornato in Italia da pochi giorni: non volevo star lontano in un momento politico così delicato...» Poco più tardi versava «alla Patria», con altri oggetti d'oro che aveva, anche la medaglia del Nobel. Così riferisce il fatto Manlio Lo Vecchio-Musti: «Durante la campagna etiopica, egli dona alla Patria tutto l'oro che ha, compresa la medaglia del premio Nobel, gesto che suscita in Svezia l'indignazione degli ipocriti e degli imbecilli. Natural­mente non cura di loro...».

Il 29 ottobre di questo stesso anno 1935, pronunzia, di fronte a Mussolini, al Teatro Argentina, un discorso. A pro­posito della guerra d'Etiopia dice: «... solenne nella sua epica drammaticità, ma anche popolarmente vivace e animoso è que­sto felice momento di vita vera, di vita in piedi, di fede intre­pida, a cui tutti in Italia, giovani e vecchi, vecchi d'anni ma di spirito giovani perchè nessun vero italiano oggi può permetter­si l'insipido gusto d'esser vecchio, tutti siamo chiamati attori di una rappresentazione governata da necessità fatali, ricca di sensi e avventurosa, a cui il mondo dovrebbe guardare con an­siosa ammirazione e che invece spia con sospetto; non più abi­tuato ad assistere a uno spettacolo di vera e grande bellezza. Noi che lo diamo e lo viviamo, questo momento, sappiamo quanto la sua bellezza importi di pene e d'ansie e di vigilie, di obbedienza d'ogni giorno, di disciplina morale, e quanto di forza per negarsi a ogni pigrizia e a ogni viltà...».

Mussolini sembra finalmente aver detto di sì al Teatro di Stato, e questo discorso vuole essere un pubblico ringrazia­mento e uno sprone a tener fede all'impegno e si tratta del­l'ultima testimonianza del fascismo di Pirandello di cui esiste una pubblica prova1:«...L'opera nostra [cioè l'impresa africana], disse lo scrittore, quando sarà compiuta, non risen­tirà di questa prima accoglienza ostile che oggi le fa il mondo... L'Autore di questa nostra grande opera in atto è anch'egli un Poeta che sa bene il fatto suo. Vero uomo di teatro, eroe prov­videnziale che Dio al momento giusto ha voluto concedere al­l'Italia, agisce, autore e protagonista, nel Teatro dei Secoli; e ogni volta opportunamente sa dire la giusta parola a tutti, la giusta battuta, sia che la sua voce debba essere udita e vagliata oltre i confini della Patria, sia che in Patria parli alle milizie che partono per conquistare al popolo italiano, che ne ha diritto e bisogno, un po' di terra al sole, o che parli con tanto amore della terra e con tanta umanità agli agricoltori perchè non ci la­scino mancare il pane quotidiano di cui, ove occorra, sapremo tutti accontentarci; o che parli ai poeti, quando vuole che il popolo sia ammesso al teatro, non certo per assistere a effimeri e vani giuochi scenici, ma per nutrire e ritemprare il suo spirito con opere degne di questi tempi di sensi svegli e di serissimi impegni... Auguriamoci, o Signori, che i provvedimenti già pre­si e tutti quelli maggiori e più effettivi ancora da prendere, dia­no presto fondamento e decoro al nostro teatro... e salutiamo intanto, con cuore fedele e con cuore devoto fino all'estremo, il nostro Duce».

È un tentativo ingenuo di Pirandello di farsi machiavelli­co. Chiuso ormai in un unico culto, in un esercizio quasi sacer­dotale del teatro, tenta con eccessiva semplicità di volgere al fine del suo teatro le forze politiche che per un momento crede pieghevoli al suo desiderio, ma che risultano inutilizzabili e ne­miche, come del resto, finita l'ora degli equivoci, voleva il sen­so della sua opera.

L'accostamento a Mussolini, una volta ricco di fiducia e di entusiasmo, si fa alla fine quello utilitario con il potente che po­trebbe sovvenzionargli un Teatro di Stato. Pirandello accarezza per qualche tempo questa illusione, ma ingannandosi ancora.

Un anno dopo lo scrittore muore e non certo secondo il co­stume fascista. Anzi il rifiuto preventivo, per volontà testamen­taria, di ogni cerimonia ufficiale che accompagni i suoi funerali, mette in grande imbarazzo i gerarchi del regime. Anche se non è esatta l'ipotesi di Alvaro secondo cui quel testamento avrebbe avuto «un valore di riparazione di ogni possibile errore e de­bolezza» in senso politico, poiché il foglio ingiallito su cui era­no le ultime volontà dello scrittore risale al 1911, come ha pre­cisato Stefano Pirandello2, tuttavia è certo che la cosa provocò, se non sgomento, di certo irritazione nelle sfere della gerarchia. Lo stesso Alvaro, che fu presente a questi fatti, racconta1: «... Arrivò il rappresentante del governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio... lesse e rilesse... se lo copiò, e si domandava co­me avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo celebre che va via in quel modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio soprattutto, chiedendo di essere coperto appena da un lenzuolo, ma da nessuna uniforme, da nessuna camicia nera come era di rito, andare via come un povero, senza commemorazione, sen­za feste... Disse: "Se n'è andato sbattendo la porta"... E fu istruttivo, in quelle ventiquattr'ore, sapere che sul tavolo del più potente tra i cittadini si battevano indignati i pugni, che ufficialmente era negato allo scomparso un discorso maggiore di quello consentito a un fatto di cronaca...».

Un giornalista dell'epoca, Marco Ramperti ( sull'Illustrazio­ne Italiana, 20 dicembre 1936) protestava: «...ma che carro dei poveri; ma che ceneri al vento! Luigi Pirandello entra oggi nel Pantheon dell'Impero italiano e quaranta milioni d'Italiani seguono il suo feretro a capo chino...».

Un tentativo di recupero fascista e un bilancio politico del­l'opera pirandelliana si cerca di fare, non in Italia, ma in Ger­mania, sulla Koelnische Zeitung2 : «Il defunto poeta siciliano ha avuto una parte importante nella politica culturale del suo paese. Egli era uno dei più energici oaladini di un teatro na­zionale italiano di carattere statale. La vivacità di Pirandello in questo compito si appoggiava anche sul grande interesse che egli professava per le questioni sociali. Lo Stato fascista che nella natura energica e attivista del poeta riconosceva delle for­ze affini ha appoggiato Pirandello e lo ha posto in prima linea nella lotta per la cultura nazionale. Certo l'autore dell'Enrico IV non era un rappresentante della tradizione, ma il fascismo, come è dimostrato dall'esempio del capo dei futuristi, Marinetti, non ha mai concepito l'audacia e il radicalismo artistico degli avanguardisti italiani come delle qualità dirette contro i suoi scopi, anzi ha sentito nel rinnovamento delle forme da essi proclamato un'espressione dello stesso spirito che lo ani­ma come movimento politico».

Da parte nostra, vorremmo concludere sul fascismo di Pi­randello ricordando che egli, e in qualche maniera conta, ten­ne sempre a distinguere, quando gli capitò di parlarne, fra una arte che idealisticamente riteneva pura e autonoma, e la poli­tica. Sapeva poi, per sua continua esperienza, che, quando scri­veva, attingeva a una sfera del tutto priva di comunicazione con la vita ufficiale e esterna alla quale per altri versi aderiva. Al Convegno Volta del 1934 egli disse in proposito parole molto precise e certo non conformiste rispetto ai tempi, con le quali qui vogliamo finire: «... l'arte può sì anticipare la vita, predir­la; ma invalorar quella d'oggi, prospettarla sub specie aeternitatis, è raro e assai difficile che possa farlo... Farlo di proposito, cioè con l'intenzione che sia azione pratica e volontaria del mo­mento, anche per fini nobilissimi ma estranei all'arte, sarà far politica e non arte... [sarà farla] mancare a se stessa come arte... Si pensi che il mistero d'ogni nascita artistica è il mistero stesso d'ogni nascita naturale; non cosa che si possa apposta fabbricare ma che deve naturalmente nascere... sicché, volen­dosi per se stessa e senz'altri fini che in sè non potrà che esser pura, scevra d'ogni fine interessato; e se tale non è, perciò solo non sarà più opera d'arte, e come tale dunque condannabile, non solo in nome delle cose offese, ma sopra tutto in nome stesso dell'arte».