Capitolo Quarto


La polìtica e la guerra


Il voto ai Fasci

I vecchi e i giovani, romanzo che si svolge intorno agli avve­nimenti dei Fasci siciliani e a quelli dello scandalo della Banca Romana, raccoglie anche le opinioni politiche di Pirandello. Queste appaiono pronunciate con calore e appassionamento, ma riguardano solo l'attenzione meno impegnata dello scrit­tore, tutto assorto invece in un esame introverso delle cose, e nella modificazione e nel recupero della realtà in una diversa oggettività simbolica. Lo scrittore stesso, agli inizi e alla fine della carriera, tenne a distinguere l'opera dell'artista dai suoi impegni politici1.

Inoltre, quando le opinioni politiche sono passate dalla vita pratica, dalla conversazione per esempio con gli amici e dalle eventuali private dichiarazioni di voto, nell'opera e nei saggi giornalistici, esse hanno mantenuto un percepibile carattere di indifferenza, nonostante la foga oratoria e l'apparente con­vinzione. Lo scrittore viveva in un suo isolamento, e riusciva a distinguere a fondo in certe ragioni degli altri, ma non in quelle della società politica che lo circondava. Per la epidermicità delle sue reazioni politiche, Pirandello, come uomo pub­blico, ci appare privo di reale autonomia, confuso con gli uo­mini della sua classe sociale. Tutto quanto egli va dicendo è infatti sempre reperibile in questa o in quella divulgata opi­nione dei suoi immediati contemporanei.

C'era in lui una spinta immediata, primaria, verso le posi­zioni protestatarie, mentre l'oggetto della protesta gli era alla fin fine indifferente. Da giovane fu con i radicali, eredi diretti del Partito d'Azione, da vecchio, fu fascista. Nel periodo di mezzo, potè essere insieme estremista, acerbamente antigiolittiano, garibaldino, «anarchico individualista», e trovarsi d'ac­cordo con il riformismo giolittiano, con il moderatismo del Corriere della Sera di Albertini, con il liberalesimo alla Croce, con l'interventismo che conciliava i contrasti.

Coerente invece, sotto l'onda periodica del ribellismo (anar­chico o fascista), rimaneva la sua partecipazione alle sorti del suo ceto. Egli, come uomo sociale, non fu diverso dagli altri componenti la piccola borghesia meridionale che fu moderata prima e fascista poi.

Tutto ciò forse stupirà qualcuno e apparirà poco coerente con i ben noti significati dell'opera; e lo è infatti. Ma, punto per punto, potremo vedere le ragioni documentarie di tali con­clusioni.

Occorre ripercorrere brevemente la vicenda delle reazioni di Pirandello ai vari tempi della cronaca politica italiana. Egli partì per Bonn, da Palermo e da Roma, con alcune idee per la mente, alquanto confuse, che stavano fra il patriottismo uma­nistico e borghese alla Carducci (alla maniera del quale, in un componimento di Mal giocondo, aveva classicisticamente vi­sto, tra le colonne di un tempio dorico akragantino, «rozzo un pastor, del gregge non curante, cullar l'ozio dell'anima villana nell'abbandon di molle, araba cantilena»; aggiungendo: «e nel languor monotono del canto la rinunzia del popolo sor­presi agl'ideali sacri che fan le patrie forti»), e il radicalismo e il socialismo alla Rapisardi, appreso a Girgenti, a contatto col De Luca e all'Università di Palermo. A sorreggere il vagante e vario mutare delle implicazioni e degli impegni, rimane sempre immobile in lui il sostegno del patriottismo risorgimentale, suc­chiato, quasi letteralmente, col latte materno. A Bonn sembra dimenticarsi di ogni ideologia politica. Bonn, tranquilla citta­dina, periferica e scolastica, di un Impero, che era costituzio­nale quasi solo di nome, dove il Kaiser era Kriegsherr, e «re per diritto divino», non dava occasioni di distrazione politica. La Germania era quella del 1890, ordinatissima e reazionaria, in cui già da più di un decennio Bismarck aveva abbandonato il Kulturkampf, per schierarsi con i conservatori e con il Cen­tro cattolico, e aveva messo nell'illegalità il partito socialista. Il partito operaio tedesco (con Bernstein e Kautski) svolgeva le sue lotte certo lontano dalla cittadina universitaria. Il Neue Kurs non riguardava Bonn come non la riguardava la Seconda Internazionale del 1889. E dalla sua Università, che era intito­lata a Federico Guglielmo, venivano espulsi gli studenti social­democratici.

Quando, tornando dalla Germania, Pirandello oltrepassa il confine italiano, è come se provenga da un limbo. Si descrive, nella poesia Ritorno che abbiamo già ricordata, sul treno, a Chiasso, burlescamente svagato: chiede, al primo passante, no­tizie politiche: «...chiesi se tuttor fosse il pontefice pri­gioniero a Roma, se una ancor fosse la patria, se repubblica o col re». In Italia, e in Sicilia, trova invece un clima politico arroventato e tempestoso.

Il primo maggio 1891, i lavoratori italiani, per la prima volta, hanno celebrato la Festa del Lavoro (Pirandello si trovava in quel periodo in Italia). Nello stesso anno Filippo Turati ha fondato la Critica sociale. Caduto il Crispi, dopo l'intermezzo breve del ministero Di Rudinì, nel maggio 1892, è salito al po­tere un ministero composto di uomini della Sinistra, guidati da Giolitti. È stato così possibile fondare nella legalità il Partito socialista dei lavoratori italiani. In mezzo a queste suggestioni il neo-dottore riprende contatto, a Girgenti, con i suoi antichi amici radicali, ora in parte passati al socialismo. Ritornato a Roma per stabilirvisi definitivamente, non interrompe i rap­porti con loro.


Indette le nuove elezioni nell'ottobre del 1892, egli infatti si schiera a fianco del candidato dei Fasci, Giuseppe Salvioli, professore di Storia del diritto all'Università di Palermo, che si presentava nel collegio di Girgenti; e anzi fa parte del Co­mitato elettorale. Nel supplemento elettorale del novembre 1892, de La riforma sociale, il periodico diretto a Girgenti da Francesco De Luca, appare, con le firme di altri, anche quella di Luigi Pirandello. Egli aveva anche così telegrafato da Roma, il 25 novembre 1892: «Se voti animo andassero urna, i miei soli assicurerebbero trionfo professor Salvioli». (Salvioli non fu eletto).

Nel settembre del 1893, l'anno in cui l'organizzazione dei Fasci si diffuse in quasi tutte le province siciliane, Pirandello accenna, in un articolo apparso su La nazione letteraria di Fi­renze2,. ai sommovimenti sociali in corso. Lo fa però in ma­niera già molto dubitosa e problematica, e, piuttosto che ai fatti italiani e alla difficile organizzazione della lotta di classe da parte di pochi volenterosi che tentavano di scuotere le masse siciliane, facendo riferimento, nella dimensione letteraria, a un romanzo, La malattia del secolo, di Max Nordau. Ma, nono­stante tutti i dubbi, sembra ancora buon compagno di strada dei socialisti. Commentando i pensieri di un eroe del romanzo di Nordau, dice infatti che «astraendosi in larghe teorie d'in­dole pessimistica, non pensa che egli fa della filosofia a danno di chi soffre, e che non può pretendersi dai superstiti che non piangano e non maledicano alla morte, benché il pianto e la maledizione siano invano... Si astrae anche dal momento storico; e s'egli vede la rovina del vecchio mondo ideale, vuol però an­che sapere ciò che a questo mondo s'intenda sostituire, e do­manda agli agitatori il perchè della loro agitazione. Non ne sente egli dunque la fatalità? Egli domanda dei concetti d'or­dine al disordine! Ma la calma s'è fatta sempre dopo ogni tem­pesta. Ferve negli spiriti un continuo agitarsi d'ombre che accennan leste e dispaiono, procellarie della lotta. E par che tutta la miseria d'una storia secolare aggruppatasi in un turbine vo­glia urtare, scrollare il vecchio mondo. E noi viviamo in un tramenio vertiginoso che da tutti i lati ci preme, urta e logora». Quindi la solita spirale nichilistica porta Pirandello a riferire e ripetere l'immagine apocalittica, allora da qualcuno vagheg­giata, di una fine di secolo, come «tramonto d'un'intera conce­zione religiosa, politica e filosofica... un crepuscolo di popoli; non solo una fin de siècle ma una fin de race». E l'articolo si conclude con l'attesa d'una vaga catastrofe: «Par che tutto... tremi e tentenni. Alla calma fiduciosa di certa gente serena non credo... Siamo certamente alla vigilia d'un enorme avvenimen­to...». Parole da riconnettere certo anche con l'attesa rivolu­zionaria dei dirigenti dei Fasci, amici dello scrittore. Il quale, per suo conto, non sapeva fare a meno di dilatare intellettuali­sticamente l'avvenimento.

La fine del 1893 è contrassegnata dallo scandalo della Banca Romana, in cui vennero coinvolti uomini della vecchia genera­zione, come Crispi, insieme a quelli della nuova, come Giolitti. Pirandello appare convinto dalla propaganda antigiolittiana, e, in seguito all'eccidio di Aigues-Mortes, da quella nazionalistica e antiparlamentare. È in tale occasione, forse, che gli si precisa quel suo concetto d'interpretazione storico-politica, secondo cui due generazioni esistevano allora in Italia: quella dei vec­chi, che, fatta la rivoluzione risorgimentale, avevano ammai­nato la bandiera, e quella dei giovani che apparivano del tutto inetti a riaffermare le redini della storia. Schema criticamente superficiale, ma suggestivo e custodito a lungo nel cuore, an­che al di là della scrittura de I vecchi e i giovani, almeno fino agli anni della guerra mondiale.

Intanto l'avventura dei Fasci è andata a male. Crispi, rim­padronitosi del potere, ha instaurato lo stato d'assedio in Si­cilia, e represso nella violenza le ribellioni dei contadini e degli operai. I capi sono stati condannati dai tribunali militari a pene inaudite; anche Francesco De Luca ha subito una pesante con­danna detentiva. E il partito socialista viene dichiarato illegale.

Pirandello odiò la repressione antisiciliana del governo, ma stranamente, almeno in un secondo tempo, quando scrisse I vecchi e i giovani non si conoscono le sue reazioni immediate

- prosciolse il Crispi dalla responsabilità degli eccidi e delle violenze. Nel romanzo, cioè intorno al 1908, sembra partecipe del riflusso delle simpatie nazionalistiche nei riguardi del Cri­spi, e gli eleva lodi incondizionate. Lo chiama «il vecchio glo­rioso statista», «quel vecchio venerando che ancora intorno all'avvenire della patria s'illudeva come un fanciullo».

Certo, passa poco tempo dalle repressioni siciliane che già Pirandello appare condividere gli indirizzi antisocialistici della politica crispina. Sorgeva allora in Italia la Lega per la difesa della libertà, in cui i socialisti trovarono la solidarietà di tutti i gruppi radicali e repubblicani; ma Pirandello se ne astenne, preferendo ripiegare in un atteggiamento avverso al sociali­smo, come appare esplicito in alcuni scritti del 1895 e 1896. Nel Natale del 1895, mentre i suoi ex compagni di strada sta­vano scontando il secondo anno di galera, egli improvvisamente ripiegava verso Cristo (con altri letterati del tempo. Anche il vicino Capuana nel 1894 si era dichiarato «credente»): «... santa adesso appar la tua follia anche al mio sguardo, o dolce redentore. E torna, io prego, a noi, torna, Messia, a predicar l'amor; torna con la man pura a battere alle porte infime ancor, dove una gente oscura di fame e freddo muor!


- Altri, del rosso tuo mantello avvolto, d'odio nutrendo la gentil parola, batte alle oscure case, e infosca il volto de la miseria. Vola già il grido della guerra...». Il 23 gennaio del 1896 pubblica, su La critica (di Monaldi), una recensione a Tempeste, raccolta di componimenti poetici «socialisti» di Ada Negri. Alla lettura di quei versi, l'irritazione di Pirandello sale al colmo: «Nego, dice, che la lettura dei libri algebrici di Carlo Marx possa ispirar sul serio un poeta!». Quanto ai so­cialisti, che si battono in piazza, che fanno i comizi pieni di «frasi fatte, di luoghi comuni gonfiati dall'enfasi», ai quali si ispira la «poetessa ribelle», la «sacerdotessa socialista», non sono che «tanti spostati, ciarlatani di professione, e oggi na­turalmente socialisti», autori di «delittuose scempiaggini» (tali saranno i propagandisti dei Fasci girgentani ne I vecchi e i giovani). Il partito socialista è ora il «partito di moda».

«Bravi vecchietti»

Dimessosi nel 1896, ancora una volta, e definitivamente, il Crispi, gli ultimi anni del secolo trascorrono in Italia in mezzo ai tentativi di restaurazione autoritaria: eroi del momento, Umberto I, Di Rudinì (sotto il cui governo si svolsero gli ec­cidi di Milano del 1898) e il Pelloux. La volontà di screditare e di togliere potere al Parlamento è ora scoperta nelle classi dirigenti. In questo periodo la posizione di Pirandello è incerta e priva di coerenza. Egli mantiene contatti personali, se non più coi socialisti, con i repubblicani e i radicali. È del luglio 1897 infatti una lettera a Napoleone Colajanni3, in cui egli si offre come collaboratore di un giornale radicale che sta per pub­blicarsi (non sono nella lettera espresse dichiarazioni di fede politica, ma queste dovrebbero essere sottintese in chi si ap­presti a tenere una rubrica in un giornale d'opposizione): «... avrei proprio bisogno di guadagnare qualch'altra cosa oltre al misero stipendio di professore straordinario... e allo scarso provento che mi viene dai lavori letterari così mal ricompen­sati nel nostro paese. Volentieri perciò, potendo, entrerei a far parte della redazione del nuovo giornale che il partito radicale fonderà a Roma, nel prossimo ottobre, per qualche rubrica let­teraria o di varietà o teatrale o che so io.


Potrebbe ella, mio illustre amico, proporre e raccomandare il mio nome a qualcuno dei più autorevoli del Partito radicale? Gliene sarò gratissimo». Appena qualche anno dopo, nel 1901, Pirandello scrive una breve poesia4, intitolata Bravi vecchietti, che è una sintesi di atteggiamenti potenzialmente sciovinistici, e antiparlamentari, che sono gli stessi degli incunaboli del na­zionalismo italiano; sempre però in un'intonazione risorgimen­tale, garibaldina, irredentista, anticlericale e massonica: «Sì, v'ajutò la Francia. Saldaste voi de' gravi debiti il conto e, mancia, Nizza e Savoja. Bravi, vecchietti, bravi... Ma, oh! vi disse poi badiam: le Sante Chiavi sian rispettate!

- E voi, obbedienti... Bravi, vecchietti, bravi... E quel­l'Eroe sventato che a la Città degli avi correa, fu al piè bol­lato da voi, prudenti... Bravi, vecchietti, bravi... Scavi or la talpa nera Roma soppiatta, scavi la talpa prigioniera...

- Voi, tolleranza! Bravi, vecchietti, bravi... E a chi pro­vince e figli vi tien tuttora schiavi, gl'imperiali artigli lec­cate, umili... Bravi, vecchietti, bravi... Abbiate il nostro encomio: siate modesti e savi. Che bel gerontocomio vi edificaste! Bravi, vecchietti, bravi...».

Di indole crispina e post-risorgimentale è anche il misogallismo pirandelliano sempre riaffiorante nella specie per lo più di un nazionalismo letterario, volto a difendere l'originalità, o la superiorità delle opere della mente italiana di fronte a quelle straniere, e a combattere gli imitatori delle cose di Fran­cia (e fra questi soprattutto il D'Annunzio). In una lettera in versi pubblicata su La critica (di Monaldi) il 28 marzo 1896, e che comincia: «Serva sua, serva sua, Signora Gallia!», chiede con ironia alla Francia quali siano i libri che si debbano leggere quest'anno, chiede se D'Annunzio debba essere ritenuto un bravo romanziere, dal momento che è stato tradotto in Francia (anzi ritradotto, poiché ha attinto a larghe mani dai Francesi), e conclude con un curioso e gratuito epigramma contro i poeti simbolisti francesi, che, possiamo sbagliarci, ma ci pare che Pirandello conoscesse poco: «Verlaine è morto, e non mi so dar pace. Condoglianze! La musa ora da balia faccia al mio Mallarmé che troppo tace».

I letterati italiani, Pirandello dice, e lo ripete ogni volta che può, sono come diceva il Guerrazzi, «scimmie e non uomini!», e siccome «i Francesi, egli aggiunge5, sono, com'io credo, scimmie alla loro volta, doppia consolazione per noi: scimmie di scimmie!» Nell'Umorismo (1908) Pirandello rivendica con grande calore la piena indipendenza e magari superiorità degli scrittori umoristici italiani, rispetto a quelli stranieri, e, nel 1936, di euforia in euforia, ma questa volta nella considera­zione egocentrica di se stesso, vincitore del Nobel, e al primo posto in Europa fra gli autori drammatici, nella prefazione a una Storia del teatro italiano, edita a Milano, sarà alla tesi del primato del teatro italiano, presente e passato, su quello di ogni altra nazione.

Ma l'inquinamento del patriottismo in senso sciovinistico rimane in ultima analisi solo marginale nello scrittore. Egli si abbandonò più che altro a un mimetismo occasionale nei ri­guardi della propaganda giornalistica contemporanea, senza de­siderare di inserirsi nella cultura del tempo tutta pervasa della novità di originali impegni nazionalistici. Fu lontano dall'ora­toria moralistica e dall'idealismo post-hegeliano di un Oriani, come dalle concezioni espansionistiche ed imperialistiche quali venivano espresse su 11 regno di Corradini6, come dalla pervi­cace retorica dannunziana e pascoliana, dai concetti irrazionali­stici di un Barrès e da quelli pseudo-razionalistici ¿all'Action française e del Maurras.


Solo in parte corrisponde a quello dell'epoca l'anticlerica­lismo di Pirandello, che è sì, ancora, un anticlericalismo laico, garibaldino e massonico (si ricordi che il padre dello scrittore fu un numero della setta), ma non semplicistico e anzi sollevato a occasione per le inchieste del suo moralismo. Una vena anti­clericale di tal genere corre tutta l'opera dagli inizi fin quasi alla fine. S'incontrano in essa molti preti e quasi tutti tendenziosa­mente segnati. Ne I vecchi e i giovani, è il vescovo, monsignor Montoro, che muove mondanamente matrimoni e forze cleri­cali nel collegio elettorale di Girgenti «città di preti e di cam­pane a morto»; nel trittico di novelle intitolato Tonache di Montelusa (Montelusa è una riconoscibilissima Girgenti), in cui è un tempo di commedia e di farsa anticlericale, è un altro vescovo, Monsignor Partanna, uno «scheletro intabarrato... alto, curvo su la sua trista magrezza, proteso il collo, le tumide e livide labbra in fuori, nello sforzo di tener ritta la faccia incartapecorita, con gli occhialacci neri sull'adunco naso», il qua­le, nonostante la terribilità ortodossa del suo rigore pastorale finisce per stornare per la dote di un'educanda, misteriosa, equi­voca nipote, i fondi destinati al ritorno a Montelusa dei fami­gerati Liguorini scacciati nel 1860. E Montelusa è tutto un paese clericale: trenta chiese, cinque conventi di suore dedite ai dolci e ai rosolii («quei buoni dolci di miele e di pasta reale, infiocchettati e avvolti in fili d'argento! quei buoni rosolii che sapevano d'anice e di cannella!») e confraternite, processioni, e canonici del Capitolo ai ferri corti con le confraternite, pretini che promettono pianticelle di fragole alle monacelle, e ori, gem­me e manti stellati della Madonna che finiscono in pegno alla Banca Cattolica, e «le donne dei contadini,... o come ripete­vano i reverendi canonici del Capitolo le sgualdrinelle, le sgualdrinelle, che... non volevano sciuparsi gli abiti di seta, con cui si paravano per quella processione, dando uno spetta­colo di sacrilega vanità atteggiate tutte come la SS. Immaco­lata, con le mani un po' levate e aperte innanzi al seno, piene d'anelli in tutte le dita, con lo scialle di seta appuntato con gli spilli alle spalle, gli occhi volti al cielo, e tutti i pendagli e tutti i lagrimoni degli orecchini e delle spille e dei braccialetti, cion­dolanti a ogni passo», e infine quel terribile Monsignor Landolina, figura che appare in altre novelle e commedie e romanzi, ora prete, ora canonico, ora monsignore, fra le più riuscite di Pirandello; personaggio che riassume i motivi più seri dell'an­ticlericalismo dello scrittore. «Monsignor Landolina era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se la gran luce di quella bianca ariosa cameretta in cui viveva lo avesse non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avesse reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti e sugli occhi chiari ovati le palpebre più esili d'un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia». Monsi­gnor Landolina è certo il prete-capolavoro di Pirandello, e pro­fondo e ampio è il senso della sua esemplarità: in lui può leg­gersi implicita tutta una storia antica di stortura gesuitica. La sua ambiguità non si esaurisce in una vicenda personale o in quella dell'ambiente a lui più vicino; vi si intravede quel ma­chiavellismo della pietà e della carità che è forse il peccato più costante e più. grave contro il Vangelo, la fede contaminata con gli strumenti secolari e la carità con l'usura.

La Chiesa cattolica rappresentava più immediatamente agli occhi di Pirandello l'aspetto fenomenico della religione; egli era nato e viveva in mezzo a una comunità cattolica che coin­cideva per molti aspetti con la stessa società italiana e, da que­sta Chiesa, egli stesso si era strappato, ancora bambino, con violenza e lacerazione. Per qualche segreta analogia, nelle sue opere vi sono degli spretati nella persuasione delle dottrine positivistiche. Ce n'è (e sono forse i preti più autobiografici) che sentono la nuova condizione come un dramma irresoluto e smarriscono nel vuoto esistenziale la perduta vocazione reli­giosa, rasentando il suicidio7; e c'è un prete che ha perduto la fede e tenta ancora la carità8.


Di solito Pirandello sembra approfittare, quando fra i suoi personaggi vi sono dei preti, di un'occasione particolarmente favorevole a dimostrare meglio quella sua tesi della contrad­dittorietà tra forma (in questo caso quella rilevata del sacerdo­zio) e vita. La figura del sacerdote fallito, e perciò ipocrita, gli poteva poi essere occasionalmente cara, perchè in una persona ufficialmente investita di un incarico sovrumano di autorevo­lezza e guida, egli poteva smascherare anche il senso di una più disastrosa insufficienza morale. Per questo particolare senso i suoi canonici politicanti, i suoi vescovi, i suoi preti intriganti sfuggono alla semplice definizione di personaggi schematici da novella e da romanzo naturalista, sono ben più complessi sulla pagina (e poi sulla scena: si pensi al prete Landolina, antago­nista del professor Toti in Vernaci, Giacomino', che viene in­vestito, alla fine, da quell'ultima battuta della commedia: «Vade retro, Satana!»), e sembrano provvisti di un senso più esemplare in mezzo a personaggi spesso di limite più ristretto e positivistico.

Riformismo

Per tornare a parlare dell'evoluzione politica di Pirandello, instauratasi l'èra giolittiana, egli fu antigovernativo in nome soprattutto del suo sicilianismo; poiché la politica economica adesso perseguita, favoriva il nord d'Italia e deprimeva la Si­cilia con tutto il meridione (e il giorno della condanna di Nun­zio Nasi, in casa Pirandello non si fece pranzo, tale fu il dispia­cere e la rabbia dello scrittore che si era augurato che il giovane uomo politico siciliano potesse affermarsi come l'antigiolitti9). Ma, in sostanza, egli fu d'accordo con la nuova politica mode­rata. Lo stesso scetticismo col quale guardava alle lotte so­ciali trovava continue conferme nel disordine e nella corrut­tela in cui ora si svolgeva per lo più la contrattazione fra le classi.


È in un clima giolittiano che nascono i contenuti politici de I vecchi e i giovani. In questo libro, lo scrittore vorrebbe accostarsi a precisi fatti della storia italiana; perciò, nonostante la scarsa pazienza del carattere e il poco tempo a disposizione si documentò diligentemente sui fatti e ne è prova quell'odore grezzo di stampa giornalistica che sentiamo spesso sulla pagina, e talora anche di pamphlet, riprodotti senza una sufficiente ela­borazione romanzesca. In quella riunione nella casa romana di Landò Laurentano fra discordi rappresentanti dei Fasci, i di­scorsi posti sulla bocca dei personaggi sembrano sunteggiati pezzi di cronaca e di oratoria gazzettiera; mentre un'analoga giustapposizione di opinioni date si avverte in tutte le altre parti del romanzo in cui si tenti di risolvere in un processo dinamico-narrativo una interpretazione o semplicemente un'e­sperienza di fatti politici. La qual cosa non esclude la presenza dei giudizi soggettivi dell'autore. Anzi questi, nel romanzo, ri­propone tutte le opinioni politiche per le quali, a partire dal­l'infanzia, è passata la sua indecisa convinzione. Riesce a su­perare le numerose, implicite ed esplicite contraddizioni che derivano dalla non avvenuta sintesi ideologica, con lo strata­gemma inconsciamente applicato, di affidare a vari personaggi, o a situazioni diverse, i vari ondeggiamenti della sua persua­sione. In questo modo, le opinioni dello scrittore che man mano che sfuggivano alle loro origini affettive tendevano a rivestire apparenze incoerenti, e spesso contrastanti, trova­vano di che convivere in un contesto drammatico. Ma solo che l'autore si volgesse un momento a considerare il quadro intero della sua coscienza, quale si andava riflettendo nel ro­manzo, ne rimaneva deluso, provava un senso di scettica ver­tigine, che è il senso ultimo, anche politico, del libro. I fatti si svolgono nel labirinto di una vita solo illusoriamente asso­ciata e la conclusione è una parabola di anarchia e di impo­tenza: sono le parole del personaggio di don Cosmo Lauren­tano, uno degli alter ego dello scrittore, che dice: «Una cosa sola è triste, cari miei: aver capito il giuoco! Dico il giuoco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deriden­doci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci an­che, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c'è più altra realtà... E dunque, non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclu­sione».

I vecchi e i giovani oltre a rivelare in una prova diretta l'inettitudine di Pirandello al romanzo storico, e tout-court alla storia, ci dimostrano il coesistere contraddittorio, in lui, delle estremistiche spinte anarchiche del piano intellettuale, o me­tafisico, con non altrettanto divulgate, finora, persuasioni di moderatismo economico sociale.


Lo scrittore Pirandello, identificandosi, in alcune parti del romanzo, col personaggio di Landò Laurentano, il nobile figlio di un principe10, e socialista sui generis, accenna alle linee di un disegno di riforma sociale. Considera, è vero, un'illusione la fiducia dei socialisti di potere «con le loro prediche, ...rom­pere quella dura scorza secolare di stupidità armata di diffi­denza e d'astuzie animalesche, che incrostava la mente dei contadini e dei solfarai di Sicilia. Come avevano potuto credere possibile una lotta di classe, dove mancava ogni connessione e saldezza di princìpi, di sentimenti e di propositi, non solo, ma la più rudimentale cultura, ogni coscienza?» Ma aggiunge: «Non una lotta di classe, impossibile in quelle condizioni, ma una cooperazione delle classi era da tentare, poiché in tutti gli ordini sociali in Sicilia era vivo e profondo il malcontento con­tro il governo italiano, per l'incuria sprezzante verso l'isola fin dal 1860. Da una parte il costume feudale, l'uso di trattar come bestie i contadini, e l'avarizia e l'usura; dall'altra l'odio inve­terato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia... il governo, senza darsi cura dei mali che da tanti anni affliggevano l'isola, senza rispetto né per la legge né per le pubbliche libertà, con l'inerzia o con le provocazioni aveva fa­vorito e stimolato il rapido formarsi di quelle associazioni pro­letarie che, se avessero subito ottenuto qualche miglioramento anche lieve dei patti colonici e minerarii, e se non fossero state sanguinosamente aizzate, presto, senza alcun dubbio, si sareb­bero sciolte da sè, prive com'erano d'ogni sentimento solidale e senza alcun lievito di coscienza o ombra di idealità». E al­trove: «Non c'era altro da volere, altro da fare per ora. E tanta esaltazione, dunque, e tanto fermento per ottenere ciò che forse nessuno, fuori dell'isola, avrebbe mai creduto che già non ci fosse: che in ogni casolare sparso nella campagna la lucernetta a olio non mostrasse più ai padri che ritornavano disfatti dal lavoro lo squallido sonno dei figliuoli digiuni e il focolare spen­to; che fossero posti in grado di divenire e di sentirsi uomini, tanti cui la miseria rendeva peggio che bruti. Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve migliora­mento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, ...sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri, senza tanto fragor di mi­nacce, senza bisogno d'assumere quelle arie d'apostoli, di pro­feti, di paladini. Oneste, modeste aspirazioni, quasi evangelica­mente disciplinate, da raggiungere grado a grado, col tempo e con la chiara coscienza del diritto negato!». È notevole la cau­tela riformistica: una riforma dei patti colonici, ma lieve-, un miglioramento dei magri salari, ma lieve-, e il tutto da raggiun­gere col tempo, a grado a grado. Tutto ciò, infine, appare come un senno del poi: non possiamo sapere quale sia stata la rea­zione immediata di Pirandello all'esplosione rivoluzionaria dei Fasci siciliani e alle repressioni crispine nel momento stesso in cui avvenivano, ma bene vediamo come lo scrittore, che ormai è sollecitato dalle nuove opinioni liberali dei tempi giolittiani, ce ne restituisca una interpretazione che è quella della nuova epo­ca. Dobbiamo ricordarci che ormai, nei tempi in cui il libro ve­niva scritto, è lasciata libera l'organizzazione degli operai perchè raggiungano un più elevato tenore di vita, che il governo si fa un dovere di non intervenire nei conflitti economici; che si va estenuando il socialismo apocalittico e mitologico col favorire l'adempimento del suo programma minimo; che si tenta di su­scitare una più attiva partecipazione degli industriali e dei pro­prietari terrieri perchè concorrano direttamente a risolvere la crisi sociale. Era un'epoca di riformismo in atto e Pirandello dimostra di partecipare alla temperie politica del momento, facendosi lui stesso riformista alla Giolitti, con una sfumatura paternalistica da tempi più antichi. Il suo Landò Laurentano, «Nei suoi vasti possedimenti in Sicilia ... aveva accordato ai con­tadini la più equa mezzadria, proibendo assolutamente al suo amministratore di gravare anche del minimo interesse le anti­cipazioni concesse con liberalità per la semente e per tutte le altre spese necessarie alla coltura dei campi; vi aveva fondato e manteneva a sue spese parecchie scuole rurali; ...pagava le spese di stampa d'un giornale...: La Nuova Età».

Se, come volle il Croce, il popolo italiano, dopo le espe­rienze del governo Crispino, fu «diviso in una parte conserva­trice, o piuttosto reazionaria per paura, plaudente ai metodi del Crispi, in un'altra esasperata e ribelle, che era quella dei socialisti, e in una terza, la liberale, che condannava le parole e gli atti eccessivi dei socialisti, ma riprovava non meno i me­todi reazionari11», si trovava Pirandello in quest'ultima parte, che è anche quella del Croce.


C'è una pagina tuttavia, ne I vecchi e i giovani, che par­rebbe invitare a conclusioni diverse. (Sono altre riflessioni di Landò Laurentano): «Potevano anche tutte quelle forme fit­tizie, investite dal flusso in un momento di tempesta, crolla­re... [7/ flusso] poteva in un momento di piena straripare e sconvolgere tutto. Ecco: a uno di questi momenti di piena egli anelava! Si era perciò immerso tutto nello studio delle nuove questioni sociali, nella critica di coloro che, armati di poderosi argomenti, tendevano ad abbattere dalle fondamenta una costituzione di cose comoda per alcuni, iniqua per la mag­gioranza degli uomini, e a destare nello stesso tempo in questa maggioranza una volontà e un sentimento che facessero impeto a scalzare, a distruggere, a disperdere tutte quelle forme im­poste da secoli, in cui la vita s'era ponderosamente irrigidita». È questa l'unica occasione in cui Pirandello adatta il suo noto corollario della perenne distruzione della forma sotto la spinta del flusso vitale, a un'idea di rivoluzione sociale. A leggere que­ste righe ci ritornano alla mente alcuni nodi delle teorie rivolu­zionarie del socialismo massimalista, o certi concetti, che sa­ranno cari al Gramsci, intorno alla rivoluzione che ridiscioglie d'impeto le cristallizzazioni delle ère sociali. Solo che in Piran­dello non è ombra di fondamento marxistico e chi sa se tra «coloro che armati di poderosi argomenti tendevano ad abbat­tere dalle fondamenta una costituzione di cose, ecc.» ci fosse anche «l'algebrico» autore de II capitale. Ma abbiamo buoni motivi per dubitare che Pirandello conoscesse anche solo An­tonio Labriola e Cafiero. Le proposizioni pirandelliane hanno un'origine segreta e personale e conseguenze soprattutto intel­lettuali, che si esauriscono in una vicenda soggettiva, quella dell'autore-personaggio in una individuale ansia di distruzio­ne anarchica del reale. Dopo tanto «anelare a questi momenti di piena», «a scalzare, a distruggere, a disperdere», Landò Laurentano, subito qualche rigo appresso, si propone una più lenta e più prudente azione politica: «Rendere coscienti le maggioranze, educarle, prepararle: ecco un ideale! Ma a quan­do l'attuazione? Opera lenta, lunga, e paziente anche questa purtroppo».


Si tratta di cose di cui a Pirandello, in quanto scrittore, non sarebbe lecito fare addebito, ma se vogliamo considerare il suo comportamento e il suo lavoro secondo un'angolazione strettamente politica che è operazione legittima perchè, come tutti, Pirandello uomo fu anche animale politico e responsa­bile, perciò, socialmente si può dire che egli non spostasse troppo i termini della sua protesta e della sua rivolta da un territorio affatto mentale; e se non cade nell'astrazione è solo perchè agisce da moralista nel campo delle psicologie indivi­duali. Un marxista probabilmente dovrebbe dire di lui che compì, anzi tentò di compiere, una rivoluzione di colore anar­chico in una dimensione puramente sovrastrutturale, senza le­gami e radici, se non indirette e casuali, con la realtà struttu­rale; e anzi che la sua rivoluzione tendeva a sfuggire alla fine, in alcuni degli ultimi drammi, in una sfera di simbolismo spiri­tualistico. Egli fu lontano dall'avere una chiara visione ogget­tiva del tempo sociale in cui viveva. Sentì il disagio, ma non si rese conto, criticamente, delle forze organizzative della nuo­va struttura capitalistica italiana: fu più oggetto e parte coin­volta nella nuova confusione, che lucido indagatore e soggetto critico. Ne I vecchi e i giovani assistiamo appunto alla confu­sione storica pirandelliana; al limite della sua delusione postrisorgimentale si rimane nel superficiale e nel vago: la sua co­scienza, il suo rimorso, in quella occasione, nascono quasi senza trapasso dalla coscienza, dal rimorso e dalla delusione dei suoi vecchi, che sono anche gli zii, la madre, il padre; e perciò si esprimono nello stile di una non interamente vigile retorica, in una protesta di facile vena. Nessun conto egli tiene di quelle cifre statistiche che andavano analizzando il progresso capita­listico nell'Italia unitaria e la corrispondente immobilità o re­cessione della società meridionale. Egli scopre, soffrendolo in prima persona, il nuovo fenomeno della crisi dei destini indi­viduali, ma non le ragioni storico-economiche che lo sotten­dono.

La verità è che l'impazienza e il fuoco anarchico pirandel­liano non coinvolgono se non nel campo moralistico la sfera degli interessi pratici dello scrittore. La sua vocazione morale, volta a una, peraltro parziale, eversione dei valori tradizionali, può essere legittimamente circoscritta nel limite di una crisi degli intelletti, quale si è svolta, in questo secolo, da per tutto in Europa, a un livello di alta convinzione, di tensione assoluta, spesso religiosa, che è arrivata alle conseguenze più estremi­stiche, e ormai è in pieno naufragio, ma che soltanto astratta­mente si è collegata alle esigenze della contemporanea istanza di rivoluzione sociale e politica.



Le classi subalterne

Pur nella stretta della terribile realtà sociale che andava rinvenendo nel suo romanzo, Pirandello non andò, in fondo, oltre a una presa di posizione genericamente umanitaria e fon­damentalmente pessimistica. Sotto l'impressione dei dati più irriducibili della miseria delle classi proletarie siciliane e del­l'iniquità e del fallimento dello stato legale di fronte a essa, egli reagisce con un pathos di protesta che rifugge dal politi­cizzarsi, e che si concentra alla fine in un'oscura densità di agnosticismo. È una delle ultime pagine del libro: «Di reale non c'era altro che la disperazione di tanti infelici condannati dall'ignoranza a una perpetua miseria; e il sangue, il sangue di quelle vittime».


Il rovesciatore intellettuale di alcune convenzioni borghesi perdeva molto del suo radicalismo e della sua combattività e si faceva pessimisticamente fatalista quando si imbatteva nelle istanze sociali delle classi inferiori. Quale fu il suo incontro di scrittore con esse? Il problema del proletariato siciliano e me­ridionale, come era stato affrontato qualche decennio prima, con precisione di dati, nell'inchiesta famosa di Franchetti e Sonnino e poi via via nell'acutezza di giudizio di scrittori come Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Salvemini, De Viti De Marco, non trova riscontro in uno specifico interesse di Pirandello. In questo egli è riducibile, per lo più, ai senti­menti e ai modi di scrittori anteriori che operavano nel campo più strettamente letterario e professavano una moralità sociale figlia del secolo umanitario, ma al di fuori di precisi impegni economico-sociali. Quando i suoi personaggi sono contadini o artigiani o comunque popolani (l'operaio della civiltà delle macchine non è mai un personaggio pirandelliano), egli segue diverse sollecitazioni, ma che rimangono in quell'ambito solo: ora si piega sul povero come su un atomo sociale, su un po­vero di spirito di cui egli intende bene l'animo e la sofferenza, ma senza farsene del tutto partecipe. Quel che ha detto Sapegno del Verga, si può ripetere molto più appropriatamente per Pirandello: che «resta fra lui e i suoi personaggi [popolari] quel limite di superiorità intellettuale ed etica che gli era impo­sto dall'educazione e dal temperamento... quell'atteggiamento aristocratico...»: scrive allora novelle come Ciàula scopre la luna, o La verità (ma l'epica di una civiltà contadina primitiva era uno stimolo raro e occasionale); ora si fa curioso indagatore di usi e costumi di un folclore lontano dagli interessi reali del suo mondo intellettuale quando addirittura non torce il naso: «Dalla folla di tutti quei contadini si levava denso, ammor­bante, un sito di stalla e di sudore, un lezzo caprino, un tanfo di bestie inzafardate, che accorava»; e così è sensibile a «gli effluvi caprini» di certa gente del feudo descritta in Requiem aeternam dona eis, Domine. Non di raro lo scrittore rimane a mezzo tra la documentazione naturalistica e l'ansietà di una partecipazione; però la maggiore simpatia umana per i casi particolari di questo o quel contadino, o donna del popolo, o servetta, o per qualche personaggio del sottoproletariato cit­tadino, non riesce a trovare sufficiente calore per spianare del tutto quel grado di casta che resiste fra l'autore e il perso­naggio12.

Il Pirandello che ci rappresenta il piccolo mondo dei dise­redati o degli umili è quello che opera con maggiore distacco e con piglio meno deformatore; con maggiore obiettività sem­pre che s'intenda, tale obiettività, come negli scrittori natura­listi, in una prospettiva classista; cioè, in ultima analisi, come falsa obiettività. Nel caso di Pirandello, quando entrano in campo i «poveri», si tratta anche di un momento di maggiore serenità mentale, di un più facile abbandono alla narrazione e alle cose, di una minore rabbia moralistica, e, di tanto in tanto, di un sollecito lasciarsi andare sull'onda della compassione per certi crucci d'anima, per certe pene intime della povera gente.

Spesso però è fredda penetrazione, curiosità; è il compiaci­mento di un ritratto preciso di ambienti e di anime avvilite. Il «caso», che si fa posto anche in questo mondo di poveri, è certo meno capriccioso del caso «buffone» prediletto da Piran­dello; appare più disciplinato secondo le regole, o leggi, della razza, dell'ambiente e del momento. Per esempio, in Lontano, la popolazione del borgo marinaro siciliano è vista tainianamente determinata dall'ambiente: non c'è fuga per nessuno da una specie di brutalità dell'organismo sociale. L'«imbestiamento» il termine è usato dallo scrittore per non lasciar dubbi sul grado di questa umanità ha un'origine determini­stica nella vita puramente economica e priva di luce d'anima che conducono questi uomini sotto un sole meridionale, in una condanna che appare non priva di venature di razzismo geogra­fico. Sotto una simile ineluttabile condanna, anche se nel velo di una autosollecitante compassione, appaiono anche i conta­dini e zolfatai, eroi e vittime degli avvenimenti dei Fasci sici­liani. In Lontano, ecco alcuni contadini della campagna di Porto Empedocle che abitano in «una stanzaccia che era dive­nuta quasi una grotta fumida e fetida... Ma se togli loro l'asi­no, il porcellino e le galline dalla camera, non vi possono più dormire in pace. Devono star lì tutti insieme; fanno una fami­glia sola».

Sono molte le novelle i cui personaggi appaiono vincolati a una convinzione, nell'autore, di inferiorità sociale, che è an­che infimo grado culturale e servitù ignara. È tutta una folla di uomini privi di libertà etica e costretti a soffrire, solo sul piano istintivo delle passioni, in una dignità minore, le conse­guenze di una situazione sociale predestinata per sempre all'im­mobilità, accettata al buio, passivamente, senza volontà, nè capacità di protesta13.

Spesso su una scelta di fatti semplicemente curiosi si posano le inflessioni della commozione borghese e cristiana dello scrit­tore, della sua simpatia umana, del suo penchant democraticomoderato.

Pirandello escluse, tranne in pochi casi, gli appartenenti alle classi infime dal dibattito della responsabilità etica (il che non era avvenuto al Verga). Anche per lui, come per la mag­gior parte degli uomini del ceto dirigente, nonostante non ne avesse il sospetto e si sapesse pieno di compassione, c'erano due specie di uomini: e una sottile parete censitaria distin­gueva il suo famoso uomo metafisico, che poi era in tutto il piccolo borghese italiano, dall'uomo non metafisico. (Avviene anche, per esempio in Certi obblighi, e poi, di più, in II ber­retto a sonagli, che il personaggio popolare o semipopolare, si complichi più di quanto non comporti il grado della sua cultura e agisca come un intellettuale imbizzito ed estroso: ma allora c'è da rimanere perplessi della sua autenticità di popolano1).

La scena è quella di una campagna ora più ora meno pri­mitiva, fino alla desolazione remota del feudo, oppure è quella

del tribunale, o, nella grande città, il giardino pubblico, la grande piazza notturna, il quartierino misero del grande ca­samento, o «l'aula di semejotica» dell'ospedale civico. I per­sonaggi sono contadini, pescatori, lavoratori del porto, mina­tori di zolfo, donnette, servette, ragazze sedotte, vecchietti diseredati, sciantose, candidate alla prostituzione e prostitute in funzione, criminali di tipo lombrosiano («L'irto grugno raschioso, raso di fresco, gli dava l'aspetto d'uno scimmione. Gli pendevano dagli orecchi due catenaccetti d'oro»). Si può dire in generale di tutti questi personaggi, che, scorti in una prigione di pregiudizi e d'ignoranza, di miseria materiale e morale, sono condotti a subire una sorte patetica. Quando lo scrittore e il lettore siano giunti a uno stadio di commozione sufficientemente partecipata, essi sono anche sul punto del go­dimento di una piccola catarsi, liberatrice del rimorso sociolo­gico. Tale è il procedimento di ogni letteratura filantropica, che si ripete in Pirandello. Nella novella intitolata II figlio cam­biato, l'orrore genuino per un intrico di sudice superstizioni da villaggio tende a mutarsi in compassione per il disgraziato mostruoso fanciullo «figlio delle donne». Non diversa pietà suscitano i neonati figli di nessuno che muoiono di trista fame ne Il libretto rosso. Ne II vitalizio intenerisce la inutile vecchiaia solitaria del vecchio contadino, gracile e longevo14, e la solida­rietà delle comari intorno al suo tugurio. Altrettanta solleci­tudine muovono le servette pirandelliane sedotte e licenziate, perfino suicide per disperazione d'amore, e la prostitutella di Sgombero (in cui però è una più gridata e autentica disperazio­ne) e i miseri contadini del feudo privati della terra per seppel­lire i loro morti".

Del tutto connessa con la filantropia è anche una convin­zione di superiorità che giunge a un senso implicito di irrespon­sabilità sociale. Assistiamo agli avvenimenti, alle storie della povera gente, come se si svolgessero in un circo. E la tristezza dei protagonisti di Prima notte, che sono malmaritati, che non possono avere una prima notte d'amore, ci appare del tutto condizionata dall'angustia del loro mondo sociale, del quale non siamo responsabili, e che diventa il limite di superiorità, il circo appunto, intorno a cui ci troviamo spettatori di uno spettacolo quanto mai patetico e commovente. Ma, ancora di più, qua e là traspare in Pirandello un'attenzione insolidale, non tanto nei riguardi dell'individuo, sebbene spesso anche nei riguardi di questo15, quanto nei riguardi della massa sociale anonima e barbarica dei villani in quanto tali, in quanto sudici e brutali. Una mancanza di carità che può risolversi in sgomen­to: «...erano ...sudati per il gran correre; e l'esasperazione, a cui erano in preda, faceva sbomicare dai loro corpi una certa acredine d'aglio, ch'era come il segno della loro ferinità... Il la­stricato delle strade aveva schizzato faville tutto il giorno al cu­po fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, mas­sicci e scivolosi. Nelle dure facce contadinesche, irte d'una bar­ba non rifatta da parecchi giorni, negli occhi lupigni, fissi in un'intensa doglia tetra, avevano un'espressione truce, di rab­bia a stento contenuta». Sgomento; ma sembra anche esserci la curiosità di chi è in salvo, e una caccia estetica a una Sicilia africana, la scoperta esotica fatta in casa.

In Ciàula scopre la luna, su un'intonazione della pietà e della compassione, su un dono di cristiana carità, che, per un


assunto lirico-moralistico, viene offerto all'abietto personaggio, l'uomo-bestia, prevale poi l'esattezza dello sguardo dell'osser­vatore. Zi' Scarda, lo sfruttato-sfruttatore di Ciàula, è atroce­mente cristianizzato, trasformato in un arido esemplare di na­turalistico Cristo proletario da quella lacrima che dall'occhio gli cola incessantemente in bocca, da quel gusto e «vizio» della lacrima. E Ciàula, in senso cristiano, appare l'assoluto povero di spirito, nudo e solo sulla terra: anche se lo scrittore non lo consideri, per parte sua, con puro spirito cristiano, ma quasi tenendoselo lontano con la punta del bastone: «Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quello che un tempo era stata forse una camicia: l'unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegan­tissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roc­cia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perchè veramente ancora lo stimava superiore a' suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell'ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei com­pagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridan­dogli: Quanto sei bello! egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d'una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi; s'avvolgeva in un cappottello d'albagio tutto rap­pezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia crahl crah! ... si avviava al paese». È esplicito il conformarsi alle regole della scuola: la precisione descrittiva, un'evidenza insistita e icastica, una degustazione del particolare orrido e creaturale, il sadismo e una speciale riduzione della persona a cosa: tutto ciò, si badi, senza che si rinunzi a quella polemica filantropica che è il senso moralistico della novella in ciò consiste il doppio gioco, la partecipazione di Pirandello alla segreta ipocrisia di molti scrittori naturali­stici di estrazione borghese.

Affiorano le sfumature di classe anche nel patriottismo di Pirandello. Ecco Mauro Mortara, il suo famoso popolano-pa­triota1: «generoso, feroce, fedele come un cane e coraggioso come un leone». Mauro Mortara è l'eroe ignaro, l'ingenuo fi­glio della terra, del tutto disinteressato e privo di definizione sociologica: «Piangeva... nella grandezza della patria, per cui aveva tanto sofferto e combattuto senza chiedere mai nulla». Egli ha tutte le simpatie dello scrittore, mentre gli altri, con­tadini e zolfatari, che non sono altrettanto disinteressati e idea­listi, sono visti, in quanto massa impegnata in una lotta rudi­mentale, con molto minore simpatia.

Non bisogna però fare colpa eccessiva a Pirandello di essere un figlio della sua classe, in un'epoca in cui molto meno chiare di oggi apparivano le responsabilità della borghesia nei riguardi dei ceti subalterni; ma occorre anche tener conto di questa oggettiva posizione di classe pirandelliana, se si vuole evitare di dare ingiustificata ampiezza ideologica a certe espressioni del suo anarchismo. Tanto più che, alla coscienza dello scrit­tore, affiorava abbastanza esplicito il rimorso della sua parteci­pazione a una classe, o almeno riusciva a obicttivarlo nei per­sonaggi. Ne I vecchi e i giovani, la figlia di Flaminio Salvo, uno speculatore ed accumulatore da epoca precapitalistica, per qual­che tratto assimilabile a Stefano Pirandello nel suo momento di maggior fortuna, così pensa del padre: «...aveva coscienza che la ricchezza del padre se non del tutto male acquistata, ave­va pur fatto molte vittime in paese... quelle ricchezze che molti maledicevano in segreto, e che certo non le avrebbero portato fortuna...»'.

Anarchismo e sicilianismo

Pirandello peraltro amò definirsi anarchico. Una sua alunna del Magistero particolarmente vivace gli chiese un giorno, in classe16, quali fossero le sue idee politiche, e tra il maestro e l'allieva si svolse questo dialogo: «Monarchico?» «No». «Repubblicano?» «No». «Socialista?» «Nemme­no». «Allora, anarchico!». «Per l'appunto, anarchico in­dividualista». «E allora perchè, professore, lei mangia il pane del governo?» «Perchè al governo, dò, coscienziosa­mente, quello che mi domanda, e per cui mi paga». Episodio significativo.

L'anarchismo è del genere di quello di Antonio del Re, ne I vecchi e i giovani (personaggio nel quale, secondo le stesse dichiarazioni fatte più tardi da Pirandello al Nardelli, sarebbe adombrato lo scrittore stesso, da giovane17). Antonio del Re persegue il progetto di lanciare dalla tribuna del pubblico una potente bomba dentro Montecitorio per fare una strage parla­mentare; gesto protestatario che, a parte la mole del disastro, chiameremmo oggi qualunquistico oltre che anarchico, se non lo sapessimo suggerito alla immaginazione dello scrittore dal­l'esplosività delle sue inibizioni di altra natura.

Quanto al socialismo, esso ne I vecchi e i giovani, appare stranamente deformato rispetto alla realtà storica, e, nella pre­sentazione dei numerosi, molto o poco camuffati personaggi della cronaca, diminuito e anche denigrato. I due dirigenti del Fascio di Girgenti sono ridotti a poco meno che sgorbi di natura: «quegli, uno spilungone ispido e scialbo, con un pajo di lenti che gli scivolavano di traverso sul naso... questi, tozzo, deforme, dal groppone sbilenco, con un braccio penzolante quasi fino a terra e l'altro pontato a leva sul ginocchio». Quan­to agli altri, anche i migliori, o sono uomini che si mettono a guardarsi allo specchio, come Landò Laurentano, o sono scet­tici come Lino Apes, direttore di giornali socialisti, che fa il socialismo pirandelleggiando18, o sono uomini politici presso­ché irresponsabili, che inconsciamente recitano delle parti: «Tutti quei giovani [cioè tutti i dirigenti dei Fasci riuniti in casa di Landò Laurentano~\ si erano anche loro assegnate le parti, e gli pareva che, a furia di ripeterle, se le fossero cacciate a memoria e le recitassero con artificioso calore... Innamorati della parte, l'avrebbero rappresentata con perfetta coerenza an­che davanti ai fucili dei soldati, in piazza; e, se tratti in arresto, davanti ai giudici, in una corte di giustizia». Infatti, fino al­l'amnistia politica del 1896, continuarono a rappresentare la parte in un penitenziario.

C'era una certa insensibilità in Pirandello, un ripiegamento «anarchico individualistico», o piccolo borghese, ma soprat­tutto un largo margine di soggettiva alienazione, e di inetti­tudine a intendere lo svolgimento concreto dei fatti e a met­tersi nei panni del politico.

Più sensibile invece egli si dimostra di fronte agli scandali borghesi; a quelli cioè che si svolgono all'interno della classe dirigente. La pagina più oratoriamente ruggente de I vecchi e i giovani è dedicata allo scandalo bancario del 1893: «...dai cieli d'Italia, in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s'appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella tor­bida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia. Sotto il cielo cinereo, nell'aria densa e fumicosa, mentre come scialbe lune all'umida tetra luce crepuscolare s'accendevano ronzando le lampade elet­triche, e nell'agitazione degli ombrelli, tra l'incessante spruzzolìo d'una acquerugiola lenta, la folla spiaccicava tutt'intorno, ...in quei giorni ogni piazza diventava una gogna; esecutore, ogni giornalajo cretoso, che brandiva come un'arma il sudicio foglio sfognato dalle officine del ricatto, e vomitava oscena­mente le più laide accuse. E nessuna guardia s'attentava a tu­rargli la bocca. Ma già, più oscenamente i fatti stessi urlavano da sè».

Quando, nel 1913, Pirandello pubblicò in volume, da Treves, I vecchi e i giovani, ne inviò una copia in Sicilia, ai propri genitori, con questa dedica: «Ai miei non vecchi genitori, per­chè di cuore e di mente più giovani di me, nella festa delle loro nozze d'oro, 28 nov. 1863-1913, quest'opera in cui i loro nomi Stefano e Caterina vivono eroicamente». Infatti, nel ro­manzo, il figlio adombrò il dolore e la delusione della madre, Caterina, per il decadere degli ideali risorgimentali nella vita politica dell'Italia unificata, nella desolazione patriottica di Caterina Laurentano, la madre del romanzo, antagonista asso­luta di quel mondo di corruzione politica e morale. Mentre non corrisponde alla lettera della citata dedica il destino, nel romanzo, del nome del padre. Stefano Auriti, marito di Cate­rina Laurentano, non è presente nell'azione: è morto nell'an­tefatto, censurato freudianamente, come ha giustamente osser­vato Leonardo Sciascia19. Ma è vero che I vecchi e i giovani, nella involontaria mistificazione prospettica che vi si verifica, in­torno al nodo cronologico di quel 1893, in conseguenza dei vari momenti storici e biografici depositatisi stratigraficamente nel­l'anima dello scrittore, da Garibaldi a Giolitti, sono anche il rie­pilogo del suo sicilianismo ereditato dai genitori; un ritorno alle origini ottocentesche della sua famiglia che mal sopportò il tra­dimento perpetrato ai danni della Sicilia dai Piemontesi e dai loro successori: «... Il mosto generoso e grosso, raccolto in Sici­lia con gioja impetuosa, mescolato con l'asciutto e brusco del Piemonte, poi col frizzante e aspretto di Toscana, ora col pas­sante, raccolto tardi e quasi di furto nella vigna del Signore, mal governato in tre tini e nelle botti, mal conciato ora con tiglio or con allume, s'era irrimediabilmente inacidito». «La politica doganale seguita dal governo italiano è stata tutta una cuccagna per l'industria e gli industriali dell'alta Italia e una rovina spa­ventosa... per la nostra povera isola...». «Povera isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivi­lirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame coman­data da un rinnegato, l'ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell'altro tenentino savojardo Dupuy, l'incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch'essa con provve­dimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e con­cussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del danaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei de­putati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spe­se pazze, cortigianerie degradanti; l'oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge e assicurata l'impu­nità agli oppressori...».

La donna

Successivamente alla stesura de I vecchi e i giovani, le opi­nioni sociali e politiche di Pirandello si fanno sempre più simili a quelle della classe dirigente. Nel 1909, lo troviamo collabo­ratore di un «trisettimanale politico-militare», allusivamente intitolato La preparazione. Qui, in un articolo apparso l'u feb­braio, troviamo anche un preludio alla futura ammirazione per il duce del fascismo: «...avremmo bisogno, egli dice, di qual­che gran capitano, di qualche grande statista, per la guerra di domani che ci fa stare in pace oggi, per la pace d'oggi che ci metterà in guerra domani. Ma un gran capitano e un grande statista non si trovano a ogni svoltata...». Pirandello s'imbat­terà nell'atteso «uomo fenomeno», come lui stesso lo definirà, alla fine della guerra, e gli accorderà tutta la stima di cui era capace. Ma prima, allo scoppiare della guerra, ci sarà la stagio­ne del suo interventismo, che si evolverà in un coperto scetti­cismo, come si vedrà.

Su La preparazione, Pirandello ha occasione di parlare an­che di altri suoi miti antiprogressivi, riferiti al costume. Inte­ressante è la sua presa di posizione, carica di irritata ironia, contro i movimenti di emancipazione femminile. Vi dedica un articolo intero20. La donna presa in esame come campione di «feminismo» è esemplarmente provvista di «occhiali a staffa che le ingrandiscono enormemente e confusamente gli occhi» e parla con una «voce gutturale, maschile», proveniente «co­me da sotterra». Il «feminismo» è una vescica piena di vento, e «la storia è piena di questi palloncini sgonfiati». «Supporre che la donna, praticando continuamente con gli uomini alla fine si debba immascolinar troppo; prevedere che la casa, senza più le cure assidue, intelligenti, amorose della donna debba perdere quella poesia intima e cara, che è la maggiore attrattiva del matrimonio per l'uomo; supporre che la donna, cooperando anch'essa col proprio guadagno al mantenimento della casa, non debba aver più per l'uomo quella devozione e quel rispet­to, di cui tanto essa si compiace: non sono pregiudizii...». Le idee di Pirandello su una eventuale indipendenza della donna nella vita sociale sono nettamente conservatrici. E odiava al­lora Ibsen forse anche per questa ragione. Le donne per lui non avevano cervello. Diceva alle sue alunne: «Il buffo desti­no ha voluto che insegnassi a scrivere alle donne»21, o, epigram­maticamente, in poesia: «pensa poco la donna a quel che sen­te». In questo potrebbe essere seguace di Weininger. Ma egli era misogino anche al livello della convenzione comune piccoloborghese: il matrimonio è una rovina, il celibato, uno stato ideale (ciò anche prima della dolorosa esperienza del matrimo­nio). I concetti sono simili a quelli dei circoli maschili e meri­dionali che Pirandello frequentava, in cui le donne non erano ammesse; e venivano ridotte all'esperienza dell'avventura ex­traconiugale, o a quella del matrimonio borghese, o dell'amore romantico, o se ne parlava nel giro gretto della malignità e della barzelletta. Nel corso di un'intervista, ancora nel 1924, egli considera la donna a un livello prossimo a quello della natura e del puro istinto; e della donna letterata dice*: «...della don­na letterata in genere ho poca stima. La letterata poi non biso­gna guardarla come donna. La donna è passività e l'arte è atti­vità. Ciò non toglie che non ci possa essere uno spirito femmi­nile attivo. Ma allora non è donna». Le figure femminili nella sua opera, anche quando sono circondate del suo rispetto e di un'aureola di idealizzazione (il che avvenne soprattutto dopo che si fu innamorato di Marta Abba) sono intuite intorno a un nucleo di istintiva animalità. Predilesse infatti un'immagine immobile e mitica, o semplicemente neoromantica della donna, che oscillava fra la grezza natura e un «eterno femminino» ani­malescamente imperscrutabile. Si ricordi il finale della Nuova colonia in cui la donna-amante è divenuta la donna-madre e salvatrice del genere umano. Altre volte per lui la donna, nella inettitudine alla riflessione e nella inesausta mobilità22 è sim­bolo della resistenza alla forma e alla morte. Talora la donna appare nella sua opera, secondo un pessimismo biblico e cri­stiano, vaso di vizi, tentatrice, portatrice di peccato. E persino quando subisce la violenza non è considerata con animo razio­nale, come dotata di coscienza autonoma, e invece religiosa­mente, come ricettacolo di impurità: la protagonista de L'in­nesto, dopo la violenza subita da uno sconosciuto, come una eroina di Lope de Vega chiede grazia o morte: «Giorgio {il marito), appena la vede, leva le mani come a parare la pietà che gli ispira, e ha in gola un lamento, che è come un ruggito breve, cupo; d'esasperazione e di spasimo. Laura... gli s'appressa... è lì, sua. Solo alza il volto come in uno stiramento di tragica aspet­tazione, che egli cancelli comunque, con la morte o con l'amore, l'onta che la uccide».

Dal 1909, per tornare ai giornali dei quali fu collaboratore, Pirandello cominciò a pubblicare le sue novelle sul Corriere della Sera. La stampa alla quale sempre collaborò (tolto il ten­tativo, non andato in porto, di far parte di un giornale radi­cale) fu di tipo moderato, liberale e conservatore. D'accordo con Albertini, direttore del Corriere della Sera, dovette trovarsi per molti motivi. Questi infatti non era alieno dalle campagne antiparlamentari; svolgeva, quando ve n'era l'occasione, una propaganda patriottico-nazionalista; era antisocialista, e quanto al riformismo, metteva costantemente avanti il gradualismo delle riforme, opinioni del tutto condivise da Pirandello e di­chiarate ne I vecchi e i giovani.

Dal punto di vista politico Pirandello fu in definitiva un rappresentante della borghesia ex radicaleggiante, ed erede, sensibilmente ancora, dei miti risorgimentali; disposto in ge­nere a passeggere, irriflessive accensioni di protesta, ide?1:stiche e astratte, ma assuefatto alla politica del moderatismo con­servatore; e semplice e sprovveduto abbastanza, incapace di autocritica, predisposto a farsi irretire nelle varie propagande irrazionalistiche, fino a quella del fascismo.



Croce e Pirandello

Nel 1908 Pirandello pubblica due volumi di saggi: L'umo­rismo e Arte e scienza, il primo, presso Carabba, a Lanciano, il secondo presso un libraio editore romano, il Modes. Sono saggi di carattere estetico-letterario utili all'autore per concor­rere all'ordinariato nella cattedra di «lingua italiana, stilistica e precettistica e studio dei classici, compresi i greci e i latini nelle migliori versioni» nel primo biennio dell'Istituto Supe­riore di Magistero di Roma. Il decreto di nomina è del 28 no­vembre del 1908.

L'uscita dei due libri segna l'inizio di una curiosa battaglia a colpi ciechi e proibiti fra Pirandello e Croce. Un contrasto che non cesserà fino e oltre la morte dello scrittore.

Nei cinque anni che vanno dal 1863 al 1867 nacquero tre uomini che avrebbero occupato saldamente i tre opposti ver­tici di un singolare triangolo italiano di cultura o di poesia: D'Annunzio, Croce e Pirandello. Tre uomini della provincia e tutti e tre, ognuno in un modo diverso, mai del tutto liberi della loro origine provinciale e meridionale.

Quando si sia indagato, nel piano biografico, sui rapporti, che furono di incomprensione reciproca, fra questi tre italiani, si viene alla conclusione che si trattò di falsi e impossibili rap­porti, e che il temperamento di ognuno valse a separarlo dagli altri due fino alla incomunicabilità. Qui vogliamo mostrare che ciechi avversari, che lottatori al buio, fossero Croce e Piran-

delio.

Se Pirandello non ebbe nessuna stima di D'Annunzio, lo attaccò con senso di superiorità e alla fine in un famoso discor­so che vedremo, gli si sostituì esplicitamente nella storia lette­raria del secolo, lo stesso non può dirsi del suo atteggiamento di fronte al Croce, nei riguardi del quale ebbe timidezza mal­celata e odio espresso.

Il Croce, sul piano delle apparenze, parve uscire vittorioso nel contrasto con l'avversario, ma Pirandello, a conti fatti, non può affatto considerarsi perdente. Egli apparve soccombente, perchè subì un chiaro complesso d'inferiorità verso il filosofo, avendo commesso l'errore di attaccarlo per primo nel campo a lui meno favorevole, quello della filosofia. Era un recinto in cui il Croce si disfaceva con la massima disinvoltura dei suoi avversari.

Sicché Pirandello, messo ai ferri corti, soprattutto quando del Croce parlava in privato, ma anche in dichiarazioni da ren­dersi pubbliche, focosamente trascendeva alle parole offensive, mentre il filosofo faceva mostra di sublimare non meno auten­tici veleni su un disteso volto di ironica superiorità. Sotto gli insulti dell'Agrigentino è abbastanza evidente il conto che egli faceva dei giudizi del Croce, sotto la finta ironica moderazione di questo, c'è un dissimulato spirito di rivalsa.

In Arte e scienza Pirandello attaccò per primo. Disse che l'Estetica del Croce era «astratta, monca e rudimentale»; che era «un'estetica intellettualistica senza intelletto»; che il Croce «offende la logica» con le petizioni di principio, con i sofismi, con le contraddizioni, approdando a risultati di «guaz­zabuglio». Nell'Umorismo discusse e negò l'opinione del Cro­ce, secondo la quale l'umorismo è uno stato psicologico indefi­nibile, uno pseudo-concetto, e in nessun caso una categoria estetica, rivendicando, prò domo sua, l'autonomia estetica del­l'umorismo.

Il Croce rispose, quasi subito, con una recensione a L'umo­rismo, che apparve su La critica (1909, VII). Degli attacchi polemici di Arte e scienza fa mostra di non essere informato, ma tratta Pirandello altezzosamente. Anzitutto comincia col negare che egli conosca gli autori che cita nel suo saggio: «...e sebbene egli non conosca nè il lavoro del Baldensperger, nè quello del Cazamian, nè quello dello Spingarm, e nemmeno forse direttamente il mio saggio, ha notizia della mia tesi negativa e le muove contro obiezioni, che sarebbe di poco giovamento discutere, perchè il Pirandello non è troppo forte in fatto di metodologia e di logica scientifica». Poi aggiunge fra l'altro: «...Io non voglio abusare della sua inesperienza dottrinale... Essendo ben chiaro l'imbarazzo dell'autore, al quale i concetti si sformano tra mano quando li prende per porgerli altrui... Se codesto è un definire preciso, non so più che cosa significhi precisione...».

Pirandello, che, nonostante le pubbliche dichiarazioni in contrario, era convinto di intendersi abbastanza di filosofia, ma di fronte alla sicumera crociana finiva per dubitarne, custodì sicilianamente la vendetta, a cui diede corso undici anni dopo intorno al 1920, in occasione della riedizione de L'umorismo. Allora ne rimaneggiò qualche pagina e aggiunse qualche nota esclusivamente in funzione anticrociana (anticipiamo qui tutta la vicenda dei rapporti fra Pirandello e Croce perchè poi non ci saranno occasioni per ritornarvi su). Accusa il Croce di ma­lafede nei suoi riguardi: «Non è credibile che il Croce non in­tenda. Non vuole intendere... Tutto questo è veramente pie­toso». In una nota aggiunge: «La molta preparazione filosofica (la mia, si sa, è pochissima) ha condotto il Croce a questa edifi­cante conclusione. Si può sì parlare di questo o di quell'umori­sta; egli, filosoficamente, non ha nulla in contrario; ma guai a parlar dell'umorismo! Subito la filosofia del Croce diventa un formidabile cancello di ferro, che è vano scrollare. Non si passa! Ma che c'è dietro quel cancello? Niente. Questa sola equazione: intuizione = espressione, e l'affermazione che è impossibile di­stinguere arte da non arte, l'intuizione artistica da intuizione comune. Ah, va bene! Non vi pare che si possa benissimo passar davanti a questo cancello chiuso, senza neanche voltarci a guar­darlo?»


Nel 1921, poi, capita l'occasione buona per Pirandello. È uscito il famoso saggio crociano su La poesia di Dante ed egli, su L'idea nazionale, il 14 settembre 1921, ne fa piena giustizia, e questa volta tenendo il coltello dalla parte del manico. Il suo non è il tono altezzoso che era capace di assumere il Croce, ma sì aspro e sarcastico e che non vuol dar tregua. Ripete con esclamativo scandalo la distinzione crociana famosa, fra poesia e non poesia, fra poesia e struttura ne La Divina Commedia, e poiché il Croce s'era lasciato scappare, nel suo saggio, che accet­tava, del poema dantesco, con la poesia, anche «la struttura, con qualche indifferenza bensì, ma senza avversione, e, soprat­tutto, senza irrisioni», Pirandello se la gode a lungo con queste parole. Mostra le contraddizioni del saggio crociano, punteg­giando la sua stroncatura di frasi come «La dice così grossa...», «Perdio!...», «par di sognare...», «Idee dell'altro mondo...», ecc., e, vicino a concludere, dice: «Ma Dante tutt'intero e uno ha il grave torto di non potere entrare nella teoria estetica di Benedetto Croce, che tutti sanno che cos'è e quali frutti ha prodotto».

Questa volta il Croce non credette opportuno rispondere e, di Pirandello, sembrò essersi dimenticato, tenendosi con indif­ferenza lontano dal successo mondiale da lui guadagnato. Tutta­via è sintomatico e da registrare che, alla Biblioteca Nazionale di Napoli, largamente influenzata dall'interno e dall'esterno dal Croce, i volumi di Pirandello non entrarono che per caso, in piccole dosi e disordinatamente. Ancora oggi non vi si trova un'edizione completa delle Novelle per un anno, e, se c'è il suo teatro completo, lo si deve solo a un lascito privato. Il Croce riuscì, se non altro, a trasfondere la propria antipatia nell'ambiente culturale napoletano. I vecchi e più intimi amici del Croce dicono tutt'ora: «Pirandello era antipatico».

Quando, alla fine del 1934, gli Accademici svedesi riten­nero opportuno assegnare a Pirandello il premio Nobel, il Croce, che non se l'aspettava, non si tenne più e, a tamburo battente, scrisse e pubblicò, nel gennaio successivo (su La cri­tica), il suo saggio, affrettato, travisatore e pregiudizialmente avverso, sull'opera di Pirandello. Ci si trovano animosi giudizi di questa fatta: «...la sua maniera consiste in taluni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso inconcludente filo­sofare. Nè arte schietta dunque, né filosofia... il vuoto che pare pieno e il pieno che pare vuoto»; «... Pirandello si è composto una ricetta, ha trovato una maniera, e la viene adoperando con aria, cioè con stile, tutt'altro che d'angosciato, addolorato e fu­ribondo...»; «... si è potuto credere che il Pirandello che non ha mai in vita sua elaborato una proposizione filosofica, o che la sola volta che cercò di svolgere metodicamente un problema (nel libro dell'umorismo) provò questa sua incapacità — sia penetrato nel mistero della vita!» Scrivendo il suo saggio, egli volle chiamare Pirandello a un giudizio di cassazione avverso la sentenza dei giudici di Stoccolma.

Pirandello si arrabbiò, e in una lettera che sarebbe stata pubblicata come prefazione a un saggio di Domenico Vittorini, edito a Filadelfia nel 1935, scrisse che fra i molti Pirandelli messi in giro dalla critica «il più imbecille fra tutti» era «quel­lo di Benedetto Croce».

Poco prima di morire, su L'Illustrazione Italianasi difen­deva ancora dall'ingiusta accusa crociana: «...nulla m'era più amaro e soffocante d'una volgare opinione, ch'io fossi un esper­to letterato fortunato per aver imboccato un tono adescante e capzioso, quasi un giocoliere d'idee: io che ho consumato la vita, una vita ricca non foss'altro di energie e di sentimenti, solo per certe parole da dire, uomo, agli altri uomini».

Morto Pirandello, Giovanni Gentile si assunse la sua di­fesa contro le affermazioni crociane e, su Quadrivio*, scrisse: «...Artifizio macchinoso nelle sue rappresentazioni drammati­che? Difficoltà e inverosimiglianza nelle situazioni da lui crea­te? Eccessivi filosofemi in bocca ai suoi personaggi? Discutibi­lità della filosofia che divenne il linguaggio abituale del poeta?... Critici arcigni, inumani che, schiavi dei loro preconcetti dottri­nali, darebbero dei punti a quell'aristotelico, che, per non gua­stare il suo cielo incorruttibile si rifiutava a metter l'occhio nel cannocchiale di Galileo; poiché la posizione di certa critica è proprio questa: la tale poesia non c'è, perchè non ci può es­sere; prima dimostrare che ci ha da essere, e poi aprire gli occhi per vedere!».


Il Croce non si mosse dal suo atteggiamento neppure dopo che erano passati degli anni dalla morte di Pirandello. Infatti, nel 1938, su La critica, traendo spunto dalla pubblicazione di un saggio critico sullo scrittore23, insisteva: «...il suo filosofare non ha nè capo nè coda, e nemmeno la dottrina cosmica, che do­vrebbe far sorridere un principiante di filosofia, della vita come flusso e della forma che arresta e congela questo flusso: quasi che il flusso non abbia forma e che la forma non sia vivente e perciò fluente». Quindi narrava un aneddoto antipirandélliano: «...ricordo che quando preparavo [il saggio su Pirandello], mi accadde di assistere alla scenetta di una bambina che, terminato il corso elementare, entrava nel ginnasio e doveva perciò intra­prendere lo studio del latino, al quale riluttava. La madre, col libro in mano, l'ammoniva: Ma se non impari questo, non sa­prai mai il latino. E la bambina, tra piangente e sdegnata: Ma perchè debbo sapere il latino? Perchè esiste il latino? E quando, con qualche fatica, la madre aveva richiamato l'atten­zione di lei sui paradigmi grammaticali, e a un certo punto le spiegava che il tal nome formava eccezione alla regola, la bam­bina scattava di nuovo, insofferente e furente: Anche le ecce­zioni! Ma che cosa sono queste eccezioni? Perchè ci debbono essere le eccezioni? Non basta la regola che si è detta una volta? E io pensai tra me: Ma questo è dello schietto Pirandello, che del suo non intendere, del suo non rendersi conto, del suo mera­vigliarsi di quel che non intende, tesse una tragedia». E infine, ritrattando almeno per una proposizione quanto aveva affer­mato nel saggio del 1935: «...senza dubbio fu un uomo tor­mentato e non un semplice industriante teatrale sulla materia di un immaginario tormento; ma la serena gioia della bellezza non gli appartenne: nè credo che alcuno abbia mai, innanzi a una novella o a un suo dramma, esclamato dall'imo petto: — Bello!» Anche il Croce invecchiava, ma da queste ultime parole si può risalire ai motivi più seri dell'avversione fra i due uomini (come fra i due raggruppamenti della critica ita­liana prò e contro Pirandello).

La mancanza di serenità e di filtro rasserenatore, di castità, il troppo immediato apporto autobiografico nell'opera rese Cro­ce e i crociani nemici dell'arte di Pirandello, troppo lontana dal concetto di liricità pretesa a ogni costo nell'opera d'arte dal loro gusto. Invece le cose migliori di Pirandello, che non nascono certo in una geografia serena, sono molto vicine ai princìpi poetici di quell'arte contemporanea, che tende a esclu­dere filtri e mediazioni liriche nell'esplorazione della coscienza, fra l'anima e la pagina. Pirandello è più vicino, nei Sei perso­naggi in cerca d'autore, ai cubisti, dada e ai surrealisti, e cioè a tutta la più valida avanguardia artistica di questo cinquanten­nio, che non agli esemplari della poesia tradizionale accetta alla critica crociana.

Croce era uno spirito construens: ottimisticamente distin­gueva e riassociava le cose e i fatti; li accettava, li armonizza­va, faceva la storia e la contemplava (senza rimorso alcuno per aver lasciato fuori tanta parte del mondo esistente. Il com­plesso di superiorità del Croce valeva in ogni circostanza). Egli giustificava il mondo e la storia in un sistema di sdrammatiz­zato movimento. Pirandello invece, meno capace di astrazione, vedeva gli oggetti e le persone in dense concrezioni, in una vi­sione, da un punto di vista intellettualistico, poco differenziata; e questa visione, così concreta, dissociava e relativizzava, in­capace di scoprire un asse unitario di coscienza, prigioniero involontario di un insondabile mistero. Croce, razionalista e storicista, condannava infatti proprio «quel suo scettico pes­simismo, quel suo vedere il negativo e non il positivo, il di­sgregato e non l'unificato, il dissolvimento e non l'unità e l'azione» \

* Letteratura della Nuova Italia, VI, pig. 370, Bari, 1940.

Per queste ragioni oggi, ai nostri sguardi di non ancor po­steri, Croce e Pirandello facendo astrazione dei diversi campi della loro applicazione sembrano vivere su due sponde netta­mente separate: dove non si cessa di tentare la razionalità e dove si accetta e si sopporta drammaticamente l'esistenza irra­zionale e irresoluta. E la composizione di questi due atteggia­menti di fondo sembra ancora terribilmente lontana.

Il triangolo italiano di cultura e poesia che si diceva non sembra oggi avere più vertici segnati: all'importanza degli an­goli si è sostituita quella dei lati, agli uomini esemplari si sono sostituite le idee o gli schieramenti ideologici; e sia Piran­dello che Croce ci sono contemporanei.

Se ci fu una polemica guerra dei trent'anni fra Croce e Pi­randello, non sembra che l'uno o l'altro l'abbia vinta o l'abbia perduta.

Professore

Un'attività esterna e distratta è quella di Pirandello pro­fessore. Un'attività svolta per forza, senza partecipazione, per­chè gli era aliena la vocazione pedagogica, e anzi gliene era connaturata una antipedagogica. Ma una non meno imperiosa autocostrizione lo forzava a varie cose, a essere fedele patriota, strenuo marito, e anche, senza entusiasmo alcuno, discreto pro­fessore. Che egli fosse tale, almeno per un buon numero di anni, testimoniano le alunne di quel tempo. Ma, non alieno dall'assentarsi per un motivo o per l'altro dalle lezioni24, una volta, alla fine del 1907, finì per provocare la protesta degli irritati genitori delle allieve che ricorsero al Ministero della Pubblica Istruzione. Accuse da cui si difese circostanzian­do la misura e l'impegno del suo lavoro in una lettera a Giu­seppe Aurelio Costanzo 25, che era direttore dell'Istituto e suo amico \

Negli ultimi anni, col sopravvenire del successo e nello svolgimento febbrile della sua nuova attività di autore di tea­tro, fu sempre più distratto e assente. Racconta una sua allie­va' che, nel 1921, «quando si sapeva che c'erano al teatro Argentina le prove per i Sei personaggi le alunne organizza­vano liete gite a Villa Borghese».

Pirandello insegnò al Magistero dal 1897 fino al 1922, l'anno dell'Enrico IV. Del suo mestiere di professore parlava con scarso entusiasmo, così come dell'Istituto in cui insegnava, del Ministero da cui dipendeva, dei colleghi del Magistero e di quelli «privilegiati» dell'Università. Inoltre non si dava ragione della stessa materia che insegnava.


I professori del Magistero, scriveva a Massimo Bontempelli nel 190826 «sono soggetti a tutti i rigori delle leggi e delle di­sposizioni regolamentari dell'Università, e non ne hanno poi nè il grado, nè i privilegi, nè la considerazione, nè gli stipendi». La commissione esaminatrice del concorso per la cattedra di sti­listica, che Pirandello occupava da incaricato, avrebbe dovuto essere costituita da «quei professori d'Università che si sono occupati di Estetica. Quanti sono? Io non ne conosco che uno: il Cesareo. Dio ci salvi e liberi da tutti gli altri!». Alla Minerva, poi, si commettono ingiustizie: dopo undici anni di straordina­riato «senza neppure un soldo di aumento sullo stipendio», gli si rifiutava ancora la promozione a ordinario. E gli sarebbe toc­cato, scriveva a Bontempelli, per un paradosso burocratico, di concorrere «per non vedersi stroncata irrimediabilmente e per sempre la carriera», da straordinario qual era, a un posto di straordinario27.

Potè passare ad ordinario con un concorso per titoli. Ma quanta fatica e quanto tempo perduto nella preparazione dei saggi d'estetica da pubblicare per il concorso! «Le manderò..., scriveva sempre a Bontempellia, un mio volume di saggi inti­tolato Arte e scienza, fatica particolare in vista del concorso... Un altro ne manderò a stampa a maggio su L'Umorismo. Meno male quest'ultimo! Ma che miserie, che miserie, caro Bontem­pelli! Non respiro più da circa un anno. Ho dovuto mettere da parte il romanzo a cui attendevo e non tenere conto di tutte le richieste di novelle che mi vengono da tante parti...».


Quanto alla materia insegnata, la stilistica, in quel maturo periodo di innovazioni estetiche post-desanctisiane, nessuno sapeva più che cosa fosse. I commissari del concorso, «5 pro­fessori d'Università, professori di Storia della letteratura ita­liana, ...naturalmente non sanno che cosa sia nè che si debba intendere per Stilistica. E chi lo sa? Io per conto mio, la in­segno da 11 anni. Insegno Stilistica? Insegno Estetica, o più propriamente quella parte dell'Estetica che si riferisce all'arte della parola..., o l'arte letteraria studiata in ciò che foima la sua intima essenza: lo stile...».

In ultima analisi Pirandello è pentito di avere intrapreso quella carriera, almeno di averla intrapresa al Magistero: «...questi due Istituti (di Magistero) di Roma e di Firenze sono, e forse non senza ragione, mal visti, segnatamente dai professori universitari. Se sapesse come e quanto io rimpianga d'avervi perduto senz'alcun compenso tanti anni della mia vita!».

Le memorie che si conservano su Pirandello professore, sono scarse e per lo più aneddotiche, dovute in gran parte a sue ex allieve, che scrissero molto dopo di quel tempo giova­nile, non riuscendo a sviluppare da un romantico alone e da qualche amplificazione i loro ricordi pirandelliani.

Con maggiore aderenza parla di Pirandello professore Ma­ria Alaimo, di Agrigento1: «...Leopardi gli era caro, special­mente lo Zibaldone. Quando parlava del Leopardi, assumeva sia nell'atteggiamento, come anche nel tono, nella tonalità della parola, un'intonazione di risonanza. Non faceva riferimento all'opera sua... solo ogni tanto criticando qualche lavoro di qualcuna di noi, accennava di sfuggita a qualche novella; quasi insomma per mettere a confronto certi momenti d'arte come erano stati resi da lui e come, magari infelicemente, da qual­cuna di noi. Gli piacevano quelle pagine in cui l'alunna si ab­bandonasse ai ricordi o alle espressioni di un suo mondo... Qualche volta era chiuso, rigido magari, e la comprensione umana pareva proprio che gli facesse difetto, come uomo, come professore, come esaminatore, da uomo a uomo, da persona a persona. Era come se su quella cattedra ci stesse più per una necessità di vita che non per trasporto suo proprio.

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Anche agli altri professori suoi colleghi non pareva che dimostrasse molto vive manifestazioni di amicizia. Se ne stava sempre un po' appartato. Non che in lui ci fosse della posa, questo no, ma tutto il suo atteggiamento era singolare. Anche il modo di vestire, anche il modo di parlare... Si tratteneva nei corridoi coi bidelli. E parlava umilmente con loro.

Vestiva quasi sempre di grigio. Molto distinto; del resto, la sua figura slanciata gli conferiva distinzione. Il cappello a larghe tese, il sigaro quasi sempre in bocca, gli occhi un po' socchiusi e lontani.

Preferiva aiutarsi coi gesti delle mani: si serviva molto del pollice, come uno scultore, quasi...».

Gli autori che Pirandello sceglieva erano quelli canonici della letteratura italiana, Dante, Ariosto, Tasso, Manzoni, Leo­pardi, ma con qualche particolare scelta. Tenne per esempio un corso «sull'ironia comica nella poesia cavalleresca», e uno sui «morti resuscitati dell'Ariosto»; un gruppo di lezioni su «la commedia dei diavoli, e la tragedia di Dante», da cui poi trasse una Lectura Dantis, che tenne in Orsanmichele, a Firen­ze, nel febbraio del 1916; e a lungo parlò del Tasso infelice. Anche il saggio su L'umorismo nacque in buona parte durante un corso di lezioni tenute al Magistero.

Inoltre il professore si occupava dei componimenti e del­l'ortografia delle sue alunne. Una di esse ricorda28 : «Egli insi­steva molto per farci sentire la differenza tra la «i» di «gioia»fi e quella di «vino», ed esigeva che adoperassimo per la prima parola la «j», ingiustamente esclusa dall'alfabeto italiano. Qualche critico letterario di quel tempo lo prese un po' in giro per il calore che egli mise nel difendere questa sua convinzione ortografica; noi alunne la adottammo con zelo per fargli pia­cere e forse qualche volta esageravamo anche un po', susci­tando i suoi commenti piuttosto sprezzanti per le donne che volevano dedicarsi agli studi...».

Non era generoso di lodi: «...quasi sempre si limitava a demolire con poche, ironiche frasi gli sforzi creativi di noi povere figliole che ci alzavamo tremanti di emozione a leggere le poche pagine protocollo, riempite con tanta cura nella vana speranza di udire una parola incoraggiante da quelle sue labbra seminascoste tra i baffi e il pizzetto grigio, nell'atteggiamento che gli era abituale, con il gomito poggiato sulla cattedra e la fronte sulla mano, come se fosse sempre stanco, mortalmente stanco...».

Degli anni in cui il pizzetto di Pirandello professore non era grigio, ma biondo cenere ancora e il ciuffo di capelli castani appena accennava a sfoltire, ci parla un'altra allieva, Paola Boni-Fellini, la memorialista di un Pirandello rubacuori e in­differente, che «tra le scolare, faceva strage». C'erano le alun­ne esterne dell'Istituto che si recavano ad attenderlo, quando arrivava a piedi da Piazza Indipendenza, e un altro gruppo, più acceso, di «interne», pensionanti al piano di sopra dell'Isti­tuto stesso, che ne avevano fatto un divo.

Poiché faceva lezioni nelle prime ore del pomeriggio, le collegiali avevano il tempo, durante l'intervallo dedicato alla colazione, di farsi belle per lui1. Dice la Boni-Fellini2 che «ci voleva tutto il riserbo, la serietà dell'uomo, il suo senso di re­sponsabilità, perchè quella lezione non si trasformasse in una corte d'amore». Le ragazze dovevano perciò limitarsi a infioc­chettare i loro compiti con nastrini multicolori. Il professore non permetteva altro. Una volta un'alunna gli scrisse che si sarebbe uccisa per la sua indifferenza. E Pirandello dovette correre in Direzione per liberarsi di quella responsabilità. Un'altra volta un'altra allieva prese a nascondere nelle tasche del suo cappotto delle lettere d'amore: tre, una dopo l'altra. Alla terza, Pirandello ritenne opportuno denunziare il caso

dalla cattedra strappando nel contempo in minutissimi pezzi la lettera incriminata (che fu poi pazientemente ricostruita dalle allieve).

È umano pensare che Pirandello potesse compiacersi di tante civettuole attenzioni (secondo la testimonianza del figlio, ne era solo urtato); ma certo nulla faceva per provocarle e le alunne innamorate di ogni nuovo corso lo ritennero un cuore duro.

Nei primi tempi della sua carriera scolastica, unica conces­sione fatta alla vanità, Pirandello si vestiva con eleganza accu­rata. Ecco come appariva, dall'esterno, secondo una descrizione involontariamente denigratoria di Lucio D'Ambra29: «...atten­to al taglio dei suoi vestiti attillati, alla piega dei suoi pantaloni bene a piombo ed all'immacolato color tortora o color ardesia dei suoi vasti soprabiti a campana, così larghi che di Pirandelli, invece di uno, ce ne potevano entrare quattro comodamente. Che cravattine, allora, annodate con arte in serici papillons. Che stivaletti luccicanti d'invulnerato copale e dalle ghettine di co­lor tenero! Su queste eleganze di dandy alla moda del tempo, una sola nota spavalda era... un cappellaccio grigio di falde così larghe che sembrava un ombrello...».

Poi, man mano Pirandello si libererà anche di quest'abito di provinciale eleganza, e, negli ultimi tempi, i suoi vestiti tenderanno a una semplificata funzionalità.


La gelosia di Antonietta

La moglie era gelosa delle allieve, dei nastrini sui loro com­piti, della corte che gli facevano. Andava talvolta a prenderlo alle porte del Magistero, e ne spiava l'uscita dietro gli alberi di Piazza delle Terme.

Dalla paresi, che l'aveva colpita alla notizia del fallimento finanziario del suocero, era guarita, ma si era impadronita di lei l'atavica maniaca gelosia dei Portulano, e aveva cominciato ad assediare senza sosta il marito in ogni momento della gior­nata.

Nessun fatto della vita di Pirandello ha avuto maggiore pubblicità di questa isteria gelosa, poi paranoia, di Antonietta. Tutti coloro che si sono occupati di Pirandello, anche solo sotto l'aspetto critico, si sono imbattuti sempre in questo nodo triste della sua vita privata che si riversa continuamente e in cento modi sulla pagina.

La gelosia di Antonietta era irrimediabile, non c'era modo di sfuggirle. Pirandello cominciò presto a scriverne e continuò a scriverne a lungo. Pare che Antonietta si risolvesse a non toccare più una pagina scritta dal marito dopo che ebbe letta una di queste novelle da lei stessa ispirate: offesa anche dalla trasposizione in un personaggio ritenuto offensivo30. L'assurdo, irrespirabile clima di una gelosia domestica, angusta, ossessiva, fra coniugi borghesi, legati da vincoli d'amore avvelenato e contorto (e ad amare era lui, non lei che viveva in una cupa irresponsabilità), è quello di novelle come L'uscita del vedovo, Tu ridi, di molte pagine di Suo marito, di Si gira... Nella Realtà del sogno, c'è Antonietta al principio del matrimonio: lui, il marito, «sosteneva che fosse una fissazione in lei l'impaccio, l'imbarazzo che diceva di provare davanti a tutti gli uomini... Nei quattro mesi prima del matrimonio, là, nella cittaduzza natale, non gli era stato concesso, non che di toccarle una mano, ma neppure di scambiare con lei due paroline a bassa voce.

Più geloso d'un tigre, il padre, le aveva inculcato fin da bambina un vero terrore degli uomini; non ne aveva ammesso mai uno, che si dice uno, in casa; e tutte le finestre chiuse; e le rarissime volte che la aveva condotta fuori, le aveva impo­sto d'andare a capo chino come le monache, e guardando a terra...».



In L'uscita del vedovo c'è un Piovanelli (Pirandello amava di tanto in tanto, quando nell'opera inseriva persone vere, tro­vare per loro nomi che coincidessero del tutto come avviene talora ne I vecchi e i giovani o che avessero qualche sfigurata somiglianza con i nomi veri: qui da Pirandello giunge a Piova­nelli31) vittima di una moglie gelosa: «...vera e propria mala sorte. Gelosia di lui! Fedele come un cane, per natura, una donna sola anche da scapolo gli era sempre bastata. Gli amici, in gioventù, lo burlavano per questo32. Ma che poteva farci? Non gli piaceva cambiare. Forse... sì, magari non sapeva...». «Odiava il genere umano quella donna tanto i maschi quanto le femmine per quella sua terribile malattia... Ormai, lui che aveva avuto sempre il ritegno più rispettoso per la donna, lui che non s'era mai permesso un atto un po' spinto, una parola arrischiata, lui che aveva creduto sempre difficilissima ogni con­quista amorosa, si sentiva insidiato da tutte le parti, e andava per le strade a capo chino; e se qualche donna lo guardava abbassava subito gli occhi; se qualche donna gli stringeva ap­pena appena la mano, diventava di mille colori.

Tutte le donne della terra eran diventate per lui un incubo: tante nemiche della sua pace».


Degli improvvisi rossori di Pirandello di fronte alle sue diciottenni allieve ci ha riferito Paola Boni-Fellini. E che tutte le donne fossero per lui un incubo, ha confermato, nel corso di una recente trasmissione radiofonica", una signora sua vi­cina di casa, che ricordava come egli troncasse improvvisa­mente le sue conversazioni per paura di Antonietta. Per evitare pretesti alla gelosia di lei, egli regolava cronometricamente le uscite e le entrate. Aveva affidato a lei la cassa domestica e, uscendo di casa, ogni giorno, si faceva contare i soldi per il tram, per i giornali, per i sigari. Ma lei non trovava requie, non gli dava tregua.

Vi sono pagine anche più intime intorno ai rapporti dello scrittore con la moglie, pagine (di Suo marito) consegnate al Nardelli come autobiografiche33: «Al dileggio incessante, alla denigrazione feroce... si sentiva dentro tòrcere le viscere e ri­voltare il cuore. Perchè egli avvertiva in pari tempo la ridico­laggine atroce della sua tragedia: essere lo zimbello d'una vera e propria follìa, soffrire il martirio per colpe immaginarie, per colpe che non erano colpe e che, del resto, egli si era sempre guardato bene dal commettere, anche a costo di parere sgar­bato, superbo e scontroso, per non dare a lei il minimo incen­tivo. Ma pareva tuttavia che le commettesse, a sua insaputa, chi sa come e chi sa quando. Manifestamente, egli era due: uno per sè; un altro per lei. E quest'altro ch'ella vedeva in lui, carpendo a volo, fantasma tristo, ogni sguardo, ogni sorriso, ogni gesto, il suono stesso della voce, non che il senso delle parole, tutto insomma di lui, e travisandolo e falsandolo agli occhi di lei, assumeva vita, e per lei viveva esso solo ed egli non esisteva più ...se non per l'indegno, disumano supplizio di vedersi vivere in quel fantasma, e solo in quello; e invano s'arrovellava a distruggerlo: ella non credeva più in lui; ella ve­deva in lui quello solamente, e, com'era giusto, lo faceva segno d'odio e di scherno... Quell'altro, chi sa come, chi sa quando, trovava modo di sfuggire a quella galera, con la sua inconsi­stenza di fantasma svaporante da una vera e propria follia, e correva per il mondo a farne d'ogni colore...». In odio a «quel­l'altro», Antonietta non voleva più stare con lui. Più e più volte, chiese di separarsi, di andare a vivere da sola. Ma lui non volle lasciarla andare. La tratteneva a casa a forza, perchè non avrebbe saputo vivere senza di lei, e scriveva al suocero, a



Girgenti, perchè si adoperasse anche lui per tenerla a freno. Antonietta al padre obbediva: costui infatti, anche da lontano, conservava su di lei l'antica autorità.

Lo scrittore continuò a subire la gelosia di lei, tanto più pervicace, quanto più Antonietta si sentiva prigioniera in una situazione ingiusta e senza uscita.

«Della vita ideale, delle doti migliori di lui (continua Piran­dello nelle pagine di Suo marito), ignorava dunque tutto. In lui non vedeva altro che l'uomo, un uomo che, per forza, cosi vio­lentato, così escluso da ogn'altra vita, così privato d'ogn'altra soddisfazione, per forza a tutte le sue rinunzie, a tutte le sue privazioni, a tutti i suoi sacrifizii doveva cercare in lei quel­l'unico compenso ch'ella poteva dargli, quell'unico sfogo che con lei poteva concedersi. E di qui appunto il tristo concetto ch'ella se n'era formato, quel fantasma che s'era foggiato di lui e che ella unicamente vedeva vivere, senza punto comprendere che egli era così soltanto per lei, perchè non trovava da poter essere con lei in altro modo. Nè questo... glielo poteva dimo­strare, per timore d'offenderla nella sua rigidissima onestà. Spesso ella, assediata da continui sospetti e sdegnata, gli negava anche quel compenso; e allora egli si irritava più vilmente entro di sè per la sua schiavitù; quando poi ella era più inchinevole a cedere, ed egli ne profittava, subito, con la stanchezza, una più generosa irritazione lo assaliva, un fremito d'indignazione lo scoteva dalla gravezza tetra della voluttà sazia e stracca; vedeva a qual prezzo otteneva quelle soddisfazioni del senso da una donna pur schiva d'ogni sensualità e che tuttavia lo abbrutiva... condannandolo alla perversità di quell'unione per forza lussu­riosa. E se in quei momenti ella era così mal'accorta da ripren­dere il dileggio, scoppiava pronta e fiera la ribellione».

Quando, nel 1909, le muore il padre, Antonietta si sente sciolta dalle catene dell'obbedienza, e ha inizio, per Pirandello e per i suoi figli, una vita drammatica, spezzata, tormentosa. Le scenate e le separazioni sono continue. Ora è lui che deve la­sciare la casa, ora è lei che se ne va sola, o portandosi dietro


Lietta. «Lietta (sono parole del figlio Stefano34), asservita a lei, ceduta, con amara coscienza del parziale abbandono, al do­minio capriccioso della Folle».

I figli spesso erano costretti a riparare presso qualcuno dei parenti, presso gli zii o presso altri.

Quand'era lui ad abbandonare le pareti domestiche (una di queste volte abitò, per due mesi, in via Balbo), «...appena solo (Suo marito), egli si sentiva sperduto nella vita, da cui per tanto tempo si era escluso; avvertiva subito di non avervi più radici e di non potervisi più in alcun modo ripiantare, non so­lamente per l'età; il concetto che gli altri s'eran formato di lui, dopo tanti anni di clausura austera, gli pesava addosso come una cappa, gli misurava i passi, gl'imponeva con arcigna vigi­lanza il contegno, il riserbo ormai consueto, lo condannava a essere quale gli altri lo credevano e lo volevano; lo stupore che leggeva in tanti visi appena si mostrava in qualche luogo a lui insolito, la vista degli altri abituati a vivere liberamente, e il segreto avvertimento del suo impaccio e del suo disagio di fronte all'insolenza di quei fortunati che non avevano mai reso conto a nessuno del loro tempo e dei loro atti, lo turbavano, lo avvilivano, lo irritavano. ...{Tutto) gli ingenerava un tal disgu­sto, una tale uggia, un avvilimento così dispettoso, una così sorda e agra e negra tristezza, che subito tornava a ritrarsi dal contatto e dalla vista degli altri e, di nuovo appartato, nel vuo­to, nella solitudine orribile, si sprofondava a considerare la sua miseria a un tempo tragica e ridicola, ormai senza più ri­medio. Non riusciva a far lo sforzo d'astrarsene per rimettersi al lavoro, che solo avrebbe potuto salvarlo. E allora comincia­vano a risorgere tutte quelle scuse («il dovere imprescindi­bile assunto verso quella donna... la pietà che egli, sano di mente... doveva usare verso quella donna, senza dubbio di mente inferma») ch'egli fingeva di credere ragioni della sua schiavitù; risorgevano istigate principalmente dal bisogno istin­tivo, man mano più urgente, della sua ancor forte maschilità, dal ricordo malioso degli amplessi di lei. E ritornava alla sua catena...». Riferisce il figlio1: «...nei rarissimi momenti che Antonietta, spesso dopo una riconciliazione, in seguito al ri­torno in famiglia dall'esilio dell'uno o dell'altro, cioè ricucite per il momento quelle separazioni che costellarono in modo tragico e continuo la vita matrimoniale di Pirandello, si mo­strava per un giorno o due serena, e accogliente verso di lui, noi figli vedevamo quasi sgomenti che nullità diventassimo noi, di punto in bianco, per quei furenti amanti, quei due evasi in un loro cielo, dove un poeta non finiva più di trovare modi inauditi di glorificare la sua Dea; i doni sproporzionati alle sue possibilità, di cui la copriva...».

Una volta, era il 1913, Antonietta se ne tornò a Girgenti, portando con sè Lietta e Fausto (mentre Pirandello, con Ste­fano, andò ad abitare al numero di via Antonio Bosio, la casa dove tornò poco prima della morte). Nel settembre del 1914, lo scrittore andò a riprendere i ragazzi, per farli tornare a scuola, a Roma, e lei non volle seguirli. Appena qualche mese dopo, sola in casa (abitava un appartamento della villa Catalisano, sotto la Passeggiata), fu presa da una furibonda crisi di pazzia. Si barricò in casa, e cominciò a urlare che volevano farle del male. Accorsero i vicini e furono chiamati i fratelli di lei.

Il pretore stabilì che fosse internata in manicomio. Piran­dello, con i figli, accorse, e appena lo vide, Antonietta gli si buttò al collo invocandone l'aiuto e la protezione. Così la fami­glia si riunì di nuovo sotto il segno della follia esplosa di An­tonietta.

Il male peggiorò ancora, e, nell'esasperazione di quella pre­senza, lo scrittore scrisse ancora un romanzo: Si gira..., par­lando anche, a lungo, di lei; ma con accenti, questa volta, più disperati. Parla di Nene (il personaggio che corrisponde ad Antonietta) come di una donna affetta di una «tipica forma di paranoja, anche coi deliri della persecuzione... tipica, tipica!

' V. nota di pag. prec.


Arriva finanche a sospettare, la sua povera Nene, ch'egli vo­glia ucciderla per appropriarsi, insieme con la figliuola, del de­naro di lei... Libertà, libertà: una gamba qua, una gamba là! Dice così, povera Nene...». Fatti, tutti, della vita di Piran­dello35.

C'è Lietta in casa (Luisetta, nel romanzo): «E poi c'è la povera Luisetta, lasciata sola in quell'inferno, a tu per tu con la mamma che non ragiona...». «Ah, ci vuole un vero eroismo, creda, un grande eroismo da parte mia a sopportarla. Non lo avrei, forse, se non ci fosse quella mia povera piccina». «So che è una malattia... Se potessi non sapere ch'ella lo fa per paz­zia, io la caccerei fuori di casa, mi separerei da lei, difenderei ad ogni costo la mia dignità. Ma... so che è pazza! E so dunque che tocca a me d'aver ragione per due, per me e per lei che non l'ha più! Ma avere ragione, per una pazza, quando la pazzia è così supremamente ridicola, ...significa coprirsi di ridicolo, per forza! Significa rassegnarsi a sopportare lo strazio che que­sta pazza fa della mia dignità, davanti alla figlia, davanti alla serva, davanti a tutti, pubblicamente; ed ecco perduto il pu­dore della mia sciagura!».

Lo scrittore non solo sembra avere perduto, come il suo personaggio, il pudore della propria sciagura, ma provare an­che un sapore di liberatoria umiliazione in questa ripetuta e minuziosa pubblicazione in chiave così trasparente (ma anche in conversazioni con gli estranei, in interviste, in confessioni dirette al suo biografo) della sua vita infelice e disgraziata. Il fatto è che Pirandello ha veramente e da sempre sofferto nel­l'orgoglio. Da bambino, irrimediabilmente, per colpa del pa­dre. Da uomo fatto, nella speranza frustrata di traguardi su­blimi e annidati oltre i limiti dell'attesa. Egli accettava dalla vita il male con accanita, lucida pazienza. Ci chiediamo: per­chè la sua vocazione per il teatro, l'unica che importasse vera­mente, quella perseguita con appassionamento già nella prima giovinezza, viene quasi improvvisamente ridotta in margine, e al primo ostacolo abolita? E poi, dopo tanto tempo, riaccolta febbrilmente e appassionatamente, apparentemente per un ca­priccio del caso, e in realtà solo dopo il crollo di tutti i miti che gli duravano segreti fin dall'adolescenza? E perchè questa ostentazione pubblica (ed era una persona proverbialmente ri­servata) di quanto gli altri sogliono nascondere nel segreto della loro vita privata? E che cos'è questa univoca deviazione nella letteratura delle grandi energie sepolte? Sono le domande più importanti sulla vita di Pirandello e, temiamo, quelle destinate a rimanere senza precise risposte. È certo che in Pirandello esi­ste una grave ferita dell'orgoglio che trova compensi attraverso canali molto deviati. Se si bada bene, c'è in lui una volontà segreta di soggezione totale e senza contropartita nei riguardi della moglie, comunque si arricchisca degli impulsi del dovere, della pietà o della passione. Ricorda il figlio Stefano36 : «... mam­ma aveva coscienza lucidissima di essere lei ostile a lui, e che lui curasse in tutti modi di placarla, questo le appariva o fintag­gine o la insuperbiva. Il delirio della persecuzione le dava la forza e l'intimo diritto di inveire, accusare, muovere processi alle intenzioni, sottoporre a perentorie richieste di spiegazioni atti di cui ella travisava il senso e di cui era impossibile farle riconoscere l'infondatezza. L'atteggiamento di mamma non fu mai quello di una vittima, appunto per la grande libertà di esprimersi, per il largo che Pirandello con la sua quasi incredi­bile forza d'animo, le faceva accanto a sè, le concedeva sempre nella speranza di farla ragionare». Era pura e semplice forza d'animo? Tutte le ribellioni di Pirandello alla sua situazione di paziente vittima furono fittizie e caduche, o non ci furono affatto. È stato detto che in Pirandello è assente il narcisismo. Occorre precisare: c'è un narcisismo offeso e sepolto. Non solo là dove egli parla di sè e della moglie, ma sempre, in tutta la sua opera egli mostra di volersi continuamente offrire a un ca­stigo umiliante, non finendo mai di coincidere con i suoi umi­liati personaggi. Ma è anche, bivalentemente, un modo, questo, di imporre la sua volontà. La ripetizione del castigo, la sua mai smessa rappresentazione, sono una dimostrazione dell'ingiusti­zia di esso. Donde la pietà e la compassione. Inoltre la dimo­strazione dell'ingiustizia è per se stessa una vendetta: «l'arte vendica la vita», ripete Pirandello. L'ira e la crudeltà verso se stessi e verso gli altri, il sabotaggio vendicativo, sono giusti­ficati da una ingiustizia originaria. Soffrire, a un certo punto, è divenuto per lo scrittore il diritto di far soffrire i suoi perso­naggi: vi sono certuni di loro sottoposti, col gusto con cui un bambino tortura gli insetti, a gravi, crudeli, apparentemente gratuiti patimenti: come Belluca, in II treno ha fischiato: «...aveva con sè tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.

Tutt'e tre volevano essere servite. Strillavano dalla mattina alla sera perchè nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli... tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa... zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perchè qualcuno dei ragazzi, al buio, scappava e andava a cacciarsi tra le vec­chie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perchè nessuna delle tre voleva stare in mezzo...». E tutti conoscono questo lato dell'arte di Pirandello. La volontà di dare senso cristiano alla crudeltà, pur sempre presente, molto spesso fallisce del tutto.

Ma soffrire è anche un'elezione del destino, ignominia, ma anche orgoglio e virtù. In Pirandello, non c'è sottovalutazione di se stesso, se non attraverso la sottovalutazione degli altri, e, qualche volta, degli altri, c'è l'aperto disprezzo. È un morire, il suo, con tutti i Filistei. Il sistema planetario, le misure astro­nomiche, gli servono spesso per creare un fondo comune di abiezione agli altri e a se stesso. Ma talora no: è un far morire i Filistei, e lui, rimbalzando dal profondo dell'umiliazione, tra­sformarsi in aria e luce: come Moscarda in Uno, nessuno e cen­tomila («...albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo...»), o, più pertinentemente, come il personaggio di Soffio, che svanisce nell'aria, dopo una strage di simili. È il rintrecciarsi di conse­guenze dalle premesse ignorate della vita di Pirandello, in una rete aggrovigliata in cui tornano sempre le stesse costanti di potenza distruttiva e di estremo salvataggio. Infatti Pirandello si doveva sentire ben sicuro della sua più intima dignità, e tanto più quanto meglio era capace di trasformare il suo di­sprezzo in virtù. Tutto il complesso problema che dovrà prima o poi affrontarsi intorno alla genuinità del moralismo piran­delliano non può non dibattersi tra questi estremi, di un pre­potente indifferenziato impulso di vendetta e uno di buona volontà immediatamente moralizzatrice. Ma, per vincere, do­veva essere ferreo il dominio della volontà sulla vita più spon­tanea della coscienza: perciò il prevalere di una disciplina rigo­rista, il filone consequenziario e protestante, la vivacità morale anche se contraddittoria della sua opera. Sarebbe in fondo, la sua, la carriera del santo, se la resistenza alle tentazioni del­l'abisso fosse stata veramente coerente come in certe agiografie scritte in sua gloria.

Quando Pirandello, più vecchio, avrà sfogato ed esaurito in gran parte questa vena distruttiva ed autodistruttiva, dopo gli anni liberatori del grande teatro, si assisterà anche a una ba­nalizzazione del suo moralismo e alla nascita di un teatro mi­nore, più tecnico e più oratorio.


Le macchine


Si gira... appare nel 1915, sulla Nuova Antologia (il titolo sarà poi mutato, nel 1925, in quello più frigidamente novecen­tesco di Quaderni di Serafino Gubbio operatore). È un libro con molte pagine saggistiche: un saggio moralistico e di costu­me, in cui lo scrittore, con qualche anticipo sugli scopritori e teorici dell'alienazione della civiltà industriale a noi contem­poranei, denuncia il demone prevaricatore d'umanità nascosto nella macchina. Sappiamo che Pirandello è attratto da tutti i simboli dell'alienazione. Se gli basta l'antico specchio dome­stico per svuotare di realtà l'umana presenza, qui egli accoglie la ben più stimolante provocazione della macchina, rivelan­done anche il pericolo sociale: «...La vita... in un tempo come questo, tempo di macchine, (è) produzione stupida da un can­to, pazza dall'altro, per forza, e quella più che questa, bollate da un marchio di volgarità». «L'uomo che prima, poeta, deifi­cava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti... s'è messo a fabbricare di ferro, d'acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse... Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?

È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dove­vano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.

La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno d'ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce la ridiano, l'anima e la vita, in produzione centu­plicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e boc­concini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi... Ecco le produ­zioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita!».

Il giudizio, per così dire storico, è generalmente valido: attratto però nella tensione d'anima dello scrittore, nella sua ansia e nella sua privata ossessione: «C'è una molestia... che non passa. ...Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, bru­sco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscio continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici? Il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinemagrafico?


Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'imma­gini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.

Si spezzerà?

Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, una esasperazione a lungo insoppor­tabile; farebbe impazzire.

In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertigi­noso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cògliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non ces­serà!». Parole che viste al di là dell'identificazione biografica, dimostrano una valutazione incompleta e romanticamente attar­data della civiltà delle macchine. Come tante volte in Piran­dello, l'intuizione nuova, e anticipatrice rispetto ai tempi, trova motivazioni culturali incomplete e immature, o addirittura regresse; qui, come si può vedere nelle parole che subito citiamo, in un leopardismo e in un russovianismo coperti di squallore: «...tutto quello che avviene, forse avviene perchè la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie. Perchè le bestie hanno in sè da natura solo quel tanto che loro basta ed è necessario per vivere nelle condizioni, a cui furono, ciascuna secondo la propria specie, ordinate; laddove gli uomini hanno in sè un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta, non facendoli mai paghi di nessuna condizione e sempre la­sciandoli incerti del loro destino. Superfluo inesplicabile, che per darsi uno sfogo crea nella natura un mondo fittizio, che ha senso e valore soltanto per essi... allontanandoli da quelle semplici condizioni poste da natura alla vita sulla terra, alle quali soltanto i bruti sanno restar fedeli e obbedienti».

Pirandello in fondo rimane quello dei treni carducciani, meno l'ottimismo:

«Sbuffa in preda al demon che lo trambascia un ferreo mostro, e dove mai m'invola con la sua furia? M'accorcia il cammino;

e avanti, avanti, nella notte sola, gelida, nera, mi conduce fino all'orlo d'un abisso, e lì mi lascia».

Questa è una poesia del 1910 {Esame). In una novella del 1912 {Notte), si legge: «...la follia accende i fuochi nelle mac­chine nere, e nella notte, sotto le stelle, i treni correndo per i piani bui, passando strepitosi sui ponti, cacciandosi nei lunghi trafori, gridano di tratto in tratto il disperato lamento di dover trascinare così nella notte la follia umana lungo le vie di ferro, tracciate per dare uno sfogo alle sue fiere smanie infaticabili».

Non sono i vagon-lits di Barnabooth che scorrevano negli stessi anni su altri più levigati binari.

Ed ecco l'automobile: «...c'è una carrozzella che corre da­vanti. Pò, pòpòòò, pòòò. Chè? la tromba dell'automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro... Pian pianino, sì; ma che avete veduto voi? una car­rozzella dare indietro, come tirata da un filo, e tutto il viale assaettarsi avanti in uno striscio lungo confuso violento verti­ginoso. Io, invece, ecco qua, posso consolarmi della lentezza ammirando a uno a uno, riposatamente, questi grandi platani verdi del viale...». Pirandello infatti è nato molto prima del­l'automobile, come prima della luce elettrica, del cinema e della radio. Gli è difficile assuefarsi. Ogni nuovo strumento mecca­nico che si affaccia nella sfera dei suoi sensi, gli entra nella buia caverna dell'ansia e chiede di essere esorcizzato. Ma egli non può sfuggirgli, e assimila alla sua angoscia anche questi nuovi strumenti, quella vana velocità, quel ticchettio, quel ronzio, quel si gira, quell'«attuoso cammin verso la morte», e ce li restituisce, nell'opera, insieme ad altri congestionati simboli di alienazione.


La guerra mondiale


Nel settembre del 1914, cioè a poco più di un mese dallo scoppio della guerra mondiale, e nove mesi circa prima dell'in­tervento dell'Italia nel conflitto, Pirandello pubblicava, su La rassegna italiana, un breve racconto intitolato Un'altra vita, che rimane un apprezzabile documento della sua attenzione, e insieme della sua distrazione, nei riguardi di quanto gli acca­deva intorno in quella prima fase della neutralità italiana. Vi troviamo riportati, come giudizi e sentimenti di vari personag­gi, le opinioni correnti di quel momento: i concetti del neutra­lismo utile alla Giolitti e alla Croce, che erano allora quelli dell'opinione pubblica più numerosa, le voci appassionate del­l'irredentismo, e le idee della palingenesi pubblica e privata che sarebbe dovuta scaturire dalla conflagrazione mondiale. Ma, nella novella, più che una registrazione delle voci della cronaca contemporanea, è chiaramente individuabile, nel tono qua e là più partecipato usato da Pirandello, il suo maggiore interessa­mento per alcune di quelle opinioni; così, per esempio, quando riporta le parole di un personaggio che dice: «Tutto sommato, per quanto funesti saranno gli eventi, tremende le conseguen­ze, possiamo esser lieti almeno di questo: che ci sia toccato in sorte d'assistere all'alba di un'altra vita. Abbiamo vissuto qua­ranta, cinquanta, sessanta anni, sentendo che le cose, così co­m'erano, non potevano durare; che la tensione degli animi si faceva a mano a mano più violenta e doveva spezzarsi; che in­fine lo scoppio sarebbe venuto. Ed ecco, è venuto. Tremendo. Ma almeno, vi assistiamo. Le ansie, i disagi, l'angoscia, le sma­nie d'una così lunga e insostenibile attesa, avranno una fine e uno sfogo. Vedremo il domani. Perchè tutto muterà per forza, e noi tutti usciremo certamente da questo spaventoso scon­quasso con un'anima nuova». Sono parole che corrispondono ad altre scritte, quasi contemporaneamente, nelle prime pagine del romanzo Si gira... (che appare nella Nuova Antologia a par­tire dal giugno del 1915): «Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si danno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile cre­dere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d'altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s'accelera, non abbia ridotto l'umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distrug­gere tutto. Sarebbe forse, in fin de' conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e dac­capo».

Nel racconto Un'altra vita seguono parole più pessimistiche nei riguardi dell'avvenire dell'Europa: «E chi sa! pensate che l'India, la Cina, la Persia, l'Egitto, la Grecia, Roma diedero esse un tempo il la alla vita, sulla terra. Un lume s'accende e sfavilla per secoli e secoli in una regione, in un continente; poi, a poco a poco, si smorza, vacilla, si spegne. Chi sa! Forse ora sarà la volta dell'Europa. Chi può prevedere le conseguenze di un così inaudito conflitto? Forse non vincerà nessuno e si distruggerà tutto, ricchezze, industrie, civiltà. Il la alla vita co­minceranno forse a darlo le Americhe, mentre qua la rovina si farà a mano a mano totale e verrà tempo che le navi approde­ranno alle coste d'Europa come si approda a terre di con­quista».

Se dunque intorno allo scrittore risuonavano le voci di una retorica della distruzione di tono futurista, i concetti ormai internazionali della «guerra, igiene del mondo» e gli appelli farnetici al «caldo bagno di sangue», egli a un tale clima si accostava sospinto da richiami del tutto soggettivi. Era l'usuale interiore carica repressa che si assimilava, quando ve n'era l'oc­casione, i punti di maggiore tensione della storia contempora­nea. Così Pirandello occasionalmente aveva aderito, nel corso della sua rievocazione dei Fasci siciliani, all'ardore palingenetico dei socialisti massimalisti e soreliani che si propone­vano come fine la rivoluzione totale. Ma erano, con la storia esterna, labili coincidenze. Infatti si succedevano, anche ades­so, alle apocalittiche immaginazioni visionarie (qui l'Europa è retrospinta «nelle caligini di una favolosa preistoria»), i ter­mini concreti e dolorosi di una persuasione tristemente bor­ghese e agganciata agli squallidi fatti di una povera vita quo­tidiana. Il personaggio del racconto (il quale per la sua età, per il suo abitare «in una traversa remota in fondo a via Nomentana», per quel giardinetto sotto le «quattro finestre a pianter­reno» della sua casa, «con una fontanella, il cui chioccolio nei notturni silenzi gli è caro», per quella prossimità dei «pini e dei cipressi di Villa Torlonia», per la moglie nemica, il figlio già pronto a partire volontario nella guerra che sta per scop­piare37, per tante altre sfumature, rivela molte rassomiglianze, nonostante l'insistita deformazione di altri suoi tratti, con lo stesso Pirandello) rimasto solo, formula dei pensieri privati, che sono come il controcanto di quei concetti e di quei senti­menti pubblici: «Ora l'incubo della distruzione generale, che spegnerà ogni lume di scienza e di civiltà nella vecchia Europa, gli si fa sull'anima più grave e opprimente... Come sarà, quale sarà la nuova vita, quando lo spaventoso scompiglio sarà fred­dato nelle rovine? Con quale anima nuova ne uscirà lui, a cin­quantatre anni?... Ahi ahi, ha una gran paura... che ormai non gli verrà fatto di mutare,... nel fondo del cuore, qualunque cosa sia per accadere nel tempo che ancora gli avanza. S'è abituato a conversar con le stelle, ogni notte; e, al freddo lume di esse, i sentimenti terreni gli si sono come rarefatti, dentro. Non si direbbe, perchè la volontà di vivere, esteriormente, in quel certo suo modo metodico..., s'appalesa ancora in lui tenace. Ma in fondo è stanco e triste, di una tristezza che gli eventi del mondo difficilmente potranno alterare.

Vincano i francesi, i russi e gl'inglesi, o vincano i tedeschi e gli austriaci; sia o no l'Italia trascinata anch'essa alla guerra, venga la miseria e lo squallore della sconfitta o tripudii frene­tica la vittoria per tutte le città della penisola; si trasformi la carta geografica dell'Europa; non cangerà mai questo è cer­to, il malanimo, il chiuso rancore di sua moglie contro di lui, il rammarico della sua vita tramontata senza alcun ricordo di vera gioja».

Infatti la vita di Pirandello progrediva da un pezzo su un binario monotono e triste: il futuro non sembrava dovere arre­care nuovi eventi. Quando il 24 maggio 1915 fu dichiarata guerra all'Austria, egli, come scrittore, non aveva motivo per attendersi un mutamento della critica in suo favore. Aveva quasi cinquantanni e stava contento alla sua relativamente mo­desta fama e all'apprezzamento degli amici. Proseguiva il suo lavoro con Io stesso metodico appassionamento per la pagina scritta, nella stessa stretta degli impegni assunti con i giornali. Negli ultimi tre anni, aveva composto più di cinquanta novelle, e molte non sono brevi, un romanzo, Si gira... e aveva riscritto, in gran parte, I vecchi e i giovani. In tutte queste novelle, nel nuovo romanzo, e nella versione stessa del vecchio, non v'è il segno, nè l'intenzione di un rinnovamento al di là di una poco destra ripulitura esteriore. Pirandello scriveva quasi le stesse cose, e più o meno con lo stesso spirito di dieci anni prima. Le sue più caratteristiche categorie di scrittore, quelle più speci­fiche del temperamento, che presto sarebbero venute alla luce, purificate, nei capolavori teatrali, continuavano ad essere som­merse in una congerie di invenzioni, di pretesti, di forme, non ancora sufficientemente differenziati. Per cui non può ascri­versi del tutto a una loro miopia di critici, se G. A. Borgese, qualche anno prima (in La vita e il libro, 1911) aveva assi­milato Pirandello a Trilussa e a Locatelli, e se Renato Serra, appena l'anno prima (in Le lettere, 1914) lo aveva associato a scrittori di statura di gran lunga inferiore.

Se come scrittore non poteva prevedere mutamento alcuno nella propria carriera, neanche alla sua vita privata si aprivano nuove prospettive. I figli, Stefano, Lietta e Fausto, erano ri­spettivamente di venti, di diciotto e di sedici anni. Egli amava i suoi figli con cuore autentico, senza riserva alcuna: non sem­bra che consentisse ad alcuno dei suoi pensieri di crisi di attra­versargli la via dell'affetto per loro. Quasi sempre vediamo nell'opera questa persuasione del sangue sottomettersi qual­siasi movimento della ragione. E si spiega, questo amore pater­no, nella solitudine di Pirandello, come un necessario sfogo della sua passione, riequilibratore per qualche tratto del de­serto infinito prodotto nella sua vita sentimentale dalla lonta­nanza nel tempo e nello spazio dell'affetto della madre e della perdita troppo precoce dell'amore della moglie.

Pirandello, uomo dai sommersi e repressi dinamismi affet­tivi, trovava una via normale di liberazione nello sfogo per lo più immediato della pagina: e qui concorrevano l'odio del mondo e l'appropriazione inversa di esso nella compassione. Ma sempre e specie in questo periodo dedicò il suo affetto e la sua passione ai figli con forte parzialità (secondo l'etica fami­liare del padre meridionale). Come amò i giovani amici, Rosso di San Secondo, Frateili, Alvaro. Questi, per riflesso, quando ci hanno parlato di Pirandello, hanno usato, senza accorger­sene, un accento filiale.

Sono gli anni della guerra a illuminare anche questo aspetto del temperamento pirandelliano; perchè tutti e tre i suoi figli, in questi anni, in modi diversi, subiranno pesanti prove e sfio­reranno la morte, e ciò susciterà gravi reazioni nel suo animo. Dei figli, Stefano è il più maturo. Frequenta già la Facoltà di lettere. Il padre ha vigilato su di lui mentre cresceva con l'amo­rosa circospezione con cui si guarda a una pianta giovane che offre di sè grandi speranze. Gli ha visto ereditare la propen­sione letteraria, l'amore per la poesia, ha scorto in lui una qualità di scrittore che gliene rende ancora più grato il cre­scere. Ne ha fatto, da quando era ancora bambino, il suo con­fessore nei momenti più desolati. Lietta, diciottenne, preoccu­pa molto il padre poiché la convivenza di lei con la madre che la tiranneggia, e di lei è gelosa, la contrista e la priva della spensieratezza e della gioia della sua età. Fausto è un ra­gazzo che frequenta le scuole secondarie e dà già i primi segni delle sue attitudini di artista. La pittura e il disegno avevano attratto un tempo Pirandello, che soleva riempire i suoi ap­punti di figure e di paesaggi veristici, e sempre, fin quasi alla morte, godette, durante le pause estive, di tenere in mano i pennelli. Così anche Fausto sembrava essere in qualche modo una continuazione del padre.

Tra i figli, amati come estremo rifugio, una compagna ca­pace ormai quasi solo di rancore e di odio, l'ingrato mestiere di professore e la confessione letteraria che si traspone molto raramente in consolazione d'arte, è ben difficile mantenere in equilibrio la propria anima. Il suo sguardo rimane rivolto a uno specchio che riflette la vita sua stessa e quella del mondo in una continua triste deformazione.

Ma non aveva tuttavia, in quest'epoca, ancora portato a fondo la sua esperienza dell'ansia e della persecuzione. Ci vorrà un patire più fondo e totale perchè egli trovi quelle parole semplificate ed essenziali in cui il senso della propria crisi si assimili quello della crisi di tutti.

Sarà lo strappo violento inferto al suo affetto di padre, quando Stefano partirà per la guerra, l'accorgersi improvvi­so che la sua disperazione può coincidere col cruccio e la la­cerazione del mondo, la corrispondenza dell'assurdo dolore pubblico col suo privato, la conferma definitiva che tutto quanto avviene è vano ed empio, e, insieme, nel mondo delle pareti domestiche, la rinnovata cieca vessazione della moglie sul suo animo definitivamente a lutto, a liberare paradossalmente Pi­randello dalla disperazione, e a rivelargli le strade liberatorie dell'arte più vera. Qui, nel suo teatro, la disperazione sarà for­ma di disperazione, e il disordine e il caos dell'esperienza inte­riore, chiave e traccia organica per la chiarezza dell'opera.

Ma, in quei giorni, Pirandello è preso anche nella girandola dell'infatuazione patriottica che si è impossessata di molti ita­liani, e lo vediamo prendere posizione per l'intervento senza dar tempo ai dubbi. I giornali, la piazza e il governo erano riusciti a coinvolgere nell'entusiasmo patriottico gran parte dell'opi­nione pubblica. In quei primi giorni di maggio, anche l'orienta­mento della maggioranza parlamentare stava per capovolgersi. Da giolittiana e neutralista essa si farà quasi improvvisamente interventista e voterà i pieni poteri a Salandra, responsabile del patto di Londra.


Pirandello era pronto ad accendersi. Nel cuore custodiva, nel disordine delle sue delusioni, ancora una caparbietà d'illu­sione, e fede nel gesto puro dell'eroismo. Era intatta nel suo animo la suadente voce materna che in anni ormai lontanis­simi lo aveva persuaso alla purezza dei miti risorgimentali e degli eroismi compiuti per l'ideale. Questa eredità ottocente­sca che rimane così viva nell'anima di Pirandello fino alla prima guerra mondiale, ci mostra, più che altri indizi, l'importanza dell'anno della sua nascita nel pieno dell'Ottocento. Per quanto Pirandello possa essere e sia un uomo eccezionale e a un certo punto possa farsi l'interprete clamoroso della crisi novecen­tesca, gli rimane però dentro l'animo una decisiva compo­nente ottocentesca, che spiega anche l'improvviso insorgere del suo patriottismo, capace di assumere a momenti le forme più ingenue ed esaltate. Assume maggiore forza allora il mi­to garibaldino della madre e del padre. Rifluisce l'eredità pa­triottica familiare arricchitasi delle persecuzioni, delle proscri­zioni, dell'esilio quarantottesco dei nonni, degli zii e della ma­dre, e le memorie del Sessanta, e quelle paterne di Aspro­monte. La patria, in casa Ricci Gramitto, e in quella di Stefano e Caterina, non era mai entrata in discussione: era un termine romantico e idealistico, un assoluto contro cui si poteva be­stemmiare e peccare, ma che rimaneva in se stesso, un ter­mine di purezza inattingibile dalla critica. Inoltre, e crediamo anche più determinante questo fattore, il legame affettivo con la madre si era stretto in Pirandello con quello di queste persua­sioni e aveva reso più saldo il nodo del suo patriottismo, che perciò appare ben coperto e difeso. Custodito nella pelle di un persistente candore, era uscito indenne dalle tempeste del dub­bio metafisico. E come altri miti dell'anima dello scrittore, an­che per questo è opportuno tornare alle sue prime origini: al contatto infantile con la madre; alla sublimazione e idealiz­zazione, in una più sicura costellazione, di alcune persuasioni istillate dalla madre nell'animo del fanciullo. Patriottismo idea­lizzato e idealizzazione della madre tornano insieme, in una specie di simbiosi, sia ne I vecchi e i giovani, sia in quella filiale rievocazione della madre che è il Colloquio con la madre morta, che più oltre considereremo. Per queste ragioni, il patriottismo di Pirandello, evocato dal livello delle sublimazioni, appena provocato dalla irrazionale eccitazione del mito collettivo, di­vampò, e fino alla morte della madre, e ancora per qualche tempo, dettò la sua norma cieca e sublime, convivendo incon­sapevole, ingenuo ed arcaico, con le regole disintegratrici della riflessione umoristica. E per di più atteggiandosi nello spec­chio del più naturale e legittimo entusiasmo del ventenne figlio Stefano. Certo è una nota estranea e contraddittoria nel con­certo delle negazioni o delle critiche affermazioni pirandelliane, questa di un patriottismo integro di spiccato colore ottocente­sco e garibaldino. Ma è proprio in questa condizione di spirito che lo troviamo ai primi di maggio del 1915, attento e parte­cipe delle «radiose giornate di maggio».


D'Annunzio, il 5 maggio, aveva tenuto il discorso di Quar­to: la folla, «una marea innumerevole», aveva inneggiato alla guerra. Da Genova, D'Annunzio fu chiamato a Roma. Al suo arrivo, sulla piazza della stazione, si era raccolta una folla di più di cinquantamila persone e D'Annunzio, dal balcone del­l'Hotel Regina, tenne un altro discorso pieno di tutte le fiamme della sua calcolata retorica. Disse fra l'altro che l'Italia non era più nè «una locanda», nè «un museo», nè «un giardino per viaggi di nozze», e disse anche: «Intorno a noi vi è odore di tradimento, e questo tradimento si compie a Roma. Siamo sul punto di essere venduti come un gregge vile. Sulla nostra dignità umana, sulla dignità di ciascuno di noi... v'è la minaccia d'un marchio servile...» Noi sappiamo, dalla testimonianza di­retta del figlio38, che Pirandello «era molto intristito dal fatto che lo spregevole (sempre per lui fu spregevole) uomo D'An­nunzio fosse stato assunto a guida di sentimenti che la par­tecipazione (l'intrusione) di lui non poteva se non sporcare», e che non si trovava nella piazza della stazione fra i cinquanta­mila romani che ascoltavano D'Annunzio e si accendevano do­cili alla sua persuasione retorica, nè fu in Campidoglio e al Costanzi a sentire gli altri discorsi dannunziani. Ma Pirandello dovette essere, nonostante tutto, e sia pure solo dal punto di vista del documento oratorio, impressionato dall'eloquenza dannunziana, appresa, se non in piazza, sui giornali. Certo è che in Berecche e la guerra (novella scritta, parrebbe, nel primo anno del conflitto, a continuazione di Un'altra vita, e con lo stesso personaggio39 ), leggiamo una lettera, quella che Faustino, partendo per la guerra, invia al padre, in cui ricorrono imma­gini ed espressioni, frasi e concetti, quali con diversa disinvol­tura, aveva espressi D'Annunzio nei suoi comizi romani. La prosa di questa lettera è tutta un susseguirsi di goffe variazioni su due o tre tropi dannunziani, in una bizzarra esercitazione retorica: «...l'Italia, «ancella» come sempre e ora senza pa­droni... I due che aveva l'uno cattivo, che l'ha sempre anga­riata; l'altro che s'è dato sempre l'aria di proteggerla, piccola vecchia signora decaduta, tutt'a un tratto, senza neppur licen­ziarla, ...l'hanno lasciata sola e si sono messi a sbrigare da sè le loro faccende... Molte cose belle, lo so, e molte cose grandi e gloriose sono in questa casa antica, di cui la povera signora decaduta ha fatto una locanda; ma vi sono pure cose tristi e una grande miseria, specialmente nell'anima dei figli di questa signora, nati servitori. La mamma li ha educati alla prudenza, alla tolleranza, a far le viste di non capire, di non sentire; a prendersi anche in santa pace, se capita, uno schiaffo per man­cia, rispondendo con un bell'inchino: Grazie, signore! -; li ha educati a portare con disinvoltura tutte le livree come l'abito a loro più proprio, a spazzolare con disinvoltura dalle falde di ciascuna l'impronta dei calci ricevuti...». In tale stravolta ora­toria che inavvertitamente assume curiose movenze da com­media dell'arte, rimangono bene in vista le parole salienti del discorso di D'Annunzio all'Hotel Regina: l'Italia «ancella», «locanda», o le parafrasi di «museo», «giardino», «gregge vile», «marchio servile».

Ma Pirandello, in realtà, aveva ben poco da condividere con

l'ebbrezza dannunziana. Il suo interventismo era di lega più semplice e di origine fondamentalmente risorgimentale. Egli non voleva, per il momento, nulla più che una quarta guerra d'indipendenza. (Però, più tardi, nel 1935, sarà con i fascisti della guerra imperialistica, e parlerà allora «di felice momento di vita vera, di vita in piedi, di fede intrepida»).

La sua sollecitudine andava ora agli «irredenti» del Tren­tino e della Venezia Giulia: «..a Trieste, a Fiume, a Pola, in tutto il Trentino, si fa scempio e strazio dei nostri fratelli che ci aspettano...».

Pirandello ci dice (nei Colloqui coi personaggi) che in quei «giorni di torpida agonia che precedettero la dichiarazione di guerra all'Austria, [egli] entrav[a] di furia nello studio con un fascio di giornali, ansioso di leggere le ultime notizie [per sapere]... se finalmente la dichiarazione di guerra era avvenuta, se gli ambasciatori d'Austria e di Germania erano partiti da Roma, se c'erano già i primi fatti d'armi per mare o alle fron­tiere». «Nulla! ancora nulla! (continua Pirandello). Ma come? dicevo che s'aspetta? E che aspettano ancora questi si­gnori ambasciatori dopo le solenni sedute della Camera e del Senato e il delirio di tutto un popolo che da tanti giorni grida per le vie di Roma guerra, guerra! Son diventati sordi? Ciechi? L'albagia tedesca, la tracotanza austriaca dove sono più? Quat­tro, cinque volte, nei giornali del mattino, nei giornali del po­meriggio, in quelli della sera s'è loro annunziato che i treni speciali sono pronti per essi. Niente. Sordi. Ciechi».

Sono diventate ormai recise le espressioni dell'interventi­smo pirandelliano, se confrontate con le più disimpegnate ri­flessioni del settembre del 1914. Ma bisogna tenere conto anche che Pirandello scriveva queste parole nell'agosto del 191.5, e cioè qualche mese dopo l'entrata in guerra dell'Italia, quando il figlio era già sul fronte austriaco.


La partenza del figlio

Stefano, fin dal gennaio del 1915, aveva seguito un corso di allievi ufficiali, e, appena scoppiata la guerra, anch'egli, come tanti altri universitari, con foga giovanile, acceso dalla propa­ganda dell'interventismo nazionalistico, parte volontario.

Lascia Roma in luglio. Pirandello, come il suo personaggio, Marco Leccio, «dirgli di no, opporsi al proposito che questo prediletto figliuolo gli aveva manifestato, di andarsi ad arruo­lare volontario... non poteva, non doveva; ...per l'educazione che gli aveva data, non poteva, non doveva. Ma staccarsi dal figlio... per il quale si sentiva capace di qualunque viltà solo al pensiero del rischio ch'egli potesse correre; staccarsi da questo figlio non sapeva neppure... Alla stazione, poco prima che il treno partisse, mentre il suo figliuolo dal finestrino della vet­tura lo guardava, lo guardava come se avesse voluto lasciargli impressi, confitti nell'anima quegli occhi lucidi e intensi di com­mozione contenuta, ebbe la tentazione di saltare su quel treno, confondersi, nascondersi tra i soldati, e partire anche lui.

Più forte, più rabbiosamente lo morse poi il cordoglio, quando allo sportello d'una vettura più in là un altro volontario in divisa di fantaccino, vecchio, più vecchio di lui, con la barba bianca e le antiche medaglie sul petto, che agitava le braccia e rispondeva esultante ai saluti, agli auguri, agli applausi».

Era tale lo stato d'animo di Pirandello per la ragione acutis­sima dell'amore paterno, e perchè si sentiva corresponsabile dell'entrata in guerra dell'Italia. Avrebbe voluto alla guerra partecipare attivamente, da soldato, sui campi di battaglia. Se­condo quanto riferisce il Nardelli, fu sul punto di «far domanda di entrar nelle guide volontarie a cavallo». Per un momento ritenne imprescindibile dovere di continuare nella sua persona l'eredità risorgimentale della famiglia.


Ma, ancora una volta, in quest'occasione, Pirandello la vita potè scriverla e non viverla. Perciò tutta la vicenda degli im­pulsi volontaristici rientrati di Pirandello la troviamo riespo­sta, drammatizzata e parodizzata insieme, in certe pagine di quei giorni che vale la pena ricordare. Pirandello non poteva in quel momento abbandonare i figli giovinetti in balìa della moglie, e per di più privi di che vivere; ma avrebbe voluto veramente trovarsi alle battaglie della patria. Così vediamo ap­parire in due novelle (Berecche e la guerra e Frammento di cro­naca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta), due per­sonaggi, ambedue vecchi, ambedue morsi dal cruccio di non potere partecipare alla guerra insieme ai figli. Tutti e due as­sistono rabbiosi alla partenza dei figli per il fronte e tutti e due prendono la decisione di arruolarsi. Il loro proposito fi­nisce, per l'uno e per l'altro, in un esito eroicomico e pate­tico. Berecche, professore, sposato, come si è visto, a una don­na pazza, abitante nella stessa strada in cui abitava Pirandello, vuole arruolarsi nel «Corpo delle Guide volontari a cavallo». Ma non sa nulla di che cosa si debba fare, nulla del caval­care. Si affida allora a un manuale Hoepli di equitazione. Do­po la preparazione teorica che dura una notte, si reca in una scuola di equitazione che si trova in via Po, La Cavallerizza. Sale su un cavallo d'addestramento, e, dopo qualche traver­sia, «ad occhi chiusi si lancia frustando il cavallo per la pesta, tuffandosi nella violenta visione dei garibaldini alla carica... E più il suo ragazzo gli corre davanti con la camicia rossa e la bajonetta in canna, e più lui frusta il cavallo: avanti! avan­ti! viva l'Italia! Ah, come son rosse quelle camicie! Un po' di gioventù...». Berecche finisce a terra, ferito alla fronte, e torna a casa, sconfitto, con la testa avvolta in un gran turbante di bende, col buio dentro l'anima. Nel Frammento di cro­naca di Marco Leccio ecc., l'immagine che fa Pirandello di un se stesso immaginario alle prese con le visite mediche, con gli ufficiali militari dell'ufficio di leva, è trasposizione più paro­distica e impietosa. Marco Leccio è vecchio e malato. L'impos­sibilità di partire, di altro genere per Pirandello, è trasferita, nel personaggio, nella malattia e nella esagerata vecchiaia. Mar­co Leccio si presenta alla «Commissione». Giunto davanti al colonnello si butta in un suo pistolotto, che è quello stesso, in sostanza, già fatto da Pirandello, in prima persona, nel Col­loquio con la madre moria: «...vecchi ci troviamo, quasi finiti, e dobbiamo mandare avanti i nostri figli, nei quali forse il ribrezzo non freme e l'odio non ribolle come in noi! Ma noi, noi, signor Colonnello! noi, così vecchi come siamo, dobbiamo essere messi avanti a tutti!... I figli ci debbono veder cadere, noi vecchi, perchè così l'odio, il furore della vendetta divampi in loro uguale al nostro e uguagli quelle forze che a noi vecchi mancano... Mi piacerebbe, signor Colonnello, d'andare fantac­cino...». «...La commissione è dispostissima ad accoglierlo, per­chè in genere, senza stare a sofisticare, si largheggiava nell'ac­coglimento dei veterani per il prestigio del loro aspetto e del loro passato. Gli avrebbe fatto indossare, senza dubbio, la di­visa. Ma inviarlo al fronte in coscienza, non poteva. Poteva renderlo utile, utilissimo, facendogli prestar servizio nella mag­giorità. Più di questo non poteva.

Vestire per comparsa, no, signor colonnello! Maggiorità vuol dire... scrivano? star qui a scrivere sulla carta? Carta per carta, signor colonnello, ce le ho tutte a casa le carte... La farò a casa la guerra su la carta». Marco Leccio, nella novella, fa la guerra sulle carte geografiche, ma lo scrittore accenna alle sue carte, quei mezzi fogli di carta quadrettata protocollo in cui con scrupolo e foga faceva la sua guerra di scrittore. Pirandello ci guida ancora più dentro nel suo rammarico segreto: «...lui se ne tornò solo in vettura, aggrondato, sconfitto, con tale cu­pezza di misantropia scolpita nel volto, che non poteva dipen­dere dalla sola disperazione di quel disinganno.

Di fatti non dipendeva da questo soltanto. In fondo egli non si era ingannato; lo aveva previsto. Gli sarebbe certo pia­ciuto andare a morire bene lassù; ma non per questo soltanto aveva fatto quel tentativo di arruolamento quasi disperato. La coscienza delle sue condizioni fisiche gliel'avrebbe forse scon­sigliato. Un'altra ragione lo aveva spinto, che non voleva dare a vedere nemmeno a se stesso. Suo figlio». Lo scrupolo spinge lo scrittore ad accanirsi contro il personaggio che lo rappre­senta: «Non ti vergogni leggendo ogni sera sui giornali quanti



giovani muoiono a vent'anni, lassù, e quanti vecchi a sessanta, a settanta, fino a settantasei anni partono volontari, dalla Si­cilia, dalle Calabrie, dagli Abruzzi, dalla Romagna, dalla Lom­bardia, e vanno a combattere al fronte, semplici soldati? La faccia, qua, qua, non te la senti mangiare dalla vergogna? Hai visto ieri quel vecchio sul treno? Doveva averne settanta, per lo meno e partiva! Pensa, pensa come va a morire quel vecchio, e pensa come morrai tu! Sporcheremo il letto io e tu; e quello invece morrà in piedi! Io e tu, sul letto, tu col rantolo e io con la tosse; e quello con un grido in gola: Viva l'Italia, figliuoli! Avanti sempre! Capisci? Come Lavezzari! La morte del leo­ne! Sull'alba, l'assalto: tutta la linea, un balzo e s'avventa alla bajonetta: Savoja! Innanzi a tutti, lui, Lavezzari, che ha giurato di morire lassù! Corre, giunge fino all'ultima trincea nemica! ritto in piedi lassù, si sbottona la giubba e mostra la sua camicia rossa per morire così da garibaldino!».

Tanto irrazionale consenso per un gesto formale, inutile, d'eroismo, per un così oratorio morire, se si può spiegare con un attardato abbandono romantico alla morte bella, secondo una ancora diffusa mistica risorgimentale che volgeva a un va­lore assoluto, a una esemplarità mazziniana, l'atto del sacrifi­carsi per la patria, forse aveva una causa più intima nella neces­sità di trovare una ragione, che fosse inattaccabile dal tarlo del ragionamento e dallo scrupolo dell'ironia, alla guerra combat­tuta dal figlio. È probabile che Pirandello, pur sentendo il do­vere patriottico come una necessità di sacrificio, volesse anche giustificare a se stesso l'eventuale sacrificio del figlio. Era una forma di autodifesa, il prepararsi una consolazione almeno a un dolore che, se fosse sopravvenuto, sarebbe stato, così, più sopportabile.


 «Colloquio con la madre morta»

La partenza di Stefano coincise con l'aggravarsi del male di Antonietta, che si isolava sempre più in un suo mondo feroce,

in cui le pareva che tutti la perseguitassero, e vi furono anche le esplosioni del furore materno contro il marito ritenuto re­sponsabile della partenza del figlio. I periodi di crisi si inter­calavano a quelli di calma e di maggiore lucidità; ma sempre più frequenti erano i segni che non c'era più speranza per la sua salute e presto avrebbe dovuto lasciare la casa. D'altra parte erano anni ormai che essa veniva spinta a scene di fre­netica violenza contro il marito. Di notte, a Pirandello era ca­pitato, svegliandosi all'improvviso, di scoprirla china su di lui, che lo guardava fisso con un pensiero dentro gli occhi. Lo scrit­tore raccontò che una volta lei aveva tentato di colpirlo con le forbici e con uno spillone da cappello.

Stefano è partito da poco, quando muore la madre dello scrittore. È un grave colpo, Pirandello ha estremo bisogno di conforto. E poiché nessuno intorno a lui può dargliene in mi­sura che possa bastargli, egli si affida alla propria stessa soli­tudine, chiudendovisi come in una cella segreta, ricorrendo alla camera ermetica della visionarietà, alla evocazione della madre appena morta, chè lo consoli. La madre si trasforma perciò per Pirandello in uno di quei vividi personaggi con cui egli dibat­teva le sue questioni più segrete. Siamo ed è un momento importantissimo questo nella vita di Pirandello al punto in cui maggiormente si abbandona a quel suo strano commercio con le creature della sua immaginazione. Poetica e vita si fanno un'unica esperienza concreta; fatto che creerà confusione nei risultati artistici fino a che l'approfondirsi di queste esperienze non porterà Pirandello alla creazione dei Sei personaggi in cerca d'autore.

Pirandello intitolò gli scritti del 1915, in cui si dà il reso­conto di tali interiori vicende, Colloqui coi personaggi e si badi, è lo scrittore stesso a qualificare la propria madre, appena morta, come un personaggio, che egli tratta con più rispetto, ma alla stessa stregua degli altri. Di questi avvenimenti che stanno equivocamente fra la realtà della vita psichica dello scrit­tore e l'invenzione fantastica, Pirandello riesce a restituire una immagine poco filtrata, letterariamente spuria. Tanto che egli


ebbe un certo ritegno a rendere pubbliche queste confessioni così intimamente autobiografiche e non volle che i due Colloqui coi personaggi apparissero sui giornali e sulle riviste importanti (Il Corriere della Sera, La rassegna contemporanea, La Lettura, Noi e il mondo) che ospitavano allora le sue novelle. Li relegò perciò sul Giornale di Sicilia, che se era, nell'ambito regionale, il quotidiano più diffuso, era anche una pubblicazione geografi­camente periferica. Utilizzare proprio quel giornale significò ri­correre a un sotterfugio simbolico, a un significativo compro­messo fra il divieto di un pudore che vietava allo scrittore di pubblicare ad uso della generalità dei suoi lettori la confessione di certi fatti strani e intimi, di certe fantasticherie segrete, e la necessità e la verità stimolante che sentiva in esse. Verità e necessità che lo spinsero alla concezione di un romanzo «con i personaggi», che si tramutò poi nel capolavoro più alto della drammaturgia europea del Novecento. È sintomatico anche che il Colloquio con la madre morta non fu più edito da Pirandello, e che anche il primo dei Colloqui, anch'esso molto importante come autobiografia, fu, dopo la ripubblicazione del 1919, defi­nitivamente rifiutato. Nè crediamo che si trattasse di scrupoli d'indole artistica, perchè Pirandello pubblicò e ripubblicò senza pentimento opere che sono inferiori per valore a queste.

Ma ecco come avviene il colloquio-visione con la madre (lo scritto è dell'agosto-settembre del 1915): «...nell'ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e m'invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa bru­licava in quell'ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell'ombra che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano a nascere. Mi guarda­vano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro.

Con chi potevo io veramente comunicare, se non con loro, in un momento come quello? E mi accostai a quell'angolo...

E mi è accaduto, accostandomi per la prima volta all'angolo della stanza ove già le ombre cominciavano a vivere, di trovarvene una che non m'aspettavo: ombra solo da jeri.

Ma come, Mamma? Tu qui?

È seduta, piccola, sul seggiolone, non di qui, non di questa mia stanza, ma ancora su quello della casa lontana, ove pure gli altri ora non la vedono più seduta e donde neppur lei ora, qui, si vede attorno le cose che ha lasciato per sempre... Curva, tutta ripiegata su se stessa per schermire gli spasimi interni, con le pugna sui ginocchi e su le pugna la fronte, sta qua, su quel seggiolone... Alla mia domanda: Ma come, Mamma? Tu qui? alza la fronte dai ginocchi e mi guarda con quegli occhi che hanno ancora la luce dei vent'anni, ma in un bianco volto molle e smunto dal male e dall'età; mi guarda e m'accenna di sì, che è voluta venire per dirmi quello che non potè per la mia lontananza, prima di staccarsi dalla vita... Solleva con pena le palpebre e atteggia il volto a un sorriso di pena, tenendosi sul grembo le povere piccole mani che tanto hanno lavorato, quasi per nascondere il male, dov'esso gliele ha più torturate e offese»; e così continua il resoconto del colloquio, in un'al­ternanza di vivide messe a fuoco e di dissolvenze in cui sono presenti altre memorie e altre riflessioni dello scrittore, fino al lungo discorso autobiografico della madre e alle parole di inco­raggiamento e di conforto che Pirandello offre a se stesso per bocca di lei. La madre avrà vita in lui finché egli potrà così evocarla alla sua presenza e prolungare con lei un discorso d'amore. Alla fine è lui che risponde. Nelle sue parole si scopre l'autentica radice autobiografica di alcune persuasioni pirandel­liane, apparentemente intellettualistiche. Ma soprattutto si ri­vela in esse la profondità dell'amore di Pirandello per la madre, il legame d'eccezione, anche se taciuto ed ignorato, che lo strin­se a lei fino a quel momento, il valore di sostegno che egli le attribuiva per la vita dei suoi sentimenti: «Oh Mamma, sì! io le dico {tu sei) viva, viva, sì... ma non è questo!... Io piango per altro, Mamma! Io piango perchè tu, Mamma, tu non puoi dare a me una realtà. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: Se ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t'ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sarai sempre finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! perchè tu non puoi più pensarmi com'io ti penso, tu non puoi più sentirmi com'io ti sento!»

La madre dice: «...Avrei voluto, pur soffrendo, durare an­cora fino alla vittoria... poiché la vittoria è certa». Ancora, mentre scrive il Colloquio, Pirandello è nella rete dei coman­damenti patriottici materni; anzi sente quanto mai, nella solen­nità del momento di quella morte, il dovere di abbandonarsi a un'onda di accorata eloquenza. E si capisce perchè non vi siano, nel discorso della madre, le infiltrazioni di un pur me­nomo turbamento d'ironia e di scetticismo. (E quanto Piran­dello fa dire alla madre, riecheggia come si è ricordato quasi con le stesse espressioni, nel discorso, autobiografico, di Marco Leccio). La morte della madre, in questo momento, ri­batte la chiusura ingenua del patriottismo di Pirandello.

Ma Pirandello ha evocato la madre soprattutto per farsi con­solare, per attingere da lei quel coraggio che a tratti sente ve­nirgli meno. Lei gli ripete i comandamenti del sacrificio per la patria: «...E la so, ora la tua pena, figlio, che forse è la stessa che a me, donna, mi bruciò tanto nell'anima: di non poter fare e di veder fare agli altri (ai figli, ai fratelli) quello che avremmo voluto far noi e per noi sarebbe stato niente, mentre ci par tanto e tanto ci fa soffrire, che lo facciano gli altri... Ma ecco per questo appunto io sono venuta, figlio mio, per dirti questo: che tu l'hai voluta questa guerra, contro tanti che non la vo­levano, e lo sapevi che se poco ti sarebbe costato sacrificare in essa la tua vita, tanto, troppo invece ti sarebbe costato il solo rischio di quella del tuo figliuolo. E l'hai voluta. Tu paghi dun­que di sofferenze più che se fossi andato... Ti basti. E Dio ri­sparmi il tuo figliuolo...».

Pirandello conchiude l'intima conversazione con la madre morta con parole che sono apparentemente fuori posto, e lon­tane anche dal suo consueto stile, morbide e sensuali, acco­glienti un'evocazione di carezze, racchiudenti un'immagine ri­tornante di mare ondoso e di nuvole in movimento: «L'ombra s'è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Sento come da lontano lontano un fruscio lungo, con­tinuo, di fronde, che per poco m'illude e mi fa pensare al sor­do fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre.

Mi alzo; m'accosto ad una delle finestre. Gli alti giovani fusti d'acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s'abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femmineamente di sentirsi così aprire e scom­porre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità. È un moto d'onda e di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sè».

Parole improvvisamente dimentiche dell'austero raccolto tono del discorso della madre e della pura sublimazione del­l'affetto del figlio? Si spiegano invece in un abbandono, tanto naturale quanto urgente in quel momento, all'inconscio, dove l'affetto per la madre riaffiora nelle forme originarie di un ero­tismo immediato, in cui s'involge e s'immedesima il simbolo del vento, del mare, dell'onda e della nuvola, dell'eterno movi­mento e dispersione panteistica della nascita. Il panteismo pi­randelliano, riaffiorante tanto spesso nell'opera, ha tale qualità di adesione fisica, di perduta nostalgia di un'esperienza pro­fonda e antica, senza quasi vicenda intellettuale.

Il suggello alle frasi qui su riportate è ancora nella voce ma­terna che riaffiora da lontano, da quel vento cui s'abbandonano le chiome indolenti e femminili dell'acacia, da quel mare e da quel cosmo: «Sento, ma come da lontano, la sua voce che so­spira: Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più!» C'è un invito dal più profondo se stesso ad essere ancora una cosa sola con la madre, in una continuità e coincidenza con lei come al principio della vita.

Ma la dichiarazione d'amore che è nel Colloquio, si trasfor­ma anche, per la bivalenza dei moti inconsci, in un opposto movimento di distacco e di distinzione dalla madre. Leggiamo infatti: «Tu sei qui; tu m'hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere mani offese, e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue, per­chè sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora per te? Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io, figlio, fui e non sono più, non sarò più...».

La madre si pone adesso oggettivamente fuori del figlio. L'intuizione di Pirandello s'è fatta acuta. Egli è morto alla madre. Non sa ancora quanto possa concorrere questo fatto, con gli altri, a scrollarlo alle radici; ma ne sente la gravità. Il figlio si troverà infatti, appena trascorso il tempo di questo con­fuso affluire degli affetti per il lutto recente, libero, se non di tutti, di molti miti che lo legavano al proprio io più antico e al passato più remoto dei suoi vecchi, e potrà tracciare, in una più spiccata autonomia, il semplificato e nuovo cammino del suo più distruttivo teatro. La madre, sostitutrice per lui del padre abolito, punto di confluenza con la storia passata, ha rap­presentato il legame forse più forte di Pirandello con la tradi­zione comune degli uomini, e cioè anche con molte opinioni convenzionali. Adesso queste in gran parte vengono meno o si rifondono in sensi del tutto diversi.


Il figlio prigioniero

Il lutto per la morte della madre si lega biograficamente all'angoscia per l'assenza del figlio, per il suo pericolo. Stefano era partito in luglio, ed era stato avviato alla frontiera. Da quel momento aveva avuto inizio «l'ansia senza requie per il fi­gliuolo, da consumare dentro di me», dice Pirandello nei Col


loqui coi personaggi: «...fuori di questa passione, fuori di questa angoscia, non potevo per il momento veder nulla... Men­tre io qua mi sarei straziato invano e sarei stato costretto pur­troppo ad attendere e a soddisfare a tutti i piccoli materiali bisogni della vita, egli avrebbe esposto la sua lassù; e ogni momento che per me sarebbe passato così, poteva essere per lui il supremo; e sarebbe toccato a me allora, dopo, di segui­tarla a vivere questa atrocissima vita».

In quest'ansia comincia l'attesa pesante delle lettere del figlio. Pirandello conta i giorni che mancano al loro arrivo, ritorna sul calcolo, riflette che ogni conteggio di giorni è cosa vana, perchè quando sarà arrivata la lettera, a Stefano può es­sere già accaduto il peggio. Nell'incertezza delle notizie si di­spera, si sente vivere in un clima assurdo. A Stefano scrive, il 24 ottobre 1915, «...forse dalla cartolina del diciannove, se ci fosse arrivata, avremmo potuto sapere se tu eri destinato ad andare in seconda linea o a rimanere in prima, in vista dell'avan­zata generale... Capisco che mi struggo inutilmente perchè, a ogni modo le notizie che ci premono veramente, cioè quelle dopo il 21, non potranno arrivarci, ripeto, se non dopo il 26 o il 27, se pure; lo capisco, lo capisco; ma non sono io: la ra­gione ha un bel voler moderare l'ansia e la trepidazione del cuo­re: il cuore non ascolta, non può ascoltare la ragione, e si strug­ge... Ma il bello è questo: che anch'io agisco e parlo: faccio gli esami, in questo momento, capisci? Faccio gli esami. Vado ogni mattina alle otto, rincaso alle dodici, torno alle due e mezza, rincaso alle sei. Io!...» Stefano era capitato in quel disgraziato primo periodo della guerra, in cui il Cadorna, al quale era stato affidato il comando supremo delle operazioni, pareva indiffe­rente al sangue che si spargeva, così come alla sorte morale dei soldati; e questi erano affaticati e avviliti e mandati al macello con un'indifferenza che alla fine, ma tardi, portò l'opinione pub­blica a ribellarsi. Pirandello, perchè questo scontava nelle carni del figlio, era in un travaglio violento che doveva consumare in se stesso.






Presto, una giornata di novembre dello stesso 1915, accadde quello che Pirandello aveva previsto e temuto. Mentre lui, Pirandello, era dietro a qualcuna di quelle faccende anonime, delle quali si vergognava e da cui si sentiva angosciosamente distratto, il figlio Stefano fu spinto dal suo ardore a un bel gesto. Si trovava sul monte Calvario e la mattina del 2 novem­bre venne ordinato un attacco. Mentre con i suoi uomini avan­zava di corsa venne ferito al petto dallo scoppio di uno shrap­nel. Medicato, non volle fermarsi al pronto soccorso e ritornò volontariamente all'assalto. Insieme ai suoi, resistette al con­trattacco degli Austriaci, mentre il resto della linea arretrava, finché, chiuso in una sacca, fu costretto ad arrendersi. Fatto prigioniero, fu portato dopo qualche traversia, nel campo di Mauthausen e qui rimase fino ai giorni di Caporetto.

Essendo stato fatto Stefano prigioniero, Pirandello si assi­curò almeno della vita di lui, e potè uscire da quello stato d'an­sia angosciosa. La sua vita continuò come prima. Unico av­venimento, il suo viaggio a Firenze, dove, il 2 febbraio del 1916, tenne in Orsanmichele una lettura del XXI canto dell'Inferno.

La sua giornata, come egli la descriveva nelle lettere al figlio, era fatta esclusivamente di lavoro. Lavorava durante tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio. Componeva saggi cri­tici, articoli giornalistici, racconti. Mise mano all'inizio del 1916 alle opere di teatro. Il martedì, il giovedì e il venerdì, dalle tredici alle quindici, andava a dare le sue lezioni di lette­ratura italiana al Magistero. Ogni sera faceva una rettilinea pas­seggiata, che lo portava fino a Porta Pia, dalla sua casa, che si trovava in via Antonio Bosio, all'altezza di Villa Torlonia. Di questa amava guardare, dalla finestra dello studio, la fitta mac­chia di pini e di cipressi. A Porta Pia acquistava alcuni giornali e, ritornato a casa, cenava. Dopo cena leggeva con attenzione i giornali. Della guerra continuava a interessarsi vivamente per­chè la sorte del figlio, il suo ritorno, erano strettamente legati ad essa e seguiva, su una carta, le avanzate e le ritirate degli eserciti alleati. Lo troviamo infatti bene informato, insieme col suo personaggio Marco Leccio, della geografia strategica della guerra: le bandierine si spostano, sulla carta geografica dai Car­pazi, alla Galizia, alla Polonia, alla Curlandia, e alla Haute Chervauchée, ad Arras, a Gallipoli, alla Baia di Suvla; di not­te, Marco Leccio sogna che «i Russi contrattaccano a Grodno e spezzano gli eserciti di Hindenburg... gli Inglesi si avven­tano suil'Isère e spazzano tutti i Tedeschi dal Belgio... gli Ita­liani, per Malborghetto, via, a Vienna!». Pirandello aveva fretta che tutto finisse: alla fine della guerra, e Pirandello la voleva vittoriosa, ci sarebbe stato il ritorno di Stefano. Al figlio scriveva ogni due giorni, e, quanto più frequentemente poteva, gli inviava dei pacchi che in parte la madre stessa con­fezionava. Pirandello portava pacchi e lettere, una sera sì e una no, alle sei, alla Croce Rossa, in Piazza Montecitorio.

Ogni sera poi, tardi, verso le nove e mezzo, veniva a fargli visita Rosso di San Secondo, che conduceva con sè, ogni tanto, Borgese. Anche Martoglio e Frateili erano assidui frequenta­tori della casa. Discorrendo della guerra, o degli argomenti del mestiere loro di scrittori facevano la mezzanotte.

Il pensiero di Pirandello rimaneva fermo al figlio lontano. Un grande momento di tenerezza è quello in cui gli viene ri­portata la sciabola e la cassetta d'ordinanza del figlio: «...la sciabola l'abbiamo lasciata com'era, avvolta nella tela di sac­co». Nella cassetta sono due lettere, che Pirandello «conser­verà religiosamente», «perchè in entrambe ci sono i caratteri della mia santa Mamma: nobili parole, ultimi guizzi della sua anima generosa. Esumate così, dalla tua cassetta, mi sono sem­brate parole d'oltretomba, e non ho potuto rileggerle senza la­grime». Nei giorni di sole, quando lo scrittore non deve andare all'Istituto, «a fin di tavola», scende con i suoi «per una mez­zoretta in giardino... la nostra villetta, la porticina di ferro, l'ajuola, le rose... al sole parliamo di te...».

Pirandello appare, in queste lettere al figlio prigioniero, quasi sempre molto controllato: vuole apparirgli sereno, seb­bene non manchino momenti in cui, un suo segreto rancore verso la vita e verso l'umanità tutta, improvvisamente trapela in una frase di disprezzo. Ma son momenti isolati, mentre è ininterrotta la sua cura di farsi sostegno del figlio, che potrebbe nella solitudine sentirsi volto alla disperazione a causa di quella vita priva di distrazione e monotonamente inattiva. Sono lettere di consolazione. È come se, scrivendo al figlio, egli ri­chiamasse a sè tutta la forza che aveva appresa nella pazienza e nella rassegnazione a una vita continuamente mortificata: «Tu sai dice al figlio che questa esortazione alla pazienza parte da un animo non fiacco e che nella pazienza ha saputo provare la sua forza contro tanti e immeritati e acerbissimi dolori».

Ma egli vuole di più, vuole che Stefano non perda contatto con lui. Che la vita di quei giorni sia in un'unica dimensione di dolore e di resistenza al dolore con la sua: «Coraggio, Stefanuccio mio: non abbandonarti troppo alla meditazione e lavora, lavora quanto più puoi: non c'è rimedio migliore a questo male della vita. Nessuno meglio di me lo sa per prova». «L'ultima letterina tua accusava scontentezza. Ti lamentavi anche tu di non aver potuto lavorare. Eh, lo so! È così... Ma sai, fanno an­che bene codeste smaniose pause... Ci guardiamo attorno sfi­duciati, ci sembra che il profitto sia poco, ci sembra anche che la via possa non condurre alla nostra vera mèta. Ma poi la fi­ducia ritorna con la certezza che un profitto c'è stato... che tanto, la mèta è un inganno sempre e ciò che importa è cam­minare, andare avanti. Tutto fa!»

Si sforza anche di «rivivere» quello che ha vissuto il figlio: «Ieri, 2 novembre, anniversario della tua cattura... io mi sono svegliato alle sei e subito col pensiero son corso al posto dove tu ti trovavi un anno fa e ho cercato di vivere con l'immagina­zione le ore terribili di quella mattinata. Puoi figurarti quello che ho sofferto!»


In questi anni Pirandello scrive tre novelle40 in cui si muo­vono, agiscono, soprattutto parlano, padri e madri di giovani che sono partiti per la guerra, o che vi sono morti. In una par­ticolarmente di queste novelle, che è del 1918 (intitolata Quando si comprende), egli esce fuori dalla stretta biografica e cerca di obicttivare drammaticamente lo stato d'animo di que­sti padri e di queste madri che soffrono la sua stessa esperienza. La novella è una sorta di tranche de vie che mette a fuoco il fallimento di una particolare etica patriottico-familiare, secon­do cui si cercava di vivere, nel tempo di guerra, da parte di molti del ceto piccolo-borghese, del quale Pirandello stesso fa­ceva parte. Qui dei padri, protagonisti della scena, vengono ve­rificati i sentimenti, la fragilità dei propositi patriottici, la strutturale inabilità a un clima di ferma decisione guerresca. «In una lercia vettura di seconda classe», su «un lento trenino sgangherato» che risale le Marche verso nord, si svolge un'ani­mata conversazione fra sei viaggiatori, tutti padri che hanno «uno o più figliuoli alla guerra». Antagonista dei padri, una madre, silenziosa e piangente in un angolo, avvolta «in un viluppo di panni goffo e pietoso», che «s'agita, si contorce, ruglia anche, più volte, come una belva», esasperata dai di­scorsi che il marito può fare agli altri, intorno a quel figlio par­tito per il fronte. Le madri dei soldati sono, in queste novelle, come cieche all'ideologia, pure matres dolorosae che sentono immediatamente nella carne e nel sangue, nell'esclusivo istinto materno, il pericolo della vita dei figli. I padri invece dibattono tormentosamente in se stessi il contrasto fra paternità e pa­triottismo, fra amore del sangue e amore della patria. Se uno dei sei viaggiatori si lamenta della partenza del figlio, nasce la protesta degli altri che rivendicano la partenza dei loro. Se uno si crede colpito di più dalla sorte perchè in guerra è andato il suo figlio unico, un altro gli risponde che è un privilegiato: perchè «se capita il caso che questo muoia, e della vita lui non sa più che farsene, morto il figliuolo, se la può togliere, e ad­dio», mentre lui, «bisogna che se la tenga la vita, per l'altro che resta»; e la sconfortata conversazione continua fra i sei viaggiatori, finché, a un certo punto, uno di essi si fa voce di un'etica astratta, che è anche la forza che lo sorregge nel lutto della perdita del figlio: «A vent'anni, vanno perchè debbono andare e non vogliono lagrime. Non ne vogliono perchè, anche se muojono, muojono infiammati e contenti... Bisogna non pian­gere, ridere... o come piango io, sissignori, contento, perchè mio figlio m'ha mandato a dire che la sua vita... lui se l'era spesa come meglio non avrebbe potuto, e che è morto contento, e che io non stessi a vestirmi di nero, come di fatti lor signori vedono che non mi sono vestito». Ma ecco qui il contrasto farsi diretto fra i padri e la madre: «Da tre mesi quella madre, lì nascosta sotto la mantiglia, cercava in tutto ciò che il marito e gli altri le dicevano per confortarla e indurla a rassegnarsi, una parola, una parola sola che, nella sordità del suo cupo dolore, le de­stasse un'eco, le facesse intendere come possibile per una ma­dre la rassegnazione a mandare il figlio, non già alla morte, ma solo a un probabile rischio di vita. Non ne aveva trovata una, mai, fra le tante e tante che le erano state dette. Aveva rite­nuto perciò che gli altri parlavano, potevano parlare a lei così, di rassegnazione e di conforto, solo perchè non sentivano ciò che sentiva lei». Adesso ella dubita per un istante che non sia invece lei sorda ai sentimenti che provano gli altri, per i quali è possibile concedere per qualcosa la vita dei figli; ma le viene improvviso di chiedere a quell'uomo che ha parlato: «Ma dun­que... dunque il suo figliuolo è morto?» E la frase catastrofica costringe lui a capire-. «il suo figliuolo dunque, era veramente morto per lui... e scoppiò in acuti, strazianti, irrefrenabili sin­ghiozzi».

Pirandello sentì di essere uno di questi padri dibattuti fra opposti sentimenti fino alla fine della guerra. Nella stessa no­vella, si dice: «se la patria c'è, se è una necessità naturale la patria, come il pane che ciascuno per forza deve mangiare se non vuol morire di fame, bisogna che qualcuno vada a difen­derla, venuto il momento». Più tardi, egli alla guerra non pen­serà più, anzi cercherà di dimenticarne del tutto l'aspetto este­riore, come una brutta esperienza senza luce. Ma prima dove­vano venirgliene altre prove dolorose.

Anzitutto ci fu la partenza di Fausto. Appena raggiunta l'età di leva anche Fausto venne chiamato alle armi. Convalescente di una grave malattia viscerale e di un'operazione, venne in­viato a Firenze e poi a Castelfranco di Sotto, per il corso d'ad­destramento. I medici militari, in un periodo in cui l'uso era di non avere considerazione per nessuno, e nemmeno per i gio­vani soldati ammalati, non gli concessero alcun periodo di ri­poso. Perciò Fausto si trovò sottoposto, come gli altri, a quelle massacranti esercitazioni che erano già gravose per i sani. Non riuscendo più a resistere, invocò l'aiuto del padre. Pirandello accorse, ed essendo arrivato alla caserma mentre i soldati face­vano una marcia, attese il ritorno del figlio. Appena giunto, Fausto svenne fra le sue braccia. Pirandello allora reagì con una certa violenza, e nonostante gli oggetti della sua ira fos­sero questa volta nientemeno che degli ufficiali dell'esercito italiano, riuscì a spuntarla. Finì davanti al generale che, anche perchè si trattava di Pirandello, sistemò la cosa, e Fausto fu mandato in convalescenza a Firenze. Ma le sue condizioni peg­giorarono e si scoprì alla fine che si era ammalato di tuberco­losi. Fausto guarì a casa più tardi.

A Stefano intanto non andava meglio. Dopo Caporetto, a Mauthausen affluì un grandissimo numero di prigionieri, e in­fatti, nel disordine estremo di quella ritirata, gli Austriaci ave­vano catturato quanti prigionieri avevano voluto. Per tutti co­minciò una vita estremamente dura. Si era, in Austria, nel quarto anno di guerra, e i viveri difettavano da un pezzo. I prigionieri adesso soffrirono la fame. Da Mauthausen, Stefano fu trasferito a Pian, in Boemia, dove rimase fino alla fine della guerra, e vi fu trattato più duramente di prima. I pacchi che il padre continuava a mandargli con la maggiore frequenza possibile, servendosi della Croce Rossa o di conoscenti sviz­zeri e olandesi, raramente giungevano fino a lui. Attraversa­vano territori affamati; e non meno lo erano i guardiani del campo. Nelle baracche di legno in cui erano stati messi a muc­chi i prigionieri, filtrava la pioggia e le assi erano marce al punto da fare i funghi. Nell'umido e nel freddo, anche Ste­fano, sebbene fosse di tempra forte, privo di cibo e di medi­cine, finì per avere ammalati i polmoni. Così Pirandello ebbe all'improvviso tutti e due i figli colpiti dalla tubercolosi, e lon­tani da casa tutti e due.


Allora volle tentare tutto quanto fosse possibile per salvare Stefano. Fausto era già sotto cura e poi potè tornare a casa ed essere seguito da vicino dal padre. L'unica via che si offriva a Pirandello era quella di cercare di ottenere, con l'appoggio del governo italiano, che il figlio, in considerazione del suo stato di salute, gli fosse restituito, attraverso la Svizzera. In com­penso sarebbe stato restituito un prigioniero all'Austria. Ma le trattative, in queste circostanze, erano estremamente lunghe e difficili. Della cosa non ci si poteva occupare per le normali vie diplomatiche: era necessario cercare qualcuno che avesse ascol­to presso la Segreteria di Stato Vaticana; nè Pirandello era uno scrittore che la Santa Sede potesse vedere di buon occhio. Non che Pirandello non avesse dimostrato sufficiente obiettività ogni volta che si era fermato a valutare le cose della Chiesa cat­tolica; anzi si può ricordare il suo «cordoglio» per la morte del papa Pio X, avvenuta nell'agosto del 1914, «...per questo Papa, santo vecchio paesano, cui solo la schiettezza grande della fede fa degno del gran seggio. Ah, chi più di lui, Pio veramente, volle richiamar Cristo nel cuore dei fedeli? E muore in mezzo a tanta guerra, ucciso dal dolore di tanta guerra» (Berecche e la guerra); ma Papa adesso era Benedetto XV, che la voce pub­blica dava per germanofilo. Inoltre non raramente era capitato che filtrasse sulla pagina pirandelliana il suo particolare anti­clericalismo. Non più di un anno prima, in tutti i principali teatri italiani, e con grandissimo riso, era calato il sipario, alla fine del terzo atto di Pensaci, Giacomino! sulla battuta pro­nunziata da Musco, contro il prete Landolina. Quel «Vade re­tro, Satana!», rivolto in una scena di gran successo, contro un tipo di prete esemplare di certo gesuitismo ben noto a tutti, non poteva avere favorevolmente impressionato le gerarchie ecclesiastiche. E Liolà, la commedia venuta dopo Pensaci, Gia­comino!, come ricorda Gramsci41, era stata ritirata dal reper­torio dopo le cagnare inscenate al teatro Alfieri di Torino dai giovani cattolici per istigazione de II Momento e del suo medio­crissimo recensore teatrale, Saverio Fino. Per queste ragioni, era necessario che Pirandello trovasse la strada giusta per com­muovere chi avrebbe potuto aiutarlo. Come riferisce il Nardelli, egli seppe, dopo avere molto cercato, trovare un amico disposto ad aiutarlo in Matteo Gentili, direttore de II Corriere d'Italia. Questi, per interposta persona, arrivò al cardinale Gasparri. E fu una fortuna per Pirandello, perchè il Cardinale era un uomo di ampie vedute, e certo diplomatico e mondano ab­bastanza per non formalizzarsi di fronte al teatro pirandelliano; e comunque prevalsero, in questa occasione, le ragioni della carità cristiana. Il Cardinale fece in modo che Benedetto XV firmasse personalmente una lettera in cui si richiedeva al go­verno austriaco, per il tramite della gerarchia ecclesiastica vien­nese, lo scambio del prigioniero Stefano Pirandello con un sol­dato austriaco prigioniero in Italia. Inviata la lettera, la rispo­sta tardò molto. E l'ansia, in casa Pirandello, divenne smaniosa. Negli stessi giorni lo scrittore, la moglie e Fausto furono colpiti (ma presto guarirono) dalla febbre spagnola. Quando la rispo­sta arrivò, Pirandello fu chiamato dal cardinal Gasparri, il quale, trattandolo con molta cortesia, gli disse che il governo austriaco non era disposto a cedere Stefano, trattandosi del fi­glio di una personalità importante del mondo culturale italiano, se non scambiandolo con tre prigionieri austriaci, di cui si da­vano i nomi. Insomma gli Austriaci avevano intravisto un buon affare e volevano guadagnarci. Comunque, a questo punto, a dare il nulla osta doveva essere il governo italiano. Pirandello dovette salire anche le scale di un Ministero, e parlare con Vit­torio Emanuele Orlando, presidente del consiglio dei ministri dopo Caporetto. La cosa non fu difficile, perchè Orlando era siciliano e di Pirandello aveva buona stima. Amicizie che ave­vano in comune resero agevole il colloquio. Orlando chiese an­che lui del tempo, per assumere informazioni su quei tre pri­gionieri che gli Austriaci richiedevano. Quando le ebbe, chiamò Pirandello e gli disse, senza aggiungere alcun commento, che si trattava di tre ufficiali della marina austriaca, i quali si erano comportati fin allora in maniera tale da far prevedere che, tor­nati liberi, non si sarebbero trattenuti a casa. Orlando insomma metteva Pirandello di fronte a una responsabilità patriottica. Non desiderava aver l'aria di volere influenzare la sua deci­sione e gli disse: «Fa' tu». Pirandello ormai, in questo terzo anno di guerra, aveva sentito, dentro di sè, attenuarsi il rigo­roso imperativo patriottico; e diceva: «c'è pure la patria, sì, ma dentro di noi, per forza, c'è anche più forte l'affetto dei nostri figliuoli» (Quando si comprende [1918]). Ma questa del capo del governo, prossimo «Presidente della Vittoria», era una sollecitazione che non consentiva risposte diverse. Qua era la Patria, a tutte lettere, che doveva avere il passo, e di fronte agli altri e a se stesso, Pirandello non poteva compiere un gesto di civica vigliaccheria. Perciò chinò il capo e disse di no, rinunziando al ritorno del figlio.


Pensieri sulla guerra

Per valutare più compiutamente l'atteggiamento di Piran­dello di fronte alla guerra, dobbiamo tornare indietro e rifarci ai primi mesi, analizzare meglio la sua duplice anima di uomo e di cittadino, di scrittore e di membro della comunità. Fin da principio egli ebbe l'animo diviso fra molti pensieri. Dalle pri­me inquietudini per il crollare di una sua romantica illusione intorno alla condotta della guerra, egli giunge a grado a grado a più profondi disinganni.


In principio dimostra la sua insoddisfazione perchè vede traditi i valori della sua guerra, che era un'idea mitica di guerra, una sacra avventura garibaldina. La patria ideale era ancora, per Pirandello, un sacro contesto di spinte morali, di caldi do­veri e sacrifici senza tornaconto e la guerra, da combattersi pa­triotticamente, una partecipazione del cuore, dell'anima, il sa­crificio e l'eroismo. La velocità da epopea, il celere compiersi dell'impresa nel caldo dell'entusiasmo era un dato dal quale non si poteva prescindere, se non a rischio di sentirsi raffred­dare dentro il calore dei sentimenti. Non poteva esserci posto per i calcoli, nè tempo perchè il fango invadesse le trincee. Era una guerra da farsi alla baionetta, di corsa, senza ripensamento, un semplificato strumento per rendere giustizia, per subito re­stituire l'indipendenza alle popolazioni oppresse. Il morire de­gli uomini, degli eroi, in tanto semplificato archetipo, tendeva a perdere peso di concretezza, si trasformava in un caldo spet­tacolo edificante; ma per nulla realistico. Se questo era l'irri­flessivo mito pirandelliano della guerra, non tardarono e fu­rono subito presenti alla coscienza le delusioni. La realtà era diversa da certi idealismi e da certa etica risorgimentale. Ecco perciò la platonica guerra garibaldina presto oscurarsi e mo­strare un'inedita immoralità, incoerenza e aspetti orribili e grot­teschi, come quelli della nuova strategia: «La strategia...! dice il garibaldino mancato Marco Leccio. L'arte di fare durare un secolo una battaglia, che prima con l'impeto dei sol­dati e il genio dei capitani si risolveva in quattro e quattr'otto, in una giornata al più! Gli studi tecnici, il materiale bellico, si dice così? bellico, già! obici, "bi-bo", v'empite la bocca, mor­tai da 305 e 420, fucili a tiro rapido, mitragliatrici, dirigibili, aeroplani, granate a mano, shrapnels, gas asfissianti, bombe incendiarie, trattori meccanici, tanks, trincee scavate a mac­china, blindate, mine terrestri, fogate, reticolati, fili di ferro, cavalli di frisia, bocche di lupo, proiettori, razzi e bombe illu­minanti, " bom-pim-pam ", pare la girandola, e la guerra dov'è? nessuno la vede! Prima gli uomini combattevano in piedi, come Dio li aveva messi! Nossignori, adesso non basta in ginocchio, pancia a terra, come le serpi e rintanati, chi sappia resistervi; noi, no, i nostri no, balzano in piedi, irrompono, si avventano a petto scoperto, bajonetta in canna, "Savoja!". Questo ci vuole! Altro che i tuoi meccanici e i tuoi farmacisti! La strate­gia: la chimica... vorrei sapere in che consiste, se non in un mo­struoso ingombro, per far perdere invano tempo e vite umane! Metter su macchine, impedimenti, ripari per trovare poi il mo­do di buttarli giù; e non valeva tanto, allora, non metterli su, se alla fine quello che veramente decide è il petto dell'uomo che balza su, dalle macerie di quegli ingombri vigliacchi e corre al­l'assalto? Te lo dico io perchè serve tutta questa scienza: serve per non farla la guerra! Serve per minacciare in tempo di pace, per incutere spavento a chi vuol farla; ma quando poi la guerra è dichiarata, ecco qua, a che serve, lo vedi? a non farla finir mai...». (Cronaca di Marco Leccio ecc.). E ancora: «Tutti quan­ti i combattenti degli eserciti regolari e dei volontari nel periodo del nostro risorgimento, sommati insieme, non diedero di morti e di feriti quanto in questa guerra ne danno certe scaramucce giornaliere, di cui i bollettini degli stati maggiori neppur ten­gono conto... E i tanti morti d'oggi, i tanti feriti d'oggi, a mi­lioni, chi li ha fatti, donde provengono e che concludono... questa macchina stupida e mostruosa della strategia moderna, che mangia vite, strazia carni, e non conclude nulla, sai dirmi che conclude, che ha concluso?...» (Cronaca di Marco Leccio ecc.). Evidentemente un discorso di tal genere è un'espressione precisa del disagio di Pirandello, ma rimane ancora in una zona piuttosto oratoria ed esterna. Mentre c'è un ulteriore e più im­portante stadio dell'insoddisfazione dello scrittore. Dopo il primo fervore, in Pirandello convissero paralleli due stati d'a­nimo, anzi due anime diverse: una più esterna e inserita nella macchina sociale circostante, nella propaganda, nel clima uffi­ciale della nazione; un'altra più intima che parlava invece in nome delle convinzioni segrete dello scrittore. Quell'adesione ufficiale dava a Pirandello l'illusione di appoggiarsi a qualcuno e a qualche cosa. La sua solitudine ricorreva anche a questo, per reggersi e non disperare. Sentirsi cittadino, in solidale co­municazione con gli altri, con i padri e con il figlio, seguire la sorte della storia nazionale, era un affermare la propria dimen­sione sociale, un tentativo di respingere le incitazioni segrete della sua solitudine, che da destino psicologico personale, ten­deva sempre più a farsi metafisica disperazione della sorte di tutti. Ma in definitiva era la seconda anima, quella cioè che viveva nel Pirandello introverso, che importava di più, che tro­vava più profonde radici e non poteva non avere ragione delnon si poteva prescindere, se non a rischio di sentirsi raffred­dare dentro il calore dei sentimenti. Non poteva esserci posto per i calcoli, nè tempo perchè il fango invadesse le trincee. Era una guerra da farsi alla baionetta, di corsa, senza ripensamento, un semplificato strumento per rendere giustizia, per subito re­stituire l'indipendenza alle popolazioni oppresse. Il morire de­gli uomini, degli eroi, in tanto semplificato archetipo, tendeva a perdere peso di concretezza, si trasformava in un caldo spet­tacolo edificante; ma per nulla realistico. Se questo era l'irri­flessivo mito pirandelliano della guerra, non tardarono e fu­rono subito presenti alla coscienza le delusioni. La realtà era diversa da certi idealismi e da certa etica risorgimentale. Ecco perciò la platonica guerra garibaldina presto oscurarsi e mo­strare un'inedita immoralità, incoerenza e aspetti orribili e grot­teschi, come quelli della nuova strategia: «La strategia...! dice il garibaldino mancato Marco Leccio. L'arte di fare durare un secolo una battaglia, che prima con l'impeto dei sol­dati e il genio dei capitani si risolveva in quattro e quattr'otto, in una giornata al più! Gli studi tecnici, il materiale bellico, si dice così? bellico, già! obici, "bi-bo", v'empite la bocca, mor­tai da 305 e 420, fucili a tiro rapido, mitragliatrici, dirigibili, aeroplani, granate a mano, shrapnels, gas asfissianti, bombe incendiarie, trattori meccanici, tanks, trincee scavate a mac­china, blindate, mine terrestri, fogate, reticolati, fili di ferro, cavalli di frisia, bocche di lupo, proiettori, razzi e bombe illu­minanti, " bom-pim-pam ", pare la girandola, e la guerra dov'è? nessuno la vede! Prima gli uomini combattevano in piedi, come Dio li aveva messi! Nossignori, adesso non basta in ginocchio, pancia a terra, come le serpi e rintanati, chi sappia resistervi; noi, no, i nostri no, balzano in piedi, irrompono, si avventano a petto scoperto, bajonetta in canna, "Savoja!". Questo ci vuole! Altro che i tuoi meccanici e i tuoi farmacisti! La strate­gia: la chimica... vorrei sapere in che consiste, se non in un mo­struoso ingombro, per far perdere invano tempo e vite umane! Metter su macchine, impedimenti, ripari per trovare poi il mo­do di buttarli giù; e non valeva tanto, allora, non metterli su, se alla fine quello che veramente decide è il petto dell'uomo che balza su, dalle macerie di quegli ingombri vigliacchi e corre al­l'assalto? Te lo dico io perchè serve tutta questa scienza: serve per non farla la guerra! Serve per minacciare in tempo di pace, per incutere spavento a chi vuol farla; ma quando poi la guerra è dichiarata, ecco qua, a che serve, lo vedi? a non farla finir mai...». (Cronaca di Marco Leccio ecc.). E ancora: «Tutti quan­ti i combattenti degli eserciti regolari e dei volontari nel periodo del nostro risorgimento, sommati insieme, non diedero di morti e di feriti quanto in questa guerra ne dànno certe scaramucce giornaliere, di cui i bollettini degli stati maggiori neppur ten­gono conto... E i tanti morti d'oggi, i tanti feriti d'oggi, a mi­lioni, chi li ha fatti, donde provengono e che concludono... questa macchina stupida e mostruosa della strategia moderna, che mangia vite, strazia carni, e non conclude nulla, sai dirmi che conclude, che ha concluso?...» (Cronaca di Marco Leccio ecc.). Evidentemente un discorso di tal genere è un'espressione precisa del disagio di Pirandello, ma rimane ancora in una zona piuttosto oratoria ed esterna. Mentre c'è un ulteriore e più im­portante stadio dell'insoddisfazione dello scrittore. Dopo il primo fervore, in Pirandello convissero paralleli due stati d'a­nimo, anzi due anime diverse: una più esterna e inserita nella macchina sociale circostante, nella propaganda, nel clima uffi­ciale della nazione; un'altra più intima che parlava invece in nome delle convinzioni segrete dello scrittore. Quell'adesione ufficiale dava a Pirandello l'illusione di appoggiarsi a qualcuno e a qualche cosa. La sua solitudine ricorreva anche a questo, per reggersi e non disperare. Sentirsi cittadino, in solidale co­municazione con gli altri, con i padri e con il figlio, seguire la sorte della storia nazionale, era un affermare la propria dimen­sione sociale, un tentativo di respingere le incitazioni segrete della sua solitudine, che da destino psicologico personale, ten­deva sempre più a farsi metafisica disperazione della sorte di tutti. Ma in definitiva era la seconda anima, quella cioè che viveva nel Pirandello introverso, che importava di più, che tro­vava più profonde radici e non poteva non avere ragione del­l'altra. Vi fu comunque un'intera stagione in cui tutte e due cercarono le vie dell'espressione e si espressero indipendente­mente, e spesso contraddittoriamente, nello stesso racconto; ma vi fu anche qualche momento in cui, su un più chiaro piano di coscienza, vennero a dibattersi le questioni. Pirandello accen­na a questi momenti della riflessione, quasi un'avventura per il suo spirito, in quella parabola autobiografica che sono i Col­loqui coi personaggi.

Una mattina, siamo ancora nel 1915, Pirandello trova da­vanti alla porta del suo studio un personaggio. Costui è fermo nella considerazione di un «avviso» che lo scrittore ha la­sciato affisso alla porta, e che avverte che, «in un momento come quello», egli si rifiuta di accettare colloqui con i perso­naggi. Ma lasciamo la parola a Pirandello (Colloqui coi per­sonaggi)-. «In qualità di personaggio, cioè di creatura chiusa nella sua realtà ideale, fuori dalle transitorie contingenze del tempo, egli non aveva l'obbligo, lo so, di conoscere in quale orrendo e miserando scompiglio si trovasse in quei giorni l'Eu­ropa. S'era perciò arrestato alle parole dell'avviso: «in un momento come questo» e pretendeva da me una spiegazione.

- Scusi, ...permette?

- Non permetto un corno gli gridai. Mi si levi dai piedi! Ha letto l'avviso?

- Sissignore, appunto per questo... Se mi volesse spiegare...

- Non ho nulla da spiegarle! Non ho più tempo da perdere con lei! Via!...

- Sissignore... ecco, ma se volesse dirmi almeno che cosa è accaduto?...

Sperando di farlo schizzar per aria, polvere, come per una cannonata a bruciapelo, gli urlai in faccia:

- La guerra!»

I movimenti grotteschi e apparentemente gratuiti non de­vono ingannare. Infatti questo alterco fra scrittore e personag­gio corrisponde a un serio antagonismo segreto di Pirandello.


Pirandello continua a raccontare. Liberatosi, con uno strat­tone, del personaggio, gli ha sbattuta la porta in faccia ed è entrato nello studio per leggere ansioso i giornali che gli par­lano della guerra. E «pensando e fremendo», leva per caso un momento gli occhi dal giornale: «e che vidi? lui, quel pe­tulante, quell'insoffribile personaggio, ch'era entrato non so come, non so donde, e se ne stava pacificamente seduto su una poltroncina presso una delle due finestre che guardano il mio giardinetto, tutto ridente e squillante, in quei giorni di mag­gio, di rose gialle, di rose bianche, di rose rosse e di garofani e di geranii. Guardava fuori, con faccia beata, i cipressi e i pini di Villa Torlonia...

La sua vista inopinata, quel suo atteggiamento di delizia mi suscitarono una rabbia che non so dire: una rabbia che avreb­be dovuto lanciarmi addosso a lui, e invece restava lì come schiacciata dal peso d'uno stupore, ch'era anche nausea e avvi­limento. Gli vidi, a un tratto, voltare verso me quella beata faccia. Con l'orecchio intento e una mano appena levata:

- Sente mi disse, sente che bel trillo? È un merlo, que­sto, sicuramente.

Afferrai i giornali stesi su le ginocchia con l'impeto di piom­bargli con essi sopra ad accopparlo, urlandogli nel furore tutte le ingiurie, tutti i vituperii che mi venivano in bocca. E poi? Sarebbe stato inutile. Scaraventai a terra i giornali, puntai i gomiti sulle ginocchia, mi presi la testa fra le mani.

Poco dopo, con placida voce, quegli ricominciò a dire:


- E che c'entro io, scusi, se il merlo canta? se le rose ri­dono nel suo giardinetto? Corra a mettere la museruola a quel merlo, se le riesce, e a strappar queste rose! ...Noi non sap­piamo di guerre, caro signore. E se lei volesse darmi ascolto e dare un calcio a codesti giornali, creda che poi se ne loderebbe. Perchè son tutte cose che passano, e se pur lasciano traccia, è come se non la lasciassero, perchè su le stesse tracce, sempre la primavera, guardi: tre rose più, due rose meno, è sempre la stessa... Retorica, è vero? Ma per forza, poiché lei è così, e crede per ora ingenuamente che tutto, per il fatto della guerra debba cambiare. Che vuole che cambi? Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono. Passano. Passano con gli individui che non sono riusciti a superarli... Lei si agita, in questo momento; freme; s'arrabbia contro chi non sente come lei... vorrebbe gridare, far capaci tutti gli altri del suo stesso sentimento... Lei non vorrà mica morire per questo... Una mi­seria di pensiero l'assorbe. Di tanta vita ch'entra in lei per i sensi aperti, non fa conto... Immagini che tutto questo scom­piglio sia finito, compiuta la strage. Si farà la storia, domani, dei guadagni e delle perdite, delle vittorie e delle sconfitte. Spe­riamo che la giustizia trionfi... Ma se non dovesse trionfare? Trionferà di qui a un altro secolo... La storia ha larghi polmoni, e un arresto di respiro è cosa momentanea. Può darsi anche, del resto, che sembri un'altra, di qui a un secolo, la giustizia. Non c'è da fidarsi; e non è questo, creda, che importa. Ciò che realmente importa è qualche cosa d'infinitamente più piccolo e d'infinitamente più grande: un pianto, un riso, a cui lei, o se non lei qualche altro, avrà saputo dar vita fuori del tempo, cioè superando la realtà transitoria di questa sua passione d'oggi... Non avrei voluto ascoltarlo, e lo ascoltai invece fino all'ultimo. Quando scattai in piedi, sdegnato, amareggiato, na­turalmente non me lo vidi più davanti. Come una tenebra d'an­goscia mi aveva rioccupato il cervello: ero ricaduto in preda alla mia cocente passione».

Se questo fosse il luogo adatto, analizzeremmo questa pa­gina pirandelliana e potremmo individuarvi tutta una serie di proposizioni divergenti e contraddittorie; ma ci interessa in­dicarne la più importante: Pirandello da una parte sente con sincerità il dovere di rimanere attaccato a certe cose: la patria, e la patria in guerra, la società e la =ocietà in guerra; ma sente, secondo un'estetica idealistico-borghese profondamente vissu­ta, e fa uno strano contrasto, il dovere d'artista di non preoc­cuparsene, di soffrire di altre cose ben più importanti: «Che contano i fatti? Per enormi che siano, sempre fatti sono». Non nasce neppure il dubbio in lui che oltre gli sdoppiamenti, le idealizzazioni, le impuntature esistenziali, possano esistere altre possibilità e altri modi di essere.

Per lui, in realtà, la vicenda politica della patria in guerra, e i sentimenti stessi suscitati da questa circostanza, nonostante la passionalità della sua applicazione in essi, rimanevano in superficie, poco avevano a che fare con la sua più profonda vita interiore. Qui però c'è il tentativo di portare il dibattito fra le due situazioni dell'animo a uno stesso livello di coscienza. Un dibattito che non ha conclusione, perchè i due stati in Piran­dello non arrivano neanche in un momento alla sintesi, e riman­gono a convivere fino a che, sotto i colpi della realtà, sbiadisce e cessa di affacciarsi, salvo per occasiones, la spinta del patriot­tismo, e rimane unico al fondo il senso di un totale disinganno. La guerra è sentita come una grandiosa riprova della incoerenza della società umana. Le forze centrifughe da Pirandello speri­mentate nella personalità del singolo individuo, sono quelle stesse che governano il mondo e lo hanno portato alla confla­grazione. La coscienza della guerra in tal senso facilita il pro­cesso creativo volto a capire ed esprimere l'essenza autodistrut­tiva dell'anima umana.

La guerra lo colpiva tanto più nel profondo quanto più la valutava negli aspetti meno socialmente impegnati e più asto­ricamente intuiti. Allora di sè e della sua ansia di italiano in­terventista fa dire al personaggio: «Una miseria di pensiero l'assorbe»; e finisce per avere esistenza per lui solo «la vita che resta [al di là della guerra], con gli stessi bisogni, con le stesse passioni, per gli stessi istinti, uguale sempre, come se non fosse mai nulla: ostinazione bruta e quasi cieca». E «tutto il bene della vita... sfugge alla coscienza, non a quel profondo oscuro se stesso» dove si vive davvero e si «assapora il gusto della vita, ineffabile, che è quello... che fa accettare tutte le contrarietà, tutte le condizioni che il pensiero stima più misere e intollerabili. Questo veramente è ciò che conta». Che è un molto amaro ritrovamento dei valori della vita in una sfera sotterranea e vitalistica.

295


La guerra ha spinto Pirandello ora a invaghirsi delle ragioni pubbliche degli avvenimenti, e ora a mettersi in salvo dalle seduzioni della collettività, a ribellarsi e a protestare contro di esse. Come scrittore è aggravato da un sedimento oratorio sen­timentale e patetico; ma spesso è in un campo di riflessioni soli­tario, collocato in una sfera in cui non v'è accesso per gli altri.

Egli è capace, la guerra, di considerarla anche da lontano, da più lontano, da un infinito di lontananza. Ritorna ad essere il meteorologo di Monte Cave, quello di Pallottoline, che ve­deva se stesso, la sua famiglia, gli uomini e i mondi stessi come entità infinitesimali, indegne di considerazione: «Forse nes­suna di quelle stelle dice adesso Pirandello la può vedere questa piccola terra che va e va, senza un fine che si sappia... va, granellino infimo, gocciolina d'acqua nera... Se nei cieli si sapesse, che in quest'ora del tempo che non ha fine questi mi­lioni e milioni d'esseri impercettibili, in questo striscio di tenue barlume, sono tutti quanti tra loro in furibonda zuffa per ra­gioni che credono supreme per la loro esistenza... C'è qual­cuno che pensi che nei cieli non c'è tempo? Che tutto s'inabissa e vanisce in questo vuoto tenebroso e senza fine? e che su que­sto stesso granellino, domani, tra mille anni, non sarà più nulla o ben poco si dirà di questa guerra ch'ora ci sembra immane e formidabile?».

Nella costante bipolarità della convinzione di Pirandello di fronte alla guerra, per cui lo vediamo ora spinto a un appassionamento troppo vicino e affocato, ora a un'osservazione e a un compianto di distanza siderale, s'insinua talora un terzo tempo di riflessione. Insieme con una preoccupazione umanitaria, alla Romain Rolland, o alla Barbusse («No: questa non è una gran­de guerra; sarà un macello grande; una grande guerra non è perchè nessuna grande idealità la muove e la sostiene. Questa è guerra di mercato»), appare un'apprensione esistenziale, cri­stianamente sgomenta: «Tra mille anni questa atrocissima guerra, che ora riempie d'orrore il mondo intero, sarà in poche righe ristretta nella grande storia degli uomini; e nessun cenno di tutte le piccole storie di queste migliaja e migliaja di esseri oscuri, che ora scompaiono travolti in essa, ciascuno dei quali avrà pure accolto il mondo, tutto il mondo in sè e sarà stato almeno per un attimo della sua vita eterno, con questa terra e questo cielo sfavillante di stelle nell'anima e la propria casetta lontana lontana, e i propri cari, il padre, la madre, la sposa, le sorelle, in lagrime, e forse, ignari ancora e intenti ai loro giuo­chi, i piccoli figli, lontani lontani. Quanti, feriti non raccolti, morenti sulla neve, nel fango, si ricompongono in attesa della morte e guardano innanzi a sè con occhi pietosi e vani, e più non sanno vedere la ragione della ferocia che ha spezzato sul meglio, d'un tratto, la loro giovinezza, i loro affetti, tutto per sempre, come niente! Nessun cenno. Nessuno saprà. Chi le sa, anche adesso, tutte le piccole, innumerevoli storie, una in ogni anima dei milioni e milioni d'uomini di fronte gli uni agli altri per uccidersi? Anche adesso, poche righe nei bollettini degli Stati Maggiori s'è progredito, s'è indietreggiato; tre, quattro mila tra morti, feriti e scomparsi».

Ma la primavera rinasce, indifferente e imperturbabile, dopo due anni di guerra, nel giardinetto dello scrittore. Il 17 aprile del 1916, Pirandello lo ripete al figlio Stefano con le parole che a lui, un anno prima, aveva dette il personaggio, e aggiunge: «È certissimo che la terra non sa che da due anni gli uomini sono in guerra fra loro...».


La follia di Antonietta

Del muoversi assurdo del mondo è parte inalienabile la fol­lia di Antonietta. Negli ultimi anni di guerra, i momenti di se­renità nella giornata della moglie di Pirandello si sono fatti sempre meno frequenti. Antonietta non si sentiva più soltanto avversa al marito, ma era presa da un delirio di persecuzione che coinvolgeva tutto il mondo intorno a lei. Sotto i suoi occhi era nata un'alleanza, ai suoi danni, tra il marito e la figlia. Si persuase che Lietta voleva sostituirla in tutto, persino nella persona fisica. Se ancora, fino a qualche tempo prima, Anto­nietta usciva il pomeriggio con Lietta per la passeggiata o per fare degli acquisti, e nelle ore tranquille si faceva da lei aiutare nelle faccende casalinghe, adesso si era chiusa in se stessa e alla figlia faceva continuamente presente che ormai lei sapeva, e che si sarebbe difesa: non era facile avere ragione di lei. Per­ciò, se la si voleva avvelenare, poiché questo si voleva, Lietta era obbligata a gustare i cibi prima della madre. Costretta a subire tante vessazioni, che il padre, soggetto, non aveva l'ani­mo di impedire, a Lietta parve di non poter più vivere in una casa così triste. Il padre, respinto nella sua solitudine, cercava conforto nella vivace stanza del suo lavoro (fu questo infatti un periodo fecondissimo per la sua produzione drammatica). La giovinetta non poteva più rimanere sola faccia a faccia con una madre inimicissima. Un giorno la madre fu esplicita. Ac­cusò la figlia di incesto col padre. E Lietta, inorridita, cercò di uccidersi. Provò con un piccolo vecchio revolver, un gingillo, che si trovava per casa; ma la ruggine aveva occluso per for­tuna la canna e la pallottola vi rimase incastrata. Lietta allora fuggì di casa e si buttò per le vie di Roma alla ricerca del Te­vere. Perchè voleva proprio farla finita. Ma, figlia della gelosa Antonietta, era stata tenuta per lo più in casa, e, fin da pic­cola, in giro l'aveva condotta la madre che non usava allonta­narsi dal quartiere. Sicché non si era fatta pratica delle vie ro­mane e finì per perdersi in una specie di labirinto. Fino a quan­do non si calmò e andò a chiedere riparo a certi conoscenti che abitavano nei pressi di Porta Pia. Questi si affrettarono ad av­vertire il padre, che cercò per Lietta un alloggio in un istituto di suore. Poi, dopo qualche tempo, l'accompagnò a Firenze, dalla zia Rosalina. Qui Lietta potè rimanere fino al ritorno di Stefano dalla prigionia. Pirandello rimase solo con la moglie: e se, per provarla, le proponeva talvolta di far tornare a casa la figlia, Antonietta rispondeva: «Fuori lei, o fuori io».

La vita di Pirandello fu a un bivio: «Gli si impose la neces­sità di scegliere, tra la sua esigenza d'uomo che non poteva fare a meno di quella donna, per pazza che fosse, e la sua responsa­bilità di togliere la propria casa a una figlia, che così poco aveva ricevuto da lui: giunta ora nell'età di formarsi la propria vita per tutto l'avvenire» (Stefano Pirandello1).

Egli non trovava compenso sufficiente nel lucido impegno del lavoro nuovo e terribilmente vivo del teatro. Un lavoro, dal quale poi spesso doveva, anche per lunghi mesi, tenersi lontano, a causa dei suoi obblighi di professore. A più riprese, nelle lettere a Stefano, si lamenta di queste costrizioni che gli impedivano la continuità dell'applicazione in un periodo che sentiva, per la sua arte, di grazia: «...non potendo far altro, figliuolo mio, vorrei star sempre qui a tavolino. La mente è sempre fresca, agile e pronta». Invece (dice in un'altra lettera dell'autunno del 1916): «Domani mi cominciano gli esami di ammissione: ci sono nientemeno che 174 candidate, il che vuol dire che mi toccherà correggere 174 temi. E mi trovo nelle stesse condizioni in cui mi trovai a luglio; cioè intrigato negli esami fino alla soffocazione...». E in una lettera del 29 giugno del 1917, cioè dell'anno successivo: «Ti scrivo... dal Magistero, in mezzo agli esami. Sono cominciati il giorno 7 e dureranno fino al 20 di luglio. Sono sfinito!». In autunno ancora: «Non faccio più nulla dal 7 di giugno: figurati! prima gli esami, poi... [la reticenza è del figlio Stefano che pubblicò questa lettera nel 1938] ...e sono ancora qua a perdere le mie giornate cor­rendo di qua e di là!»

La vita dello scrittore, fino al principio del 1918, non ha subito mutamento alcuno: «La nostra vita, Stenù mio, è sem­pre quella di prima. Puoi figurartela benissimo, senza bisogno di tormentarti con l'immaginazione. Tutto tale e quale e nulla di nuovo». Talora in questo periodo, Pirandello arrivava al­l'esasperazione: come quella volta che al ristorante, a casa nes­suno provvedeva al suo pranzo, gli parve che due giovanotti lo guardassero e ridessero di lui. Allora, preso dall'ira, aveva affer­rato per il collo una bottiglia e aveva minacciato di romperla loro in testa. Era stato tutto un suo equivoco e poi Pirandello si scusò. Ma è un episodio, questo, che rivela lo stato di ten­sione del suo animo. Per tenere calma la moglie non poteva troppo allontanarsi di casa, e neppure assistere a tutte le prove, come avrebbe voluto. Avveniva perciò anche che gli attori tra­dissero il suo teatro, cosa che lo irritava.

Alla fine dell'anno, la guerra è ormai finita, non c'è ancora nulla di nuovo nella sua vita; tranne le prove, al Quirino, de II giuoco delle parti, e la presenza di Fausto, malato, in casa: «Io non ti ho scritto, scriveva a Stefano il 29 novembre per­chè sono stato due giorni fortemente raffreddato, al mio solito (e sono un po' ancora), e poi perchè mi sono cominciati gli esami e anche le prove al Quirino de II giuoco delle parti. La mattina, all'Istituto; poi scappa a desinare; poi, ancora col boccone in bocca, a casa, per portare da mangiare a Fausto; poi alle 14 al Quirino fino alle 18 e mezza; stanco morto, corri da Salvaggi per portar da cena a Fausto, poi riesci alle 19 per cenare anche tu, e vedi dopo una giornata simile se hai tempo e modo di scrivere una lettera...».

Ma, in questo scorcio del 1918, siamo quasi alla fine delle vicissitudini più dolorose. Al figlio, Pirandello scrive: «Lietta ha scritto un'affettuosissima lettera da Firenze per il tuo rim­patrio. Arde di rivederti e di riabbracciarti»42.

Anche per quanto riguarda la moglie, Pirandello ha ormai preso una decisione. Aspetterà il ritorno di Stefano, perchè an­che lui si renda conto della condizione della madre, e poi, d'ac­cordo con i figli, la internerà in una clinica neurologica di viale Nomentano, non lontano dalla sua casa.

Al ritorno di Stefano, per farla entrare nella casa di cura, le si dovette tendere un inganno. Poiché continuava da anni a ripetere che voleva separarsi dal marito, le fu detto che la si sarebbe accontentata; ma che, perchè la separazione fosse con­sentita dal tribunale, era necessario che risultasse sana di men­te, e doveva perciò sottoporsi ad osservazione in una clinica psichiatrica. Antonietta divenne allora docilissima e si fece con­durre nella clinica. «Vedemmo quel giorno ricorda Stefano Pirandello43 avvicinarsi come il condannato a morte vede il giorno dell'esecuzione, restammo, dopo il "tradimento" con cui si potè condurla e lasciarla in quella prigione, come una famiglia devastata dal lutto e dalla colpa, e subito cominciò la frenesia di Papà per riaverla».

Antonietta visse, da quel momento, nella sua stanzetta, cu­rata dalle suore-infermiere. Pirandello vorrebbe andare da lei, ma non può spesso, perchè viene accolto come un nemico. Ma egli, dice Stefano Pirandello44, ha «un solo pensiero fisso, quel­lo di riprendersi in casa la moglie che gli è più necessaria del­l'aria stessa: e vessa i figli perchè la vadano a trovare tutti i giorni e gli riferiscano parola per parola quello che ella ha detto, se e come ha parlato di lui... questo dura anni e anni, non qualche giorno o settimana: finché nel 1924, dopo cinque anni, parvero (con qualche dubbio, anche a noi figli) maturate le condizioni perchè il ritorno a casa di Mamma potesse avve­nire, e si prese in fitto una casa isolata a Monteluco, sopra Spo­leto, per l'estate. Fu addobbata per ricevere l'Ospite, tutto fu minuziosamente preparato per il viaggio, e, al dunque, ella non volle più: nel punto di uscire dalla "prigione" in cui sma­niava, da cui, con accenti strazianti, ci supplicava di liberarla, invece vi si aggrappò come a un rifugio che aveva paura d'ab­bandonare, e le rinacquero d'improvviso tutte le avversioni contro il suo eterno nemico... Fu soltanto allora che Pirandello rinunziò alla speranza di potersi un giorno riprendere la donna che aveva sempre in cuore e nei sensi».

Antonietta visse in clinica, ancora a lungo, più a lungo del marito; morì infatti in questo secondo dopoguerra.

La casa, lasciata da Antonietta, che l'aveva riempita terri­bilmente della sua presenza, apparve all'improvviso a Piran­dello angosciosamente deserta. (Uno dei Sei personaggi, in una battuta della commedia, dice: «La mia casa, andata via lei, mi parve subito vuota. Era il mio incubo; ma me la riempiva! Solo, mi ritrovai per le stanze come una mosca senza capo»). I figli erano tornati, ma non bastavano a dare senso a quel vuoto. Antonietta aveva rappresentato per lui ben altro. La vita di Pirandello da sedici anni ormai si svolgeva nel doloroso equilibrio di un'ardua bilancia: il suo lavoro di scrittore era stato in ogni ora e in ogni minuto condizionato, in mille modi, dalla presenza di Antonietta. Antonietta l'aveva ispirato per molti versi, l'aveva costretto, in una continua fustigazione, a chiudersi ancor più dentro se stesso. Egli aveva capito tanta parte del mondo nella riflessione su di lei; aveva sperimentato senza mediazione, nel vivere di lei, certi deformanti dettati del­la propria più intima matrice psicologica. Adesso era finita. A Pirandello non restò, andata via molto presto anche la figlia, che il silenzio fisico di quelle stanze, e presto lascerà la casa. Antonietta era stata un muro intorno all'arte di Pirandello, la carica ossessiva del suo creare; era stata colei che aveva affer­mato come vere, infinite cose che non esistevano. E Pirandello le aveva dato credito. Scriveva in questi anni delle commedie e pensava un romanzo, tutto per darle ragione. Uno, nessuno e centomila è ispirato e idealmente dedicato a questa moglie che gli faceva scorgere se stesso, Pirandello, come un altro, tutto diverso, ma l'unico vero per lei.

Ci fu un punto in cui Pirandello cessò da quella sua caratte­ristica di scrittore disposto a tutto accogliere nella sua arte in una prospettiva plurima e confusa, e si fissò nei concetti del relativismo paradossalmente come in una fede. Ma non era una fede soltanto, era un parlare di cose di ogni giorno, di fatti incontrovertibili come testimonianze. Una commedia come Cosi è (se vi pare), senza questo accento di persuasione, sa­rebbe semplicemente un bel pezzo di bravura. La persuasione si era fatta così salda perchè Antonietta gli aveva fatto capire fino in fondo che ognuno è, davanti a ogni altro, un altro da ciò che si crede.

Quella parte del suo teatro che nasce dalla stessa cieca e dommatica, quasi superstiziosa credenza nel relativismo, ha sempre un simile tono di domestica verità.


Andata via Antonietta, e spezzata così la strana, talora mo­struosa catena che lo legava a quella casa, Pirandello si sente disperatamente libero di quel peso al quale aveva ancorato la sua vita. Fu un contraccolpo insopportabile. Egli aveva avuto sempre una casa: da quella «romita in mezzo alla natia cam­pagna» della sua nascita, a quella materna di Girgenti e di Por­to Empedocle, a quella di Palermo, a quella di Bonn, a quella di Roma, ogni domicilio, anche breve, era stato per lui un ri­fugio. E presto invece la casa, ogni casa, perderà valore per lui. Se ne costruirà una, ma la rivenderà quasi subito, senza sacri­ficio. Avrà inizio la sua vita di nomade. Sceglierà come suo do­micilio gli alberghi e il teatro, cioè le più fittizie e le più equi­voche delle abitazioni.

Solo negli ultimi giorni ci sarà un significativo ritorno nella casa di via Bosio.

La separazione dalla moglie, e poi quella dalla figlia, al cul­mine della drammatica esperienza degli anni della guerra, se­gneranno l'avvento di un'epoca diversa nella vita di Pirandello. E cercheremo di indicarne la vicenda. Ma occorre prima parlare della nascita del suo teatro.