Capitolo Terzo


​Roma


La Roma letteraria

A Roma, dove adesso si stabilisce definitivamente, Piran­dello giunge come un letterato di carriera. Il padre gli passa un decoroso mensile e Luigi trascorre un certo numero di anni, prima e dopo il matrimonio, nell'abito (non del tutto felice, dato l'uomo, ma neppure privo di particolari piaceri e com­piacimenti) del professionista delle lettere.

Ha tagliato via da sè tutti i vincoli profani: infatti il fra­tello Innocenzo, di cinque anni più giovane, come era possibile in quei tempi, si è assunto per lui l'incarico del servizio militare; e Luigi è un po', in quest'epoca, come un laico seminarista dell'arte che con segreto fervore attenda ad assumere il sacer­dozio poetico.

Quanto alla carriera di filologo, dopo il suo ritiro da Bonn, egli vi si era riaccostato con molte riserve mentali, come è chiaro in quella sua lettera del maggio 1891, già ricordata1, in cui parlava del suo Belfagor come di un virile testamento poetico dettato prima della filologica castrazione: «In questa bella Italia nostra, culla dell'arte, d'arte solo non si può vivere, e chi, poveretto, è nato per l'arte, è costretto a tagliarsi le bagaielle. Io, prima che me lo tagli, voglio mostrare se non altro d'avercelo, e bastonare i castrati. Un'idea come un'altra. Poi mi darò tutto a pensare all'è chiusa e all'è aperta e ai vari gruppi consonantici, e allora chi sa! mi faranno fare cavaliere e com­mendatore...». Inoltre, appena un anno prima, da Bonn, a un amico palermitano che dirigeva una rivista letteraria2, scriveva della sua aspirazione ali 'unico ideale della poesia: «...Il mio travaglio è quello di contemplar me stesso, incontentabile eter­no, per avere una sola volta, anche per un sol momento in tutta la vita, l'unica soddisfazione a cui io possa aspirare quella di avere effettuato un mio ideale». «... [Capisco ogni cosa], ma confesso di non capire un poeta mediocre.

Se fino ai trent'anni non avrò fatto opera veramente bella e duratura, impegno la mia parola che non scriverò più un verso in vita mia».

Ora è alla ricerca del momento unico e della grande poesia. Dal nord è tornato con un lieve accenno di bohème nella figura esteriore, tanto che il suo grande amico d'infanzia, Antonio De Gubernatis, se lo ricordava, dopo tanti anni, meraviglian­dosi ancora, tornato dalla Germania sotto un gran cappellone, «una specie di sombrero», che gli nascondeva il volto e lo rendeva irriconoscibile. E il Capuana così lo descrisse1: «Bion­do, con barbetta da Nazareno, capelli un po' lunghi e spinti indietro sotto un cappello di castoro a larghe tese, aveva nella svelta e signorile persona e nella dolce espressione del viso qua­si pallido, qualche cosa che non faceva indovinare in lui un siciliano. Parecchi lo scambiavano per studente tedesco venuto a fare dopo la laurea l'indispensabile viaggio in Italia...».

La Roma in cui adesso capita è caratteristicamente umber­tina anche negli ambienti letterari. È abitata o frequentata pe­riodicamente da letterati, scrittori, giornalisti, poeti provenienti da molte regioni, soprattutto meridionali e centrali, poveri e disinteressati quanto era possibile, non privi, di solito, di one­stà, e non aridi di cuore. Il decennio precedente era stato fervi­do di un giornalismo da pionieri: la Tribuna, il Fanfulla e il Fanfulla della Domenica, la Cronaca bizantina e il Capitan Fra­cassa, la Domenica letteraria e il Don Chisciotte, avevano visto nelle redazioni romane l'incontro di molti provinciali di tutta Italia. Vi si ritrovavano Martini e Carducci, Chiarini e Nencioni, Verga, Capuana, De Amicis, Stecchetti, Marradi, Salvadori, Cesareo, Panzacchi e D'Annunzio, Scarfoglio, Serao, Fleres, Vassallo e Pascarella. Tutti passavano per quelle salette dove si polemizzava, ci si abbracciava, si redigevano burle e mi­stificazioni letterarie, inventando apocrifi poemi balossardiani, si tradiva un giornale per l'altro, si creavano le premesse per gli scontri cavallereschi alla sciabola o alla pistola. Su quei gior­nali erano state pubblicate anche, in quegli anni che precedono la venuta di Pirandello a Roma, le novelle verghiane e le Odi barbare, oltre che non piccola parte della produzione giovanile di D'Annunzio.

I caffè e gli ambienti letterari, venuto a Roma Pirandello, riecheggiavano ancora di tutti quei nomi, anche se la maggior parte aveva preferito ripiegare in provincia, e qualcuno di quei giornali si pubblicava ancora; ma Angelo Sommaruga, il primo editore di tipo capitalistico, non c'era più, capitalisticamente tradotto in prigione dopo un clamoroso processo per truffa, e D'Annunzio si era fatto più irrequieto, stava poco a Roma, pre­feriva Francavilla a Mare, o la vita mondana napoletana, o Ve­nezia, Settignano e la Capponcina, sempre più lontano per stile e per vita da quel gruppo romano di scrittori e giornalisti, più o meno privi di mezzi di sussistenza e che non intendevano affatto abdicare al loro comune costume di borghese mediocrità. Capuana aveva tutt'al più la sua famosa macchina fotografica (con cui fotografò anche Zola con Verga), non cavalli e levrieri;


Gandolin, Pascarella e Fleres erano lieti del successo in fami­glia dei loro pupazzetti; e tutti, tranne l'intelligente Capuana, che era semplice e acuto nello stesso tempo, si tenevano in un orizzonte culturale piuttosto angusto. Adesso, allo sbocco del secolo, la vita letteraria tendeva a differenziarsi in sette e con­venticole distinte per etica e per gusto. Da una parte persiste il provincialismo eletto dei dannunziani, dall'altra il provincia­lismo più semplice e sano dei veristi e neoveristi, che il proprio onesto lavoro mai facevano sconfinare dai limiti di una co­scienza piccolo-borghese e demistificatrice.

Pirandello s'inserì silenziosamente, senza rilievo alcuno, in questo secondo gruppo, che ritenne il più adatto e il più simile a lui. Gli dava qualche prestigio scientifico l'avere studiato in una università tedesca. Il Millefiori, «filosofo e scultore» (co­me lo definisce Ugo Fleres '), lo presentò al Fleres, e il Fleres al Faelli: personaggi, questi, ambedue di qualche prestigio, per­chè attivamente partecipi della vita letteraria romana fin dai primi tempi del Fanfulla della Domenica, della Cronaca bizan­tina e del Capitan Fracassa (Il Capitan Fracassa era passato dallo Scarfoglio, in tempi recenti, al Boutet e al Faelli).

Pirandello aveva già tradotto le Elegie romane del Goethe. Il Faelli e il Fleres combinarono perciò una «intervista col tra­duttore», che apparve, in forma d'articolo, a firma del Faelli, sul Don Chisciotte (diretto allora dal Vassallo, o Gandolin)1.

Amicizie

L'amicizia con Ugo Fleres, anche lui siciliano, di Messina, si fece presto più intima. L'amico più anziano accompagnava Luigi, «che era un bel fanciullone nonostante la bionda lanuggine di barba e il cappellone di castoro e il passo grave con cui girellava per l'Urbe» (Fleres2), per i luoghi goethiani, alla ta­verna delle Elegie ridotta in latteria; o, insieme, uscivano fuori le mura, forniti di colori e pennelli per ritrarre i tramonti della campagna romana. A loro, spesso, si accompagnavano, anch'essi forniti di pennelli e tavolozza, Tomaso Gnoli e Ettore Roma­gnoli, il quale ultimo, con il suo particolare stile di traduttore di classici greci, suggestionerà tanto Pirandello che, quasi in quello stile, comporrà, più tardi, due poemetti greci, Laomache e Scamandro, che sono fra le cose sue meno belle.

Il giovane Pirandello amava molto le forme veristiche della pittura di quei tempi e, nei limiti del genere dilettantesco e domenicale, non dipinse troppo male. In seguito, quando della pittura si servì, durante le sue villeggiature, come di una sta­gionale cura distensiva, tornò sempre, quasi senza evoluzione, " a quelle forme e a quei colori chiari, distesi, per nulla affatto drammatici. Qualche anno dopo, nel 1895, in occasione del­l'Esposizione di Belle Arti in Roma, si improvviserà anche cri­tico d'arte, e scriverà sette articoli, per il Giornale di Sicilia trattando dei pittori e degli scultori presenti alla mostra. Di­chiarerà di amare molto Aristide Sertorio, «questo giovane eletto fra gli eletti pittori moderni»'.

All'amicizia col Fleres, Pirandello deve anche l'amicizia e la protezione di Luigi Capuana1. Questi, dopo che, nell"82 e neir'83, aveva diretto, sostituendo il Martini, il Fanfulla della Domenica, si era ritirato a Mineo2; ma ora, dopo cinque anni di lontananza, era ritornato a Roma, dove rimase ancora tredici

anni, fino al 1902, quando fu chiamato a Catania, a coprire la cattedra di Stilistica, lasciata da Mario Rapisardi. È un periodo, questo, fervido di lavoro per il Capuana, che pubblica le opere più importanti. A Pirandello egli suggerì, poiché questi rima­neva incerto fra vari generi letterari, poesia, teatro o narrativa, di applicarsi a fondo al romanzo. L'Esclusa (allora Marta Ajala) infatti nasce sotto la suggestione diretta del Capuana, nel 1893, durante un'attardata villeggiatura sulla cima di Monte Cave, in un convento abbandonato, occupato da un oste e da un meteorologo con la sua famiglia (quello stesso che Pirandelllo fa protagonista della novella intitolata Pallottoline). Vi alloggia in un'ex cella monacale, non senza soffrire dei primi freddi del­l'autunno. E, finché il tempo lo permette, ama lavorare in aperta campagna, su un ramo non dei più bassi di una quercia secolare. Durante l'estate ha qui ricevuto saltuarie visite dei suoi nuovi amici. Un giorno, per gioco, erano gli scherzi dell'e­poca, insieme a Vianini, a Giusti, a Ugo Ojetti, che erano an­dati lassù con Ugo Fleres, si travestì da monaco e scese le balze del monte fino alle vie di Rocca di Papa, dove si divertì a sog­guardare diabolicamente dal cappuccio i passanti3.

I critici4 hanno già notato quali motivi e schemi narrativi sono passati da Ribrezzo e dalla Giacinta del Capuana nella Marta Ajala. Anche II turno, il romanzo scritto subito dopo, è del genere verista e provinciale prediletto dal Capuana, anche se è insieme tutto nuovo e originalmente pirandelliano.

Le riunioni si svolgevano in casa del Capuana', ma più spesso il luogo di ritrovo, che era per lo più periodico e do­menicale, allora e più tardi, fu la casa di Ugo Fleres, al quinto piano di uno stabile al Lungotevere Mellini, e poi in via San Nicola da Tolentino e infine in via Nazionale; oppure in casa di Giuseppe Mantica, al Corso, di fronte ad Aragno, o di Pi­randello stesso, nella sua stanza sopra il Porto di Ripetta e, dopo il matrimonio, in un appartamento messo su con cura borghese in via Sistina, sul Tritone, poi in via Vittoria Co­lonna, nel Palazzo Odescalchi1. Il Fleres, che era di sette o otto anni più anziano di Pirandello, in assenza del Capuana, che non era molto assiduo, aveva un po' la funzione di guida del gruppo, e perfino di maestro di stile. Egli cercava infatti di restaurare la tradizionale pulizia della prosa letteraria ita­liana nel contesto veristico della letteratura di quegli anni romani.

Le riunioni avevano quattro o cinque frequentatori fissi. Giuseppe Mantica, calabrese, si divideva fra la letteratura, l'in­segnamento e la politica. Protetto da Guido Baccelli, ministro giolittiano, ne fu, nei vari ministeri, capo di gabinetto. E Pi­randello cominciò la sua carriera di professore al Magistero, nel 1897, occupando, per incarico ministeriale, la cattedra la­sciata libera appunto dal Mantica. Altri amici erano Italo Pal­marini, novelliere, il messinese Salvatore Saya, compositore e maestro di musica alla Sinagoga, il quale, pur non essendo di religione ebraica, musicò molti cori israelitici. Spesso si met­teva al pianoforte e suonava per gli amici. Il Fleres era versa­tilissimo, e fecondo in ogni genere letterario: poeta, novelliere, romanziere, librettista e giornalista, critico letterario e d'arte, disegnatore e pupazzettista del Don Chisciotte, del Folchetto e del Travaso. Fu, con la sua versatilità e facondia, un esempio per il giovane Pirandello, il quale, nei tempi del suo esordio letterario, si sforzò di essere anche lui tutte quelle cose. Anche Tomaso Gnoli, più giovane, fu della compagnia e raccontò più tardi come si svolgevano queste riunioni letterarie2.

Una buona parte del tempo si dedicava alla lettura e alla discussione degli articoli, novelle e poesie che ciascuno andava componendo. Pirandello vi lesse i suoi lavori; fra gli altri, man mano che lo componeva, II fu Mattia Pascal. Una volta l'ormai venerando Domenico Gnoli (quello stesso contro cui Piran­dello aveva lanciato, in una poesia di Mal giocondo, il grido insofferente: «Ma il conte Gnoli, ahi quanto m'ha seccato!», il famoso travestimento del quale, però, in poeta giovane e innamorato gli ispirerà tanto tempo dopo lo spunto dramma­tico di Quando si è qualcuno) venne a declamarvi un Prome­teo, carme in sciolti. «Talvolta facevano delle gare di composi­zione: sceglievano un titolo, da un fatto di cronaca, o da un annunzio giornalistico e si impegnavano a svolgerlo per la do­menica seguente. Poi ne discutevano» (T. Gnoli). Pirandello era docile a tale modesta accademia veristica, e poi rimase sem­pre in qualche modo legato ai titoli della cronaca. La novella, poi commedia, Il dovere del medico, nacque, secondo Gnoli, da una di queste esercitazioni. Dopo le letture, i convenuti chiudevano la giornata giocando a tressette e a scopone. Fra gli altri frequentatori, più o meno assidui, di casa Fleres e di casa Pirandello erano Ettore Romagnoli, Paolo Orano, il mae­stro Lozzi e Giustino Ferri. Anche i fratelli di Luigi, Enzo e Giovanni, venuti a frequentare l'Università di Roma, erano spesso del gruppo.

Col sopravvenire del nuovo secolo furono più frequenti le riunioni nei caffè letterari romani; ma piuttosto che nella terza saletta d'Aragno, tumultuosa e caotica, frequentata da uomini politici, giornalisti e letterati, o al Caffè Greco, classico e tran­quillo ritrovo, Luigi e i suoi amici si riunivano, di solito fra le diciassette e le venti, al caffè Bussi, in via Veneto, di fronte all'albergo Excelsior1. Qui il convegno era più numeroso, mo­bile e vario. Pirandello vi incontrava Eduardo Boutet, Ricciotto Civinini, Giuseppe Lipparini, Ugo Ojetti, Domenico Oliva, Garavaglia, Maselli, Federzoni, Pascarella, Beltramelli e altri, e Lucio D'Ambra e Nino Martoglio che dovevano diventare fra i suoi più intimi amici.


Ma Pirandello non amò molto i caffè letterari, nè si fece influenzare dalle idee che giornalisticamente venivano a turno di moda. Anzi dimostrò una pronunciata avversione per la so­cietà letteraria romana, che volle rappresentare satiricamente in quel suo romanzo pubblicato nel 1911, ma forse scritto prima1, intitolato Suo marito. Qui, letterati e giornalisti della Roma della fine e del principio del secolo sono messi, non senza pesantezza, alla berlina, come ignoranti, fatui e cialtroni, quan­do non sono caricature e maschere di idiozia. Il romanzo, in parte in cifra, si sviluppa liberamente sullo schema della vi­cenda di una «giovane e illustre» scrittrice venuta a Roma da una lontana provincia, dopo che ha avuto «padrino della fama» il vecchio illustre scrittore e senatore Romualdo Borghi. Il marito di costei, piccolo impiegato statale, si dà ridicolmente alla reclamizzazione e allo sfruttamento economico della fama e del successo della moglie. Fatti che corrispondono visibilmente a quelli della «giovane e illustre» scrittrice Grazia Deledda, proveniente, alla fine del secolo, dalla lontana Sardegna, che ebbe come padrino della fama il vecchio e mondano senatore Ruggero Bonghi (Romualdo Borghi nel romanzo), che dettò per lei la prefazione ad Anime oneste (1895), e di lei fu molto cordiale patrocinatore. Anche il marito della Deledda, piccolo impiegato statale, pare si comportasse come il Giustino Boggiòlo del libro e vi poteva essere agevolmente riconosciuto. La Deledda, offesissima, poiché, a parte la ridicolizzazione del ma­rito, il personaggio in cui era adombrata finiva per essere ro­manzescamente coinvolto in una storia di passione e di adul­terio, fece in modo che l'editore non ripubblicasse più questa opera di Pirandello, e questi si adattò, pentito, anche se non senza qualche lamento. Il romanzo riapparve solo nel 1941. La Deledda rimase sempre nemica di Pirandello, nonostante questi non trascurasse occasione per dire il bene che pensava della scrittrice.

Nel romanzo, «la letteratura militante in Italia» è rappre­sentata come «una meschina pettegola farmacia di villaggio», pullulante di invidiosi e maldicenti. «Ciascuno... geloso di sé, costernato di sé soltanto; e questa costernazione gli impedisce di pensare». Nel libro è rappresentato un banchetto di questi «effimeri letterati»: «...le invidie segrete che aprivano le lab­bra di questo e di quello a falsi sorrisi e a complimenti avvele­nati; ...le gelosie mal nascoste che tiravano qua e là due a mal­dicenze sommesse; ...le ambizioni insoddisfatte e le illusioni e le aspirazioni che non trovavano modo di manifestarsi, tene­vamo schiave tutte quelle anime irrequiete». Pirandello però non è un bravo scrittore satirico e nel complesso il suo ritratto della Roma letteraria è alquanto fantastico e inverosimile.

«Ariel»

Pirandello amò piuttosto la tranquilla compagnia dei suoi amici, per lo più siciliani e meridionali, e le riunioni casalin­ghe. Anche il Cesareo, siciliano, fu fra essi.

Come era quasi inevitabile, nacque anche, nel 1898, l'idea di un giornale di gruppo. Il titolo scelto fu shakespeariano: Ariel. La testata, a sanguigna, fu disegnata dal Fleres, e rappre­sentava, accanto al titolo, un genietto che brandiva un oggetto che stava fra una penna e una bacchetta. La fondazione del set­timanale fu decisa in casa di Giuseppe Mantica e vi partecipa­rono una decina di amici che si quotarono per cento lire cia­scuno. Redattori, con Pirandello, furono Ugo Fleres, Giuseppe Chiovenda e Italo Carlo Falbo, direttore responsabile.

Il giornale durò poco: i mesi della primavera di quel'anno. Pirandello, trentenne ormai, ne dettò l'articolo-manifesto: Sin­cerità. Aveva coniato il termine «sincerismo», come un nuovo -ismo «da mettere in coda o in testa» a quelli che Capuana ave­va enumerati nel suo saggio su «gli -ismi contemporanei», che era appena apparso. Era una presa di posizione contro «gli ultimi sacerdoti delle veneri dello stile», e in favore di una spregiudicatezza sincera, «sincera nell'essenza, sincera nell'e­spressione». «Nessuna formula, nessun sistema, nessuna fin­zione e, sopra tutto, nessun metodo prestabilito in arte».

Quanto al nascere dell'opera d'arte, per i redattori di Ariel, si assimilava da vicino a una gestazione nel grembo materno. Nota il Navarria1, a proposito di tale poetica, che «questi con­cetti sono vicini, se non uguali, ai concetti di Luigi Capuana nell'ultimo periodo della sua opera». Non c'era molta abilità speculativa in coloro che facevano parte del cenacolo FleresPirandello, ma una grande buona volontà di essere sinceri. Nè Pirandello, dieci anni dopo, nei suoi saggi di letteratura e di poetica, dimostrerà una molto maggiore sicurezza di teorico. In realtà egli non riusciva a dichiarare, allora e dopo, se non la sua poetica istintiva e romantica, ancorata al segreto della sua personalità psichica e insofferente di freni.

Intorno non aveva esempi di più rigorosa disciplina poe­tica. In confronto alla sterilità degli scrittori a noi contempo­ranei, era, quella, una stagione di vacche prolifiche. Si pensi a tutti quegli scrittori romani e napoletani che riempivano a migliaia le pagine senza andare tanto per il sottile, fiduciosi solo nell'istinto e nel genio, e autorizzati, in parte, dalla poetica del verismo e dagli esempi dei maestri francesi. Si scriveva tanto che non bastava più un nome solo, e chi ne aveva due, chi tre.


Giustino Ferri, che fu fra i più intimi di Pirandello1, scriveva contemporaneamente tre romanzi d'appendice, spesso in piedi al bancone delle tipografie dei giornali; la Serao dirigeva un quotidiano e scriveva all'incirca un romanzo all'anno, e Ca­puana, D'Ambra, Ojetti, quanto a prolificità, non erano da meno. Anche i poeti allineavano versi su versi senza ritegno. Pirandello che per circa vent'anni visse a contatto con questo ambiente letterario fu anche lui, anche se non smisuratamente, fecondo, e, di solito, scrisse abbandonandosi fiduciosamente al­l'istinto.

Su Ariel, Pirandello pubblicò una novella autobiografica, La scelta, un'altra novella Se..., in cui, volendo, si può rico­noscere un'influenza su di lui della teoria del caso positivistico dell'Ardigò (il concetto del caso fu sempre molto importante per Pirandello), e L'epilogo, dramma in un atto di tinte veri­stiche (tratto dalla novella La paura), che fu la sua prima opera drammatica che vide la luce (ma l'aveva scritta almeno sei anni prima2).

L'epilogo, che cambiò titolo e divenne La morsa, era stato dato, nel novembre 1892, allo Zacconi, perchè lo rappresentasse al teatro Valle; poi a Cesare Rossi, che aveva promesso di met­terlo in scena3. Ora fu dal Capuana letto, durante una serata in casa sua, a Eduardo Boutet, l'autorevole critico teatrale na­poletano (Caramba, sul Capitan Fracassa). Il Boutet si assunse il patrocinio della commedia e la raccomandò a Flavio Andò, un attore siciliano che era dei più applauditi di quella fine se­colo, il quale finì per dimenticarsene e accampò poi una serie di pretesti per non più rappresentarla. Pirandello, che vedeva naufragare ancora una volta il suo debutto teatrale, scrisse al­l'attore una lettera, violenta abbastanza da provocare un invio di padrini. Il duello fu sedato al limite estremo per la media­zione del Boutet, ma Pirandello, dopo questo episodio, respinse per lunghi anni ogni tentazione teatrale

Novelle e romanzi

Pirandello, in questo scorcio di secolo, scrive molto. Se in una lettera del febbraio del 1893 egli, nel fare un elenco di ben ventun titoli di novelle, romanzi, commedie e libri di versi che aveva scritto e stava scrivendo, si era lamentato di rimanere ancora inedito, ora, intorno al 1900, grazie anche all'aiuto dei suoi amici, del Capuana soprattutto e del Fleres, riesce a farsi pubblicare a Roma, a Firenze, a Milano, a Napoli, a Genova, e in provincia, a Catania, a Oneglia. Sono numerosi i giornali e le riviste in cui appaiono le sue novelle, le sue poesie e i suoi articoli di vario genere, e vanno dalla milanese Natura e arte, al Roma di Roma, dalla fiorentina Vita nuova, alla Cenerentola, «giornale pei fanciulli» di Luigi Capuana, alla Critica di Monaldi, alla napoletana Tavola rotonda, al Capitan Fracassa, a L'Italia, diretta da Domenico Gnoli, al Fanfulla della Dome­nica, alla Nuova Antologia, al Folchetto, a La settimana, di­retta a Napoli da Matilde Serao, a numerosi altri giornali1.

Più importante è la sua collaborazione al Marzocco, rivista fiorentina dei fratelli Orvieto, di cui erano redattori Giuseppe Gargano, Pietro Mastri e Angelo Orvieto. La rivista era fau­trice del Pascoli e del D'Annunzio, del simbolismo, del neo­spiritualismo e del neo-idealismo-, ma a Pirandello si conce­deva ospitalità nonostante la sua polemica antidannunziana. Egli, sincerista, dichiara la sua soddisfazione quando Enrico Thovez, sulla Gazzetta letteraria di Milano, provò i «plagi» dannunziani. In quell'occasione s'inserì nella polemica, con un articolo intitolato L'idolo, sulla Critica di Monaldi1. Anche pri­ma2 aveva tacciato, sulla stessa rivista, i personaggi di D'An­nunzio di essere «straordinariamente ridicoli»: la stroncatura de Le vergini delle rocce si concludeva con parole profetiche: «Quanti saranno oggi d'accordo con me? Pochissimi, o nessu­no! E domani? Chi sa?».

L'antipatia per D'Annunzio fu soprattutto istintiva; ma non fu estranea più tardi a Pirandello la convinzione di una usur­pazione del successo e della fama compiuta dal poeta ai suoi danni. La falsa e rumorosa gloria di quella poesia a lungo co­prirà la dimessa arte pirandelliana. Poi, un giorno (come si vedrà), in seduta pubblica e affollata dell'Accademia d'Italia, quasi esplicitamente Pirandello si contrapporrà, in compagnia di alcuni grandi, a D'Annunzio.

Di questi tempi novecenteschi romani ricorderà un D'An­nunzio di ricercata eleganza, «con due dita di polsini inamidati fuori delle maniche, il colletto alto, il tubino e giacche di taglio molto ardito*».

Tra ili896eili897, Pirandello fu anche sul punto di di­ventare padrone della Nuova Antologia, in società con Do­menico Gnoli che la dirigeva. Quando l'affare era quasi in porto, e il padre era sul punto di mandargli la somma necessa­ria, Maggiorino Ferraris, con un gruppo di uomini politici, riuscì invece a concludere l'acquisto della rivista. Lo Gnoli al­lora, per ripicco, fondò L'Italia, che, nel numero di agosto del 1897 ospitò contemporaneamente la novella Vexilla regis di Pirandello e La chiesa di Polenta del Carducci.


Cominciavano a uscire timidamente anche i primi libri dello scrittore. Quasi contemporaneamente ai volumetti di Pier Gudrò (poemetto che piaceva al Capuana) e delle Elegie renane, fu pubblicata, nel 1894, a Roma, la prima raccolta di novelle, Amori senza amore.

Ma nonostante il ritmo abbastanza intenso del suo lavoro letterario, il nome di Pirandello rimaneva scarsamente noto. Ancora nel 1901 il suo valore non aveva avuto alcun serio ri­conoscimento editoriale.

Fu ancora il Capuana che, dopo un articolo, pubblicato sul Roma di Roma il 16 settembre 1896, in cui aveva presentato Pirandello come un poeta «dalla bonaria e fine ironia», an­nunciandone il poemetto di Belfagor («arcidiavolo di spirito»), intervenne con tutta la sua autorità di critico, in aiuto del gio­vane amico, dedicandogli, su L'Ora del 4 agosto 1901, uno tra i suoi più elogiativi «profili letterari».


Nel lungo articolo, il critico ripercorreva la carriera del poeta, ricordando, con citazioni e consensi critici, Mal gio­condo, Pasqua di Gea, Pier Gudrò, le Elegie renane, «non in­degne di stare in riscontro» alle goethiane Elegie romane, Zampogna-, e annunziava quel Labirinto (che poi non vide la luce) che avrebbe dovuto raccogliere «con severissima scelta, tutta la produzione poetica» di Pirandello. Concludeva con un espresso invito agli editori perchè si accorgessero infine di Pi­randello: «Luigi Pirandello, scriveva Capuana, porta la stessa qualità di finezza, di ironia, di osservazione giusta e sottile nella novella, nel racconto, e nel romanzo. Ma il pubblico non ha avuto ancora una bella occasione per accorgersene. Il volume Amori senza amore non ha goduto per ragioni indipendenti affatto dal suo valore, la fortuna che meritava. I racconti, le novelle, sparsi con prodigalità di gran signore su per riviste e giornali, non sono stati ancora raccolti... Luigi Pirandello, so­litario, modesto ...dà un'altra riprova al proverbio: fra Mode­sto non fu mai priore. Ora egli ha trentaquattro anni. Ma io sono sicuro che presto uscirà dall'ombra, appena un editore di naso fino o di intelligente operosità saprà accorgersi del valore di lui e presentarlo al pubblico degnamente. Egli è di coloro che possono attendere, con la certezza che la sua bell'ora di gloria, un giorno o l'altro, scoccherà».

L'invito del Capuana viene raccolto: uno dopo l'altro i libri di Pirandello vedono la luce, con quei loro curiosi titoli, che in parte, e fu male, nelle riedizioni e rifusioni successive, di Treves, di Bemporad e di Mondadori, furono mutati. Tra il 1902 e il 1904, a Firenze e a Torino, apparvero il primo e il secondo volume delle Beffe della morte e della vita, e Quando ero matto e Bianche e nere. Anche i primi due romanzi, già scritti da alcuni anni e giacenti nel cassetto, furono pubblicati: L'Esclusa, nel giugno-agosto 1901, in appendice alla Tribuna, diretta da Onorato Roux; Il turno, nel 1902, presso Giannotta, editore e amico catanese di Martoglio e di Capuana. Poi, nel 1904, sarà la volta de II fu Mattia Pascal, di cui si parlerà più avanti.


«Arte e coscienza»

Pirandello continuava intanto a frequentare i convegni do­menicali di casa Fleres, dove lo si ritrova fino al 1910. Ma fin dai primi tempi, in queste compagnie di amici, e non certo per posa, appariva distratto, assorto altrove. Ricorda Tomaso Gnoli1 che, vestito signorilmente di grigio, coi suoi occhi chiari e la barbetta bionda, un po' flemmatico nella sua stessa vivacità, si manteneva sempre un poco al di fuori, se non al di sopra della vita. Lucio D'Ambra disse (esagerando forse)3 che egli sorrideva, «ma il riso non ci fu mai. Non ricordo in venti­cinque anni una sua risata». Stava fra gli altri «per lo più muto e sorridente, calmo... ma con una lieve punta d'ironia...» (T. Gnoli).


Che c'era dietro questo sorriso e questa solitaria ironia del giovane Pirandello? Un articolo che egli scrisse quando aveva poco più di venticinque anni, cioè alla vigilia, o ai primissimi inizi della sua stagione di narratore, ci può dare una risposta esauriente abbastanza intorno al suo orientamento, o disorien­tamento, nel mondo contemporaneo. L'articolo, intitolato Arte e coscienza d'oggi, apparve, nel settembre 1893, su La nazione letteraria di Firenze, ed è un esame di coscienza compiuto con attendibile sincerità.


Pirandello vi tenta una valutazione della coscienza contem­poranea. Si guarda intorno e fa delle considerazioni. Vede i vecchi, e per esempio Ruggero Bonghi, insieme a tanti altri, «rimettersi rassegnato e compunto nelle mani di Dio», men­tre lui, Pirandello, è ateo, e ama proclamare il suo ateismo. (Racconta Tomaso Gnoli: «Ricordo che egli si vantava del suo ateismo»). Il conte Tolstoi, tornato alla fede, scrive «as­surde e pueril commedie»; e Paul Verlaine (che Pirandello forse allora non conosceva, ma seguendo l'opinione di Max Nordau, riteneva «un degenerato d'infima specie, vagabondo, carcerato per offese al buon costume»), come Paul Bourget, come Antonio Fogazzaro, «disajutati nell'anima», si attaccano come naufraghi all'antica fede. La conoscenza dei moderni ri­sultati della scienza provoca di tali naufragi. È «lo spirito moderno profondamente malato che invoca Dio come un mo­ribondo pentito», dice lo scrittore, che aggiunge: «Mi fa me­raviglia che si chiami Dio quel che in fondo è bujo pesto». «La filosofia moderna (cioè il positivismo) ha mirato a spiegar l'uni­verso come una vivente macchina, e s'è ingegnata di precisar la conoscenza che ne abbiamo. È poi passata a stabilire il posto dell'uomo nella natura, a interpretar la vita e a dedurne gli scopi... Malinconico posto però questo che la scienza ha as­segnato all'uomo nella natura, in confronto almeno a quello ch'egli s'immaginava in altri tempi di tenervi». (È visibile il tentativo di Pirandello di saldare e raddoppiare il pessimismo del suo primitivo romanticismo con quello dei tempi positi­vistici). E qual è il risultato di tutto ciò? «Questa nostra po­vera terra! Un atomo astrale incommensurabilmente piccolo, una trottoletta volgarissima lanciata un bel giorno dal sole e aggirantesi in torno a lui, così, per lo spazio, su immutabili orme. Che è divenuto l'uomo? Che è divenuto questo micro­cosmo, questo re dell'universo? Ahi povero re! Non vi vedete saltar dinanzi Re Lear armato d'una scopa in tutta la sua tragica comicità? Di che farnetica egli?».

Ecco l'uomo farneticante di Pirandello. Per tutta la vita e per tutta l'opera egli si divertirà con quest'uomo, punzecchian­dolo, ferendolo, disprezzandolo, e atrocemente compassionan­dolo come una veridica immagine di se stesso.


Ma in questo scritto non siamo ancora alla trasposizione dello scrittore nella creatura da lui stesso inventata, nell'uomomarionetta e martire. Qui Pirandello parla usando la prima persona plurale, il noi. Dice: «... chi al presente non è un dege­nerato? Chi può vantarsi sano? In tutti noi, ove più ove meno, possono rinvenirsi i segni... fisici e intellettuali della degene­razione!», e poi: «Quanto ai vecchi, gli avete intesi... tornano a Dio... I giovani dàn di sè uno spettacolo ancor più triste. Nati in un momento febbrile, quando i padri più che all'amore intendevano a far la guerra per le ricostruzioni civili; cresciuti fra il trambusto dei dibattimenti per dare un possibile assetto ad acquisti, che non avean soddisfatto gli ideali di tutti, tra l'urto di opposte correnti politiche e filosofiche; educati senza un criterio direttivo, e in difetto d'una ingenita forza vitale, costretti troppo presto a procacciarsene una artificiale distrut­tiva però dell'organismo; fisicamente son tutti o per la massima parte affetti di neurastenia, moralmente inani. ...Ostentiamo intanto quasi tutti disprezzo per ogni opinione tradizionale, come per mascherare il sordo scoraggiamento che è in fondo a noi tutti, e il presentimento d'oscuri timori. Simuliamo con certa boria discreta, indifferenza per tutto ciò che non sappia­mo, e che pure in fondo vorremmo sapere, e ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt'intorno da un mistero impenetrabile... Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o bene stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d'ogni cosa si sia talmente aliargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l'estimativa. Il campo è libero ad ogni supposizione. L'intelletto ha acquistato una straordinaria mobilità. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile... Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. Slegata, senz'alcun principio di dottrina e di fede...». Poi lo scrittore sembra voler parlare più da vicino di se stesso: «...Conside­rate ora un po' quest'altri, che per trovare, dicono, uno scampo, sia pur momentaneo, al completo naufragio morale, si son chiu­si rigidamente in sè, sciogliendosi, quanto è più stato loro possi­bile, d'ogni legame, e restringendo man mano bisogni e aspi­razioni. Dopo qualche tempo, naturalmente, han cominciato a sentirsi come estranei alla vita, disinteressati e senza curiosità. È nato loro anche un disgusto invincibile per la tanta volgarità quotidiana, e dalla fredda e spassionata osservazione dei sen­timenti e delle azioni altrui, su per giù sempre gli stessi, un tedio pesante e una noja smaniosa...».

Soprattutto importante è la dichiarazione di impossibilità: le mani e i piedi sono legati, si è «alla discrezione della vita»: «Dall'irresolutezza del pensiero nasce naturalmente quella dell'azione. Nessun ideale oggi arriva a concretarsi dinanzi a noi in un desiderio intenso veramente, in un bisogno forte... Il possesso non risponderà giammai al desiderio, l'uomo non si libererà giammai delle sue catene... E c'è sempre qualcosa, che ci sta dinanzi e che non possiamo ghermire. È l'eterna Tantalide!... Siamo alla discrezione della vita».


C'è ancora un piglio giovanile in Pirandello che si esprime in questo modo, ma si tratta di parole e convinzioni che affio­rano dall'interno più che essere indotte dalla lettura di Max Nordau o dalle altre occasioni esterne della cultura: parole già scritte in un nido edificato da tempo in profondità, predeter­minata matrice di tutte le parole future. Lo scetticismo che si dichiara è tutt'altro che una pubblica ostentazione di paradossi, corrisponde al convincimento più serio dello scrittore. Questi appare superficiale in qualche modo perchè la sua cultura è giovanile e superficiale, ma tutta la vita sarà un'inesausta con­ferma di queste parole. In Pirandello, è bene deciderlo una volta per tutte, c'è progresso in un senso solo: in profondità e in essenzialità (fino ai Sei personaggi). La sua verità, o de­stino psicologico, è quasi senza mutamento, quale si configura fin nelle prime testimonianze che si hanno di lui. È una verità di solitudine, di dissociazione, di ribellione e di profonda, co­perta passività. Questa verità si esprime nei vari periodi della sua vita in modi diversi, secondo le fasi di una espressione let­teraria in lenta, incerta, ripiegante e contraddittoria evoluzione. Il primo grado dell'espressione di tale verità è quello piena­mente e abbandonatamente romantico; il dolore e la rivalsa vi sono ancora sottomessi allo scorrere vivo del sangue, alla vivacità giovanile e alle forme dell'entusiasmo estroverso dei modelli letterari. Corrisponde in gran parte alla produzione in versi dello scrittore. Il secondo grado dell'espressione è già molto più scavato in profondità: è quello che si innesta sulla le­zione dei maestri della scuola veristica, è lo studio bizzarro delle tranches de vie, è la possibilità che si crea per lo scrittore di fare giustizia diretta, senza mediazioni, degli uomini e del mondo.

Su questa base si apre il processo delle trasformazioni e delle metamorfosi dei personaggi: l'uomo delle istantanee del Ca­puana si trasforma frequentemente in un mostro balbutente o provvisto di impotenti sillogismi. La vendetta è fatta. L'arte vendica la vita.


«Alla discrezione della vita»

Arrendersi a discrezione alla vita diventa (ma è già da tem­po) una linea di condotta, involontaria e volontaria, foriera di molte tristezze. Un arrendersi del tutto particolare: non vitti­mistico, ma «smanioso» e inutilmente e intempestivamente irto di ribellione. Quando era scattato il congegno e si era chiu­sa la gabbia su di lui, Pirandello viveva vibratamente, agitata­mente, impazientemente, provvisto com'era di un'insita capaci­tà di contrasto e di focosa reazione. Ma, tranne qualche scatto,

il.


visibile all'esterno, era una ribellione messa per iscritto. La sua passività consentiva il chiudersi di quel laccio, e poi era per lui la schiavitù e una contrastata, drammatica affezione alla gabbia. Pirandello, con questa condotta, creerà intorno a sè un breve cosmo domestico di sofferenza e di passione e lo avrà caro fino alla disperazione. Prova irrefutabile di ciò è la vi­cenda quasi trentennale del suo matrimonio.

Se non ci fosse il presupposto di una passività pregiudiziale, ma solo confusamente cosciente nel giovane Pirandello, non si potrebbe in nessun modo spiegare quel suo affidarsi mani e piedi alla scelta del padre, quando si trattò di trovare la com­pagna della propria vita. Nè è da pensare che per Pirandello, cioè per un uomo di profonda indipendenza, specie nei con­fronti del padre, potesse trattarsi di adesione al costume cor­rente siciliano dei matrimoni combinati; che cioè egli sposasse la prima sconosciuta che gli presentassero «perchè si usa così». La sua non è passività di questo tipo; è una rinuncia molto più radicale. Apparentemente è distrazione, o disinteresse, o scet­ticismo, nel momento di maggior pericolo. E c'è forse, in que­st'occasione particolare, un po' di cinismo borghese, che lo spinge a un matrimonio d'interesse.

Ecco come si svolsero quei fatti. Non era passato un anno dalla rottura del fidanzamento con Lina quando Luigi, a Roma, ricevette una lettera del padre che gli chiedeva se non fosse d'accordo a fidanzarsi con la figlia di Calogero Portulano, suo socio d'affari.

Tempo prima costui si era dimostrato buon consigliere di Stefano Pirandello in occasione di certe campagne al rialzo e al ribasso dello zolfo, che avevano portato profitto a tutti e due. Poi pare che lo stesso Portulano avesse sollecitato quel matrimonio, affidando a Stefano, durante una sua assenza da Girgenti, due buste di danaro, su una delle quali, che conte­neva 7o ooo lire, era scritto: «Dote di mia figlia Antonietta» \ Discorso non solo allusivo per due siciliani, ma loquacissimo.

I padri si misero facilmente d'accordo. Si trattava ora d'inter­pellare i figli.

Luigi partì alla volta di Girgenti, dove rimase qualche tem­po, in attesa che fosse combinato l'incontro con la ragazza. Il suo amico d'infanzia, Antonio De Gubernatis (quello stesso che assumerà riconoscibili spoglie nel personaggio di Nini De Vincentis, ne I vecchi e i giovani) rievocherà poi, alla morte dello scrittore, questo incontro: «...passeggiando, gli chiesi se ve­ramente, come si diceva, si fosse innamorato di una ragazza che abitava dirimpetto a casa sua. Negò recisamente e aggiunse anzi che durante il suo soggiorno a Girgenti non si sarebbe fatto vedere più al balcone. Subito dopo, posandomi la mano sulla spalla, mi annunziò che prendeva moglie. Mi sembrò uno scherzo... Tranquillo mi narrò che Don Stefano, suo padre, uomo burbero ma buono, gli aveva scritto proponendogli una ragazza bella, gentile e di eccellente famiglia: Antonietta Por­tulano. Luigi aveva acconsentito e pensava già alle nozze.

- 'Ntò, tu la conosci? mi chiese candidamente.

- No. E tu?

- Io neanche. Vado a Porto Empedocle per vederla».

L'incontro per conoscere la fidanzata si svolse press'a poco secondo il rito descritto dallo scrittore ne I vecchi e i giovani (romanzo che è una miniera del tempo passato pirandelliano), quando, sullo stradone di Porto Empedocle, fa incontrare per la prima volta il Principe Laurentano e la donna che deve di­ventare sua moglie. Calcolati i tempi, mossero rispettivamente da Girgenti e da Porto Empedocle, con i Pirandello e i Portula­no, due carrozze, che si incontrarono, come previsto, all'altezza della campagna del Càos. Fatti i convenevoli, i Pirandello invi­tarono i Portulano al loro cascinale. Qui Luigi e Antonietta po­terono vedersi in faccia. Tanto accorgimento, per non compro­mettere la ragazza nel caso che a Luigi non fosse piaciuta.

«Al ritorno, nel pomeriggio continua a raccontare il De

Gubernatis Luigi mi disse che l'aveva veduta e che gli era sembrata «bona pi' mugliera». Null'altro. Dopo una lunga pausa, durante la quale pareva che seguisse il filo d'un pensiero segreto, aggiunse che voleva farne una vera donna». Vedremo come un tal proposito fosse perseguito.


Vi furono altre vicissitudini. Il padre di Antonietta soprat­tutto, ma tutta la famiglia Portulano era allora costituita da persone favolosamente gelose. Nè i figli di Calogero lo furono poi di meno. A Girgenti ancora, dai vecchi, si narra di case non prese in affitto dai Portulano perchè sprovviste di sbarre alle finestre; di persiane che le donne di casa non dovevano sco­stare oltre una misura prestabilita di centimetri; e altri parti­colari sulla gelosia, astratta e assoluta, di quella famiglia, pare che Pirandello abbia rappresentati nella novella Leonora, ad­dio (e poi in Stasera si recita a soggetto). La moglie di Calogero era morta di parto per non aver voluto che un medico la ve­desse. Il pudore le era divenuto una seconda natura. Ne II turno c'è un marito che invoca per la moglie morente un con­fessore «vecchio»: «vecchio! vecchio! gridò [alla serva]; e scappò via di casa per non assistere a quella confessione»). Quanto ad Antonietta, era stata affidata alle suore di San Vin­cenzo (quelle che tornano in alcune novelle girgentane dello scrittore) ed era stata educata, fin da piccina, in convento. Le succedeva talora, quando usciva in fila con le altre collegiali, di scorgere da lontano il padre che controllava la sua condotta e la direzione dei suoi sguardi. E non raramente le venivano fatte scenate perchè aveva guardato a destra e a sinistra. \ Calogero Portulano, nel corso della sua vita, con qualche contraddizione, era stato prima, nel '66, con Garibaldi nel Trentino, poi partecipe dei moti anarchici di Romagna, quelli stessi cui partecipò Giovanni Pascoli, infine, a Girgenti, fino alla morte, avvenuta nel 1909, affarista e prestatore di danaro a tassi elevati. La sua gelosia nei riguardi di Antonietta lo spinse subito a una incontenibile avversione per il genero (l'uomo che avrebbe avuto fra le braccia sua figlia), e questi lo ricambiò di eguale moneta. Il primo non raffrenato impulso costrinse Portulano a mandare a monte il matrimonio tanto pazientemente preparato. Disse che Antonietta era troppo giovane, e preten­deva almeno che Luigi si trasferisse a Girgenti — e questo quando il genero, a Roma, aveva trovata la casa in via delle Finanze e l'aveva già arredata. Poiché Luigi rispose che non avrebbe accettato questa condizione, si affrettò a denunciare il patto matrimoniale e a cercare un altro marito girgentano per Antonietta, che trovò agevolmente in un giovane avvocato del luogo. Ma, ad Antonietta, evidentemente, Luigi, che era, per comune testimonianza, un bel giovane elegante, dalla barba bionda e dall'aspetto romantico, era piaciuto e non intendeva rinunciarvi. Sicché, trovatala tanto testarda, il padre finì per cederle e le nozze furono ricombinate.

Luigi, che si trovava su Monte Cave, a scrivere le ultime pagine de L'esclusa, fu richiamato a Girgenti; ma questa volta, per volontà di Portulano, che voleva liberarsi subito della spina, si dovette far presto. Luigi potè vedere la fidanzata per poco più di un mese. Ma solo vederla: parlarle poco e niente alla pre­senza di tre o quattro persone. Le visite giornaliere, che dura­vano due ore, avvenivano alla presenza della madre e della sorella Anna di Luigi, e del padre e spesso anche dei due fra­telli, Giovanni e Carmelo, di lei. Le donne stavano da una parte e conversavano fra loro. Ad Antonietta era inibito di alzare gli occhi verso lo sposo. Gli uomini, non molto loquaci, erano seduti di fronte.

Calogero guardava in cagnesco Luigi, né mai poi la reci­proca antipatia si attenuò, anche se, fino a un certo punto, i rap­porti formali si mantennero ineccepibili. Luigi anzi, da spo­sato, fu spesso, d'estate, ospite in campagna della bella casa del suocero, fra i mandorli e gli olivi di Bonamorone nel pun­to esatto dove immaginerà trovarsi la villa principesca di Colimpetra di Don Ippolito Laurentano, ne I vecchi e i giovani. Sembra, però, che Luigi si divertisse, se capitava, a punzec­chiare, senza parere, il suocero e, certo, quando questi morì, ne dettò, cedendo alle insistenze dei due cognati, l'epigrafe mor­tuaria, che comincia con queste parole: «Qui finalmente riposa

Calogero Portulano...» (nè il resto della scritta marmorea è privo di altra presumibile ambiguità)'. La vita paesana, la mali­gnità provinciale, la beila all'antica attraevano Pirandello.

Tornato a Roma, Luigi dovette cercare in fretta e furia un altro appartamento che contenesse i mobili nuovi e, scriveva ad Antonietta, «la prima baldanza dei nostri cuori»1. Lo trovò questa volta, dopo molte ricerche, nella casa prospiciente sul Tritone e su via Sistina, di cui s'è detto. I mobili che, dopo la rottura del fidanzamento, erano stati spediti in Sicilia, furono rispediti a Roma. Luigi, in una lettera ad Antonietta del 29 dicembre, protesta in uno di quei suoi improvvisi scatti: «...ci sarebbe solo da bastonare di santa ragione codesto spedizio­niere. Io non so chi sia, è il Vajana o il De Luca? Bastonate a tutti gli spedizionieri del mondo!... Tutti i vetri rotti; rotto il tetto degli scaffali; l'attaccapanni ridotto una pietà, sfondato nel centro e senza la banchetta che reggeva gli ombrelli; il bel tavolino da studio con tutti gli angoli smussati, scollati i fregi e perduti, la intarsiatura ammaccata e scomparsa!... M'è quasi venuto di piangere dalla rabbia!».

Antonietta

Tornato a Roma il 14 dicembre, subito scrive ad Antonietta e, tra affettuoso e pedagogico, appare, in queste prime lettere, il suo intento di fare di lei «una vera donna».


Queste lettere mostrano in trasparenza la situazione del­l'animo di Pirandello in quei giorni. Egli vi appare volenteroso di dare inizio a una stagione felice della sua vita. Resiste in lui una speranza di felicità. Ma è un impegno che non proviene, nè può provenire, da una convinzione profonda. Un impegno perciò che imbattendosi nell'ostacolo oggettivo della specifica verità di Antonietta, va in pezzi. Pirandello, monogamo se ce ne furono mai, si innamorerà poi carnalmente e per sempre, nonostante tutto, di Antonietta che era una donna bella, bruna, dai lunghi capelli e dal fascino triste; ma la radicale diversità intellettuale e psicologica fra i due sposi non promette bene neanche in questo intenerito principio.

Luigi si accosta molto romanticamente ad Antonietta; le dice, fin dalla prima lettera1, ciò che non ha potuto dirle a voce, che lei sarà la sua salvezza: «...non so spiegarmi quel che sento mentre ti scrivo. E neanche tu potresti intenderlo, sco­noscendo in quali condizioni di spirito io mi trovassi prima di venire da te, in Sicilia. Io imaginavo la vita come un immenso labirinto circondato tutt'intorno da un mistero impenetrabile: nessuna via di esso mi invitava ad andare per un verso anziché per un altro: tutte le vie mi parevan brutte o inamabili. A che scopo andare? e dove andare? L'errore è in noi, nella nostra mente, e il male è nella vita, un male privo di senso io mi dicevo.


Noi non sapremo mai nulla, noi non avremo mai della vita una nozione precisa, ma un sentimento soltanto, quindi mu­tabile e vario, triste o lieto a seconda della fortuna. Nulla di as­soluto adunque. Che cosa è il giusto? che cosa l'ingiusto? Io non trovava in questo labirinto una via d'uscita. Nè nulla vera­mente potevo trovarci, perchè nulla vi mettevo, nè un deside­rio, nè un affetto qualsiasi: tutto m'era indifferente, tutto mi pareva vano e inutile ero come uno spettatore annojato e sma­nioso, a cui era il peso di rimanere, e pur non sapeva decidersi ad andarsene; ero come un espulso dal fiume, che consideri dalla riva la corrente senza più la voglia di lasciarsi oltre por­tare. Il mio intensissimo amore per l'Arte era l'unico scoglio a cui in tanto naufragio, s'aggrappava disperatamente l'anima mia: ma la vita moderna così agitata da tempestose miserie ha poco men che sommerso quest'unico scoglio; sicché tenermi stretto a lui era quasi affogare e sentir gli insulti dell'avversa marea.

Oh, in che orrenda notte, Antonietta mia, era avvolto il mio spirito! I miei sogni di gloria eran baleni a un tratto oscu­rati: e invano chiedeva la luce, invano il sole...

Ora il sole è per me nato! Ora il mio sole sei tu, e tu sei la mia pace e il mio scopo: ora esco dal labirinto e vedo altrimenti la vita. È questo, è proprio questo che io sento mentre ti scrivo per la prima volta, qui raccolto in questa camera, che sa tutte le mie tempeste e le calme desolate. Ho la tua immagine pre­sente e viva innanzi agli occhi. In viaggio ho guardato a lungo, a lungo la stella che ti piace. Attendo con impazienza il tuo ri­tratto... Quando verrà? Al più presto, ti prego... Pensa a me, e amami... Tu mi amerai, tu devi amarmi perchè io...».

Il giorno dopo le scrive ancora: «...a chi, prima di partire per la Sicilia, m'avesse detto: "Tu, mio caro, ritornerai gua­rito io avrei semplicemente risposto: Ignori il mio male". E davvero questo mio male mi pareva inguaribile. M'ero sciolto completamente d'ogni legame; guardavo gli altri vivere, indagavo la vita come un complesso di vane assurdità e di con­traddizioni degli atti e delle parole altrui, su per giù sempre gli stessi, m'era venuto un tedio pesante, e una noja smaniosa. E dopo? E dopo? mi domandavo. È tutto qui? E sarà sempre così? Dunque è la vita il mio male: solo la morte potrà gua­rirmi.

Mi pareva impossibile ch'io avessi potuto mettermi a fare, a pensare, a vivere come tutti gli altri uomini, dei quali per tanto tempo avevo seguito senza interesse e senza curiosità le azioni, i pensieri, la vita. Mi pareva impossibile innamorarmi, sentir la gioja d'offrirmi interamente a un'altra persona e vivere quasi della sua vita.






Eppur questo m'è avvenuto, e a me par di sognare, e non so credere quasi a me stesso, al mio cuore. Io penso a Te, penso a tutto ciò che potrebbe farti piacere, ai mezzi più lieti e più gentili per renderti bella e cara la vita che condurremo insieme; penso al nostro nido, alla casa che ci accoglierà; faccio un mon­do di bei progetti per l'avvenire... io, questo io che vedevo tutto nero innanzi a me; io, che fino a un mese fa ridevo svogliato della sciocchezza (dicevo io) degli innamorati. Ebbene, sì, la vita è fatta di queste sante sciocchezze; tristo chi non le cura e non sa dare loro importanza! L'alba della mia nuova vita ha per sempre scacciato le nebbie che m'ingombravano la mente. Ora mi s'apre dinanzi chiaro l'avvenire. Io ho potuto final­mente congiungere queste due supreme idealità: l'Amore e l'Arte.

E tu che pensi di me, Antonietta mia? Che ti dicono i sogni di me? Non ti mentiscano, non ti rimpiccioliscano l'amore e la tenerezza che io sento!...».

È come se egli avesse smarrito il senso delle proporzioni, perduto di vista egocentricamente, l'oggetto su cui poggia l'im­provviso accendersi della sua speranza di felicità. Gli è sfuggito che l'Antonietta educata dalle suore non può che sentirsi smar­rita e ancora più lontana da lui dopo queste inquiete confidenze di crisi intellettuale, lei così digiuna di lettere e di filosofia! C'era fin da principio un errore di calcolo, una mancanza del senso delle circostanze, che presto doveva essere scontato da lui come dalla povera Antonietta. Il fatto è che aderendo all'in­vito di sposarsi con una sconosciuta, egli aveva voluto dimo­strare a se stesso un presunto, navigato scetticismo, quello che aveva letterariamente adombrato poco prima, in una rac­colta di novelle intitolata Amori senza amore, un cinismo del quale egli era affatto incapace.

Già alla terza lettera, è come se l'attesa del bene assoluto, proveniente da lei e il turgore del sentimento si siano placati per una qualche non esaltante lettera di risposta. Luigi le si rivolge questa volta non più come alla donna della salute, ma come a una cara bambina, con un tono affettuosamente scher­zoso, e non del tutto sincero da un lato («... tu non mi vuoi vici­no... ma è inutile! rassegnati ormai ad avermi sempre innanzi agli occhi; io sto subendo la prova del fuoco e mi par cent'anni di ritornare a te, per non allontanarmi mai più. Povera Anto­nietta! respira ancora questi altri pochi giorni che ti rimangono di libertà, mentre io son lontano...»), e dall'altro, come rispon­dendo a un diniego di lei, a una di lei confessione di inettitu­dine di fronte a tanta intellettuale improvvisa provocazione: «...È impossibile che tu non mi intenda, Antonietta mia, e non mi segua per questa via nobilissima per cui la sorte volle mettermi: la via dell'Arte. Tu ti scalderai meco a questo fuoco purissimo, e il tuo cuore s'allargherà alla visione del mio alto ideale. Della tristezza che spesso l'Arte procura, tu mi ricom­penserai col tuo amore, e tu sarai la fonte a cui attingerò ener­gia e vivacità nei momenti di sconforto e d'abbandono. Ho anch'io come vedi la mia religione, e nessun devoto è mai stato e sarà più fedele di me e più puro».

Luigi non disarma, non può tanto presto bruciare questa estrema occasione di rifugio sentimentale. Nella lettera del giorno dopo le dice infatti di sentirsi «l'anima gonfia di una tenerezza insolita», di sentirsi tornato un «fanciullo ingenuo e confidente, come se incominciasse a vivere adesso», di avere smarrito «quasi del tutto la facoltà di riflettere», di provare «un senso straordinariamente vasto di espansione di tutto l'es­sere e di simpatia di tutte le cose», e aggiunge: «Me l'hai co­municato tu, con la tua giovinezza, con la tua promessa, con la dolce e chiusa semplicità dei tuoi modi?». Ma lei gli rispon­deva che non invocasse il suo cuore, perchè lei il cuore ce l'aveva «dietro le reni». «Eh, lo so! risponde lui l'hai detto tu stessa: il cuore l'hai dietro le reni...». Il padre e le suore di San Vincenzo probabilmente le avevano insegnato a rispondere così a chi le parlava d'amore.


Perciò il tono delle lettere, in mezzo a rigurgiti di rinnovata tenerezza, man mano si fa meno sinceramente appassionato; più costruiti e intimamente distratti si fanno i discorsi d'amore, si parla soprattutto dei fatti pratici dell'arredamento della casa, o il fidanzato insiste a scherzare, come in tutta una lunga lette­ra in cui descrive la prossima vita a due, e, a un certo punto, parla di un misterioso angolino della camera da letto, di cui fa finta a più riprese di essere sul punto di rivelare il segreto, sul quale invece, chiudendo la lettera, lascia insoddisfatta la curiosità di Antonietta.

Ai primi dell'anno appare già spazientito contro tutto quel tramestio per casa di operai e di facchini. Lo hanno lasciato solo, il padre si dimostra, al solito, incomprensivo, e gli fa man­care i soldi necessari, da casa non gli scrivono per consigliarlo, lo zio Rocco è partito con la Nanna per Monreale, e lui «a correre qua e là da mane a sera per allestir la casa al più pre­sto possibile». Antonietta è chiamata adesso «mogliettina»: «M'accorgo d'essermi troppo a lungo sfogato con te, invece di parlarti di cose che ben altrimenti mi stanno a cuore. Scusami, Antonietta mia. Ma già tu sei la mia mogliettina e posso par­larti delle mie angustie».

Nella lettera del 3 gennaio le scrive: «Provi tu quest'ansia, che ho io, di rivederci? Non ti stanchi l'attesa, Antonietta mia! Nella stanchezza è la noja e nella noja, la fredda considerazione dei nostri e degli altrui sentimenti». E aggiunge, per allonta­nare il sospetto che questi possano essere i suoi sentimenti, essendo improbabile che fossero quelli di Antonietta e le con­siderazioni generali essendo qui fuori luogo: «In me l'ansia non dà campo alla stanchezza, e tanto meno poi alla noja. Come ho da fare? T'amo sempre più!»


L'ultima lettera, inviata il 7 gennaio, due o tre giorni prima della partenza da Roma, mostra che un dialogo tra Luigi e Antonietta non c'è stato, e preannuncia chiaramente che non ci sarà mai più. Se durante le visite del fidanzamento girgentano non era stato possibile parlarsi, ora l'unico a parlare è stato lui; lei è rimasta chiusa in se stessa, intimidita, probabil­mente incapace di parlare: «...Davvero non sai quello che devi dirmi? Davvero per scrivermi ti fai violenza? Non è possibile! Non è vero affatto che Tu non sappia scrivere. Come mai non trovi da dirmi nulla? Chissà quanti pensieri t'avrà fatto na­scere la nostra promessa d'amore, l'avvicinarsi del dì, in cui le nostre due vite s'uniranno! Chissà quanti sentimenti si sa­ranno svegliati nel tuo cuore! E non vuoi dirmi nulla? E se non mi parli di ciò, di che puoi parlarmi? Il tuo cuore è ancora per me un'urna chiusa. Pensa, Tu, com'io sarei felice, se una sola volta almeno, qualche cosa del tuo essere interno mi si palesas­se: l'espressione di un pensiero riposto, d'un segreto sentimen­to! Io non ho ancora inteso la tua parola, l'intimo accento. Tu mi parli di cose esteriori; non mi dici mai nulla di Te, di quel che pensi, di quel che senti. Sono io dunque come un estraneo per Te? Tu ti ripari dietro questa frase: "Non so esprimer­mi". Ed io ti rispondo: "Prova! Saprai, purché lo voglia. Se il sentimento detta, la mano scrive. Non c'è bisogno di mae­stri". Ma ormai non c'è più tempo...». Infatti non c'è più tempo. Già da adesso egli appare tutto riimmerso nel suo stato solitario e fa un triste preambolo di nozze: «...Spesso io son triste, e tante volte io stesso non so la cagione della mia tristez­za. Mi vien essa dalla terra? mi viene dalla vita? mi viene dal cielo? o dai miei ideali inarrivabili? dalla mia mèta che ad ogni passo s'allontana? dai miei sogni in lotta col tempo e con le mie vicende? Io non lo so; forse da tutte queste cose insieme e da molte altre ancora...». Qual è il posto di Antonietta fra tutte queste cose? Lei se lo sarà chiesto, e si sarà sentita esclusa an­cora di più dalla vita intima di colui che ormai s'era convinto che lei fosse solo «buona per moglie».

Chissà cosa avrà pensato poi Antonietta del suo prossimo sposo che le diceva di essere non una, ma due persone in una; e che nel mezzo del discorso più serio sulla propria tristezza po­teva mettersi a dire (è quanto segue nella lettera qui sopra ci­tata): «In me son quasi due persone: Tu già ne conosci una; l'altra, neppur la conosco bene io stesso. Soglio dire, ch'io con­sto d'un gran me e d'un piccolo me: questi due signori son quasi sempre in guerra tra di loro; l'uno è spesso all'altro som­mamente antipatico. Il primo è taciturno e assorto continua­mente in pensieri, il secondo parla facilmente, scherza e non è alieno dal ridere e dal far ridere. Quando questi ne dice qual­cuna un po' scema, quegli va allo specchio e se lo bacia. Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone. Ora impera l'una, ora l'altra. Io tengo naturalmente moltissimo di più alla prima, voglio dire al mio gran me; mi adatto e compatisco la seconda, che è in fondo un essere come tutti gli altri, coi suoi pregi co­muni e coi comuni difetti.

Quale dei due amerai di più, Antonietta mia?

In questo consisterà in gran parte il segreto della nostra felicità». Quale avrebbe amato di più la povera Antonietta? La lettera ha un suo aspetto terroristico. Il matrimonio nasceva male e fra i due c'era il germe della piena incomprensione. La solitudine più grave da sopportare sarebbe stata probabilmente quella di Antonietta che non ebbe per sfogarsi le diecimila e più pagine in cui potè quotidianamente scaricarsi il marito. Se in Antonietta c'era già in germe la futura malattia mentale, essa doveva trovare il terreno più propizio nello sradicamento dalla provincia e in quella situazione di non comunicabilità nei riguardi del compagno della sua vita. Anche la fede religiosa, alla quale era condizionata fin dall'infanzia, era da lui presa a giuoco (come nella lettera in cui, parlando di certe tende e tap­peti «turchi», con cui stava arredando la casa, aggiungeva: «Se vuoi li battezzeremo»).

Il matrimonio

Così, dopo aver inutilmente tentato di esorcizzare i sospetti gravanti sul proprio destino, Pirandello torna a Girgenti per le nozze. Si sposa, il 27 gennaio del 1894, in Municipio e nella chiesa della Madonna d'Itria inginocchiato accanto ad Anto­nietta ai piedi dell'altare. Lui ha ventisei anni, lei ventidue. Dopo la cerimonia, i familiari e gli invitati li accompagnano alla casetta del Càos, e dopo il banchetto di nozze, li lasciano soli per la notte.

È fama, presso i nipoti Portulano, da me interrogati, nè può essercene che una tradizione orale, che Luigi, «con squisito spirito di cavalleria», non volle quella notte, né ancora per qualche tempo, consumare le nozze con una donna quasi sco­nosciuta e alla quale lui era del tutto ignoto. Tutti gli approcci si erano limitati nelle lettere «a una fortissima stretta di ma­no», a una stretta di mano «più forte di ieri», e, con un cre­scendo giornaliero, «a due fortissime strette eli mano» (il cor­sivo è del fidanzato), a «tre, quattro, cento, mille strettissime fortissime di manissime», e infine a «cento milioni di fortis­sime strette di mano». Allusività vaga e prepotente. Personal­mente poi non sapremmo dire se la bianca luna di miele decisa dallo sposo, un comportamento cioè tanto nordico, possa essere stato ben accetto e non invece esso stesso in qualche modo traumatico per la siciliana Antonietta, in attesa forse di assalti diversamente indiscreti ai fragili muri di cinta che educazione e suore e padre le avevano innalzati intorno per l'arduo giorno appunto delle nozze.

Dopo otto giorni Luigi e Antonietta lasciano il Càos e sono a Roma.

Qui li attendeva la casetta che aveva avuta l'ultima cura ad opera di certi cugini di Luigi. Della casa, questi aveva antici­pato nelle lettere alla fidanzata una descrizione: «...Il salottino, stile Luigi XVI, una delizia!» e molti tappeti, «qui a Roma... indispensabili»: nel salottino, «un tappeto intero, grande, quanto il pavimento della stanza... quello della stanza da pranzo a imitazione dei pavimentini in legno a mosaico: quello della stanza da studio è turco, come le tende...». Fra questi tappeti e tende ha inizio la vita coniugale di Pirandello, vita che probabilmente per qualche tempo fu amorosa e sere­na, nella divisione dei compiti coniugali, nel lavoro di lui, nel­l'agio economico, nelle periodiche gravidanze di lei. Ma, di meno di due anni dopo, è la pubblicazione di questi versi1 che sembrerebbero accennare, con pentimento, alla abbandonata Lina: «...Arida sponda e inamabile è questa; è vero: morto però a lei mi potea trascinar l'onda. Tutto il tesor che meco avea l'ha il mare. E pur travolta giacque la persona più cara a me, nè la potei salvare: ombra mi seguirà che non perdona...».

Un anno e mezzo dopo il matrimonio, nel giugno del '95 è nato il primo figlio, Stefano; nel '97 (la famiglia intanto ha cambiato casa e abita ora in Via Vittoria Colonna, al palazzo Odescalchi), sempre in giugno, nasce Lietta, e due anni dopo, ancora in giugno, Fausto.

Alla nascita di Fausto, Antonietta ha una prima crisi ner­vosa; ma non grave, e la vita coniugale continua tranquilla. Luigi che ha rinunziato alla propria parte di profitto nell'azien­da paterna, riceve mensilmente un assegno del padre; la rendita della dote di Antonietta serve a integrare l'assegno. Luigi si è dato così senza troppe preoccupazioni alla letteratura: alle no­velle, ai romanzi, alle poesie; continua a frequentare i suoi amici letterati, a riceverli in casa, a intervenire alle riunioni domeni­cali di casa Fleres. Nel '97 ottiene l'incarico al Magistero. Antonietta appare occupata dai tre figli natigli nei primi sei anni del matrimonio, ma latente è in lei una fragilità psichica, che alla prima prova si tramuterà in male cronico e senza rimedio.

Fu il 1903 l'anno sventurato. Antonietta aveva un suo ca­rattere, si sentiva sorretta anche moralmente, nella propria di­gnità e parziale autorità di fronte al marito, dalla sua dote, dalla partecipazione attiva al bilancio familiare.il possesso della roba in Sicilia, specie in quei tempi, era più che una semplice causa di agiatezza. Poteva essere, per qualcuno, un'implicazione fon­damentale dell'esistenza. E lei era figlia di un uomo che, quasi povero, si era fatto ricco da sè, e continuava ad accumulare avidamente il suo denaro, trasformandolo in terre e case.

La dote era stata affidata alle mani non sempre abili di Ste­fano Pirandello, il quale si era dato a sfruttare, presso Arago­na, un'importante miniera, spendendo nelle attrezzature per tirar su il minerale, tutto il suo, e anche le settantamila lire di Antonietta. La miniera, «una grande zolfara», come Pirandello la definiva in una lettera ad Angiolo Orvieto1, che consentiva con quanto se ne ricavava, l'agiatezza al padre e a tutti i figli, si allagò all'improvviso, provocando perdite per quattrocento­mila lire, che corrispondevano a tutto il capitale di Stefano Pi­randello e alla dote di Antonietta. Luigi, di ritorno da una pas­seggiata pomeridiana, trovò la moglie semiparalizzata a letto. La lettera, proveniente da Girgenti, che lei aveva letta e che gli fu consegnata, spiegava ogni cosa. La paresi era il primo attacco grave della malattia.

Oltre quello della malattia della moglie, sorse il problema grave del sostentamento della famigia. I bambini avevano ri­spettivamente otto, sei e quattro anni. Luigi dovette correre immediatamente ai ripari. Una vecchietta che lavorava per casa da governante fu incaricata di portare «gli ori» di Antonietta al Monte di Pietà e se ne trassero seicento lire.

Pirandello pensò in quest'occasione seriamente al suicidio2. Un suicidio non vile, anzi un modo di risolvere la situazione per tutti: perché Antonietta da sola, con i bambini, sarebbe certo stata riaccolta in casa del padre, che invece ora, dopo i ripetuti consigli che aveva inviati al genero, perchè non si fi­dasse delle presenti speculazioni di Stefano, pareva disposto solo a dire: «Ben ti sta». Ma la tentazione del suicidio rientrò subito.


Il gennaio 1904" scrisse ad Angiolo Orvieto, direttore e proprietario (col fratello Adolfo) del Marzocco (al quale fino allora Pirandello aveva mandato i suoi articoli e le sue novelle senza chiederne retribuzione) che aveva interrotto la sua colla­borazione alla rivista perchè aveva necessità di un guadagno immediato. Infatti era rimasto con la moglie e tre bambini da far vivere con il solo stipendio di professore, sufficiente appena a pagare la pigione. Si offriva di continuare a collaborare al Marzocco, con una novella al mese, se gliela avessero retribuita con venticinque lire.

Angiolo Orvieto, compreso della «prova terribile» a cui era sottoposto l'amico, volle pagargli tutto il lavoro arretrato (circa tremila lire) e lo ricompensò, per le nuove novelle, con trenta lire ogni volta.

Anche le raccolte di novelle già pubblicate cominciavano a dare qualche frutto. Inoltre da qualche mese, da quando cioè la Nuova Antologia era diretta da Giovanni Cena, egli vi collabo­rava. E la Nuova Antologia soleva retribuire un po' meglio delle altre riviste i suoi collaboratori. C'era poi lo stipendio da pro­fessore, per quanto magro, e tutto questo non era molto.

Perciò, dovendo mettersi a fare dell'altro, cominciò a dare lezioni private di tedesco, e d'italiano agli stranieri (per cinque lire all'ora), e moltiplicò il suo lavoro letterario. Ci rimane, in un suo taccuino del tempo, una «nota delle entrate» del 1904 (non sappiamo se completa), in cui traspare una vita di intensa fatica. Tutta una serie di voci riguarda il suo lavoro di professore; egli fa anche in modo di essere nominato commis­sario di esami fuori Roma, per guadagnare gli assegni della tra­sferta. Certe ambientazioni delle sue novelle nella provincia centro-italiana derivano da queste esperienze. Egli si reca ad Alatri e a Montepulciano, e qui lo troviamo curiosamente in­tento a registrare frasi idiomatiche toscane. Nel taccuino ve n'è un'infilzata di almeno ottanta. Riceve, per le novelle pubblicate quell'anno sul Marzocco e sulla Riviera ligure, rispettivamente trenta e venticinque lire per novella; una novella {Una voce) pubblicata su Regina gli è retribuita con 50 lire. Le traduzioni in tedesco de La levata del sole e del Vitalizio gli fruttano più di cento lire, e riesce a vendere anche una copia di Zampogna, la sua raccolta di poesie pubblicata nel 1901. Lo stipendio è di 2592 lire. In tutto l'anno guadagna lire 6203,61.

Dal bisogno impellente di denaro, e dalle circostanze pre­senti, nacque anche il primo romanzo di Pirandello che ebbe fama immediata in Italia e presto anche all'estero: II fu Mat­tia Pascal.

Giovanni Cena gli chiedeva un romanzo che apparisse a puntate sulla Nuova Antologia. Gli avrebbe dato subito un an­ticipo di mille lire. Pirandello, pur non avendone scritto una sola pagina, anzi non avendone neppure in mente un'idea, ac­cettò1.

«Il fu Mattia Pascal»

Scrisse II fu Mattia Pascal di notte, vegliando la moglie che stava a letto perchè priva dell'uso delle gambe (vi sarebbe stata ancora a lungo). Il libro è, alla lontana, una favola autobio­grafica, un segreto trasferirsi dello scrittore nel personaggio. Accingendosi a scrivere il romanzo Pirandello partiva dalla ta­bula rasa. Tutto ciò che filtrerà sulla pagina è una sorta di fan­tasticheria suggerita dalla presente disgrazia. Fa notare il Nardelli che il libro comincia con queste parole: «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal». Da questo veridico inizio si dipana il volume che viene inventato mese per mese non senza su­spense fino alla fine per i lettori e per lo scrittore. Il perso­naggio si finge morto e cerca di vivere una nuova più libera vita. Ugo Fleres, al quale lo scrittore andava leggendo le sin­gole puntate, alla fine si mostrava preoccupato per la sorte del romanzo. Mattia Pascal era ridotto in un vicolo cieco e pareva non avesse più via d'uscita: perduta l'identità anagrafica, pri­vato di tutto, non gli restava che il suicidio, che non sarebbe stato un finale intonato a un libro «umoristico». Pirandello ebbe l'idea perciò di far rimorire il personaggio, di fargli la­sciare i vestiti sulla spalletta del fiume e di farlo melanconicamente ritornare al suo paese.

Mattia Pascal, finito come il suo inventore in una trista si­tuazione a causa di rovinosi casi che si svolgono nel triangolo dote-moglie-suocera, pensa al suicidio; poi fugge; e qui l'imagerie dello scrittore. Il personaggio finisce a Montecarlo dove

10 assiste una fortuna miracolosa che lo dota di molto denaro. Tornando in treno verso casa, apprende, da un giornale, che per una casuale circostanza è stato dato per morto, e poiché la sua salma è stata anche riconosciuta dalla moglie, la libera­zione è completa, il facile sogno dello scrittore è all'apice. Ma

11 tentativo di vivere di nuovo: nuovi amori, nuove dimensioni di esistenza, fallisce. Non c'è scampo. In realtà Antonietta ri­maneva distesa su quel letto e lui, Pirandello, si trovava col dorso piegato a scrivere per contratto.

Forse è proprio durante la scrittura de II fu Mattia Pascal che il narrare pirandelliano, fino a quel momento alla ricerca di misure oggettive, ripiega più sicuramente dentro la coscienza, in direzione introversa, precisandosi definitivamente in un tut­to particolare e soggettivo umorismo. Un umorismo che riaf­fiora da inconsci fondali d'anima. I romanzi che Pirandello ha scritto prima sono stati L'esclusa e II turno, tutti e due svolti secondo un criterio volutamente verista, e II turno, ri­spetto a II fu Mattia Pascal, secondo un umorismo meno parte­cipe. Gli altri tre romanzi, che scriverà dopo, saranno invece, prima della restituzione oggettiva, immersi tutti qualunque sia l'intenzione di verità realistica dello scrittore nel bagno deformatore della soggettività: donde anche il loro maggiore disordine formale, la loro disarmonia, l'impaccio e la tristezza rispetto a queste prime opere più formalmente risolte anche se meno interessanti. Anche II fu Mattia Pascal mantiene misure più limpide di linguaggio. Vi si legge quasi un divertimento della disgrazia, un estro che zampilla amaro e felice sull'espe­rienza di una ferita nuova, non ancora incancrenita.


Il 1903 segna dunque un'altra data di mutazione nella vita di Pirandello. Non che ormai possano avvenire trasformazioni profonde, ma certo, sì, approfondimento della disperazione. Il sorriso di Pirandello si fa più triste e più ambiguo. Le spinte verso gli appagamenti sempre più represse.

Autobiografia

La narrativa pirandelliana è autobiografica a tutti i livelli. Vi si può trovare quasi tutto della sua vita: la descrizione sem­plice e diretta del giardino della casa da lui abitata, dei cipressi che si vedono dalla sua finestra, della campagna della sua in­fanzia o di quella delle sue villeggiature di montagna e di col­lina: di Coazze, di Monteluco o di Montepulciano; vi si può rinvenire una giara rotta una volta da lui vista in un magaz­zino siciliano, o una buca di miniera da lui visitata1; vi si pos­sono riconoscere madre e padre, moglie e figli, parenti, amici e conoscenti rappresentati allo scoperto; così le case abitate dallo scrittore, strade e piazze di Roma, di Palermo e di Girgenti, il molo di Santa Lucia dal quale partiva il postale per Palermo, i cimiteri visitati con bizzarra angoscia. E Pirandello ci ha lasciato nel complesso della sua opera un ritratto abba­stanza preciso, secondo una prospettiva personale, dell'Italia del ventennio che precede la seconda guerra mondiale.

Ci incontriamo nelle convinzioni pratiche dello scrittore, nelle sue preoccupazioni morali, nelle sue opinioni politiche, nella sua ambigua compassione degli uomini, nelle sue defini­zioni del mondo, nella sua filosofia, nella sua cultura: tutte idee e concetti pianamente scoperti, non metaforizzati, tali che se ne possono ricavare e se ne sono ricavati singoli studi saggi­stici2.


Nella sua opera inoltre l'autore si è ritratto in tutti i modi: talora in punta di penna, in un disegno leggero («Vedo la fac­cia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso»)1; tal altra, con veridica complessità, nella sua età di fanciullo (come in La scelta e in La Madonnina) o di uomo fatto (come in Fra due ombre e in Colloqui coi perso­naggi e in I nostri ricordi)-, o si è contraffatto, poco o molto, in un aspetto diverso (come in Ritorno, in Berecche e la guerra, in Frammento di cronaca di Marco Leccio-, in Suo marito, in Si gira, nei molti mariti di donne gelose, in Quando si è qual­cuno, ecc.). Talora si è segretamente proiettato in personaggi che attuano certi suoi sogni di vita più libera e spregiudicata. Altre volte si è trasposto in personaggi simbolici di più intellet­tuali momenti della sua vita, come nel Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila. Nè manca l'abbozzo di un autori­tratto critico («la sua fama di scrittor bizzarro e profondo...»2). Infine si è iscritto, in qualcuna delle ultime novelle, nel per­sonaggio dell'uomo vecchio e saggio intento a captare le lievi premonizioni della morte.

Ma sono tutte queste, anche se occupano tanta parte del­l'opera, le fasi più scoperte dell'autobiografismo di Pirandello. Molto più importante è la compenetrazione che avviene tra la vita segreta della sua anima e la scrittura e la pagina.

In questo passaggio, che è di tutti gli scrittori, e che si chia­ma comunemente processo metaforico, Pirandello si distingue caratteristicamente perchè delle metamorfosi, che avvengono dentro di lui, di fatti e circostanze, di pensieri altrui e propri, egli appare debole dominatore. La sua responsabilità metafo­rica è relativamente ridotta'. Nella sua matrice fantastica en­trano le cose, soprattutto gli uomini, ma possono tornarne fuori dei mostri. Fin da ragazzo egli si è sentito ossessionato da un sottofondo tumultuoso e tormentatore. Non aveva ancora vent'anni quando scriveva (è una lettera del 31 ottobre 1886 alla sorella Lina1): «...in certi momenti di abbandono parlo come un insensato e sento un impetuoso desiderio di non vivere ma poi tutto finisce nel mio cervello si fa un vuoto nero, orribile, raccapricciante, come il misterioso fondo del mare po­polato da mostruosi pensieri che guizzano, passando minacciosi. (Lacera questa lettera...)...» A ventisei anni scriveva in un ar­ticolo destinato al pubblico2: «Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. In questo specchio inte­riore si riflettono le più disparate figure, tutte però in iscomposte attitudini; come gravate da some insopportabili...».

Il meglio per la salute morale e fisica dell'autore è che que­sti mostri e queste figure vengano alla luce, si facciano vivi all'esterno, dove sia possibile inchiodarli lungo il cammino.

Ci saranno alla fine i Colloqui coi personaggi-, ma prima di arrivare a questo, Pirandello si prova a umanizzare i suoi mo­stri, a neutralizzarli nel tramite della convenzione letteraria. Finisce spesso per trasfondere negli uomini i lineamenti dei mostri. Se si attraversasse l'opera di Pirandello inventarian­dovi tutte queste proiezioni dell'abisso deformatore, e se ne allineassero tutte le figure, ve ne sarebbero per una galleria a perdita di fiato, o se ne stiperebbe un orribile affresco fitto di maschere come una tela di Ensor. Maschere crudeli, soggettive e oggettive a un tempo: oggettivamente veristiche, perchè il metro, la scuola, l'educazione dello scrittore sono stati, per contingenze accidentali, quelli del verismo; soggettivamente deformate, perchè era un obiettivarsi plastico, uno specchiarsi al di fuori come su uno schermo delle estreme tensioni affettive dell'anima. Pirandello era incapace di riflettere a fondo su se stesso, di restituirsi in prima persona in un discorso lucida­mente autoanalizzatore. Un suo diario in questo senso ci man­ca: eppure riempì molte pagine di un suo taccuino segreto, attento solo e sempre all'oggettività, molto meno acuto osser­vatore nella confessione, di quanto non siano significative le figure dell'opera stillanti di precise scoperte interiori.

Pirandello scrive per liberarsi delle sue sconosciute osses­sioni, oltre che per cedere a tutte le altre ragioni, letterarie e occasionali e diversamente moralistiche del suo essere di scrit­tore e di uomo.

Si verifica nei racconti, nei romanzi, nel teatro pirandelliano, quello stesso intersecarsi di correnti contraddittorie che attra­versano la sua vita e convivono in essa. Nella sua pagina e nella sua vita si assiste di solito a un antagonismo non molto dibat­tuto nè molto contrastato fra l'assuefazione borghese, o pic­colo-borghese, alle regole, alle norme, al tatto, alla moralità del tempo, e una ribellione che viene dal profondo, che è amorale, che non sente ragioni nella sua iconoclastia. Pirandello, senza perdere mai di tensione, è moralista o pedagogo di nichilismo, patriota o guastatore, comprensivo o intollerante, cristiano o impietoso, secondo le occasioni e le provocazioni, ora interne ora esterne, del momento. Non riconosce la coerenza per se stessa, e se è coerente lo è dal profondo, nelle ragioni meno controllate e più vitalistiche. La filosofia relativistica finisce per codificare questo suo modo di essere, tendendo a vedere la coscienza dell'uomo come una sorta di prisma che guardi dalle diverse facce a seconda delle diverse occasioni (e solo secon­dariamente la coscienza è vista come un organismo unitario in cui gli strati siano sovrapposti e tanto più vera la verità quanto più provenga dal profondo).


Nella zona esteriore, con tutta sincerità, è uomo affettuoso, paziente e ferocemente mansueto in una vita familiare dram­matica e martirizzata; disposto alle relazioni sociali, non privo ogni tanto di scherzosa amichevole partecipazione nel fitto inu­tile discorso degli altri; nella zona interiore invece un inarre­stabile flusso di protesta e di anarchica rottura, di cattiveria anche, lo sospinge prepotentemente. Gli elementi della con­traddizione, che sono poi gli stessi della sua vita di uomo, affiorano nell'opera in disordine. Nell'esercizio della vita sociale, quella che si svolge a contatto con i familiari, gli amici, tutti gli altri, le contraddizioni tentano di trovare, se non una concilia­zione, un modus vivendi in una distinzione, o separazione, fra la vita interiore e quella del compromesso quotidiano. La co­stanza morale di Pirandello è di buona tempra, la disciplina del carattere, e il comportamento, sono talora di un rigore stoico; ma è una disciplina difficile: insieme a quel continuo silenzio e solitudine che ognuno che abbia avvicinato Pirandello mostra di conoscere bene come una sua seconda specifica natura, attra­verso cui i suoi discorsi, le sue parole anche più cariche di in­tento passionale, assumono una segreta qualità di alienazione e di distacco, scoppiano anche qua e là improvvise rivelazioni del suo essere vendicativo. Allora alla moglie che lo rimprovera di continuare a tenere, «ormai», il suo grande ritratto di quan­do ancora era giovane e serena (e sappiamo quanto fosse l'im­pegno del dovere, della pietà di una appassionata pazienza verso di lei) egli, indicando il ritratto, risponde: «Lo tengo perchè lei, e non tu, lei mi ha reso felice!» \ Oppure gli capitava con certo gusto di far piangere l'una o l'altra delle sue allieve del Magistero. Una volta, evidentemente con una buona porzione di malafede, rimproverò acerbamente un'allieva perchè aveva «copiato» il tema (che parlava di un gatto soffocato colle mani) da una novella di Poe. Nè valsero ragioni o scuse del­l'allieva, che non conosceva Poe neanche di nome. La ragaz­za pianse disperatamente senza farlo recedere dal suo rimpro­vero1. E si conoscono i giorni degli sfoghi contro il padre, si sa di lettere violentissime (dirette ad altri) contro di lui, che hanno sorpreso chi le ha lette essendosi fatta di Pirandello un'idea diversa. Ma episodi come questi sembrano anche rari






nella vita dello scrittore o almeno pochi se ne conoscono. Chi fu infatti vicino a Pirandello, potè di solito conservarne un'immagine di umanità e di bontà, anzi di superiorità morale rispetto agli altri. Perchè Pirandello riversò i suoi veleni anzi­tutto nel suo scrivere quotidiano, e qui li riequilibrò nell'im­pasto della pietà e della compassione. Riuscì a ristabilire un qualche equilibrio con se stesso, per quanto davvero molto in­stabile, grazie alla sua fertilità inesausta di scrittore. Le cariche represse dell'anima si liberavano quasi automaticamente rive­stendo come nervi e pelle dei propri simboli di irritazione, di rottura e di odio il flusso continuo dell'invenzione che andava immaginando e organizzando il racconto in una zona meno re­pressa e perciò più accessibile alle intenzioni morali.

C'è un punto, sempre, nella narrazione, in cui la moralità dell'assunto si incontra col continuo riflusso dei veleni. Il risultato della confluenza non fu che raramente armonico: spesso si trattò di pura convivenza fra intenzioni e spinte estremamente lontane. Ancora oggi i critici sono incerti: chi vede nell'opera dello scrittore semplicemente una grande le­zione di morale, e sani principi, una nozione certa del bene e del male, e chi vi scopre soprattutto un integro e assoluto mes­saggio di rottura. Ma l'opera di Pirandello vive nella coesistenza non pacificata di queste due istanze: l'una però più superficiale e meno genuina, non priva dei segni della buona volontà; l'al­tra più radicale e più vera perchè dettata dall'intima natura ne­vrotica dello scrittore.


Umorismo, dissociazione, depersonalizzazione

Pirandello si trovò, tra la fine e il principio del secolo, in­torno ai trent'anni, di fronte a questa propria natura di scrit­tore, composita, contraddittoria, poco comprensibile a lui stesso e sentì l'esigenza di un'autodefinizione, di un riferimento a una sua poetica. Chiamando a raccolta le sue conoscenze di estetica, esaminando l'opera fino allora composta, cercando in­torno a sè altri esemplari letterari, egli volle essere perciò «scrittore umorista», a tale immagine di se stesso rimanendo poi a lungo fedele, almeno fino agli anni della guerra mondiale, quando la definizione non riuscì più a bastargli e il suo teatro si allargò molto oltre 1' umorismo.


Per rimanere legato a questa immagine di umorista, se ne fece una vera e propria professione, fondandone regole e ra­gioni. Interi volumi di novelle, poesie, romanzi e saggi sono dedicati a tale idea. Quando ve n'era l'occasione, egli rivendi­cava sempre il proprio umorismo, l'originalità di esso. Il mio umorismo, scrisse in una lettera autobiografica del 19121, non è nato in Germania per la lezione dei romantici: «scrivevo già da umorista, quando non sapevo neppure che cosa fosse l'umo­rismo». In realtà egli corse il rischio di riconoscere e ridimen­sionare ciò che chiama il suo umorismo nella misura di quello contemporaneo, tanto che un critico, e non dei minori, di quel tempo, G. A. Borgese, lo accomunava ancora intorno al 1911 (e gli era amico) con Trilussa, con Luigi Lucatelli e cogli altri umoristi del Travaso2. Retrospettivamente ci ricordiamo tutti di certe donne enormi come balene, rigurgitanti e gigantesche di disfunzioni giunoniche, sposate a omini piccoletti e miseri, vestiti di nero e strozzati al collo dal cravattino. Pirandello dedica tutta una novella, Un matrimonio ideale (sintomatico è già il titolo), a illustrare un'analoga caricatura: gli sponsali di Margherita, «spettacolosa per la corporatura immane, il vo­lume delle guance e dei due menti e del seno e dei fianchi pode­rosi... come una Jungfrau», con Cosimo, un omino «alto poco più di un metro, calvo, miope, panciutello». Era un compro­mettere nelle immagini della comicità contemporanea una ben diversa necessità di dilatare le linee caricaturali, di radicalizzare le opposizioni in seno alla realtà fisica e positiva. La rivalsa su quest'ultima, e non certo un umorismo veristico e superficiale, guidava la mano dello scrittore affascinato dalle estreme disar­monie oggettive che discreditano l'umanità e scrollano con im­mediatezza esistenziale certe illusioni di ordine e di armonia metafisica.

Nel segno dell'umorismo, sembrava a Pirandello infatti di incontrarsi con scrittori come Swift e Cervantes, e come Gior­dano Bruno; anche altri, Sterne, Manzoni e Heine erano, gli pareva, della sua stessa famiglia1.

La chiave dell'umorismo, come lui lo intendeva, gli pareva la più idonea per la restituzione del mondo oggettivo che, preso nel meccanismo introverso della sua anima, subiva una tanto deformatrice violentazione. Inoltre, ogni umorista è anche un moralista e una vocazione moralistica era sempre presente in Pirandello, necessaria a riequilibrare i guasti morali che com­piva «la bestia» interiore (così lui amava chiamarla).


Da queste circostanze personali, ma anche dalla cultura idealistica e postromantica del tempo, gli nacque il concetto del­l'umorismo come antitesi, come «sentimento del contrario». Una definizione che veniva a coprire esattamente l'ambivalenza già simbolicamente radicalizzata nei titoli di alcune sue opere precedenti: Bianche e nere, Beffe della vita e della morte, Er­ma bifronte. Una definizione peregrina, se si vuole, poiché l'idea più nota dell'umorismo implica piuttosto il concetto della gradazione che quello dell'antitesi, ma utile e necessaria a Pi­randello per giustificare la doppia presenza nella sua vita delle opposte verità. Egli dice, nel suo saggio su L'umorismo (del 1908), anzitutto che quella dell'umorista «è una speciale fisio­nomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario attribuire una causa determinante», che è «una condizione d'uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave», il cui stato prin­cipale è di «non saper più da qual parte tenere», è «la per­plessità, lo stato irresoluto della coscienza», che «la riflessione [per l'umorista] diventa come un demonietto che smonta il congegno d'ogni immagine, d'ogni fantasma messo su dal sen­timento. Smontarlo per veder come è fatto; scaricarne la molla, e tutto il congegno (ne stride) convulso»; e «non c'è da fi­darsi» della «simpatica indulgenza» che talora mostra qualche umorista, poiché sentimenti e uomini provocano «lo sdegno, il dispetto, l'irrisione dell'umorista», e, su questi sentimenti, sca­turisce il contrario-, «l'indulgenza, il compatimento, la pietà». Era un semplificare e uno schematizzare processi che avveni­vano in lui ben più complessi e inafferrabili. Ma entrare nel­l'abito dello scrittore umorista e proporre a questo regole ed esercizi da eseguire, significò delimitare in un circolo più con­trollabile un vasto ribelle territorio di coscienza per domarvi, con un rischio ridotto, le segrete spinte dissocianti, le strava­ganze e i tic che qui acquistavano invece cittadinanza e legitti­mità. In questo teatro Pirandello liberò e domò le sue segrete pecularietà.

Le due esperienze fondamentali della psiche pirandelliana, quelle in cui ha origine ogni altro suo dinamismo in una con­tinuazione più o meno scoperta e riconoscibile, sono quelle della depersonalizzazione, per cui l'uomo intermittentemente esce fuori da se stesso e sta ad osservarsi («ci vediamo vi­vere»), cogliendosi in un punto tra fisico e metafisico d'assur­dità (è un'esperienza psicologica che assume valore metafisico dopo, per una riduzione intellettuale), e l'altra, concomitante, ma differente, di una spinta distruttiva e autodistruttiva che si muta continuamente in movimento dissociante e relativizzante. Queste due matrici psichiche diventano per Pirandello il con­tenuto ripetuto all'infinito dell'opera umoristica\


Il saggio su L'umorismo si chiude nella confessione auto­biografica: l'umorista, che è in definitiva l'uomo come scrittore, si trova in un mobile punto intermedio fra l'alienazione, l'as­senza abissale, e la prossimità ossessiva e sfigurata agli oggetti. L'uomo è visto così da vicino che si tramuta in maschera cru­dele, e tanto da lontano che scompare nell'infinitesimale. Il telescopio, «macchinetta infernale», è il simbolo di questa si­tuazione: «Mentre l'occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci vedere piccolo, l'anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l'uomo e tutte le nostre glorie e grandezze» \ Ma non meno terribile è lo strumento, che usato dalla parte della lente piccola diventa an­che un microscopio, se ne risultano precise e ingrandite piutto­sto che grandezze e glorie dell'uomo, mutazioni, metamorfosi e dissociazioni dell'anima: «L'ordine? la coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro...». In un foglietto d'appunti è registrata direttamente l'esperienza psichica corrispondente2: «Si presentano le immagini in con­trasto, anziché associate. Ogni immagine, ogni gruppo di im­magini desta e richiama le contrarie — che dividono lo spirito perchè lo spirito non riesce a fonderle». «La vita, continua a dire Pirandello ne L'umorismo, che s'aggira piccola, solita fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle im­portanza? Come portarle rispetto?». «In certi momenti di silenzio interiore, egli confessa, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un ba­leno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normal­mente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuo­ri delle forme dell'umana ragione. Lucidissimamente allora la compagine dell'esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua cru­dezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie re­lazioni consuete di sentimenti e d'immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silen­zio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza nor­male delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l'innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perchè sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c'è qualcos'altro, a cui l'uomo non può affac­ciarsi, se non a costo di morire o d'impazzire...»*.

Non è una stagione sola della vita a suggerire simili confi­denze-rivelazioni: è l'esperienza di ogni stagione; un ricorrere ciclico, fino in prossimità della morte, di eguali sentimenti e pensieri. Lo scrittore è sempre intento a ritrovare un centro, un equilibrio e un'armonia nel suo lavoro letterario, ed è di­sturbato e interrotto da improvvise lacerazioni che segnano in un clic ricorrente, il distacco dell'attenzione, il momento del­l'inquieta e stravolta indifferenza. È il periodico scaricarsi della tensione che lascia il senso della nausea.


Se l'autore ci parla in tutti i toni della «fantocciata della vita» è perchè i fantocci sono l'immagine esemplare ed esatta della vita alienata, depersonalizzata. L'uomo, fatto fantoccio, si muove come tale: «... quel povero zoppetto là... chi è? Correre alla morte con la stampella... la vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... gamba di legno, occhio di vetro, e avanti!...»1 Tra le fantasie ricorrenti che cercano la metafora adatta ad esprimere il momento del distacco e del­l'alienazione vi è, in una poesia del 1902 (Tormenti), l'imma­gine sintetica di Sisifo, che improvvisamente scorge immobile il suo masso, e svuotato di senso l'apparentemente eterno tor­mento.

Le metafore della depersonalizzazione nell'opera di Piran­dello sono numerosissime: vanno da quella sempre riproducentesi della distanza astronomica, a quella anche più frequente del personaggio allo specchio che pronunzia parole come que­ste: «C'è qualcuno che sta vivendo la mia vita. Io non ne so nulla»2. Ne I vecchi e i giovani tutti i personaggi principali, uno dopo l'altro, e l'uno all'insaputa dell'altro, sono condotti prima o poi davanti a uno specchio perchè si riducano a larve: «...come se la vita se ne andasse e ne rimanesse una larva ma­linconica nel ricordo» (dice Pirandello in uno dei suoi tac­cuini1). Lo specchio può essere sostituito dalla targa col pro­prio nome sulla porta, come per il personaggio della Carriola, o da una semplice sopravveniente interruzione del pensiero. La desensibilizzazione nei riguardi delle cose, l'improvviso perdere della vita di ogni peso di concretezza, l'orrore per l'esi­stenza fìsica (a più di una persona Pirandello ebbe a dire che aveva orrore del sangue che gli pulsava nelle vene, di rifuggire dai medici perchè gli sentivano il polso"), trova il suo contrap­punto nel platonismo, in quella certezza abolita di cose vere, di assoluti dell'anima, in quelle numerose e disperate partenze che si svolsero nella sua poesia (non solo in quella giovanile), per mare e per cielo, verso paesi ignoti cercati «tant'anni... senza frutto»: «Duolmi che se m'avvenga di trovare alfine il regno, più non possa io poi tornare a voi; chè folle è il vento: traccia vie sul mare e le cancella poi...». Versi che scrisse dopo aver compiuto quarant'anni \

«I vecchi e i giovani»

II fu Mattia Pascal ha percorso un buon cammino. All'edi­zione in volume, fattane nel 1904 dalla stessa Nuova Antologia, è legato l'episodio dell'incontro di Pirandello con Giovanni Verga. Ecco come Pirandello stesso, venti anni dopo, narrò a Villaroel che l'intervistava2, l'incontro: «Mi trovavo in re­dazione con Giovanni Cena quando arriva Verga di ritorno da Milano, ove aveva assistito alla caduta di Dal tuo al mio sulle scene. Era sfiduciato. Meditava di tornare nella sua Sicilia e di non scrivere più. E si mantenne fermo nel proposito. Da quel giorno il grande romanziere si chiuse per sempre nel si­lenzio. Aveva assunto, però, l'impegno di consegnare, alla Nuo­va Antologia, La duchessa di Leyra. Disdisse tutto e voleva restituire il denaro. Ma Cena insistette. Dopo varie alternative, si venne, in seguito, ad un accomodamento e La duchessa di Leyra fu sostituita con Dal tuo al mio ridotto a romanzo. Du­rante la discussione il tipografo della Nuova Antologia aveva portato le prime sei copie già stampate de II fu Mattia Pascal. Verga ne prese una e l'esaminò e stava per riporla quando Cena mi presentò a lui. Allora gliene feci dono. Gradì molto il pensiero e mi disse che l'avrebbe letto e me ne avrebbe scrit­to. Infatti, dopo sei giorni mi pervenne una lettera. Diceva delle cose molto gentili e molto tristi. Egli si sentiva ormai






sorpassato dai tempi e vedeva spegnersi la sua lucerna accanto alla quale si accendeva il lumicino dell'arte mia. Ho gran ram­marico d'aver perduto questa lettera. Forse la mia povera si­gnora l'avrà distrutta in uno dei suoi momenti di crisi».

Il fu Mattia Pascal fu tradotto, da Henry Bigot, in francese, man mano che veniva pubblicato sulla Nuova Antologia, e, nel 1905, tradotto per la «Fremdenblatt» di Vienna da Ludmilla Friedmann. A Parigi, la traduzione del Bigot era stata sul punto di essere pubblicata sulla Revue de Paris, diretta dal Ganderax, ma Matilde Serao, molto più famosa allora di Pirandello, era riuscita, andando a Parigi, a fare sostituire, sulla rivista, la tra­duzione di un proprio romanzo, Dopo il divorzio, che stava uscendo sulla Nuova Antologia. La pubblicazione de II fu Mat­tia Pascal in Francia tarderà perciò ancora qualche anno. Ma il successo del libro valse all'autore l'ingresso nella casa editrice Treves, che in quegli anni era la più ambita dagli scrittori ita­liani. Da Treves, apparvero Erma bifronte, nel 1906, e L'esclu­sa, in volume, nel 1908. Nel 1920, Pirandello abbandone­rà Treves per Bemporad, e, nel 1929, Bemporad per Mon­dadori.

Nel 1909, Pirandello pubblica il suo terzo romanzo, I vec­chi e i giovani, che appare in appendice su La rassegna contem­poranea, fra il gennaio e il novembre. I vecchi e i giovani non sono nè un grande nè un bel romanzo, ma un libro ricco di tutti i contenuti e di tutte le ansie pirandelliane profusi in un libero endemico disordine. Egli cominciò a scriverlo quando era prossimo ai quarant'anni e sentì il bisogno di raccogliere, in un unico libro, il suo giudizio sul mondo contemporaneo: concetti e sentimenti. Si trattava di un complesso mondo di memorie e di esperienze attuali, di fatti e di parole che assu­mevano in lui ora una calda figura di incendio, ora un larvatico aspetto di vanità. Era l'idea di un romanzo in cui, senza calcoli, egli potesse incontrarsi a tu per tu e nello stesso teatro con la memoria e con la contemporaneità. In tale libro, che doveva trarre pretesto dalla cronaca di avvenimenti accaduti dodici anni prima, c'era l'inconscia intenzione di un bilancio della propria vita. Pirandello voleva rinsaldare la leggenda della sua famiglia, la memoria del paese natale, come paesaggio e come luogo di una società umana, rifondere nell'immaginazione pre­cise fisionomie di uomini e di cose che dovevano vivere a fianco di personaggi fittizi, simbolici di stati d'anima più segreti. Inol­tre, nel libro, si voleva ripetere ogni fondamentale riflessione sulla vita, sulla società politica contemporanea, sulla convi­venza nazionale. Un libro di vita e di polemica. Oltre a queste cose che, consciamente o inconsciamente, vi si volevano river­sare, altre se ne trovano, più segrete e mascherate, non meno importanti. L'opera tutta di Pirandello confluisce a un certo punto in questo fangoso e composito fiume-romanzo, trascinan­te relitti e sogni segreti.

Il tentativo di scrivere un romanzo di storia non è portato a buon fine. Gli sforzi di obiettività vi falliscono tutti, tranne quando lo scrittore descrive il paesaggio agrigentino. Lo spetta­colo naturale non ha infatti subito la trasformazione operatasi su tutto il resto. Ma il paesaggio che ci viene restituito è tutto sliricizzato, fatto che dimostrerebbe che Pirandello, durante l'infanzia, non ancorò la propria anima ai simboli e ai miti della natura circostante. Certo non sarà facile, a chi volesse tentarlo, nonostante tanti ritorni, nell'opera, alla Sicilia, a Girgenti, a Porto Empedocle, alle ampie distese di quelle campa­gne, trovare in Pirandello «quei luoghi unici dell'infanzia» di cui parlava nel suo Diario Cesare Pavese, quei luoghi cioè cui «si dà un significato assoluto, isolandolo dal mondo; dove poi sorgono nomi, santuari, aggettivi geografici». «È difficile, dice Pavese, aggiungere altri paesaggi a quelli che segni gratuiti ci rivelarono nell'infanzia, quando si fissarono i nostri stampi immaginativi». Guardando a questi paesaggi de I Vecchi e i giovani, e a tutti gli altri paesaggi siciliani dello scrittore, ci imbattiamo invece appunto in paesaggi aggiunti, resi con un descrittivismo elusivo, in una fuga tangenziale delle parole dal­le più intime autobiografiche ragioni. E ciò mentre lo scrittore si dimostra tanto spesso desideroso di nostalgia e di liricità. Egli intuiva che il contatto con le memorie, specie con quelle


di un paesaggio, non può avvenire al di fuori del mito risco­perto di esse. Ma in lui è avvenuta una specie di morte dei ri­cordi-. «Credo, egli dice nella novella intitolata I nostri ricordi, che sia questa una delle più tristi impressioni, forse la più tri­ste, che avvenga di provare a chi ritorni dopo molti anni nel paese natale: vedere i propri ricordi cadere nel vuoto, venir meno a uno a uno, svanire: i ricordi che cercano di rifarsi vita e non si ritrovano più nei luoghi, perchè il sentimento cangiato non riesce più a dare a quei luoghi la realtà ch'essi avevano prima». I ricordi infantili dello scrittore sono sprofondati nel­l'abisso e ne riaffiorano irriconoscibili. Non vi furono salde impressioni, non radicati intramontabili archetipi mitici, e se vi furono, un avvenimento ignoto li respinse, li stroncò e li sostituì. Sparendo, essi lasciarono alle spalle dell'uomo maturo il deserto dell'illusorietà: perciò il paesaggio natale di Piran­dello è muto, estraneo e oratorio. Lo scrittore ce lo può resti­tuire solo in una giustapposizione, a pezzi, dei singoli suoi elementi, in un'invenzione forzata. Manca nel suo paesaggio una continuità melodica di memoria: ogni volta è un disegno naturalistico e astratto, che cerca, senza riuscirvi, di ridisten­dersi stilisticamente sulla pagina. Rimane teso e insensibile il diaframma fra lo scrittore e la natura; la sua parola, in queste occasioni, è priva di storia, di memoria viva. Lo sforzo di ritro­varne il contatto, la sincera istanza di liricità, delusa com'era dalla vena del linguaggio più instintivo, si sforzava di realiz­zarsi dall'esterno, ed è segnata perciò dalla ricerca sovrabbon­dante di parole del vocabolario poetico convenzionale, aggiunte e sovrapposte a una povera descrizione veristica.

In un punto del romanzo, Pirandello tenta un azzardo estremo: misura la propria impotenza lirica direttamente su un grande modello. Ecco un «addio» all'isola della memoria: «Addio, Sicilia... Girgenti che si vede da lontano, lassù, alta; addio campane di San Gerlando, di cui nel silenzio della cam­pagna m'arrivava il ronzio; addio, alberi che conoscevo a uno a uno... voi non vi potete immaginare, come da lontano vi s'av­vistino le cose care che lasciate e vi afferrino e vi strappino l'anima!...» (È il personaggio di un popolano che pronunzia queste parole).

È invece possibile e ben definito un contatto e un rapporto fra lo scrittore e le persone della sua terra, grazie all'amore che lo lega ad alcuni, alla superiorità morale e al disprezzo che lo respinge dagli altri. L'amore, la venerazione, il rispetto, o almeno la tolleranza dello scrittore, sono dedicati alle persone più vicine, quelle del suo stesso sangue, ai personaggi girgentani de I vecchi e i giovani che corrispondono ai suoi, soprat­tutto a quello ispirato dalla madre. Essi sono buoni, positivi, idealisti, antagonisti di tutti gli altri, anche se talvolta deboli e smarriti. Pirandello sembra volerne fare una privata vendetta. Agli altri, specie se considerati come gruppo sociale, sono de­dicati l'ironia, la censura morale, il sarcasmo; ad essi si rivolge tutt'al più la vessata renitente compassione dello scrittore man mano che li va sciogliendo dal contesto della cronaca. Perfino un amico di Pirandello come il De Luca, passando dalla vita reale nei panni del personaggio Luca Lizio, subisce un'incredi­bile degenerazione: l'uomo dei Fasci, che ha subito la perse­cuzione e il carcere, è diventato nella vita romanzesca un bal­buziente e disperato nevrotico. Il Luca Lizio del romanzo è solo un personaggio da romanzo, questo è ovvio, ma Pirandello rifà le cronache girgentane del 1892, 1893 e 1894, anni in cui, a dirigere i Fasci, a Girgenti, non v'era altri che Francesco De Luca. E infatti gli esegeti indigeni de I vecchi e i giovani dànno per riconosciuto, in Luca Lizio, il De Luca (Luca-De Luca1). E se le illazioni degli esegeti locali non sono accettabili, perchè Pirandello, nel romanzo storico, ha abolito il De Luca e lo ha sostituito con una sorta di relitto umano? Questo non riu­sciamo a capirlo. L'altro amico d'infanzia, Antonio De Gubernatis, e il di lui fratello Michele, risultano essere nel romanzo i personaggi Vincente e Nini De Vincentis. I due De Gubernatis, l'uno, Michele, studioso, ellenista, arabista, topo di biblioteca alla Lucchesi-Palli, e bibliotecario «delle Scuole Pubbliche», l'altro, Antonio, letterato, folclorista, finiti tutti e due in mi­seria per la inettitudine propria e per la speculazione degli altri sui loro beni (anche Antonio, bibliotecario e confidente prin­cipale di Pirandello nei periodici ritorni estivi di questi a Girgenti), sono ridotti, in analoghe situazioni, uno in un essere dal «corpicciuolo ossuto sparuto, convulso. Gli occhi duri die­tro le lenti fortissime, nel volto scavato avevano la fissità della pazzia», l'altro in un uomo timido, fragile e inetto, sull'orlo di un sottile e pietoso ridicolo. Ci si chiede: se Pirandello vo­leva creare personaggi diversi da quelli della vita reale, perchè faceva in modo che ogni agrigentino potesse riconoscere nei suoi nuovi deformati personaggi gli uomini della cronaca? Ti­picità del comportamento pirandelliano.

Se tali sono le metamorfosi degli amici, gli altri tutti si fanno personaggi di una cronaca di Girgenti costantemente me­schina, riprovevole e risibile, oggetto di avversa e sconsolata osservazione. Squallida e irricuperabile è la società girgentana ne I vecchi e i giovani: una comunità privata di ogni istanza etica, immersa nella neghittosità o travolta in un cupo e spesso insensato agire. Appare chiaro anche che il giudizio pirandel­liano non vuole localizzarsi sulla cronaca di quel 1893 intorno a cui si svolge l'azione del romanzo, ma coinvolge tutto un tempo lungo, tutto il secolare esistere della città. Del romanzo citiamo una pagina sufficientemente sintetica e chiarificatrice: «...I molti sfaccendati della città andavano intanto su e giù, sempre d'un passo, cascanti di noia, con l'automatismo dei de­menti, su e giù per la strada maestra, l'unica piana del paese, dal bel nome greco, Via Atenea, ma angusta come le altre e tortuosa. Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle... nomi: luce di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi. L'Akragas dei Greci, l'Agrigentum dei Ro­mani, erano finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio de­gli Arabi era rimasto indelebile negli animi e nei costumi della gente. Accidia taciturna, diffidenza ombrosa e gelosia. Dal bo­sco della Civita, cuore della scomparsa città vetusta, saliva un tempo al colle, su cui siede misera la nuova, una lunga fila di altissimi austeri cipressi, quasi a segnar la via della morte... Era qua, ora, il regno della morte. Dominata, in vetta al colle, dall'antica cattedrale normanna, dedicata a San Gerlando, dal Vescovado e dal Seminario, Girgenti era la città dei preti e delle campane a morto. Dalla mattina alla sera, le trenta chiese si rimandavano con lunghi e lenti rintocchi il pianto e l'invito alla preghiera, diffondendo per tutto un'angosciosa oppressione. Non passava giorno che non si vedessero ^ via in proces­sione funebre le orfanelle grige del Boccone del povero: squal­lide, curve, tutte occhi nei visini appassiti, col velo in capo, la medaglina sul petto, un cero in mano. Tutti, per poca mancia, potevano averne l'accompagnamento; e nulla era più triste... Chi poteva curarsi, in tale animo, delle elezioni politiche immi­nenti? E poi, perchè? Nessuno aveva fiducia nelle istituzioni, nè mai l'aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto, im­postore o ambizioso, chiunque si levasse a gridarle contro». In questa tetraggine tutti i personaggi de I vecchi e i giovani si muovono immersi in una realtà di varia miseria e inettitudine; essi agiscono a vuoto in un vano inganno verso uno scacco defi­nitivo. Il loro inetto impegno rivolto a falsi beni sconfina spes­so nella follia. Il personaggio simbolo è quello del folle che sta affacciato a un balcone, in cima alla città, di fronte ai finestroni della Cancelleria vescovile: «Esposto lì al vento furioso, il matto rideva con tutto il viso squallido e gridava agitando la coperta gialla, come per rispondere allo svolazzare dei tabarri neri dei canonici».

Parecchi anni dopo avere scritte queste pagine, Pirandello andrà ancora oltre nel suo giudizio e, dei girgentani, popolani e borghesi, che si mescolano durante la sagra del Signore della Nave, ci dà un'immagine di matta bestialità. Sia la novella, Il Signore della Nave, che è del 1915, sia l'atto unico che ne de­rivò, La sagra del Signore della Nave, che è de 1924, tendono a un valore di apologo esistenziale: questa umanità, che urnanità! Ma un'umanità così Pirandello se la trova tale e quale, proprio di prima mano, sullo spiazzo «dell'antica chiesetta nor­manna di San Nicola, che sorge un buon tratto fuori del paese, a una svolta dello stradone, fra i campi» di Girgenti. Lo scrit­tore dice: «Ho voluto osservarli apposta a uno a uno, men­tre s'avviavano al luogo della festa... scamiciati gli uomini, di­scinte le donne; teste ciondolanti, facce paonazze, occhi im­bambolati... urli di bimbi, risa sgangherate... Sotto quelle nubi divenute a mano a mano più cupe e fumolente, ho veduto poco dopo, al richiamo delle campane sante, raccogliersi alla meglio tra spinte e urtoni tutta quella folla ubriaca, e imbrancarsi in processione dietro a quel terribile Cristo... Due porcelloni, per loro somma ventura scampati al macello, sdrajati a piè d'un fico, vedendo passare quella processione, m'è parso si guar­dassero tra loro come per dirsi: Ecco, fratello, vedi? E poi dicono che i porci siamo noi».