Capitolo Primo
La Sicilia

La rivoluzione dei lumi

Un personaggio, in un romanzo che Pirandello scrisse a cinquantanni, dice: «...perchè quattro generazioni di lumi, quattro, olio, petrolio, gas e luce elettrica, nel giro di sessantanni, eh... eh... eh... sono troppe, sa? e ci si guasta la vista, e anche la testa; eh, anche la testa, un poco» \ Se si vuole, questo personaggio fu Pirandello stesso. Egli, bambino e adolescente, conobbe le lumierine antiche a olio, che in campagna lo accompagnavano a letto presto e i lumi a petrolio alti e panciuti che illuminavano la stanza di raccolta della sua famiglia girgentana. Studiò poi e si maturò e capì, a suo modo, ogni cosa, alla luce delle lampade a gas, nostrane e forestiere. E più tardi, quando aveva già stampato, in parte, i suoi volumi di poesia e si era messo a scrivere in prosa, col coraggio della sua testa guasta, fu l'epoca della diffusione della luce elettrica. E la leggenda del suo sorriso ammiccante («diabolico», amavano ripetere i cronisti) nasce sotto le luci di fotografi non del tutto smaliziati nè provvisti ancora delle attrezzature perfette per il trompe l'ceil, che era, almeno in parte, lasciato allora alla bravura di certi pittori. (Pirandello era lui stesso pittore verista). La scena di Così è (se vi pare), può illuminarsi a piacere coi becchi a gas oppure con le prime lampadine elettriche a filamento rosso. E lo choc scenico-simbolico centrale, nell'Etneo IV, è volutamente provocato dall'accendersi traumatico della luce elettrica sul palcoscenico, dove c'era stato prima l'andirivieni tenebroso della «lampa».

Si aggiunga a ciò, perchè nello stesso ordine di osservazioni, che la sua più grande gaffe, in senso culturale, Pirandello la commise quando confuse il proprio relativismo colla relatività di Einstein. Disse e ripetè infatti, nei tempi del suo successo, che, al riguardo, aveva inventato tutto da sè e che non conosceva Einstein1. Infatti non lo conobbe: nè lui, nè gli autori che, in letteratura, erano già prossimi a una contemporaneità con Einstein; o che comunque avevano cominciato a sperimentare coscientemente, nei loro libri, certe intuizioni pluridimensionali. Mentre Pirandello, a risultati del genere, giungeva da isolato, e fortunosamente, con scarsa coscienza di ciò che gli avveniva di fare.

Perchè Pirandello nacque nel cuore dell'Ottocento. Cosa di cui tutti si sono in pratica dimenticati. Egli è stato sempre, dai critici, proiettato in avanti, nel Novecento. Ma sono stati dimenticati i trentatrè anni di radici ottocentesche, quasi la metà esatta della sua vita, che sono gli anni di cui fanno parte le circostanze-destino dell'infanzia e quelli della formazione culturale. Egli poi sarà largamente influenzato da altri quindici anni di Novecento giolittiano. Nella sua opera, andrà bruciando la zavorra ottocentesca con rabbia e pentimento. Ma non sappiamo se più con rabbia o più con pentimento. Dice sempre quel suo personaggio: «Tante cose nel bujo vedevo io con quei lumi là, che loro forse non vedono più con la lampadina elettrica, ora; ma in compenso, ecco, con queste lampadine qua altre se ne vedono...».

Ottocento

Diciassette anni prima che Pirandello nascesse è la metà esatta dell'Ottocento. È il secolo ancora della Carboneria, della cospirazione, della persecuzione poliziesca, in Sicilia, del re assoluto contro gli avvocati di provincia di temperamento politico esuberante e generoso, qual era Giovanni Ricci Gramitto, nonno dello scrittore.

Un precedente della vita di Pirandello è una perfetta scena di genere, ottocentesca, completa dei sensi più romantici del secolo. Questa scena rappresenta la tolda di un veliero, una tartana; «tra le balle e il cordame incatramato», circondata dai suoi sette figli e figlie, è la nonna materna di Pirandello2. Caterina, la mamma, allora una esile fanciulla tredicenne, faceva parte di quel gruppo notturno sulla nave che da Porto Empedocle si recava alla lontana Malta degli Inglesi. Qui era da poco fuggito in esilio il capofamiglia, Giovanni, l'avvocato patriota girgentano. «La gran vela bianca della tartana sbatteva nel vento, alta alta nel cielo, come a segnar con la punta le stelle; e nient'altro che mare intorno, così turchino che quasi pareva nero». Sono le parole di Caterina. Pirandello, quando la madre morì, nel 1915, ce le ripetè (in una pagina diaristica3), come lei aveva dovuto spesso ripeterle ai figli e alle figlie mentre crescevano. Ma queste parole, la loro intonazione, nascono dall'anima di Pirandello. In esse vi è la doppia presenza di lei, donna tutta e interamente dell'Ottocento era nata nel 1836 e di lui, figlio, che tentava, in questa occasione, di esserle del tutto fedele, di mantener viva la linfa romantica delle sue radici. È una pagina che riportiamo quasi intera, perchè vi si ritrova la storia che precedette la nascita di Pirandello.

«A tredici anni, dice Caterina, con mia madre, i miei fratelli, le mie sorelle, una anche più piccola di me ed anche due fratellini più piccoli, noi otto e pur così soli, per mare, in una grossa barca da pesca, una tartana, verso l'ignoto. Malta... Mio padre, compromesso nelle congiure e per le sue poesie politiche escluso dall'amnistia borbonica dopo la rivoluzione del 1848, era là, in esilio. E forse allora io non potevo intenderlo, non l'intendevo tutto il dolore di mio padre. L'esilio far piangere così una mamma, e lo sgomento, e togliere a tanti bambini la casa, i giuochi, l'agiatezza voleva dir questo; ma anche quel viaggio per mare voleva dire, ...con l'ansia di tante cose nuove da vedere, che ci aspettavamo di vedere con certi occhi fissi fissi che per ora non vedono nulla, fuorché la mamma là che piange tra i due figli maggiori che sanno e capiscono, loro sì... e allora noi piccoli, le cose da vedere di là, nell'ignoto, pensiamo che forse non saranno belle. Ma l'isola di Gozzo, primapoi Malta... belle! con quel paesello bianco di Bùrmula, piccolo in una di quelle azzurre insenature... Belle da vedere le cose, se non ci fosse la mamma qua che seguita a piangere. E poi presto dovemmo capire anche noi piccoli, non più piccoli presto. Venivano i grandi, nella nostra casa, a trovare mio padre; e tutti erano tristi e cupi, come sordi; e pareva che ciascuno parlasse per sè a quello che vedeva: la patria lontana, ove il dispotismo restaurato faceva strazio di tutto; e ogni loro parola pareva che scavasse nel silenzio una fossa. Loro erano qua, ora, impotenti. Nulla da farci! E chi, appena poteva, per non struggersi in quella rabbiosa disperazione, partiva per il Piemonte, per l'Inghilterra... Ci lasciavano. Con sette figli e la moglie, mio padre che altro poteva, se non dire addio a tutti quelli che se ne andavano, addio anche alla vita che se n'andava? La rabbia e il peso di quell'impotenza, l'avvilimento di vivere dell'elemosina d'un fratello che era stato costretto a cantare nella Cattedrale con gli altri del Capitolo il Te Deum per Ferdinando lo stesso giorno della partenza di lui per l'esilio; un cordoglio senza fine, la sfiducia che non avrebbe veduto il giorno della vendetta e della liberazione, ce lo consunsero a poco a poco, a quarantasei anni. Ci chiamò tutti intorno al letto il giorno della morte e si fece promettere e giurare dai figli che non avrebbero avuto un pensiero che non fosse per la patria e che senza requie avrebbero speso la vita per la liberazione di essa. Ritornò la vedova, ritornammo noi sette orfani in patria, mendichi alla porta di quello zio che finora ci aveva mantenuti nell'esilio: veramente santo, veramente santo, perchè il bene che ci fece e continuò a farci senza mai un lamento, era a costo per lui di paure da vincere ogni giorno, d'offese da sopportare facendo finta di non notarle, offese alle sue abitudini, alle sue opinioni, ai suoi sentimenti... Tante volte tu (Caterina sta parlando con Luigi) sentisti dire da me: «Lo zio Canonico!» Ma che puoi sapere di quella sua casa antica, com'era, che sapor di vita vi alitava, com'era lui piccolo (grande di busto, piccolo di gambe), così piccolo piccolo che in piedi era più corto che seduto, ma bello di volto, e poi con un certo suo curioso intercalare: «Cattaui Cattari! Avrei potuto giurare, effettivamente...»

- mentre si guardava le unghie, con gli occhi bassi. E la paura che aveva dei tuoni! E certe prepotenti curiosità proibite che lo traevano a leggere di nascosto nella Battaglia di Benevento la storia dei papi e di tratto in tratto lo sentivamo gridare, mentre richiudeva di furia il libro e vi dava un pugno sopra: «Ma questo è un pazzo!» e poco dopo tornava a leggervi daccapo. Povero zio! Fummo pure ingrati qualche volta... quella volta per esempio, che la sbirraglia borbonica venne a fare una perquisizione anche nella casa di lui, per i miei fratelli ch'erano già cresciuti e congiuravano, e io giovanetta, nel vederlo troppo impaurito e troppo ossequioso tremare innanzi a quei musi, gli gridai: «Ma non abbia paura lei! Tanto lo sanno bene che lei andò a cantare il Te Deum alla Cattedrale quando suo fratello fu mandato in esilio!» E lui, poverino, mogio, mogio, s'allontanò esclamando e guardandosi le unghie:

- «Cattari, che femmina, Cattari che femmina!». Eh sì, troppo veramente mi doleva d'essere donna allora e di non poter seguire i miei fratelli! Io la cucii quasi al bujo, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il più piccolo mio fratello insieme con gli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato incontro al presidio borbonico, nella stess'ora che a Palermo un altro mio fratello doveva irrompere dal convento della Gancia; e qua da noi, in provincia, di tanti che avevano giurato di scendere in piazza armati si trovarono in cinque soltanto contro duemila borbonici. Tu puoi intenderla la nostra ansia mortale, in quel giorno, per questi due fratelli, uno qua, l'altro là... Quando, dopo lo scampo miracoloso dei miei fratelli, i gendarmi ritornarono a perquisire la casa, mia madre ci dispose, noi figliuole, ciascuna presso un balcone e ci ordinò: — «Se vi mettono le mani addosso, buttatevi giù». Fiera donna di stampo antico, mia madre!...»4.

Il patriottismo della famiglia materna di Pirandello (che si deve nettamente distinguere, per qualità, dal patriottismo del padre, nipote di genovesi), risalendo alla prima metà dell'Ottocento, seguì la linea di svilupppo della vicenda politica siciliana, che procedeva secondo particolari sollecitazioni storico-ambientali. Il nonno materno fu separatista: avvocato di Girgenti, fieramente antiborbonico ce lo dimostrano i fatti romanticamente cantò in poesia il suo odio politico. Si trovò fra i più influenti organizzatori del moto quarantottesco palermitano e fu ministro del governo provvisorio di Ruggiero Settimo'.

Il programma pubblicato da Ruggiero Settimo era un programma moderato e nettamente separatista (nè valsero certo le lettere che Mazzini inviava da Londra a persuadere i Settimo, gli Scardia e i Ricci Gramitto alle idee dell'unità e della repubblica). È utile ricordare questo fondamento autonomistico profondamente radicato nell'anima dell'Ottocento siciliano e della stessa famiglia di Luigi Pirandello perchè esso sarà una componente essenziale del sicilianismo dell'autore de I vecchi e i giovani, e poi, più sfumato e quasi metaforizzato, esso riapparirà nel discorso per Verga. Pirandello rivivrà e riverserà nelle pagine del suo romanzo il suo sicilianismo, perchè in lui era disceso dalla madre e dagli zii materni, che, al letto di morte di Bùrmula, avevano giurato fedeltà al testamento politico di Giovanni Ricci Gramitto. Dopo aver partecipato infatti dell'illusione unitaria, essi se lo ritrovarono intatto ad ogni occasione, ad ogni tradimento perpetrato ai danni della Sicilia, da parte dei Piemontesi prima, e dei successivi governi unitari dopo, fino a quella rivolta dei Fasci siciliani che Pirandello animosamente descriverà, da un punto di vista in gran parte sicilianista, nel suo romanzo.

Quando il governo, nel '48, era passato da Ruggiero Settimo nelle mani più democratiche del Cordova, Giovanni Ricci Gramitto se ne ritirò, perchè la sua parte non era la democratica. Egli era infatti, per la sua professione e per la sua clientela, nell'orbita di quella classe che monopolizzava le risorse produttive siciliane, consistenti allora soprattutto nello sfruttamento della proprietà fondiaria. E l'odio ai Borbone nasceva in questa classe da tutta una serie di provvedimenti economico-politico-amministrativi, che la Monarchia napoletana aveva promulgato ai danni della Sicilia, ridotta a un regime semicoloniale, di cui soffriva più degli altri il ceto della borghesia. Anche l'ascendenza borghese-moderata di Pirandello non va trascurata, perchè è piuttosto importante rilevare che non è esattamente la tradizione democratica che giunge per le vene ereditarie fino allo scrittore, il quale conserverà spiccati tratti familiari nelle sue opinioni politiche.

Il 1860

Per la famiglia numerosa di Giovanni Ricci Gramitto la partecipazione politica alla lotta antiborbonica e contemporaneamente e successivamente anche alla battaglia laica anticlericale e antipapalina, che fu poi, maturatisi i tempi, quella garibaldina e del Partito d'Azione ebbe ragioni che furono per metà ideologiche e per metà familiari e private. Il Borbone, personalmente, aveva approvato le liste di proscrizione e aveva escluso, con altri quarantadue, dall'amnistia Giovanni Ricci Gramitto, e, così facendo, lo aveva ucciso. Perchè si era trattato in pratica dell'inflizione di una pena di morte civile presto seguita dalla morte reale. Giovanni morì infatti giovane, a quarantasei anni, di crepacuore, per colpa del re di Napoli. Il lontano re fu inoltre la causa della permanente miseria della famiglia Ricci Gramitto che era vissuta fino allora agiatamente delle rendite fondiarie e ora subiva l'umiliazione, anche nel teatro del parentado, di vivere della beneficenza di uno zio prete e borbonico, che, per quanto santo, e pauroso dei tuoni, non cessava per questo di essere borbonico e prete. (Quelli come lui, a Girgenti, li chiamavano «malva»). Sussistevano tutte le circostanze e i moventi per una vendetta siciliana.

Certo è che tutti e sei i figli di Ricci Gramitto, i maschi e le femmine, e la loro madre, Anna Bartoli, furono dei pochissimi che congiurarono attivamente, che parteciparono di persona agli avvenimenti della rivoluzione antiborbonica a Girgenti. Dove, se mai, secondo l'opinione di Pirandello, suffragata del resto sufficientemente dalla cronaca, abbondarono le spie e i delatori. A costoro allude scopertamente Pirandello ne I vecchi e i giovani5 e in una novella del 1909, intitolata Tonache di Montelusa2 (Montelusa è Girgenti). Qui egli irride all'assenteismo patriottico dei suoi concittadini; dice che essi «il fervido amore della libertà non avevano potuto dimostrare altrimenti che con una cacciata di frati, eseguita a furia di popolo, quando scoppiò la rivoluzione; giacché al primo annunzio dell'entrata di Garibaldi a Palermo, s'era squagliata la sbirraglia, e con essa la scarsa soldatesca borbonica di presidio»6. E parla di una razza di spie proliferante nel convento dei Liguorini: «Vive orrenda tuttora negli animi la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dai Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s'erano fatti strumento».

Gli eredi di Giovanni Ricci Gramitto custodiron nel cuore il rancore con repressa violenza e tutti scattarono feroci nell'impresa garibaldina. Tanto accanimento personale, l'insinuazione nel sangue familiare, e non solo nella testa, della rivendicazione patriottica, si deve intendere in tutta la sua intensità e in tutta la sua possibilità di trasmissione ereditaria; perchè, se no, non si potrà spiegare il radicato, integro e candido patriottismo risorgimentale contraddittoriamente presente in un Pirandello maturo, e prossimo ai cinquant'anni, quando era ormai più propenso a rovesciare i miti che a conservarli. Attraverso la madre soprattutto, ma anche in tutto quel clima di partecipazione ben vivo ancora nella casa di ognuno degli zii materni per non dire del padre, anch'egli garibaldino, ma di tipo alquanto diverso Pirandello aveva appreso presto, nell'infanzia e nell'adolescenza, il comandamento patriottico e ne fu influenzato secondo un behaviourismo abbastanza scoperto. Non fu la sua una vera e propria educazione ideologica: non c'erano in casa, morto il nonno, troppi libri utili in questo senso: La battaglia di Benevento e la Bibbia\ Fu un'educazione che giocò su meccanismi spiccatamente affettivi e il garibaldinismo di queste origini riaffiorerà infatti nei I vecchi e i giovani, come negli scritti accesi del periodo della guerra, con le caratteristiche della immediatezza e della irriflessione.

Per tornare allo zio canonico, egli fece quanto poteva per rieducare quei nipoti irriducibili, per restituirli al buon senso e all'opportunismo. Su due di essi, Vincenzo e Innocenzo, tentò un'operazione radicale: li mise in seminario. Solo che Vincenzo, toltasi alla prima occasione la tonaca, fu colui che, quasi solo, quel 4 aprile del 1860, uscì contro i borbonici della guarnigione girgentana, con in tasca le bandierine tricolori cucite dalla ventiquattrenne sorella Caterina, mentre Innocenzo, questi forse miglior seguace di quelle lezioni di buon vivere dello zio, fece, dopo il '60, la sua brava carriera militare fra i regolari dell'esercito italiano, e secondo la testimonianza di Stefano, figlio dello scrittore, che udì raccontare dalla nonna stessa questi fatti, si trovò veramente (e non «per supposizione», come dice Pirandello1 ), ad Aspromonte, col grado di tenente dei bersaglieri, fra i soldati «fucilatori di Garibaldi», ed, eventualmente, del proprio fratello e del proprio futuro cognato. La reazione della madre che lo escluse per anni e anni dalla famiglia e dal proprio cuore non appare perciò ingiustificata.

Di quest'epoca, che precede la nascita dello scrittore, Caterina raccontava a Luigi piccolo, e poi ai figli di lui, altri particolari2: che tra i compagni d'esilio di Giovanni Ricci Gramitto vi era stato anche Francesco Crispi, che poi, da Malta, con altri, si era rifugiato a Londra; che quando Giovanni Ricci Gramitto era morto, per pagarne i funerali, fu necessario fare una colletta fra gli esuli; e che lo zio canonico, che aveva avviato alla carriera ecclesiastica i nipoti Vincenzo e Innocenzo, aveva fatto studiare anche gli altri due, Francesco e Rocco, i quali erano diventati avvocati. Quanto a lui, al canonico, finì per morire in fama di santo: «E c'era chi affermava d'averlo visto, morto, levitato sul letto»® (Pirandello nasce da Santi e da eroi!).

Rocco che era stato fra gli organizzatori della rivolta fallita della Gancia a Palermo, si era dato alla macchia associandosi poi alle bande di Rosalino Pilo. Vincenzo, con gli altri suoi compagni, inseguito dalla gendarmeria borbonica, dopo avere attraversato avventurosamente la Sicilia, aveva raggiunto anche lui quel Rosalino Pilo, che ogni notte illuminò di fuochi minacciosi l'anfiteatro di montagne intorno a Palermo, fino a che non arrivò il Generale. I fratelli Ricci Gramitto seguirono i Mille fino a Napoli. Nel '62, ad Aspromonte, Rocco fu luogotenente di Garibaldi7, ed «ebbe come scriverà Pirandello la ventura di raccogliere in quella infausta giornata lo stivale forato e insanguinato del Generale»8. Fatto prigioniero, volle salvare il sacro cimelio, che poi custodì in una vetrina e lasciò in eredità a Pirandello, che, dopo averlo «religiosamente custodito», alla fine ne fece dono al Municipio di Roma-fatti questi che fanno luce direttamente sul temperamento di un uomo e di un'epoca. Fu portato a La Spezia, poi al Forte Ratti di Genova, e quindi nella caserma di San Benigno. Nel periodo che precedette l'episodio di Aspromonte, egli aveva conosciuto Stefano Pirandello, il padre di Luigi. Stefano, palermitano, aveva partecipato, nel '60, alle battaglie di Palermo, di Milazzo, di Reggio, e del Volturno. Adesso, dopo Aspromonte, era ritornato a casa. Rocco, liberato il 6 ottobre del 1862, gloria cittadina, fu accolto a Girgenti trionfalmente. Stefano allora vi si trovava per affari. Il figlio di Pirandello racconta3: «Il popolo lo aveva portato in trionfo fino alla casa dove la mamma e le sorelle aspettavano il reduce, e così, in quel momento di esultanza, s'eran veduti la prima volta Stefano e Caterina: lui bello, e lei no, tranne gli occhi. E poi, ormai a ventott'anni si considerava già una vecchia zitella; la gioventù l'aveva data alla Patria. Quando Stefano, seduta stante, chiese la sua mano, credeva che scherzasse. Fu un matrimonio patriottico. La mamma rideva e scoteva il capo, nel ripensarci. Bei giorni di fervore: tutte le forze sane, tutti i credenti dovevano riunirsi nell'opera sacra di fare l'Italia, e poi farla grande».

La peste

Stefano e Caterina si sposarono nel novembre del 1863. Luigi nacque, secondogenito, il 28 giugno del 1867. Se fosse nato per primo si sarebbe chiamato Rosalino, chè Rosalina si chiamò, in onore e memoria di Rosalino Pilo, la sorella, nata poco più di un anno prima. È da notare che il nome di Rosalina è un nome in Sicilia inedito, inventato da Stefano e Caterina, che, dopo meno di due anni di matrimonio, ancora patriotticamente tubavano; ed è un'innovazione, dal lato semantico, nata, se si vuole, per forza di avvenimenti storici: la cattolica martire Rosalia, patrona secolare di Palermo, aveva predestinato al suo nome, con altre molte migliaia, anche l'eroe di Monreale; costui, col suo morire laico e garibaldino, aveva in un certo senso desantificato quel nome, e, così dissacrato, esso sarebbe venuto sul fonte battesimale del primogenito dei due patriottici sposi: Rosalino se maschio, Rosalina se femmina. Ma, sempre dal punto di vista semantico, si tratta di un fenomeno riassorbito. Luigi nacque dopo ed evitò la stigmata patriottica, insieme agli altri suoi fratelli, che si chiamarono, secondo il calendario tradizionale, Annetta, nata dopo due anni, Innocenzo, che sarà minore di sette anni, Adriana, che morirà di quattro anni, e Giovanni, il più piccolo, nato nel '77. Rosalina divenne subito Lina. «Villa Lina» fu ribattezzata, in onore della piccola, la rusticana cascina del Caos, che Caterina aveva portato in dote, e «Lina mia» Luigi chiamerà sempre la quasi coetanea sorella, a lui molto cara, nelle lettere che le invierà, studente, da Palermo, da Bonn e da Roma. La figlia di Pirandello poi si chiamerà, concluso il labile ciclo, Lietta, o Lia, e cioè Rosalia, come la secolare patrona di Palermo. Luigi evitò il nome, che probabilmente gli avrebbe dato qualche fastidio, ma le altre circostanze della sua nascita non furono altrettanto fortunate.

All'incirca nei giorni in cui fu decisa la sua venuta al mondo, a Palermo scoppiò una rivolta repubblicana che si diffuse a mezza Sicilia, e poco mancò che trasformasse «tutta la Sicilia in un incendio»9; anzi, nelle intenzioni dei sobillatori, tutta l'Italia avrebbe dovuto incendiarsi. Tardando la repressione, Luigi sarebbe nato repubblicano. Questa volta però nè i Ricci Gramitto nè i Pirandello parteciparono ai fatti: e come avrebbero potuto se si trattava di una repubblica che sarebbe nata dalle mene dei legittimisti e dei preti? Questi avvenimenti non avrebbero nulla a che vedere con la nascita di Luigi se la rivoluzione non avesse fatto progredire e avanzare, questa sì, in tutta la Sicilia, l'epidemia di colera che, scoppiata in vari punti della Penisola, fino a quel momento era stata contenuta fuori dall'Isola con una accurata sorveglianza dei porti. Ma appena arrivato sulle banchine il corpo di spedizione che doveva reprimere la rivolta, venne meno il controllo sanitario; e il colera, portato dagli stessi soldati, si diffuse rapidissimamente man mano che le truppe percorrevano le campagne e i paesi in cerca di rivoltosi e di renitenti. La morte colpì fittamente e la situazione non era meno triste che altrove a Girgenti e a Porto Empedocle. Mentre si avvicinava il giorno della venuta al mondo di Luigi, in Sicilia proprio dall'ottobre 1866 all'agosto 1867 morirono 53000 persone10. Tutti cercavano di abbandonare i luoghi abitati. Se i ricchi fuggirono, chi a Roma, chi a Marsiglia, qualcuno a Londra e a Costantinopoli11, gli altri, chi poteva, si rifugiava in campagna. Fra questi saranno i Pirandello.

Si credeva popolarmente che fosse il governo a diffondere il colera, per ovviare in qualche modo alla pressione demografica e soprattutto per arricchirsi col moltiplicato gettito fiscale delle tasse di successione. Racconta un cronista continentale di quei giorni: «A Catania, a Girgenti, altrove, vidi uomini distintissimi in fuga per sottrarsi alle pugnalate di cui erano minacciati come fautori del cholera»9. Stefano Pirandello, sempre in giro, finì per essere contagiato.

Per non spaventare la moglie, si recò presso un cognato (don Diego Vassallo) e le mandò a dire di essersi dovuto recare all'improvviso a Palermo. Dalla casa ospite, inviava messaggi rassicuranti a Caterina che non sospettò nulla dell'infortunio capitato al marito. Quando questi, dopo un mese, guarì e tornò a casa, il suo volto doveva essere particolarmente emaciato, perchè la sposa ne provò una violentissima emozione. Trasferitasi al Caos, con la piccola Lina, Caterina che vi era stata trasportata in lettiga, dopo sei giorni, tutta sola e prematuramente diede al mondo Luigi, «alle tre e un quarto antimeridiane», come afferma l'atto di nascita, mentre un fratello di lei si aggirava con una lanternetta per la campagna, alla ricerca di una donna che facesse da levatrice. Il venire al mondo prematuramente può predestinare in un senso piuttosto che in un altro il destino psicologico di un uomo12. E una tale premessa si ritrova sulla soglia dell'inquieto divenire psicologico dell'uomo Pirandello.

Pirandello poi, vecchio, cominciando a scrivere un romanzo autobiografico che non potè finire, rievocherà molto più poeticamente la sua nascita: «Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d'olivi saraceni affacciata agli orli d'un altipiano d'argille azzurre sul mare africano. Si sa le lucciole come sono. La notte, il suo nero, pare lo faccia per esse che, volando non si sa dove, ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde. Qualcuna ogni tanto cade e si vede allora sì e no quel suo verde sospiro di luce in terra che pare perdutamente lontano. Così io caddi quella notte di giugno, che tant'altre lucciole gialle baluginavano su un colle dov'era una città la quale in quell'anno pativa una grande morìa. Per uno spavento che s'era preso a causa di questa grande morìa, mia madre mi metteva al mondo prima del tempo previsto, in quella solitaria campagna lontana dove si era rifugiata. Un mio zio andava con un lanternino in mano per quella campagna in cerca di una contadina che ajutasse mia madre a mettermi al mondo. Ma mia madre già s'era ajutata da sè e io ero nato prima che mio zio ritornasse con la contadina. Raccattata dalla campagna, la mia nascita fu segnata nei registri della piccola città situata sul colle. Tra i tanti che in quell'anno giornalmente vi morivano, uno che nasceva era come una riparazione da tenerne più conto quanto più insufficiente e meschina. Io penso però che sarà cosa certa per gli altri che dovevo nascere là e non altrove e che non potevo nascer dopo nè prima; ma confesso che di tutte queste cose non mi sono fatta ancora nè certo saprò farmi mai un'idea...».

Più epigraficamente, Pirandello aveva dettato a Bonn, per l'esame di laurea: «Natus sum Aloysius Pirandello Agrigenti anno huius sseculi sexagesimo septimo e patre Stephano ICto, matre Catherina»13. E, con qualche civetteria, due anni dopo, a un amico romano: «... Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perchè son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Xàos...»'.

Stefano Pirandello

La prima infanzia di Pirandello è tutta un segreto. Se, come vorrebbe un freudiano quasi ortodosso, il Marcuse, «il destino dell'individuo è suggellato fra i due e i cinque anni»14, e in questi si ritrova la preistoria di ogni uomo, anzi la storia, il modulo, che si ripeterà in varia maniera, «in fioriture posteriori che non sono molto più che variazioni, orchestrate più o meno doviziosamente, di quella prima fioritura precoce», dobbiamo confessarci che nulla sappiamo della preistoria, e anzi della storia, di Pirandello. Possiamo quindi soltanto cercare di raccoglierne indizi nel paesaggio di tutte le altre rinnovantisi fioriture ne varietur.

Quasi nulla più è possibile sapere di Pirandello bambino dai due ai cinque anni. Della sua ancor più remota infanzia ci si tramanda che, di pochi mesi, in braccio a una donna di casa, egli assistette a un'ecclisse di sole che si stampò nella sua memoria per sempre. Così trascrive l'episodio il biografo autorizzato di Pirandello, il Nardelli15: «Cresciuto all'età del giudizio, Luigi disse un giorno alla madre sua Caterina: Mamma, ti ricordi?... a Porto Empedocle avevamo una casa così e così... Ti ricordi? C'era una camera da pranzo con un tramezzo di legno che pigliava tutta una parete? Questo tramezzo aveva un occhio, un grosso ovale di vetro per dar luce a due camerini retrostanti? Infatti in quei camerini dormivano le donne di servizio della casa. Sì, mi ricordo disse la madre. E sforzando la memoria eccitata dalle indicazioni del figlio rivedeva i luoghi dimenticati. E ti ricordi dell'ecclisse? Ecco, la madre si rammentò d'un anno che c'era stata una totale ecclisse di sole. Io ero in braccio a Filippa. Filippa era una serva, rimasta poi sempre in casa, di quelle devote femmine che invecchiavano (talvolta ce ne sono ancora) al servizio d'una famiglia. Ti ricordi che accendeste il lume? Sì, mi ricordo. E la madre, dopo avere, sulle parole del figlio, inalzato la memoria dei luoghi e dei fatti fino al veder in luce il passato, fece il calcolo degli anni. L'ecclisse era venuta nel '68, e precisamente ai primi di febbraio. Luigi era nato nel '67, di giugno. Egli aveva dunque, il giorno dell'ecclisse, otto mesi... Al tempo dell'ecclisse don Stefano, per essere vicino allo zolfo, aveva preso in fitto la casa Montoro a Porto Empedocle. E il Nostro v'era stato allattato».

Nell'ombra vaga dell'infanzia di Pirandello, si profila un drammatico contrasto che non fu mai risolto. Luigi è un bambino minuto, gracile, sempre in cerca di un più di affetto. L'affetto della madre non gli basta; rappresenta appena uno dei muri della stanza in cui egli, nato senza corazza, vuole assicurarsi. Questo improrogabile bisogno di una sicurezza che corrisponda alla sua attesa fiduciosa, di una tenerezza certa che lo circondi nel giro breve delle presenze familiari, non regge all'urto quotidiano con la durezza estranea del padre. Un uomo, questi, tutto diverso, alieno dalle effusioni affettuose, rude e distratto: fisicamente enorme, pieno di violenze e lieto di stare con gli altri «omaccioni», e fuori, più che dentro casa. Pirandello, in Lontano, ci parlerà di questi uomini siciliani di quel tempo, che avrebbero trovato avvilente e poco virile stare in casa insieme alla sposa e ai figli bambini. Quel simbolico personaggio, il marinaio nordico capitato a Porto Empedocle, che vorrebbe trascorrere il tempo libero con la propria famiglia, tra l'affetto dei suoi, viene scacciato dalla moglie, siciliana ed educata in quel certo modo: «Un omaccione tanto, che se ne sta in casa come un ragazzino, Dio benedetto! Impara un po' a vivere come i nostri uomini: più fuori che dentro. Non posso vederti così. Mi fai rabbia e pena».

Stefano, il padre di Pirandello, era un vero personaggio. Nato a Palermo, diciottesimo di una stragrande famiglia, ventitré furono i suoi fratelli vivi e morti, dovette farsi da sè. Quando era morto, giovane di quarantasei anni, nel colera del 1837, il padre Andrea, figlio di liguri di Pra, emigrati in Sicilia a metà del '700, egli era bambino di due anni appena. Il fratello maggiore, Felice, si era impadronito, con volontà salda e prontezza di mano degna di tempi machiavellici, del maggiorasco già abolito dalla legge e dell'asse ereditario. Per sistemare le cose legali in modo a lui favorevole, non comunicò la morte del padre ai fratelli che erano, per il colera, fuori Palermo, a Santa Flavia, e ne tenne tre giorni in casa la salma. Poi, quando ebbe sistemata ogni cosa, mise i fratelli di fronte al fatto compiuto. Diresse quindi l'azienda, un commercio di agrumi e di zolfo, facendosi aiutare dagli altri in subordinazione. L'ultimogenito, Stefano, appena in età adatta, fu, con gli altri, impiegato a quel lavoro. Stefano ebbe un temperamento avventuroso: era generoso e duro e sprezzante, secondo il caso. O anche ingenuo e alieno da furberie troppo sottili. Quando, nel '60, Garibaldi giunse a Palermo, egli fu un venticinquenne picciotto, capace di bei gesti. Si battè per tre giorni contro i borbonici al ponte dell'Ammiraglio e al campanile dell'Origlione, convento del quale era badessa la sorella Francesca. In via Papireto, rimasto solo, allo scoperto, sotto i colpi dei soldati borbonici asserragliati dietro la cattedrale, fu tratto fuori dal pericolo da Garibaldi in persona, che però gli si sostituì. Per simpatia e gratitudine, Stefano, arruolatosi nel corpo dei carabinieri genovesi, seguì il generale, e si battè a Milazzo, a Reggio e al Volturno. Poi, due anni dopo, fu con Garibaldi ad Aspromonte. Di qui, con comportamento meno legalitario e da parata, ma certo più pratico di quello del futuro cognato Rocco, preferì fuggire a casa, anziché darsi prigioniero ai soldati del re. Infatti fu, anche come garibaldino, piuttosto diverso dai Ricci Gramitto. Castoro, sicilianamente, amarono, nella loro partecipazione alla lotta politica, non disperdere il valore delle forme, pur nella pratica positiva sostanza del loro agire. Come Giovanni Ricci Gramitto aveva fatto precedere la sua partecipazione alla rivoluzione antiborbonica da una produzione di poesie politiche e da un programmatico congiurare; come Caterina aveva preparato le bandierine per i fratelli che congiuravano nel '60, così Rocco aveva voluto godersi, con gusto pieno delle responsabilità formali, sei mesi di carcere a San Benigno. Per questo diciamo che Pirandello apprese la lezione siciliana soprattutto dai Ricci Gramitto. Stefano invece istintivo e pratico, mezzo-sangue: ligure-siciliano, e poco umanista nelle premesse, anche se un umanista famoso come Gaetano Daita era stato suo maestro (ma gli aveva insegnato le nozioni tecniche del commercio e il francese e l'inglese), preferì rendersi utile toto corde e poi involarsi. Egli fu piuttosto un garibaldino alla Bixio Bixio che uccide la giumenta che gli nitrisce troppo sotto gli sproni, quello pronto di mano anche sui suoi, non patetico nè sentimentale -. Episodi successivi, che vedremo, della sua vita non più garibaldini! ci confermano in questa ipotesi.

Stefano, tornato a casa, fu, da Felice, inviato a Girgenti a sorvegliare delle zolfare prese in affitto. Qui, come si è visto, nel '63, sposò (aveva 28 anni), Caterina Ricci Gramitto.

Pirandello, bambino ingenuo, candidamente desideroso d'amore, si ebbe addosso l'ombra di questo grande padre noncurante e prepotente che tale a lui doveva apparire il quale, dopo che coi borbonici, ebbe a che fare, e vittoriosamente, anche con la mafia dello zolfo. Fu «sparato» e sparò contro chi voleva imporglisi con prepotenza.

Anche questo episodio ci è raccontato dal Nardelli16: «Nel '67, l'anno che Luigi nacque, don Stefano aveva preso in affitto una zolfatara detta la Petrusa e aveva avuto la ventura di trovarvi una vena straricca di minerale. Risaputasi la cosa, un tal Cola Camizzi, capo e terrore della mafia di Girgenti, esperto nel tenersi o bene o male frammezzo ai proprietari delle cave ed ai magazzinieri che taglieggiava, s'accostò a Stefano in un luogo solitario (voleva cercargli denaro) e attaccò discorso con una uscita volgare. Fece, alla brava: Caro Pirandello, per aver fortuna colle zolfare ci vuol... E così dicendo si toccò il posteriore. Ma il garibaldino, a una cotal sgraziata presa di contatto, reagì senza preamboli. E menò al Cola uno schiaffo che lo fece girare su di se stesso.

Questi rimase stordito, dalla sorpresa forse anche più che dal colpo. E fra sè, forse per convincersi della realtà di quanto insolitamente gli accadeva, badava a dire: A Cola Camizzi una t imputata...

Non una, ma cento ribattè Stefano e nei fatti gli sbattè le mani in testa tanto e tanto che lo lasciò per terra colla faccia gonfia.

Poi se ne andò a badare ai propri affari. Entrò in un deposito di zolfo sulla spiaggia. Il deposito era costituito di cataste che facevano una chiusa intorno allo spiazzo libero ch'è detto bagliu dove son le stadere pel peso. Là il combattivo s'incontrò e s'intrattenne con un depositario, tal Veronica. E ambedue passeggiando trattavano il prezzo dello zolfo abbassato (messo in deposito), quando udirono spari fuor della chiusa. Il Veronica s'incuriosì. Stefano mangiò la foglia ma si tacque. Un inserviente escito all'aperto in ricognizione tornò dicendo: È Cola Camizzi che prova lo schioppo.

Pensarono che s'apparecchiasse per la caccia. In silenzio tuttavia e senza ch'altri se n'avvedesse Stefano Pirandello tolse dalla cintura la rivoltella e se la mise nella tasca esterna della giacca. Seguitò intanto a passeggiare col Veronica non ammettendo forse per dispregio l'immediatezza del pericolo.

Ma d'improvviso, procedendo i due affiancati nella chiusa, udiron gridare: Largo! Largo! E non ebbero tempo di voltarsi che videro la carabina puntata. Il Cola, riparato dalle cataste, s'era avvicinato tanto che ora teneva il suo nemico a tiro. Il Veronica si scansò dal compagno. Che nell'impossibilità d'impugnar arme fece in tempo a guardar la bocca della canna: e come vide il fuoco scattò voltandosi di lato e si riparò il cuore con il braccio.

Di fatto incassò due colpi. Raccontano che intanto gridasse: Spara, carogna!

Da una palla ebbe intaccato l'osso e i tendini tanto che gli rimase offeso un dito della mano. L'altra palla, trapassato il bicipite, gli entrò nel petto e andò a spiaccicarsi contro una costola.

Stefano cadde sulle ginocchia. E il Cola, gittato il fucile, veniva innanzi colla rivoltella per finirlo. Se non che l'inserviente prima andato in ricognizione, lo stesso ch'aveva creduto i colpi esser prove, raccolse lo schioppo in terra e manovrandolo come una clava lo dette in testa al Camizzi.

Questi allora barcollando fuggì: e il ferito per venti passi gli tenne dietro sparandogli a vuoto i sei colpi della rivoltella, prima di svenire pel sangue perduto. Le genti del luogo recarono quindi don Stefano a casa, alla moglie. In sulle prime i medici volevano amputare il braccio; invece poi cambiarono idea. Ma a donna Caterina, ch'allattava, per lo spavento il latte si fece acqua.

E così accadde che Luigi, nato senza levatrice, avesse pure il disguido di perdere la mammella materna.

Fu dato a balia. Il Cola ebbe sett'anni di carcere. Quando esci fu spedito fuor di Girgenti perchè Stefano aveva giurato d'ucciderlo. Il Cola andò a chiudersi nelle zolfare lontane di un tal Di Giovanni e nell'oscurità vi si spense».

Stefano insomma era l'altra faccia dell'uomo di rispetto. E si sa che una persona di rispetto non può essere insieme un padre carezzevole e affettuoso. Amerà i propri figli, ma non lo farà in maniera espansiva. Il muro di vetro fra Luigi e il proprio padre non si dissolse mai, anzi crebbe di spessore e di altezza col passare degli anni e divenne alla fine, per altre circostanze, insormontabile.

Fino a che un giorno Pirandello, un giorno degli ultimi della sua vita, confesserà pubblicamente (su L'Illustrazione Italiana del 23 giugno 1935): «Ricordo che da bambino avevo piena fiducia che avrei potuto farmi intendere da chiunque. Un'ingenuità, che naturalmente mi costò amarissime delusioni. Ma di qui trassi lo stimolo ad affinare le mie facoltà espressive, e anche il bisogno di studiare gli altri per rendermi conto di coloro con cui avrei avuto da fare: fermo sempre nella fede incrollabile di poter comunicare quando che sia tutto a tutti.

E per questo posso dire d'aver lavorato da allora. Piccino, mi tornava difficile persino con mia madre; e con mio padre m'appariva impossibile non già mentre mi ci preparavo, ma all'atto della prova, che il più delle volte finiva miserabilmente. Molto debbo a lui, come artista, per le angosce spasimose di quei momenti».

Questa è un'importante confessione. È degli ultimi giorni; ma la si può mettere qui, al principio17, a illuminarci molti fatti idiosincratici della vita e dell'opera di Pirandello. Quante volte vediamo, nell'opera dello scrittore, l'uomo ridotto a miserabili proporzioni; visto piccolissimo, col telescopio, da distanze siderali! Questa del telescopio è un'immagine ritornante di masochismo: tutte le prospettive del mondo si pongono secondo un angolo di umiliazione.

Il parroco e il vescovo

L'infanzia di Pirandello è illuminata anzitutto da due episodi che, radicalmente, senza possibilità di equivoci, ci dimostrano, in Pirandello bambino, una precocità eccezionale del temperamento morale (o del super-io, se si vuole), una fiducia senza compromessi, e una sensibilità del candore che con tutta facilità si feriva e traumatizzava.

Una donna serviva in casa Pirandello in quegli anni, che si chiamava Maria Stella. Era una popolana, ma aveva sufficiente spirito per volere soffrire e godere insieme al bambino sensibile e precoce certi suoi orrori superstiziosi e certe sue propensioni cattolico-mistiche da contadina tanto più che in casa Pirandello Iddio taceva. Maria Stella si sentiva un po', in quella casa, confusamente, come una missionaria, e padre Sparma, beneficiale di San Pietro, la chiesa che apriva la porta a poca distanza dalla casa di Luigi, la incoraggiava nell'opera apostolica.

Pirandello imparò piccino da lei anche a credere negli spiriti. Gli spiriti sono quello che sono; ma la loro è una concreta inconcretezza, e possono, evocati oppure no, presentarsi in un momento o nell'altro, opportuno o inopportuno, e dire la loro. Insomma, estetica idealistica aiutando a bruciare il principio superstizioso, sono personaggi in potenza... Ma, a parte lo scherzo, anche gli spiriti positivistici e capuaniani riappariranno nell'opera di Pirandello e, oltre quelli che muovono le seggiole, tirano le coperte del letto, scuotono i mobili e suonano i campanelli nella girgentana Casa del Granella, a parte le Donne folcloristico-popolari della Favola del figlio cambiato (a proposito della quale lo scrittore rievocherà: «...mi ricordo da bimbo, a Girgenti, di essere stato portato in una casa a vedere un fatto strano. Un bambino in fasce che dormiva nella stanza coi genitori, era stato trovato all'alba in cucina... tutti dicevano ed erano convinti che fossero state le Donne18...»), un'aura spiritica aleggerà nella novella àe\YAngelo Centuno, e soprattutto nel Corvo di Mìzzaro dove «Ciche... ci credeva, e come! agli Spiriti. Perfino chiamare s'era sentito qualche sera, ritornando tardi dalla campagna, lungo lo stradone, presso le Fornaci spente... e i capelli gli s'erano rizzati sotto la berretta». E almeno in queste cose la Maria Stella ci avrà avuto la sua parte di merito. Certo una volta che, di notte, si era udito l'urlo di un morto ammazzato sotto la casa dei Pirandello, e Caterina, come era uso d'omertà, aveva chiuso le finestre, Maria Stella aveva cominciato a parlare a Luigino dell'anima dannata di quel defunto, e poi nei giorni successivi gli diceva di averlo visto, quello spirito, aggirarsi di notte per quella strada, e altri l'avevano visto con lei.

Ma ci siamo allontanati da quegli episodi che più ci interessano. Maria Stella, con la sua capacità di suggestione, riuscì a portare il fanciullo in chiesa. Qui, il resto, lo fece il padre beneficiale. Pare infatti che una precocissima crisi mistica si impadronisse del bambino, che ogni mattina si recava, all'alba, alla messa dell'opera la mamma chiudendo gli occhi, o chissà anche contenta. La suggestione religiosa della chiesetta e la pratica dei sacramenti gli davano l'idea di una perfezione e di una pienezza quale egli confusamente cercava. Con qualche abbandono crepuscolare Pirandello rievocherà, in una poesia del 1902, questo suo tempo religioso dell'infanzia19:

«Don... nel silenzio batte una campana, e il suon nel bujo spandesi, ronzando. Balzo ora e sento un'angosciosa e strana voglia d'accorrer, come ad un comando; ma non a questa: a una chiesa lontana... Ah, la rivedo! mi chiamava, quando andavo anch'io, fanciullo, a messa: arcana voce profonda, che destava, ondando, quell'oscura viuzza suburbana.

Tremar mi sento in petto quella mia fede ingenua d'allora accesa ai ceri che, nella chiesa buja, una malìa diffondevano insiem con gl'incensieri fumanti e i rombi della cantoria...».

Qualcosa di quel tempo resiste alle radici e vibra ancora. Ricorderà anche, in una poesia intitolata Torna, Gesù! (pubblicata su La critica, il 28 dicembre 1895) le «rigide sere della pia novena»:

«Ed io, fanciullo, a la finestra dietro me ne stavo, e schiarendo con un dito timidamente l'appannato vetro, rimiravo smarrito, in un'ansia segreta, se in quella notte piena di mister la fulgida cometa apparisse davver...».

Credeva allora nei precetti predicati dal pulpito e intendeva con cuore puro il Vangelo nello spirito e nel comandamento che ne derivava.

Ed ecco che un giorno uscì di casa vestito domenicalmente di un abito da marinaretto, appena appena estratto fuori dal pacco portato da Palermo; e tornò dalla passeggiata seminudo, perchè aveva rivestito del suo abito un bimbo che aveva visto coperto di cenci. Ne nacquero le grida e i pianti di Pirandello fanciullo alla cattolica restituzione del vestito1.

L'episodio che facciamo seguire è stato raccontato più di una volta dai biografi di Pirandello2, ma è preferibile farselo raccontare dallo scrittore stesso, il quale, ne La Madonnina, lo rievocò con ogni particolare, limitandosi a mutare il nome delle persone: Stefano Pirandello diventa il signor Greli, il padre Sparma diventa il padre Fiorica, e Luigi, Guiduccio: «Il padre beneficiale aveva in cuore da anni la spina di questa famiglia («la più cospicua della parrocchia») che si teneva lontana dalla santa chiesa, non già perchè fosse veramente nemica della fede, ma perchè lei, la chiesa, a giudizio del signor Greli (che era stato garibaldino, carabiniere genovese nella campagna del 1860...) lei, la chiesa, s'ostinava a rimanere nemica della patria; ragion per cui un patriota come il signor Greli credeva di non potervi metter piede.

Ora, di politica il padre beneficiale Fiorica non s'era impicciato mai e non riusciva perciò a capacitarsi come l'amor di patria potesse esser cagione che la mamma e le sorelle maggiori di Guiduccio e Guiduccio stesso non venissero in chiesa almeno la domenica e le feste principali per la santa messa. Non diceva confessarsi; non diceva comunicarsi. La santa messa almeno, la domenica, Dio benedetto! E, tentato al solito dal diavolaccio che gli andava sempre avanti e dietro come l'ombra del suo stesso corpo, cercava d'entrar nelle grazie del signor Greli.

Eccolo là che passa! Non fingere di non vederlo. Salutalo, salutalo tu per il primo: un bell'inchino, con dignitosa umiltà!

Il padre Fiorica ubbidiva subito al suggerimento del diavolo: s'inchinava sorridente; ma il signor Greli, accigliato, rispondeva appena appena, con brusca durezza, a quell'inchino e a quel sorriso. E il diavolo, si sa, ne gongolava... Guiduccio Greli entrò nella chiesina di San Pietro... la voce di quella campana lo chiamò ogni mattina alla chiesa, per la prima messa. Di nascosto, udendo quella voce, balzava dal letto e correva in cerca della vecchia serva di casa perchè lo conducesse con sè... Guiduccio insisteva, scosso da un brivido a ogni rintocco della campana che seguitava a chiamar sommessa nella notte. E per l'angusta viuzza, ancora invasa dalle tenebre notturne, abbrividendo, si stringeva alla vecchia serva e, arrivato alla piazzetta della chiesa, alzava gli occhi al campanile, e allo sgomento misterioso che gliene veniva, non meno misterioso rispondeva il conforto che, appena entrato nella chiesa, gli veniva dai ceri placidi accesi sull'altare, nella frescura dell'ombra solenne insaporata d'incenso.

La prima volta che il padre beneficiale Fiorica voltandosi dall'altare verso i fedeli, se lo vide davanti inginocchiato dinanzi alla balaustrata, con gli occhioni, tra i riccioli castani, ancora imbambolati, spalancati e lucenti quasi di follia divina, si sentì fendere le reni da un lungo brivido di tenerezza e dovette far violenza a se stesso per resistere alla tentazione di scendere dall'altare a carezzare quel volto d'angelo e quelle manine congiunte.

Finita la messa, fece segno alla vecchia di condurre il bimbo in sagrestia; e lì se lo prese in braccio, lo baciò in fronte e sui capelli, gli mostrò a uno a uno tutti gli arredi e i paramenti sacri, le pianete coi ricami e le brusche d'oro e i camici e le stole, le mitrie, i manipoli, tutti odorosi d'incenso e di cera; lo persuase poi dolcemente a confessare alla mamma d'esser venuto in chiesa, quella mattina, per il richiamo della sua campana santa, e a pregarla che gli concedesse di ritornarci. Infine lo invitò sempre col permesso della mamma alla canonica, a vedere i fiori del giardinetto, le vignette colorate dei libri e i santini, e a sentire qualche suo raccontino.

Guiduccio andò ogni giorno alla canonica, avido dei racconti della storia sacra. E il padre beneficiale Fiorica, vedendosi davanti spalancati e intenti quegli occhioni fervidi nel visetto pallido e ardito, tremava di commozione per la grazia che Dio gli concedeva di bearsi di quel meraviglioso fiorire della fede in quella candida anima infantile; e quando, sul più bello di quei racconti, Guiduccio, non riuscendo più a contenere l'interna esaltazione, gli buttava le braccia al collo e gli si stringeva al petto, fremente, ne provava tale gaudio e insieme tale sgomento, che si sentiva quasi schiantar l'anima, e piangendo e premendo le mani sulle terga del bimbo, esclamava:

Oh figlio mio! E che vorrà Dio da te?

Avrebbe potuto notare, santo Dio, una cert'ombra che di tratto in tratto passava sul volto del fanciullo e gli faceva corrugare un po' le ciglia. Quell'ombra, quel corrugamento di ciglia erano provocati dalla bonaria indulgenza con cui egli velava e assolveva certi fatti della storia sacra; bonaria indulgenza che turbava profondamente l'anima risentita del fanciullo, già forse messa in diffidenza a casa e fors'anche derisa dal padre e dalle sorelle.

Nel mese di maggio, dedicato alla Vergine, nella chiesetta di San Pietro, dopo la predica e la recita del rosario, dopo impartita la benedizione e cantate a coro al suono dell'organo le canzoncine in lode di Maria, si faceva il sorteggio tra i divoti d'una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo... Le polizzine della riffa costavano un soldo l'una... [Il padre beneficiale] avrebbe voluto che per un miracolo le sue dita indovinassero la polizzina che conteneva il nome [del fanciullo]. E quasi quasi era scontento della generosità del fanciullo, il quale potendo prendere dieci polizze con la mezza lira che ogni domenica gli dava la mamma, si contentava d'una sola per non avere alcun vantaggio sugli altri ragazzi, a cui anzi lui stesso con gli altri nove soldi comperava le polizzine... Così il diavolo tentava il padre beneficiale... e gli suggerì di leggere nella polizzina estratta il nome di Guiduccio Greli. Allo scoppio d'esultanza di tutti i divoti, Guiduccio però, diventato in prima di bragia, si fece subito dopo pallido pallido, aggrottò le ciglia sugli occhioni intorbidati, cominciò a tremar tutto convulso, nascose il volto tra le braccia e, guizzando per divincolarsi dalla ressa delle donne che volevano baciarlo per congratularsi, scappò via dalla chiesa, via, via, e rifugiandosi in casa, si buttò nelle braccia della madre e proruppe in un pianto frenetico. Poco dopo, udendo per la viuzza il rullo del tamburo e il coro dei divoti che gli portavano in casa la Madonnina, cominciò a pestare i piedi, a contorcersi fra le braccia della madre e delle sorelle e a gridare:

Non è vero! Non è vero! Non la voglio! Mandatela via! Non è vero! Non la voglio!

...E difatti, perchè a lui quella Madonnina, se nessuna polizza recava il suo nome, quell'ultima domenica?

La signora Greli, per far cessare l'orgasmo del figlio, ordinò che subito la Madonnina fosse rimandata indietro, alla chiesa; e d'allora in poi il padre beneficiale Fiorica non vide più Guiduccio Greli». E Luigi dovette cercarsi altri ubi consistimi.

Sono episodi infantili e leggeri fino a un certo punto. Di solito a quell'età si giuoca ancora, senza cercare di capire il giuoco, o di metterlo alla prova contro un puro cielo di perfetta coerenza. In Pirandello fanciullo sembra appunto esservi questa esigenza di coerenza e di perfezione che viene continuamente frustrata: in lui è una fiducia e un'attesa, sia pure in termini infantili, che si verifichi il sommo bene e invece avviene un continuo crollare di miti in una serie irreversibile.

La scoperta dell'ipocrisia e del male in padre Sparma, che avrebbe dovuto rappresentare, perchè prete, la verità e il bene, è per Pirandello uno di tali episodi catastrofici. Il primo o uno dei primi. Ma questa volta il ragazzo ha inteso chiaramente il senso della disfatta e ha cercato di divincolarsi e di scrollarsela di dosso. La porta del fanciullo che viene sbattuta in faccia alla Madonnina, coinvolta anch'essa nella condanna del rappresenfante di Dio (insieme col Padre col Figlio e con lo Spirito Santo), è sufficientemente significativa.

Il prete, per Pirandello, tranne pochissime eccezioni, sarà (e la sua opera abbonda di preti) un esemplare di ipocrisia e di male. Don Cosmo, il personaggio che ne I vecchi e i giovani rappresenterà Valter ego filosofico dello scrittore, sarà esplicito al riguardo: «...gli seccava... più di tutto e di tutti la vista di monsignor vescovo, di quell'alto rappresentante d'un mondo da cui egli s'era allontanato dopo tanto strazio, urtato specialmente dall'ipocrisia di tanti altri suoi compagni, i quali, pur assaliti in segreto dai suoi stessi dubbii, vi erano rimasti... Ora si faceva baciar la mano, colui, e aveva la cura suprema delle anime d'una intera diocesi. Le illusioni incoscienti, le finzioni spontanee e necessarie dell'anima, Don Cosmo, sì, le scusava e le commiserava e compativa; ma le finzioni coscienti, no, segnatamente in quell'ufficio supremo, in quel ministero della vita e della morte».

Il bambino apostata vuole certezze, vuole che ogni verità rimanga incompromessa, fino alle ultime conseguenze, e anche l'amore gli deve essere corrisposto intero, senza mezze misure. La madre e il padre debbono amarlo, perchè sono il padre e la madre. Trascuriamo pure tutto ciò che può rappresentare il padre per ogni altro bambino. Per Pirandello il padre diventa il nemico. Più tardi, uomo fatto, Pirandello, quando di suo padre parlerà pubblicamente, saprà di tanto in tanto attenuare il giudizio. Dirà per esempio, elogiativamente, che egli era «una sfida alla vita», o che era di «bella persona», o che possedeva un animo magnanimo e patriottico20, e ragionevolmente ne scorgerà meriti e qualità. Ma quando di lui si è messo a parlare agli intimi, o nel libero alibi della mediazione artistica, non ha avuto altrettanti riguardi. Il padre in queste occasioni appare un personaggio incomprensibile e ingiusto. E tanto più doveva di lui diffidare il bambino che non poteva valutare i prò e i contro del carattere.

Stefano, primogenito dello scrittore, ci dà del padre di Pirandello un breve ritratto, che, se confrontato con le fotografie che ci rimangono di Luigi bambino21, piccolino e biondo, con le orecchie tese all'infuori a captare chissà che voci, il naso e le labbra piccole e tenere, il volto iperteso e sensibilissimo e ansioso, le mani affondate nelle pieghe dell'ampia gonna materna, dà la misura della differenza abissale, anche fisica, tra il padre e il figlio. Ecco il ritratto di Stefano Pirandello: «Suo padre, Stefano, era un pezzo d'uomo alto quasi due metri, con una gran barba nera fino a mezzo il petto, l'occhio acuto, il naso imperioso, fiero di carattere, spesso impetuoso e capace di trascendere a collere terribili»22.

I rapporti del padre con la madre sono descritti in una pagina di romanzo indicata dallo scrittore stesso come autobiografica al Nardelli (il romanzo, L'Esclusa, è del 1893): «Era alto più di lei..., il corpo gigantesco..., [con lui] non si ragionava.

La signora... già da un pezzo aveva imparato a misurare ogni dispiacere, ogni dolore, non per se stesso, che le sarebbe parso poco o niente, ma in considerazione delle furie che avrebbe suscitato nel marito... Talvolta, buon Dio, per il guasto o la rottura di qualche oggetto anche di poco valore, ma di cui difficilmente si sarebbe potuto trovare il compagno in paese, tutta la casa piombava nel lutto, nella costernazione più grave... E i vicini, gli estranei, risapendolo, ne ridevano; e avevano ragione. Per una boccettina? per un quadrettino? per un ninnolo qualunque? Ma bisognava vedere che cosa importasse per lui, per il marito, quel guasto o quella rottura. Una mancanza di riguardo, non all'oggetto che valeva poco o nulla, ma a lui, a lui... Avaro? Nemmen per sogno! Era capace, per quel ninnolo di pochi bajocchi, di mandare in frantumi mezza casa.

In tanti anni di matrimonio, ella era riuscita con le dolci maniere ad ammansarlo un po', perdonandogli anche, spesso, torti non lievi, senza mai venir meno tuttavia alla propria dignità e pur senza fargli pesare il perdono. Ma un nonnulla bastava di tanto in tanto a farlo scattare selvaggiamente... poiché nessuno, nello sbigottimento, ardiva nemmeno di fiatare, egli si chiudeva, s'ostinava in una collera nera e muta per intere settimane. Certo, con segreto dispetto, avvertiva il troppo studio nei suoi di non far mai cosa che gli dèsse pretesto di lamentarsi minimamente; e sospettava che molte cose gli fossero nascoste; se qualcuna poi veramente ne scopriva anche dopo molto tempo, lasciava prorompere furibondo il dispetto accumulato, senza riflettere che ormai quelle escandescenze erano fuori di luogo, e che infine s'era fatto per non fargli dispiacere.

Si sentiva estraneo nella sua stessa casa; gli pareva che i suoi lo tenessero per estraneo; e diffidava...

E la signora... mancando ogni intesa fra loro due, talvolta era forzata dai bisogni stessi della vita a far di nascosto qualcosa ch'egli non avrebbe certamente approvata; e poi a fingere con lui...»23.

Luigi, a quell'età, probabilmente aveva cominciato a riflettere. Intanto si dimostrava ligio alle leggi dell'ubbidienza e della bontà, se dettate dall'affetto. La madre, che curava a tuorli d'uovo la sorellina più piccola, linfatica, non voleva che quanto rimaneva dell'uovo andasse perduto. Luigi dava tanto affidamento che gli si poteva chiedere di succhiare nel guscio, pian pianino, il bianco, lasciando integro il rosso. Una volta gli venne di ingoiare tutto, tuorlo e albume. Si mise a piangere disperatamente, e dovettero consolarlo.

Il padre, invece, se provocato, reagiva con soprawanzo. Ebbe numerosi duelli. E quattro volte, dopo l'incidente con Cola Camizzi, gli spararono contro.


Talvolta Stefano sparava anche non provocato, o anche se la provocazione scendeva, per così dire, dall'etere, e dagli angeli. Un pomeriggio d'estate, infatti, l'incombente campanile di Don Sparma non lo lasciava dormire. Ogni suo tentativo era festosamente interrotto dalle campane: «dalli a sonare (racconta Pirandello ne La Madonnina e anche questo episodio fu confermato dallo scrittore al Nardelli)24 dalli a sonare tutte le campane, con una furia così dispettosa, che il signor Greli, il quale era d'indole focosa e facilmente si lasciava prendere dall'ira, a un certo punto, non potendone più, saltò giù dal letto e, così come si trovava, in maniche di camicia e mutande, corse su in terrazza armato di fucile; e sissignori commise il sacrilegio di sparare contro le sante campane della chiesa».

Tutto l'episodio, oggettivamente considerato, e specialmente nella prospettiva di questi tempi nostri, si circonda di una aureola leggendaria. Stefano vi si trasforma in un simpatico e divertente eroe. Ma dobbiamo invece considerarlo, in questa nostra occasione biografica, secondo una misura relativa, e senza l'accento divertito con cui l'episodio si configurava a Pirandello stesso quando ebbe quarant'anni e volle raccontarlo. Al bambino che piange per non avere saputo eseguire quel gioco di prestigio che consiste nello spogliare dentro il guscio un tuorlo d'uovo, un padre così deve apparire per forza come un'immagine di violenza, un essere inattingibile, una torre tonante.

Certo Stefano non era sempre coerente alla sua ideologia anticlericale come quando sparava alle campane. A parte il battesimo di tutti i figli, in questa stessa occasione, per esempio, non ritenne opportuno affrontare le dimostrazioni popolari ostili che arrivarono subito sotto le sue finestre: «Tutti i parrocchiani, raccolti per la festa davanti alla chiesa, si levarono in tumulto, furibondi, contro il sacrilego. E fu vera grazia di Dio, se al padre beneficiale Fiorica, accorso tutto sconvolto e coi paramenti sacri ancora in dosso, riuscì d'impedire con la sua autorità che la violenza dei suoi fedeli indignati prorompesse e s'abbattesse sulla casa del Greli. Li arrestò a tempo, li placò, rendendosi mallevadore che il signor Greli avrebbe donato una campana nuova alla chiesa e che un'altra e più solenne festa si sarebbe fatta per il battesimo di essa». Rosalina infatti, la so-

Tellina (come Pirandello racconterà al Nardelli), fu la madrina della nuova campana.

Anche questa incoerenza del padre doveva molto sconcertare il bambino. Qualunque processo si avviasse in Pirandello verso l'identificazione con lui, veniva subito travolto da quelle estranee violenze e incongruenze.

L'incompatibilità fu una barriera che presto si trasformò in opposizione e contrasto. Nè Pirandello bambino era mansueto. Ubbidiva per dovere e per amore. E amava la mamma e non il padre.

Il principio della ribellione in lui, finche fu nell'età della adolescenza, fu ardente e combattivo. Si svelò presto in alcuni atti esteriori di fuga e di disobbedienza nei riguardi del padre, che si conclusero alla fine, dopo alcuni anni, in un gesto come si vedrà estremo e definitivo; ma la ribellione soprattutto si interiorizzerà e scomparirà repressa negli abissi profondi, per scaturire, attraverso mille valvole forzate, nell'antitesi, nello scandalo e nell'anarchia, sulla pagina dello scrittore.

Perfino la tarda inesplicabile adesione di Pirandello al fascismo può avere avuto una delle sue origini in questi contrasti irrisolti, in una finalmente placata accettazione dell'autorità esteriore (Pirandello intanto avrà, nel successo raggiunto, soddisfatto a quello che Corrado Alvaro in un suo saggio di sociologia 25 chiama «il quesito istintivo del superamento del padre, della sostituzione della personalità del figlio alla personalità del padre»).

«Un orribile ingombro»

A questi anni risale anche un altro grave episodio traumatico dell'infanzia di Pirandello. Citiamo dal Nardelli che rimane il pressoché unico raccoglitore dei fatti più antichi della vita dello scrittore: «Luigi a quel tempo non aveva ancora mai veduto un morto. Un giorno udì dalle chiacchiere altrui che nella torre adibita a morgue c'era un tale... Un irragionevole desiderio d'entrar nel mistero colse il Nostro ch'era sulla via delle Falde, tutto solo. E benché quasi bambino, ardì saltar giù dal ciglio e premere colle sue piccole braccia la gran porta grigia. Passato nell'interno e guidandosi sopra la lista azzurra della feritoia venne avanti fino a inciampare nella panca funebre. E vide all'improvviso il corpo giacente. Portava due grosse scarpacce. Dimostrava, all'aspetto, forse quarant'anni... Nel tacito della chiusa atmosfera tuttavia Luigi percepì un piccolo rumore, quasi un frullo... Trattenne il respiro. Quel frullo tornò a farsi udire, non d'ali, non d'aria. Un frullo strambo, continuo e vivo... In quei tempi e in quelle regioni le donne portavano sotto la gonna una sottoveste abbondante, terminata da un ricciolo insaldato coll'amido... Infatti, una donna. Gli occhi del piccolo abituati al buio distinguevano i corpi a poco a poco. Una donna. E un altro. Erano allacciati insieme. Non fermi. Compivano anzi con lentezza un movimento bizzarro, ininterrotto, quasi che si cullassero agitati da uno spasimo o regolati da una molla. Stretti: e la femmina aveva le sottane alzate. Il volante inamidato, smosso fra i due corpi, produceva quel frullo indimenticabile. Luigi stette a guardarli. Le chiome di lei non erano scoperte come usa il popolo... Ma portava un cappellino. Era una signora...»26.

Leonardo Sciascia annoterà, a proposito di questo episodio27: «Sempre in Pirandello l'amore avrà questo sentore di morte. Non l'idea della morte: ma la fisica putrescente presenza della morte. O sarà intorbidato dalla pazzia. O avvelenato dalla incomprensione e dai tradimenti. Non c'è mai nei suoi personaggi un momento di abbandono al cuore e ai sensi. E non c'è mai una donna che, per quanto bella, l'autore non investa, più o meno evidentemente, d'un'ombra di repulsione».

E non accade solo ciò di cui ci parla Sciascia. Avviene anche che quel puro angelo segreto che il fanciullo tentava di costruire dentro di sè precipiti in basso, di un sol colpo. Il cielo delle cose perfette si deforma in una linea sinuosa, beffarda, caricaturale. Anche di qui forse nasceranno gli ancora indecifrati prototipi dell'ansiosa iconoclastia pirandelliana. L'infanzia di Pirandello, e poi la prolungata adolescenza, avranno una qualità leopardiana di vita assente e ambita. Un'impronta, che non si cancellerà più, di platonicità delusa, di innocenza dura a morire, di speranza non smessa di inserimento nella vita. Di qui si radicherà in Pirandello una ben reale, non astratta convinzione, secondo cui ogni cosa potrà dipendere dall'assioma (tutto esclusivo, pirandelliano) della vita «che si scrive e non si vive».

Quando poi tutte le esperienze saranno compiute e tutti i tentativi di amore consumati, si vedranno riaffiorare, prima mescolate in un magma confuso, poi sempre più nette e più pure le linee di forza della distruzione e del nichilismo, fino a quell'acme e testamento conclusivo che sarà iscritto nei Sei personaggi in cerca d'autore.

Ma ancora di altro si tratterà. Le spinte del dinamismo affettivo, quali si riveleranno nella fase della maturità, dopo il viaggio complesso e vano d'esplorazione nel mondo, si muoveranno in direzioni sussultanti e contraddittorie, e si esprimeranno in forme per lo più grezze e subito rapprese. Vi sarà nello scrittore, contro le apparenze, una disposizione alla debolezza e al ripiegamento in un clima di radicata ambiguità. I momenti del coraggio conseguente e della coerenza assoluta non saranno molti e avranno il nome dei capolavori. Il coraggio di Pirandello sarà intero solo nei momenti della disperazione biografica.


Non vorremmo però dar l'impressione di credere che sia stato proprio quell'episodio che ci parla di un bambino di avventurosa e sensibile precocità, che s'imbatte all'improvviso, in un andito buio, in un doppio spettacolo d'orrore, a determinare tutto il comportamento successivo dell'uomo e dello scrittore nei riguardi dell'amore e della morte. A questo si può credere oppure no. E più importante crediamo sia stata la delusione del bambino nei suoi rapporti col padre. Ma certo è che la vita di Pirandello appare come la conseguenza di un tempo in gran parte sconosciuto di traumi, quasi il corollario di un teorema scomparso. Ma sia pure come un bassorilievo simbolico, o un versetto epigrafico sopra il racconto della vita di Pirandello, l'episodio della torrt-morgue ci appare un'emblematica premessa.

Pirandello lo vedremo infatti sempre in lotta con la morte. Una morte trasformata in corpo o persona, in individuo fisicamente o mentalmente decifrabile. È la sua cavalcata principale, il torneo ricorrente all'infinito, fin quasi oltre le soglie della sua morte fisica.

E sarà una lotta su due fronti. Alla luce del giorno e al buio: qui in un corpo a corpo simbolico, nelle tenebre. Alla luce della propria coscienza Pirandello sarà invece stoico, coraggioso; dichiarerà sempre a chiare lettere che non gli importa di vivere o di morire. Una parte della sua opera sarà dedicata a dichiarare il suo coraggio di fronte alla morte. Egli afferma anzi che gli piacerebbe morire. Di essere pronto. Ma si tratterà del camuffamento di più radicati spaventi da vincere in modo diverso. In ogni zona meno scoperta vedremo un Pirandello intento a giocare a dadi con la morte, in un azzardo sempre rinnovato, e mai risolto. Il modo di difendersi dalla morte è nella fitta simbologia dell'opera che ce ne accorgiamo è di carattere per lo più primitivo, magico. Pirandello si difende da un'apparizione irrazionale con una controevocazione, o col montare una scena e uno spettacolo (non necessariamente teatrale) che l'abbia come protagonista, o antagonista. La morte quando appare nell'opera, tende ad assumere una plastica fisionomia, come se lo scrittore dovesse personificarla, ridurla a fantasma e a simbolo per poterla abbattere e vincere, ed essa si affaccia appena camuffata là dove meno te l'aspetti. In Giustino Roncella nato Boggiolo, si descrive un banchetto di letterati e Pirandello sembra tutto preso in una sua satira di costume che non ha almeno nelle intenzioni alcuno scopo trascendentale; invece improvvisamente, ecco un personaggio estraneo, diverso, alla cui apparizione in mezzo agli altri Pirandello troverà una giustificazione veristica a posteriori, quando esso già gli si è affacciato ed imposto: «...sconcertava tutti un lanternone squallido. Portava sulla finanziera una mantelletta grigia; piegava quel collo di cicogna di qua e di là e si scarniva le unghie... Nessuno lo conosceva, nessuno sapeva chi fosse, e tutti lo guardavano con stupore e ribrezzo. Guardato così, forse con l'intenzione di sorridere, mostrava certi lunghi denti da morto, spaventosi.

Era una vera sconcezza, tra tanta vanità, quella macabra apparizione. Dove mai era andata a dissotterrarla il Raceni?...».

La morte rimane sempre per Pirandello come una sagoma che, abbattuta, ritorni in piedi da sola, perchè il giuoco continui. È un materiale oggetto sensibile e inesplicabilmente ermetico. «Il morto diciamo la verità (dice Pirandello in I pensionati della memoria) con quella gelida, immobile durezza impassibilmente opposta... è un orribile ingombro...» Contro la morte sono tentate tutte le armi, dalle più puerili ed ingenue alle più machiavelliche e raffinate. Alcune sono puramente scaramantiche, al livello della superstizione. Pirandello, ai tempi dell'Università, per esempio, portava all'occhiello un teschio-amuleto; adolescente e poi giovane di trent'anni e oltre predilesse il romanticismo che si aggira nei meandri di amore e morte: «Sotto ogni fiore intanto si nasconde un nudo e freddo teschio...» (Mal giocondo, Allegre, VI); oppure «...Tu ridi, o teschio vuoto... io rido al par di te...» {La maschera, in Vita Nuova, Firenze, 25 maggio 1890). Venuti gli anni più maturi e fatto più smaliziato e diffidente alle forme superficiali del giuoco, Pirandello si rifoggiò una simbologia più coperta. Non gli serve più specchiarsi tutto eccitato, nel sadico piacere buffonesco del Domiziano dei suoi venti anni che infilzava a spillonate i mosconi-cortigiani, giuoco di morte: «...la mia vita vorrei, mosca senz'ale anche lei nello stil freddo infilzare...», nè la provocazione diretta come quando, mentre pareva intento a parlare moralisticamente di funi e di cordari, un'improvvisa spinta clownesca lo spinge ad esclamare, a sorpresa: «Ne faccio un cappio e vi caccio la testa!» {La fune). Cercò altre meno dirette forme di provocazione, di beffa e di dissacrazione, che meglio gli servissero a rivelare la propria superiorità, una sua inespugnabilità di fronte alla morte. Così si consideri il rovesciamento della pietà nella trasformazione dei suoi personaggi toccati dalla morte in oggetti pieni di ridicolo, che gorgogliano, o sputano la dentiera o evacuano scandalosamente sul cataletto; o che rimangono in balìa del caso come se la morte non ne avesse mai preso possesso; o che addirittura, beffa delle beffe, risuscitano (vi sono tre resurrezioni nell'opera di Pirandello)28; si ricordi la varia sfida alla morte dei tanti aspiranti ed effettivi suicidi di Pirandello, i quali prendono la cosa sottogamba e si recano da sè al cimitero, oppure si addormentano sulla proda di un fosso perchè hanno dimenticato il fiero proposito; si pensi al buffo e frustrato tentativo di morire del personaggio in II coppo-, o ai vetturini distratti delle pompe funebri che invitano i passanti a salire in carrozza; alle tante volte che il caso ha la meglio sulla morte e a tutte le varianti in chiave caricaturale, sul tema della morte esorcizzata. (Da professore Pirandello tenne un corso dal titolo: «Morti resuscitati dell'Ariosto»). E si pensi soprattutto a L'uccello impagliato, a quella che sarebbe forse la più bella novella di Pirandello se avesse avuto anche una buona risoluzione formale. Qui il personaggio di Pirandello stravince la morte. La batte una prima volta riuscendo a vivere nonostante il lungo assedio di lei, e poi, una seconda volta, uccidendosi di propria volontà, malgrado lei, per non darle mai più partita vinta.

E che cos'è questo costante difendersi dalla morte con tutte le armi? Questo atteggiamento di Pirandello? Quale ne è l'origine? Che non ci sia veramente una responsabilità traumatica

in quell'episodio che Pirandello con tanta chiara memoria ha narrato a Nardelli e Nardelli a noi?

V Ma Pirandello non si farà scudo all'antico spavento soltanto con la beffa e l'irrisione. Coglierà a volo dalla filosofia intorno a lui alcune voci Schopenhauer e Bergson, il positivismo e l'idealismo e formulerà tutta una teoria per eliminare la morte anche dal campo scoperto dell'intelletto. Disse infatti che tutto si irrigidisce, e che tutto si muove: il che è una insuperata contraddizione della filosofia di Pirandello, ma è anche, nè più nè meno, la trasposizione, in termini di filosofia non rigorosa, di ciò che fu visto da lui in quella torte-morgue. Pirandello rovescia l'usuale prospettiva: afferma che la vita è una trappola, che nascere è un cominciare a morire, che i vivi rimasticano le parole dei morti, ma anche che in realtà è la morte che non esiste, perchè tutto si rimette continuamente in movimento, che l'essere è divenire, che l'uomo si disperde nell'essere (come fanno o desiderano di fare tanti personaggi di Pirandello, di cui il più noto è Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila). È una mistica più che una filosofia, che nasce in funzione della lotta contro la morte. Ed è un filone fra i principali nell'opera di Pirandello, che ha origini comunque biografiche. Come comproverà l'ultimo atto di ribellione e di sopraffazione di Pirandello sulla morte, che volle essere compiuto fuori della pagina, nella vita. Un gesto, se si vuole, elementare, ma simbolicamente efficace. Si trattava per Pirandello di abolire quella morte con cui aveva dialogato e combattuto all'infinito; abolire questo corpo estraneo e concreto che improvvisamente gli sbarrò la via in tempi lontani, e continuò, in un'ossessione segreta, a erigersi contro tutti i suoi impulsi di libero movimento.

La morte è per Pirandello anche, e soprattutto, la propria morte. È proprio la sua morte che dovrà essere abolita. Con processo concretistico e magico, viene spostata l'attenzione dall'anima al corpo, alla stessa salma. Pirandello si dimostra bene attento alla sorte di questa: la circonda, in anticipo, di una cura particolare, di un rito semplice e diretto allo scopo, fuori di ogni distrazione: «Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso». Non si tratta di modestia o di noncuranza. Al contrario. Ma neppure si tratta di un estremo travestimento e rovesciamento dell'esibizionismo. È l'ultimo atto invece di un'antica storia segreta: «Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perchè niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me».

L'atomizzazione e la dispersione ai venti del corpo, dettata da un impulso nichilistico, coincide anche con una restituzione di esso alla vita dell'essere. L'ultima volontà di Pirandello non fu di fatto l'ultima; fu quella di tutta la sua vita. Lo attesta se non altro il vecchio foglietto ingiallito in cui egli aveva vergato questo suo testamento.

L'ajo

Ma torniamo adesso ancora all'innocenza di Pirandello fanciullo, alla sua breve illusione e speranza.

Egli non è fortunato neppure nella persona dell'ajo al quale viene affidato. Si chiamava Fasulo (Pinzone, lo chiamerà Pirandello in una memoria biografica del '98 '), e, tutto distratto, non si accorgeva delle qualità, alquanto eccezionali, del bambino che doveva allevare. Tanto che, per reagire alle proteste di Luigi che piangeva e batteva i piedi perchè non voleva più riempire e riempire quaderni di aste, aveva detto alla madre che quel bambino era «tardo» e che doveva ancora tenerlo in quell'esercizio elementare. Pirandello alla memoria di questo maestro dedica una pagina: «Me lo vedo ancora innanzi vestito squallidamente di grigio, con un vecchio cappello stinto... Il dì dei morti è la festa dei fanciulli in Sicilia. La Befana... non fa regali laggiù. Li fanno invece i morti alla vigilia della lor festa, su la mezzanotte: i parenti o gli amici defunti recano qualche monetina e dolci e giocattoli, soltanto però ai bambini savii... Mia madre mi mandava senz'altro con l'ajo alla fiera dei giocattoli.

Ricordo che pena febbrile, vibrante di mille desideri, mi costava la scelta in quella fiera.

Stordito dai clamori confusi, mi voltavo di qua e di là perplesso... Il vecchio Pinzone mi trascinava per un braccio, sottraendomi a forza agli allettamenti di questo o di quel venditore... i venditori, nel vedermi allontanare così tirato per un braccio, scagliavano ingiurie e imprecazioni contro il povero Pinzone. Egli però sogghignava, tentennando la testa sotto la furia delle male parole e rispondeva soltanto a me, ripetendomi:

- Non dar retta: ti vogliono imbrogliare...

Alcuni erano più aggressivi; saltavano dal banco con un giocattolo in mano e ci attorniavano e ci impedivano il passo... Io guardavo negli occhi Pinzone.

- Lo vuoi? mi domandava questi allora. E io, senza staccar gli occhi, rispondevo il no ch'era negli occhi suoi e nel tono della sua domanda.

Così facevamo il giro della fiera; poi come quasi ogni anno, finivo per ritornare innanzi alla baracca dove si vendevano le marionette, ch'eran la mia passione. Ahimè, ma anche lì tra i Paladini di Francia e i cavalieri mori, lucenti nelle loro armature di rame e d'ottone, esposti in lunghe file su cordini di ferro, ero costretto a scegliere, mentre avrei voluto portarmeli via tutti. Quale fra i tanti?

- Prenda Orlando, signorino! mi consigliava il venditore. Il più forte campione di Francia: glielo do per dieci lire e cinquanta...

Subito Pinzone, messo in guardia dalla mamma, esplodeva:

- Bum! Dieci lire e cinquanta? Ma se non vale tre bajocchi. Figlio mio, guarda: ha gli occhi storti! E poi, sì! Campione di Francia... era un pazzo furioso...

- Prenda allora Rinaldo di Montalbano...

- Peggio... Ladro! esclamava Pinzone. E Astolfo era millantatore, e Gano traditore... breve, su ogni marionetta che quegli mi presentava, Pinzone trovava da ridir qualcosa... ... Sono passati tant'anni: Pinzone è morto... ma confesso che... guardo con pungente invidia un quadretto nel quale sono effigiato coi calzoncini di velluto a mezza gamba e una fida marionetta in mano...».

Man mano che Luigi cresceva e imparava a leggere e scrivere, venivano alla luce le sue più forti e native propensioni: verso la lettura vocazione che sarà, fino a tutto il periodo ginnasiale e fino all'università, una fondamentale tensione umanistica che dagli inviti della scuola sconfinava in letture più vaste e più risentite; e verso il teatro, anzi verso un teatrino proprio, del quale essere autore e direttore di attori.

A Luigi, come si è visto, fu impartita l'istruzione elementare in casa. E subito dimostrò di amare appassionatamente i libri. Sappiamo dal figlio Stefano29 che i libri in casa erano in tutto una Bibbia in quattro tomi, tradotta dal Martini, alcuni romanzi di Walter Scott, e la Battaglia di Benevento.

Pirandello, nel 1893, dettò un «frammento di autobiografia» in cui rievocava questo periodo30: «Mio padre è proprietario di una ricca miniera di zolfo, quindi avrebbe voluto che

10 mi dedicassi agli studi di commercio. Fui collocato perciò nelle scuole tecniche di Girgenti; ma tutti quei numeri, tutte quelle regole, tutto quel rigido ordine matematico, ripugnavano al mio animo impaziente ed avido di completa libertà. Avvenne perciò che dopo compiuta la seconda classe tecnica e riescito, non so come nè perchè, a superare gli esami di luglio, dissi a mio padre che ero stato rimandato nell'aritmetica; non poter quindi recarmi con la famiglia in campagna ed essere costretto a passare le vacanze a Girgenti per istudiare e riparare il mancato esame». Qui intervennero nel complotto la madre e lo zio Vincenzo, il seminarista fattosi garibaldino e quindi professore (di cui è un ritratto nei Vecchi e i giovani: «aveva buttato la tonaca alle ortiche per prender parte alla Rivoluzione, ora, asmatico, rabbioso, con la barba...»), il quale affidò il ragazzo a un collega, il professore Zagara. Pirandello continua il racconto autobiografico: «Mio padre lasciò correre; ed il danaro che doveva spendersi per la ipotetica lezione di matematica, servì invece per una vera lezione di lingua latina, perchè io desideravo tanto di essere ammesso in ginnasio ed anche di saltare la prima classe. Tutto andò bene, secondo i miei desiderii e ad ottobre riuscii ad ottenere la regolare ammissione nella seconda classe ginnasiale. Il babbo non guardava tanto pel sottile in fatto dei miei studii: seppe che non perdevo un anno, fu contento, lontano le mille miglia dall'immaginare la mia marachella.

Frequentai i primi due mesi del ginnasio senza alcuna preoccupazione. Ma ben presto fui tradito da una circostanza da nulla. Se mio padre non si occupava molto pel minuto del progresso dei miei studii, doveva, purtroppo, firmare la pagella scolastica ogni due mesi. Ma io non ne avevo alcuna, perchè al ginnasio non ne davano, come alle tecniche; sicché... riuscii a passarla liscia, dopo il primo bimestre, inventando spudoratamente cervellotiche ragioni che il babbo, alla meglio, accettò per buone».

A questo punto Pirandello (si era su Monte Cave, durante una villeggiatura estiva e l'amico giornalista, Pio Spezi, scrupolosamente stenografava) cedette alla tentazione di abbellire la vicenda e inventò una storia: «Ma ben presto continuò a dettare -, stava per ¡scadere il secondo bimestre: e innanzi all'idea di essere scoperto e giudicato da mio padre..., terribile nell'ira, fui preso da un tale spavento, che, dopo aver proposto e scartato varie soluzioni, non trovai altro rimedio che fuggire da casa, fuggire da Girgenti.

Un amico di nostra famiglia, un lombardo di Como, doveva tornare alla sua città con un grande carico di zolfo per via di mare. Io lo pregai di condurmi con sè, tanto più che egli ci aveva di molto esaltate le bellezze dell'Italia settentrionale, del lago di Como, del duomo di Milano e via dicendo. Da prima egli condiscese ben volentieri; ma, quando io gli manifestai la necessità, per me assoluta, che questo mio progetto dovesse tenersi completamente celato a mio padre, non ne volle più sapere e partì per Palermo dove aveva noleggiato un vapore per caricarvi la sua merce e, con quello, andare a Genova, per poi, di là, recarsi con la ferrovia a Como.

Io, però, non mi smarrii e ne inventai un'altra. Racimolai il danaro necessario pel biglietto da Girgenti a Palermo; insalutato ospite fuggii di casa, e giunsi alla capitale dell'isola il giorno stesso in cui quel signore doveva imbarcarsi e partire. Lo trovai, ingarbugliai un bel discorso, di cui la sostanza era che avevo potuto finalmente ottenere il sospirato consenso paterno; l'amico mangiò la foglia ed io partii con lui glorioso e trionfante.

Al principio tutto andò benone; ma a metà del viaggio marittimo, fui preso da così straziante rimorso pel dolore che avrei cagionato ai miei, specialmente a mia madre, che non potei resistere più e finii col confessare ogni cosa a quel signore: e solo mi parve di essermi liberato da una grave mole che mi pesasse sulla coscienza quando, arrivati a Genova, si telegrafò a mio padre tutto quanto era accaduto. Chi può ridire la mia contentezza quando, con la risposta, mio padre mi mandò anche il suo consenso perchè continuassi il corso ginnasiale in Como? Quivi stabilitomi, frequentai dipoi regolarmente anche la terza ginnasiale.

Senonchè in seguito, d'accordo coi miei genitori, tornai in Sicilia e compii gli studi secondarli a Palermo». Pù tardi, quando il frammento d'autobiografia, che era rimasto inedito, fu pubblicato, nel 1933, Pirandello, che si era dimenticato dopo tanti anni di avere mai detto nulla di simile, smentì il suo viaggio a Como, e infatti non risulta ai biografi, al Nardelli stesso, che a Como Pirandello fosse mai andato prima del 1889.

Invece è vero che egli intraprese gli studi ginnasiali a Girgenti, dopo aver subito la furia del padre. «Il padre racconta Stefano Pirandello -31 s'accorse dell'inganno quando gli si dovette far firmare la pagella alla fine del primo trimestre, e fece una scenata furibonda. Il bambino che aveva saputo opporgli la sua piccola volontà, scontò con la mamma, che gli era stata complice, questa sua fermezza: per alcuni mesi non ebbe più nè uno sguardo nè una parola da parte del padre. Studiava con impegno, per dimostrargli che non aveva agito a capriccio». Ma in questi primi anni di ginnasio si dimostrò un alunno mediocre. Antonio De Gubernatis, suo compagno di scuola, ricordava32 che in quel periodo «non diede mai prova di possedere un'intelligenza superiore» e che solo una volta il professore meravigliato chiese a Pirandello se avesse scritto proprio lui un componimento di italiano che si era alzato a leggere. E risulta dai registri che alla Scuola tecnica aveva preso «quattro» e «cinque» in «tema». Secondo il figlio Stefano, «non era per nulla il ragazzino serio e compunto che si potrebbe immaginare. Vivacissimo, insieme coi fratelli minori, Anna ed Enzo, ne combinava di tutti i colori. Un anno, senza averlo mai visto, fecero "il teatro"...».

Pirandello ragazzo integrava la deficiente biblioteca paterna comprando dal cartolaio di Girgenti i romanzi a dispense e quanto altro vi trovava. Gli capitò così di leggere, con Le Mie Prigioni, anche YEufemio di Messina. Di qui l'incitamento a scrivere tragedie. (Sappiamo già come, più piccino, s'era incantato davanti ai pupi siciliani).

Scrisse, sui dodici anni, un Barbaro, in cinque atti, che volle mettere in scena, dirigendo sorelline, fratelli e compagni di scuola, sul pianerottolo della ripida scalinata del giardino di casa. E qui anzi avvenne un incidente, non sappiamo quanto gradito all'autore-direttore. Un giovane attore indisciplinato, scacciato dall'opera, per vendetta, nascosto dietro un pilastro che faceva da quinta, volle rallegrare la scena e il pubblico con un arcuato gioco non precisamente d'acqua, zampillante per tutto il tempo possibile: e lo spettacolo finì a botte.

Luigi diede anche, nel suo teatrino, un repertorio altrui, e perfino, una volta, Goldoni.

La famiglia di Luigi viveva bene. Stefano andava su e giù dalla Marina, disponeva di cavalli, carrozza e vetturino privato ed era ormai finanziariamente forte abbastanza per speculare con fortuna nel mercato dello zolfo. Anticipava ad interesse il capitale ai produttori, incettava il minerale nei periodi in cui esso perdeva di quotazione sul mercato internazionale, per rivenderlo nei periodi più favorevoli e si teneva informato, grazie ai suoi corrispondenti, dell'andamento delle Borse.

Ma Stefano era abile solo fino a un certo punto, e s'imbattè in due conduttori di miniere di zolfo (si chiamavano, per la cronaca, Bellavia e Contino) i quali, dopo essersi fatti anticipare ben 600 000 lire, quasi tutto il capitale di Stefano, dichiararono fallimento.

La famiglia Pirandello passò dall'agiatezza alla miseria. «La famiglia ricorda Stefano Landi decadde per qualche anno; talvolta la madre non sapeva come approntare il cibo: Luigi che le era vicinissimo, con l'animo ne soffriva angosciosamente, avrebbe voluta aiutarla, ma non sapeva come». Stefano dovette ricorrere ancora a Felice, il fratello maggiore, il quale gli affidò la cura di un deposito di zolfo a Porto Empedocle.

Poiché doveva recarsi per i suoi settimanali rendiconti a Palermo, Stefano preferì, dopo qualche tempo, sistemare la famiglia in quella città.

Girgenti

A Palermo Luigi rimase, quasi continuamente, fino al 1887. Dai tredici ai vent'anni.

Il distacco da Girgenti avvenne forse con un'ombra di tristezza. In una novella scritta vent'anni dopo, Pirandello rievocherà le sue prime impressioni di quando, tenuto per mano da qualcuno, saliva, senza rendersi esatto conto della topografia dei luoghi, verso l'alto del colle dov'era lo strettissimo vicolo

Caico dove aveva vissuto piccino33: «Ora [dopo tanto tempo], a poco a poco, cominciava a riconoscere le viuzze, ma come da lontano, a certi odori che lo facevano fermare, perchè gli ridestavano dentro svaniti ricordi dell'infanzia. Si rivedeva ragazzetto trascinato per mano dalla madre su e su per tutti quei vicoli a sdrucciolo, acciottolati come letti di torrenti e tutti in ombra, oppressi dai muri delle case sempre a ridosso, con quel po' di cielo che si poteva vedere nello stretto di essi, a storcere il collo, che poi nemmeno si riusciva a vederlo, abbagliati gli occhi dalla luce che sfolgorava dalle grondaje alte; finché non arrivava al Piano di San Gerolamo su in cima alla collina. Ma arrivato lassù, di tutta la città non scorgeva altro che tetti: tetti tesi in tanti ripiani, tetti vecchi, di tegole logore, o tetti nuovi, sanguigni, o rappezzati, che sgrondavano di qua e di là, chi più e chi meno; qualche cupola di chiesa col suo campanile accanto e qualche terrazza su cui sbattevano al vento e sbarbagliavano al sole i panni stesi ad asciugare».

Questa è, però, la stessa Girgenti che ridestava l'orrore di quel giornalista continentale capitatovi nel 1874, quando cioè Pirandello aveva sette anni, che, anonimo, in una corrispondenza apparsa su La Gazzetta d'Italia del 4 maggio 1874, diceva: «Girgenti è un ammasso di casupole e di tuguri; le vie, non vie, ma sentieri e rampe scabrose e tortuose e piene di sporche e cenciose creature non solo, ma puranche di bestiame grosso e minuto; gli alberghi, ricovero d'insetti e di sudiciume, fanno venire i brividi addosso». Anche Pirandello, in un altro punto dell'opera3, mostra di non averne un ricordo troppo diverso: «Si saliva per angusti vicoli sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati di cattivi odori misti esalanti dalle botteghe buie come antri... e dalle catapecchie delle povere donne, che passavano le giornate a seder sull'uscio, le giornate eguali tutte, vedendo la stessa gente alla stess'ora, udendo le solite liti che s'accendevano da un uscio all'altro tra due o più comari linguacciute per i loro monelli che giocando s'erano strappati i capelli o rotto la testa...».

Luigi cominciò molto presto a riempire quaderni su quaderni di versi. Due di questi libretti manoscritti, risalenti al 1883 ci fanno qualche luce retrospettiva sulla vita fanciullesca dello scrittore e sui rapporti di lui bambino col paese natio e con alcuni amici d'infanzia.

Certo, scrivendo questi versi dedicati al paese dell'infanzia, il ragazzo si fa prendere la mano dai cari esemplari letterari, e copre per esempio l'essenziale e ben luminoso paesaggio agrigentino di veli molto romantici (ma questo avverrà anche in qualche pagina de I vecchi e i giovani). L'akragantina Rupe Atenea gli si muta in un «gigante», che disperde le cime nel «cupo gran vel» del cielo a lutto della notte, e, sulla Rupe, il poeta vorrebbe farsi la tomba, un «avel», nido anche d'uccelli parlanti «col ciel». In un componimento intitolato Ricordi!, scritto a Palermo, egli, al suo amico Costantino Candiloro, al quale dedica la poesia, confessa che «geme», in riva all'Oreto, pensando ai tempi trascorsi, quando «giovani e baldi» erano stati insieme e si erano baciati e «come uccellini de la gabbia fuora per le vie d'Agrigento» correvano «come corre il vento», ed ora rimane loro solo «la Rimembranza», «in questa vita che la chiamo un giuoco», come dice il ragazzo-poeta.

In una terza poesia, intitolata Memorie d'Agrigento, e dedicata a un altro amico, Salvatore Carbonaro, Luigi ci parla d< un suo primo amore, del «suo birraio», e d'una «donnetta gioconda». E saremmo tentati di chiedere al quindicenne Pirandello il benefìcio d'inventario. Nella poesia sono rievocati i luoghi della città natale contrapposti a una Palermo in cui curiosamente il poeta si raffigura circondato di mollezze e di spleen. A Girgenti, secondo la poesia, «nel pian di Ravanusa», avvenivano i convegni di Luigi con la «sua donna», ed egli la baciava «in bocca», al «pallido chiarore della Luna» sorta in sua difesa, «in difesa d'Amore!». Poi, più tardi, dal suo birraio, Luigi andava a consacrare il «momento gaio», nella «spuma della birra», presso «l'onda dei capelli fluenti e luccicanti d'una donnetta più \_di lui] gioconda». Adesso, «rinchiuso nella Conca d'Oro», «fra le mollezze d'una stuffa vita», egli ripensa alle «dolci rimembranze!...».

In realtà, a parte il giuoco ingenuo di queste poesie, Pirandello, lasciando pressoché definitivamente Girgenti, se ne portava dentro un'immagine troppo radicata perchè potesse più svanire. Racconti e romanzi e opere di teatro saranno ritessuti nel ritorno della memoria a Girgenti; il paese dell'infanzia sarà talvolta puro pretesto, ma, più spesso, sarà necessario stimolo narrativo: ricerca genuina (anche se non proustiana!) del tempo perduto.

Palermo

Pirandello lascia Girgenti e raggiunge Palermo al principio del 1882 34, in un momento che segna il passaggio a un'epoca diversa nella sua vita di giovinetto. A Palermo egli vivrà tutto il periodo della sua adolescenza e il principio della giovinezza. Un'adolescenza che per Pirandello sarà prolungata forse oltre i termini normali, per quel suo temperamento radicalmente idealizzante, che in quest'epoca vive le sue principali sorti drammatiche. Pirandello universitario a Bonn sarà molto mutato. Il periodo palermitano è soprattutto un momento di maturazione e di crisi sentimentale, il luogo delle avventure di una sensualità frustrata e di una concomitante accensione romantica, che trovano sfogo in tentativi di poesia.

In questi sei anni si consumano alcune importanti esperienze della vita dello scrittore, che si lasciano dietro terreni bruciati e sabbie mobili. La sua vitalità resisterà ancora a lungo anche a queste prove, ma presto ogni nuovo impulso della fede e dell'entusiasmo si scoprirà di vita breve, o si affaccerà a uno specchio paralizzai ore. Il famoso ricorrente simbolo, nell'opera di Pirandello, dello specchio che immobilizza, come uno sguardo di Medusa, sarà nato molto prima dei suoi anni maturi.

Non sarà tutta e sempre un'esperienza negativa questa degli anni palermitani, chè vi rimarranno legate certe dolcezze e certi assaporamenti della prima sensualità e la dolce angoscia dei primi amori, ma sarà, questo, soprattutto il tempo accorato della presa di coscienza di una propria diminuzione sentimentale e di una inettitudine ad abbandonarsi e a cedere alla vita piena e spiegata. Pirandello alla fine di questi anni avrà scoperto le proprie inibizioni e abbandonerà la sua vita sentimentale al caso e alla sorte. Amerà ancora e appassionatamente, ma sotto il segno della disgrazia.

Egli giunge a Palermo, colmo il cuore adolescente di spirito di avventura, e col senso di un raggiunto sollievo, di un più agevole respiro, per la quasi continua lontananza del padre. Sarà, è convinto, una nuova èra, questa, della sua vita.

Già Palermo stessa è la capitale. All'idea di Palermo come un luogo lontano e meraviglioso, in un certo senso favoloso, Pirandello si era abituato fin da bambino, forse per quanto gli dicevano che avesse, quella città remota, di fastoso, di splendente, di bello, e di diverso da quella Girgenti così squallida e da quella Porto Empedocle così feroce.

È un'idea favolosa e puerile, questa di Palermo, che resisterà sotterranea alla stessa esperienza della vita vissutavi: tanto che poi, quando lo scrittore ne sarà lontano e ne riparlerà, anche a quaranta o a cinquant'anni, non riuscirà a scioglierla da questa riduzione favolosa, e ce la descriverà smisurata e incontrollabile: una capitale infantile (un'idea simile di capitale, di città immensa che sfugge al controllo ed evoca, a contrasto, un mondo lontano e inveteratamente provinciale, è la giovanile Napoli verghiana): «Lo spettacolo (troviamo nél'Esclusa) si spalancava vasto e lucente. Tutta la città, distesa immensa di tetti, di cupole, di campanili, tra cui gigantesca la mole del Teatro Massimo...». «L'abbagliamento del sole al tramonto (in II viaggio) sotto un cielo tutto di fiamma lanciava come un immenso nembo sfolgorante sul Corso lunghissimo; tra le vetture, entro quel baglior d'oro il brulichio della folla rumorosa, dai volti e dagli abiti accesi da riflessi purpurei, i guizzi di luce, gli sprazzi colorati, quasi di pietre preziose, delle vetrine, delle insegne, degli specchi, delle botteghe». «Palermo. Vi arriva di sera Donna Mimma (in Donna Mimma)-, piccola, nell'immensa piazza della stazione... È una piazza? Che grandezza!... Fra tutti quei palazzi, incubi d'ombre gigantesche, straforate di lumi, accecata da tanto rimescolio, sotto, di sbarbagli, e sopra da tanti strisci luminosi, file, collane di lampade per vie lunghe diritte senza fine, tra il tramestio di gente che le balza di qua di là improvvisa, nemica, e il fracasso che da ogni parte la investe, assordante, di vetture che scappano precipitose...».

La famiglia di Stefano, a Palermo, andò ad abitare in Via Porta di Castro, nel centro ora popolare della città, allora ancora quartiere borghese e seminobiliare dietro le mura di Palazzo Reale. Era una casa a due piani e i Pirandello affittarono l'appartamento del primo piano. Al secondo piano, abitava una famiglia del ceto agiato, e c'era una bambina che passava gran parte dell'anno al «Maria Adelaide», il collegio frequentato dalle fanciulle della borghesia e dell'aristocrazia isolana.

È un episodio dei primissimi tempi palermitani di Luigi ed è rivelatore del turbamento febbrile che poteva coglierlo nelle prime esperienze amorose. Erano ferite che non sempre si rimarginarono.

Anche questo episodio è raccontato dal Nardelli. Il Nardelli è particolarmente attendibile perchè la sua biografia è nata da una stretta collaborazione con lo scrittore. Pirandello narrò le vicende della sua vita a questo suo biografo che allora, intorno al 1930, si trovava a Parigi, lontano da ogni altra fonte d'informazione ed era come se scrivesse un'autobiografia per interposta persona. Del libro, come pare, egli fu correttore riguardo al contenuto, mentre lasciava libertà di forma e di tono all'estensore. Ne nacque una curiosa contaminazione dei gravi, pesanti, e spesso dolorosi fatti della vita di Pirandello e di uno stile, per così dire, esaltato e allegro35. Certo è che la biografia portata a termine in questa sbandata dettatura, ebbe Yexpedit e passò all'editore stesso di Pirandello che la pubblicò con successo e fortuna in Italia e all'estero. Stando così le cose, nell'Uomo segreto (così s'intitola la biografia del Nardelli), gli episodi più rilevanti sono anche quelli che più avevano preso campo nella memoria di Pirandello, quelli che si erano scavati un solco profondo e non più cancellabile nella sua storia. E si tratta infatti per lo più di fatti traumatici.

La bambina, racconta Nardelli, si chiamava Giovanna e aveva poco più di dieci anni: «Le famiglie vicine si visitavano. Il Nostro, nel guardar quella piccola collegiale quando fu a casa in tempo di vacanze, provò una simpatia sorprendente, una spinta dell'anima, un trasporto che non seppe classificare, perchè essendo vissuto fino allora in completa innocenza mancava degli elementi di giudizio per identificare il sentimento proprio.

Ma l'ardore e l'estasi erano in lui già potentissimi. Se tu gli guardi ora in bocca, gli ritrovi un dente della chiostra inferiore, proprio in sul davanti, intaccato. Ecco come. Un giorno sul balcone (Palermo è piena di balconi dove al tempo dell'afa la gente boccheggia, quasi entro file di gabbie accaldati animali) il Nostro stava tutto intento a contemplare la piccolina a sua volta affacciata a un balcone più alto. I due ragazzi si rimiravano fisso. E tanto intensamente avean gli occhi negli occhi che Luigi, in una positura audace a sedere sulla ringhiera, col naso all'aria, si dimenticò. Stava per capitombolar giù. Nell'istante del pericolo s'attaccò ai ferri. Dall'alto la piccola strillò. Ed egli nello sforzo estremo di tenersi sbattè contro le spranghe la bocca e si scheggiò un dente.

Per uno sguardo.

Finite le vacanze della giovinetta, costei venne giù a salutare i vicini prima di partire pel convento: e portava già l'uniforme. Salutò la mamma di Luigi. Avendo costei ordinato al figlio di prender non so che da offrire in segno di saluto, egli non era padrone dei propri gesti. E affannato, incauto, maldestro nel far quanto gli si chiedeva, si ferì un dito.

Così gli fu dato d'intender la natura profonda del proprio turbamento. Perché la bambinetta, fattasi innanzi prontamente per soccorrerlo, gli prese il dito e colle proprie labbra succhiò il sangue. Certo non mise malizia in quella arditezza medicamentosa: ma il Nostro, nel toccarle la bocca e darle sangue, intese un bacio; intese un congiungersi dell'anime e dei corpi, quasi eucaristia amorosa.

Scoppiò in lagrime. Era insolitamente eccitabile. Forse già covava una malattia dentro il corpo, chissà. Perchè di lì a poco cadde in una febbre e stette tra la vita e la morte tre giorni, smemorato. Sua madre l'assistè...

Luigi non si nutriva, non teneva nulla e i medici l'avevan dato per ispento. Donna Caterina, con un'energia derivatale certo dall'esser cresciuta in una famiglia d'uomini allo sbaraglio, non volle cedere mai allo sconforto: e di propria testa, poiché i medici ritenevano inutile, seppure innocuo, ogni tentativo di resistenza, mise nelle pillole, che solo il malato inghiottiva, dell'estratto di carne.

Luigi era distrutto, non riconosceva nessuno. Ma la madre lo trattenne pei capelli sull'orlo degli abissi. E con indulgenza, poich'egli ebbe riaperto gli occhi, l'accontento nel capriccioso desiderio d'un sorbetto. Fatto sta che l'obbligò a vivere.

Riavutosi dopo due mesi di letto, Luigi s'alzò ch'era Pasqua, e soffocato da uno scialle stragrande, col volto esangue tra i capelli inselvatichiti, venne ad aggirarsi per le stanze della casa. La porta ch'esciva sulle scale era aperta, in quell'ora serena.

Così fu che la piccola collegiale rientrando per le feste lo vide all'improvviso, gettò un grido e svenne tra le braccia del padre che l'accompagnava.

Costui la sollevò di peso e tutto spaventato la trasportò su. Il Nostro tremava, tremava. Era l'amore».

Prime poesie

La famiglia rimase a Palermo dal 1882 al 1885. Da Via Porta di Castro si era trasferita in Via Borgo, di fronte alla chiesa di Santa Lucia. «Luigi riferisce il figlio Stefano traduceva per suo conto tutta l'opera d'un autore latino di cui in classe si studiava appena un libro... tra i tredici e i diciotto anni, condusse a termine il suo assunto che era quello di prendere diretta conoscenza coi testi della letteratura greca, latina e italiana»36.

Ma non sembra sia stato un abbandonarsi alla lettura con gusto piano e docile. Pirandello non appartenne, neanche da ragazzo, alla categoria degli scrittori che sono anche lettori onnivori e pronti immediatamente, in profondità o in superficie, all'assimilazione degli stili altrui. Rivelò sempre una spiccata inettitudine alle assimilazioni; e una caratteristica autodidattica sufficienza e una relativa fissità di categorie mentali. Solo nel periodo del noviziato letterario, si concesse, per così dire, ad alcuni esperimenti di mimesi, che lasciarono in sostanza le cose come stavano. Egli scoprì molto precocemente in sè una vocazione letteraria: ma non la intese che raramente, e solo per le manifestazioni secondarie, come una carriera di piacere, o come fonte di soddisfazione narcisistica. Invece vi si dedicò fin da principio con preciso intento etico, e secondo le necessità di uno sfogo continuo.

Egli nella sua preparazione umanistica di questi anni, per il volontarismo del suo studio, ci fa persino pensare a quel poeta che si faceva legare alla sedia. Di notte (secondo alcune testimonianze37), di nascosto dalla madre, e poi della zia di cui fu ospite, toglieva via i materassi dal letto e si distendeva sulle assi di legno, per non prendere facilmente sonno e leggere fino a tardi alla luce della candela, e per svegliarsi presto e ridarsi alla lettura. Spesso erano letture fatte controvoglia, proprio in vista di una preparazione la più estesa possibile, secondo gli schemi storico-filologici di fine Ottocento, e anche forse per volenterosa imitazione di grandi scrittori e poeti del passato. Dopo alcuni anni, Pirandello confesserà, in un articolo datato da Bonn38, quanta pazienza gli fosse necessaria per leggere i dialoghi del Tasso (mentre qualche altro autore gli riusciva più congeniale: il Cellini per esempio, e il Bruno; e molto amava il Goldoni): «Ricordo che, ragazzo, il signor professore m'ingiungeva sempre di leggere i dialoghi del Tasso; io, se bene con grave animo, mi davo sempre a obbedirgli; ma, l'ombra del Grande me lo perdoni, ci cascavo sopra, come per forza di legamento oscuro...». Però qualche parola molto letteraria, «ripicchiata e di vocabolario» (Alvaro), finirà più tardi per piombare, e rimanere impigliata, nella sua prosa nei luoghi più inattesi. Una conseguenza, questa, anche delle letture fatte contro genio. I libri, li prendeva in prestito alla Biblioteca «Vittorio Emanuele».

Di più gli stava a cuore, in questo periodo, la lettura dei poeti: specialmente di quelli dell'Ottocento romantico, da Carrer e Prati fino al Carducci e soprattutto all'idolatrato maestro, il suo Graf. A quindici anni infatti Pirandello voleva assumersi il personaggio del poeta. E si esercitava coscienziosamente e senza stanchezza. Le poesie del 1883 che sono fra i pochissimi documenti autografi che ci rimangono di Pirandello fino al 1886 sono quarantadue, tutte scritte, tranne una, fra il gennaio e il maggio del 1883; e venti nel solo maggio. Ma debbono costituire appena uno stralcio di una produzione infinita. Infatti, in fondo a uno di questi due quaderni (che s'intitola Prime note; l'altro è intitolato Nuovi versi), Pirandello scrisse in carattere stampatello: «Dello stesso autore: Maggio. In preparazione: Quattr'asterischi e Montecaputo». In qualche giorno di quella primavera egli scrisse anche due componimenti, come il 21, il 26, e il 30 maggio. Nè mancano i poemetti lunghi, di cinque strofe di venti versi ciascuna, nè una ballata di settanta versi, nè lunghe novelle in versi. Il quindicenne poeta si faceva strada animosamente tentando tutti i generi: il lirico, l'epico-lirico, la romanza, l'idillio, senza preoccupazioni ortografiche, sì con preoccupazioni di bella scrittura (uno studio quasi tipografico di fregi, disegni e decorazioni), con un vivace entusiasmo di punti esclamativi (fino a dieci in quattordici versi) e con abbandono indifferenziato e indiffidente ai modelli.

Di solito il poeta si limita ad esercitarsi alla brava, ora su Carducci, ora su Rapisardi e Stecchetti, come in L'ira, dove, dopo aver maledetto al ricco («Maledetto colui che gavazzando ne l'orgie infami...»), rappresenta la vendetta del povero che «La porta romperà come uragano e digrignando i denti con furore, il cor ti strapperà con un sol morso»; ora su Leopardi, come in Destino: «E la tua tomba povera O misera fanciulla s'alzerà solo a immagine del Nulla». Oppure, dalla parte di «follia e amore»: «Va gridando la furente La bellissima donzella! E qual furia novella Non ha freno ai pianti, ai lai! È già Lena una demente...». La conclusione è quanto mai alla Prode Anselmo: «O vii sogno... perchè mai Ti portasti la ragione De la Lena, col garzone Che nel campo andò a spirar?».

Ma tutte queste, nel bene e nel male, sono semplici approssimazioni a un'ideale antologia romantica alla quale Luigi si ispirava. Queste poesie ci interessano invece di più per il loro aspetto autobiografico. In tal senso vi si può attingere in diversa misura. Anzitutto ci dànno il punto dell'attenzione di Pirandello di quindici anni alla letteratura, ci informano del grado di questa attenzione e della sua qualità. Era una lettura estensiva che egli andava facendo dei suoi autori e l'appassionamento rimaneva generico: per la letteratura e la poesia: senza scelte e preclusioni. E per quanto ci fosse una prevalente tendenza a guardare indietro nel secolo, al romanticismo delle malie e dei misteri, delle selve drammatiche, egli dimostra anche di intendere alcune voci aggiornate della poesia veristico-borghese, e leggeva e rifaceva la voce anche del giovane D'Annunzio.

Ma al di là di questo significato che le investe tutte, in esse si trovano voci più strettamente autobiografiche. In un poemetto intitolato L'esule, è dimostrata la continuità, in questi anni, nel ragazzo, del sentimento patriottico, che si richiama implicitamente, pur nella genericità convenzionale del linguaggio romanticheggiante, alla storia familiare, alla morte in esilio del nonno materno: «L'esule ...morendo Patria e famiglia ancora — Abbandonar gemendo Deve agli amplessi d'una iniqua sorte...». Si ha, in un altro componimento, la conferma del precoce abbandono della religione. È una meditazione su una tomba: «Oh! vanitade de l'umane cose Qui... sì, qui tutto cessa, tutto Qui tiene i suoi tramonti: In questo luogo han fine gli orizzonti! ...Qui muore la Speranza... ...quaggiù, tu, Nulla sarai!39».

Colpisce, in Pirandello adolescente, il ricorrere senza sosta, sia pure in superficiali e riecheggiate intonazioni, di immagini e personificazioni della follia e della morte; nè mancano i dialoghi con tombe e teschi: «Io fui come sei tu, e il nero oblio mi travolse così... ma senti? ... ancora Sarai... Tu... qual son io!». Così colpisce una precocità di tristezza, una prematura esperienza di vuoto e di delusione, anche se voltata in grazia di madrigale: «Lascia ch'io pensi! Solo Mi resta della vita Il pensieri... Già avvizzita È la mia rosa! L'ho data in preda al duolo E forse troppo presto, Ora disciolto resto D'umana cosa!...». E così sembrano anticipati, ma dimostrano solo un coerente, prepotente destino psicologico, alcuni temi e frasi che saranno caratteristici del Pirandello più maturo: la «strana commedia della vita»; «la vita ch'io la chiamo passatempo»; «Oh quanto vana è la vita sì corta e dolorosa»; «In questa vita incerta e inesplicata, illuderci dobbiamo...».

Ma vi sono anche colori più chiari e più fanciulleschi. Alcuni puerili lapsus ci danno una misura integra d'ingenuità. Pirandello si rivolge per esempio a una fanciulla morta che gli «augelletti festosi» vorrebbero richiamare in vita, con macabro appellativo: «O amica ischeletrita»; o invoca un'altra musa fanciulla: «Iella gentil, discendi». Di un'altra donna il poeta racconta: «M'avea chiamato con la voce flebile m'avea dato al mattino puntamento...» e, tra i prati e le verzure, avviene la di lei confessione: «e come pazza mi gridò nel timpano: t'ho tradito! noi sai? dammi la morte!» In un'altra poesia, viene assimilato, inconsapevolmente, un aggettivo dal gergo siculo-mafioso, e, con strano effetto, applicato ai fieri alberi della Sila: «membra d'abeti mozze, che nell'aria un dì s'alzavan belle e rispettate!». Ma qui gli esempi si moltiplicherebbero.

Pirandello, dimostrano ancora queste poesie, era un ragazzo affettuoso che aveva lasciato a Girgenti molti amici; e altri se n'era fatti a Palermo; molte poesie di Prime Note sono dedicate infatti ad amici: «A te G. B. Buscemi, dedico di cuore quest'umili versi», e altri versi sono dedicati a S. Carbonaro, a Eduardo Sclafani, a Giuseppe Palmeri, a Enrico Sicardi Rivarola, a Giuseppe Bordonali, a Costantino Candiloro. Questo fu un momento anche di primissimi successi e di primissime pubblicazioni. Il sogno del piccolo peregrino!! «fu letto al Circolo Giacomo Leopardi in Palermo», con compiacimento annota l'autore in calce alla poesia; e il sonetto Fiori secchi «fu pubblicato nel N. 4 del giornale Sogni e fiori» (il sonetto stecchettianamente comincia: «Poveri fiori miei... poveri fiori»). E a diciassette anni Pirandello pubblica su un giornale di Torino (La gazzetta del Popolo della domenica, i° giugno 1884), la sua prima novella, La capannetta. È un bozzetto dal tessuto siciliano-verghiano, interessante per il risalto violento e delicato dei sentimenti, semplificati ed estremi. Nè vi mancano le innocenti ingenuità («La fanciulla guardava tramortita»; «Malia (la figlia del castaido, abitante nella capannetta) aveva il volto di una donna di Paolo Veronese»).

Il piccolo canzoniere pirandelliano è poi ricco di nomi di donne, bionde e brune, amate anche con virile quasi dannunziano impegno! «...soffocherem frementi gli impeti nostri in tanti feroci abbracciamenti». V'è Brunetta, «la Bimba dagli occhioni neri, ... Brunetta da le nere chiome»; v'è una «villanella», «con quel visino rosso, e quell'onda di nere chiome sciolta sulla schiena»; v'è Ghita, alla quale non si promette un avvenire felice, come a tutte «quelle che rivendono — I baci a vii mercato» («Come meretrice il destino ti fece! Attratta da magnetica Forza ti spinse il fato E indietreggiando, tu pur hai baciato»); v'è Maria («in mezzo ai venti tutta involta nel rosso tuo mantello...»); v'è Iella («Iella mia gentile»), v'è una «cara fanciulla», «dolce bellezza bionda», senza nome, e v'è finalmente Linuccia, la cugina di quattro anni maggiore, di cui Pirandello sedicenne s'innamorerà perdutamente. Questa poesia che è l'unica che ci rimanga esplicitamente dedicata a Lina, fra le tante che Pirandello per Lina scrisse, documenta forse solo il primo sorgere dell'amore in Luigi, confusa com'è ad altre poesie rivolte ad altri nomi di donna. Solo più tardi infatti, quando Pirandello rimarrà a Palermo solo, senza la famiglia, questo amore si farà forte ed esclusivo.

Il gesto

Pirandello, in questi anni, vive a Palermo con la mamma, con le sorelle e i fratelli, mentre il padre continua ad andare e tornare da Porto Empedocle. Ma Stefano, in questo periodo, vive una sua vicenda amorosa, extraconiugale, che molto offende la famiglia, e Luigi più degli altri. Nelle soste palermitane Stefano ha degli incontri clandestini con una donna.

Luigi aveva allora circa quattordici anni e fremeva di ribellione. L'offesa che viene fatta alla sua mamma lo spinge ora a un gran gesto contro il padre. Cito, per questo fatto, ancora dal Nardelli: «Stefano Pirandello era stato fidanzato a una cugina [più esattamente, nipote], si sa. E si sa che s'erano lasciati per un puntiglio. Ella s'era maritata altrui; e quindi, rimasta vedova, era caduta in miseria. Scrisse dunque (era figlia d'una sorella di Stefano) a costui, per domandargli aiuto. E siccome la posta in casa Pirandello era abbondante e di natura prettamente commerciale e veniva aperta e smistata dalla mamma, la lettera implorante fu dalla stessa Caterina data a suo marito, con la preghiera di beneficare chi aveva steso la mano.

...Siccome ogni azione buona vuole un prezzo, donna Caterina pagò codesto suo gesto. E il suo uomo, attrattovi dalle modalità dell'aiuto da porgere e delle grazie da ricevere, rivide la forma del proprio antico amore...

Come a Dio piacque dunque, l'antico sogno rifiammeggiò».

In principio, i due si incontrarono cautelosamente nel parlatorio dell'Origlione, presso madre Francesca, la già ricordata sorella di Stefano, badessa del convento. Costei, prozia di Luigi, «alta e bella come Stefano», si faceva complice, con tutta probabilità involontaria (nè c'è motivo di ritenerla della specie delle monache di Monza), di quell'adulterio. Ma possiamo farci raccontare da Pirandello stesso l'episodio. Fra le pochissime novelle che egli scrisse nel dopoguerra, fra un'opera e l'altra di teatro, novelle per lo più di estroso e radicale pessimismo, una ve n'è di carattere più veristico in cui egli volle riferire, con qualche mascheratura, l'avventura del suo odio verso il padre, accaduta più di quarant'anni prima. Che la novella (Ritorno) sia autobiografica Pirandello lo rivelò al Nardelli.

...Lui, aveva voluto farsi, a quattordici anni, paladino della madre contro il padre che la tradiva «...Sapeva che le domeniche mattina i due si davano convegno nel parlatorietto riservato alla madre badessa del monastero di S. Vincenzo, ch'era una loro zia. Fingevano d'andarle a far visita; e la vecchia badessa, che forse scusava con la parentela tra i due la tenera intimità di quei convegni, godeva nel vederseli davanti, l'uno di fronte all'altra, ai due lati del tavolino sotto la doppia grata: lui... con l'abito turchino..., lei d'una piacenza tutta carnale ma placida perchè soddisfatta, vestita di raso nero e luccicante d'ori nella penombra di quel parlatorietto che aveva il rigido delle chiese.

S'imbeccavano, un boccone tu, un boccone io, le innocenti confezioni della badia, e dai bicchierini il pallido rosolio con l'essenza di cannella, un sorso tu, un sorso io. E ridevano. E anche la zia badessa... dietro la vecchia grata, si buttava via dalle risa.

Era andato a sorprenderli, una di quelle domeniche.

Il padre aveva fatto a tempo a nascondersi dietro una tenda verde che riparava a destra un usciolo; ma la tenda era corta, e sotto i peneri ancora mossi si vedevano bene le due grosse scarpe di coppale lisce e lustre; ella era rimasta a sedere davanti al tavolino, col bicchierino ancora tra le dita, in atto di bere.

Le era andato di fronte e s'era tirato un po' indietro col busto per scagliarle con più forza in faccia lo sputo. Il padre non s'era mosso dalla tenda. E a lui, poi, a casa, non aveva torto un capello nè detto nulla». Dopo tanto tempo, «gli appariva d'improvviso, bella, la faccia di quell'altra, col ricordo indelebile di com'ella lo aveva guardato, mentre ancora lo sputo le pendeva dalla guancia: un sorriso incerto, di quasi allegra sorpresa, che le luceva sui denti tra le labbra rosse; e tanta pena, invece, tanta pena negli occhi».

Nella novella si dice che «egli non aveva riveduto il padre mai più». E veramente Pirandello non ebbe più quasi rapporti col padre, se non per brevissimi incontri. «Tra padre e figlio dice Nardelli discese un silenzio ostinato e lontano».

Ma poi, morta nel 1915 la madre, Pirandello volle ospitare, a Roma, il padre ormai inabile e mezzo cieco e lo circondò di tutte quelle cure che poteva. Racconta Arnaldo Fratelli che Pirandello in quel periodo pregava i pochi amici intimi «di giuocare lunghe partite a scopone e a tressette col padre, che, ormai quasi cieco e sordo, ma sempre duro e autoritario, sempre diritto nella persona altissima e gagliarda, esigeva quella distrazione serale, sobbarcandosi, Pirandello stesso, alla noia del giuoco, e all'obbligo di perdere regolarmente, per non suscitare lo scontento del vecchio»40.

Ma rimase in lui un segreto cruccio di colpa e di rimorso. In questa stessa novella, del 1923, egli ce ne parla. Dice che il personaggio, di cui si rievoca il ritorno nei luoghi dell'infanzia, «da un pezzo si sentiva pungere segretamente dal rimorso d'aver lasciato il padre... senza volersene curare. Anche in quel momento se ne sentì pungere; ma subito respinse quel rimorso con un urto d'odio...».

Rimorsi simili, segreti e rapidi, dovettero trascorrere nell'anima di Pirandello ogni qual volta ripensasse al padre. Il destino suo tutto rimase, fin quasi alla vecchiaia, radicalmente ancorato a una necessità rivalsa. Lo stesso contrasto affettivo era stato mortificato e frustrato nei tempi remoti dell'infanzia dall'incomprensione e dall'indifferenza del padre, che si tenne (ci mettiamo nel punto di vista di Pirandello) superbamente lontano dal campo stesso di quella lotta di odio-amore.

Adesso, a Palermo, dopo quella mortificazione inferta al grande padre, la vita in famiglia non doveva essere più molto serena.

Tanto meno lo era perchè una figlia di Stefano, sorella minore di Luigi, si ammalò, durante la crisi di sviluppo dell'adolescenza, di una malattia che parve sconvolgerne la mente. È la prima volta che la follia passa vicina a Pirandello.

Pare che Stefano Pirandello di quel grave fatto avesse rimorso quasi si trattasse di una punizione provvidenziale per la sua colpa contro la famiglia. Questa almeno sembra essere l'opinione, confessata al Nardelli, di Pirandello. Il quale, ne I vecchi e i giovani, ci presenta un personaggio, Flaminio Salvo, che ha più di un tratto in comune con il padre (come lui è un forte e spregiudicato speculatore del mercato zolfifero, e vi sono altri elementi che concorrono per una tale individuazione), il quale subisce, a un certo punto, la stessa sorte: la figlia giovinetta perde la ragione. E Pirandello costruisce un nodo tragicopatetico del suo romanzo intorno a questa nemesi e ci descrive con tenerezza autobiografica la fanciulla, buona, ingenua, tutta rossori, sussulti e tumulti, e il suo aggirarsi quasi sereno per la campagna del Caos, e poi la sua perduta serenità, le sue crisi e la perdita della ragione. (Ma la sorella di Pirandello, che aveva allora quindici anni, guarì perfettamente).

Stefano Pirandello cedette al dolore proprio e soprattutto a quello silenzioso della moglie e volle che tutta la famiglia abbandonasse Palermo. Si trasferì a Porto Empedocle, in campagna, alle Due Riviere, presso Monte Rossello.

(Stefano trovò anche da fare risposare la nipote-amante con altra persona disposta, grazie al suo denaro, a rendere legittima la nascita imminente di una bambina).

II fidanzamento

Luigi così rimase solo a Palermo, e andò ad abitare in via Maestro d'Acqua in una stanzetta d'affitto, con un compagno di studi di Sant'Agata Militello, che si chiamava Carmelo Farad41. Era il suo ultimo anno di liceo.

Pirandello non frequentava molto la scuola. Dice anzi il figlio Stefano42 che «egli non andava quasi mai alle lezioni per non perdere tempo; alla fine dell'anno scolastico il Consiglio dei Professori doveva decidere se ammetterlo agli esami».

Il suo amico Carmelo Faraci intuiva nel compagno di stanza una qualche segreta qualità eccezionale che gli meritava da parte sua rispetto e dedizione, e si diede a servirlo in tutte le necessità pratiche. Si occupava della spesa e della cucina, mentre Luigi era tutto dedito al suo studio, alle sue poesie e all'amore per la cugina che all'improvviso era divampato.

Pirandello ha ora diciotto anni, ma, a Linuccia, aveva cominciato a pensare quando ne aveva quindici. Come si è visto, a lei aveva dedicato un breve e lieve madrigale, intitolato Sorriso.

Per la loro eccezionalità documentaria citiamo alcuni di questi versi. Se ne può ricavare il senso di un timido approccio, fanciullesco e tenero, alla fanciulla ancora lontana:

«Bella natura che mi ridi avanti, come fanciulla che ci porta a festa,

col sorriso di rose e d'amaranti sveglia se puoi la mia Linuccia mesta,

mandale un'aura profumata, e poi il canto de' più belli uccelli tuoi...

Ridi, Linuccia, e accetta la ghirlanda che il sorriso d'un'anima ti manda».

Anche la poesia che segue questa, nel quaderno pirandelliano (le poesie non sono impaginate secondo cronologia), potrebbe essere dedicata a Lina, sia per la sua posizione nella raccolta, sia perchè vi si trova un ammonimento, quasi un ricatto, un'allusione segretissima agli anni che sono trascorsi per Lina e che al ragazzo sembrano tanti: che pensi alla caducità di Amore: «Cadon le foglie gialle da gli alberi morenti e corron per la valle trasportate dai venti... Bada, fanciulla, bada se ti cade dal core lungo l'immensa strada, come una foglia, Amore!».

Linuccia Pirandello aveva quattro anni più di Luigi e molti ammiratori. Corteggiata da tanti, e probabilmente &ssai civetta, pare che, perfidamente, con i suoi parenti se la ridesse assistendo a quella passione precoce del ragazzo, alla sua gratuita gelosia che affiorava ingenuamente ogni volta che qualcuno ottenesse da lei una prova di simpatia. Luigi, tanto più ragazzo di lei, si sentiva un po' nei panni di Davide, con solo una fionda in mano. La sua arma erano i versi, mentre col trascorrere del tempo il suo amore si faceva più tormentoso.

Lina apparteneva a una famiglia numerosa e Luigi si era fatto amico di un fratello di lei, suo coetaneo: così poteva frequentarne la casa. Ma non osava dichiararsi: pare che fosse, il suo, un amore tanto macerante quanto timido.

«Finché all'improvviso, chi sa perchè, forse per qualche dispetto o per qualche disinganno inatteso o per prendersi una rivincita su qualcuno, ella gli s'era accostata amorosa, gli s'era promessa» (Pirandello, in Fra due ombre. Anche questa novella è stata affidata al Nardelli come autobiografica. E lo è apertamente). Avvenne così che rifiutasse la corte degli altri (amici dei fratelli maggiori, uomini di mare che frequentavano la casa), e ne nacque il tacito impegno di Luigi, che troppo acceso e appassionato in quel momento, non poteva giudicare con sufficiente serenità quanto gli avveniva.

Andato intanto via da Palermo il Faraci, per la morte di un fratello, Luigi si era trasferito in via Bontà, presso una prozia, che, vedova e molto povera, si adattò, per un compenso, a ospitarlo e a servirlo.

Le cose con Lina presto si complicarono, perchè lei rifiutò un partito serio (mentre un altro degli spasimanti tentava per lei il suicidio). Un ricco vedovo palermitano, grosso negoziante di stoffe, avrebbe infatti voluto sposarla. I genitori di lei, visto il grosso affare che se ne sarebbe fatto, spingevano Lina ad accettare. E intanto Luigi fu escluso dalle visite ormai consuete a Lina.

Gli pareva di morirne. Ma Lina questa volta rimaneva fedele; e perciò, quando la famiglia di lei fu certa del suo rifiuto, invitò, con le cattive, o quasi, Luigi, ormai ritenuto responsabile della sorte definitiva di Lina, a chiederne finalmente la mano.

Luigi, era il diktat della suocera, doveva lasciare subito gli studi e darsi col padre al traffico dello zolfo. Perchè Lina non poteva essere data a uno spiantato.

Egli che non capì subito che cosa gli si chiedeva, e spinto da un lato da un'ancora cieca felicità per quel bene finalmente raggiunto («Lì per lì, gli era parso di toccare il cielo con un dito» dice in Fra due ombre), dall'altra dalla irrevocabilità di ciò che accadeva, corse a Porto Empedocle per strappare il consenso del padre.

Stefano Pirandello, in tutto l'affare, non seppe vedere altro che una specie di circuizione di minorenne perpetrata ai danni del figlio e ai suoi stessi. Infatti il suo patrimonio era di nuovo abbastanza florido per fare gola a chiunque. Tentò perciò, in principio, di impedire il passo a Luigi, «saggiamente facendogli osservare che era troppo intempestivo per lui un impegno di quel genere; che la cugina aveva quattr'anni più di lui, e che egli avrebbe dovuto aspettare per lo meno altri sei anni per farla sua» (Tra due ombre). Poi, di fronte alla decisione di Luigi, che però dovette contrastare con lui per un mese intero, ostinato e disposto a tutte le promesse e giuramenti, e alla sollecitudine della moglie, che, per quanto contrariata, non voleva dispiacere al suo Luigi, cedette. Ma decise intanto che il figlio ritornasse a Palermo per finirvi l'anno scolastico. Stefano infatti voleva dar tempo al tempo.

Lo zolfo

Così, finito il liceo, Luigi si ritrovò a Porto Empedocle, disposto, gli pareva, a una vita tutta nuova e tutta diversa da quella a cui si era sentito chiamato fin dagli anni dell'infanzia.

Da Girgenti e da Porto Empedocle egli mancava ormai da sette anni, tranne brevi ritorni. Ma adesso vi ricapitava, transfuga della poesia involontario e costretto, senza un libro anzi dopo avere alla leggera rinnegato tutti i libri.

Porto Empedocle, in estate erano i mesi delle vacanze, luglio, agosto, settembre del 1886 era una specie di bolgia di sole e zolfo. Un inferno terribilmente suggestivo, prepotente e nemico.

Luigi, di questo paese, conservava memorie antiche, e sempre brusche, di violenza. Non riusciva a dimenticare anche se, probabilmente ne aveva solo sentito parlare, che all'urlo del banditore, uscivano, ogni mattina, i forzati dalla Torre Carlo V, la prigione borbonica «quadrata e fosca» sul mare, «a gettare le scogliere del porto».

In una sua poesia del 1910, rimasta inedita fino al i960, nel ritmo dell'esercitazione leopardiana e carducciana, ritorna questa triste immagine43:

«Quando su queste desolate ardenti

sabbie sorgean poche e modeste case,

e in mezzo al viavai

di tanti carri, dalla torre antica

usciano alla fatica

i galeotti rasi, trascinando

con stridor lungo la catena a schiera;

e un banditore all'alba, ogni mattina,

fiero nel volto, cotto

dal sole, alzava a le mascelle vaste

la man villosa e con stentorea voce

tre volte, urlava il bando:

"O uomini di mare,

venite a lavorare alla marina "».

Con animo meno evocativo, e più sbigottito, da letterato fatto zolfataro, Pirandello si vide in mezzo al vociare di quegli uomini «scamiciati e scalzi», tra le cataste di zolfo e le stadere. «Da mane a sera, ricorda ne I vecchi e i giovani, è uno stridor continuo di carri che vengono carichi di zolfo dalla stazione ferroviaria o anche, direttamente, dalle zolfare vicine; e un rimescolio senza fine d'uomini scalzi e di bestie, ciattìo di piedi nudi sul bagnato, sbaccaneggiar di liti, bestemmie e richiami, tra lo strepito e i fischi d'un treno che attraversa la spiaggia, diretto ora all'una ora all'altra delle due scogliere sempre in riparazione... Schiacciati sotto il carico («il giallo incarco stridulo», sarà nella poesia), con l'acqua fino alle reni. Uomini? Bestie!... le fogne sono ancora scoperte sulla spiaggia e la gente muore appestata; con tanto mare lì davanti, manca l'acqua potabile e la gente muore assetata! Nessuno ci pensa; nessuno se ne lagna. Pajono tutti pazzi, là, imbestiati nella guerra del guadagno, bassa e feroce!»

Per tre mesi Pirandello, sudato e impolverato di giallo, stette a pesare zolfo, attento a non farsi frodare.

In questi tre mesi, volente o nolente, da vicino, si rese conto, anche in termini economici, dei problemi dell'industria e del commercio dello zolfo. Questa rimase infatti la sua forse unica, anche se alquanto generica competenza, fuori di quella letteraria, e una delle sue pochissime prese di contatto con i termini immediati di una realtà economico-sociale. Tentativo, questo di Pirandello, di spiegarsi i fatti della cronaca economica, di cui si deve tener conto, perchè completa il suo ritratto oltre certi schemi biografici troppo semplificati e di comodo.

(Un altro tentativo di valutazione storico-sociologica egli farà nei riguardi dei Fasci siciliani; si vedrà come).

Si potrebbe trarre una piccola antologia, nell'opera di Pirandello, sotto il segno dello zolfo. È un'attenzione, la sua, che va dal momento della produzione a quello della distribuzione. In realtà, la stessa sorte finanziaria di Pirandello rimase a lungo legata agli anelli di questa catena. Suo padre fu, a varie riprese, gerente di miniere, speculatore finanziario e soprattutto commerciante, ora in piccolo ora in grande, di zolfo. Nella poesia del 19io, citata sopra, Pirandello ci parla di uno di questi momenti fortunati del padre:

«...avea mio padre, avventuroso e accorto mercante, amica la fortuna, e quante venian di Francia navi

e navi d'Inghilterra, tutte per lui se ne partiano gravi di zolfo o per Levante o verso Gibilterra...».

Pirandello in quei tre mesi estivi di noviziato commerciale, studiò con curiosità la vicenda del minerale, prima e dopo che gli arrivasse sulle stadere in quelle poetiche gialle forme trapezoidali. Naturalmente egli era troppo un letterato perchè non confondesse facilmente i fatti schietti dell'industria con le valutazioni poetico-letterarie di essi, e soprattutto era portato a un vivace interesse per gli uomini, per coloro che (come lui) subivano sul proprio corpo, o sul proprio spirito, la alienante violenza delle brute esigenze economiche.

Bisogna dire anche che Pirandello era portato, per temperamento e per l'educazione umanistica, a una nostalgia in un certo senso regressiva verso l'idillio campestre ottocentesco, e indietro ancora, verso un mito roussoviano della natura. Egli si avvicinò, in questo stato d'animo, al problema della campagna bruciata come per una condanna dai fumi delle fornaci di fusione dello zolfo, e descrisse quei contadini smarriti di fronte al fenomeno nuovo dell'abbandono dei campi verdi e sereni alla dolorosa e impoetica produzione. Anche gli zolfatari subiscono il fascino delle ridenti terre circondanti gli aridi circhi del loro lavoro: «Appena i zolfatari, dice nella novella intitolata II fumo, venivan su dal fondo della buca col fiato ai denti e le ossa rotte dalla fatica, la prima cosa che cercavano con gli occhi era quel verde della collina lontana, che chiudeva a ponente l'ampia vallata. ...Per tutti, era come un paese di sogno quella collina lontana. Di là veniva l'olio alle loro lucerne che a malapena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l'unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati».

L'ambito dello zolfo assume per Pirandello un simbolico grado ossessivo, singolarmente autobiografico: «l'oppressura», «le rabbie dell'asfissia», «l'imbestiamento» sono parole che ricorrono a proposito di chi ha a che fare con lo zolfo; e c'è la morte sottoterra, dove gli zolfatari sono «tanti morti affaccendati».

Sebbene a conti fatti si trovasse dalla parte dei padroni Pirandello protestò anche, con timbro veristico-filantropico, contro la sorte dei carusi. Era, il trattamento dei carusi, uno dei fenomeni più iniqui dei rapporti di lavoro nelle miniere siciliane. Tutta una pubblicistica umanitaria ne era derivata, dallo scritto del Sonnino dedicato a II lavoro dei fanciulli nelle golfare siciliane, a quello del Colajanni sui Lavoratori delle zolfare, a quello di White Mario sulle Miniere di zolfo in Sicilia44. Pirandello, inserendosi anche lui in questa tipica pubblicistica, potrà riferirci la sua impressione diretta e documentaria. Gli avvenne infatti, come sappiamo da alcune testimonianze, di accompagnare il padre nelle visite che questi faceva alle miniere.

L'impiego nelle miniere di bambini di otto, di dieci e di dodici anni, aveva per il visitatore un penosissimo risalto: «I carusi (Il fumo), buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, [stavano] seduti sui sacchi, per rifiatare un po' all'aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della "buca"...».

Come ricorda S. F. Romano, nella sua Storia dei Fasci siciliani1, «i rapporti che si stabilivano fra caruso e picconiere, per conto del quale il caruso doveva trasportare a spalla, dal fondo della miniera per le ripide scale ai calcheroni, un peso di più di venti chili di minerale estratto, si presentavano come una sorta di moderno adattamento alle nuove condizioni dell'antica servitù personale. Non senza ragione, infatti, la cessione del lavoro del fanciullo, fatta inizialmente dai genitori per un compenso in denaro, detto «soccorso morto», veniva chiamata di solito «l'affittanza della carne umana».

E in realtà la cessione stabiliva di fatto una dipendenza personale e diretta, di tipo schiavistico, del caruso dal picconiere... Il picconiere esigeva dal caruso il massimo sforzo di lavoro; e ad ogni segno di stanchezza, adoperava la cinghia, usava le percosse, cui era autorizzato dagli stessi genitori... La catena della servitù personale, in cui il caruso si era impigliato all'inizio del suo lavoro in miniera, non si spezzava neanche nell'età matura, chè spesso egli restava caruso fino all'età di trent'anni».

Da questa sorte del caruso, Pirandello trarrà lo spunto per quella che è da ritenere fra le più belle Novelle per un anno, così intrisa di una suggestione verghiana (ma è anche una novella non priva di crudeltà): Ciàula scopre la luna.

Nella novella, che è ambientata nelle miniere di Comitini, in provincia di Girgenti, Ciàula è il caruso-uomo che subisce la violenza del picconiere, un altro disgraziato che a sua volta subisce quella del soprastante, che Pirandello ci rappresenta vile e «affierato, contro i minatori, con la rivoltella in pugno» e urlante: «Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco!» (In verità qui si tratta di un mafiosello da strapazzo, ma dato che anch'egli riesce ad avere le sue vittime da calpestare, rimane sufficientemente esemplare perchè ce ne venga luce sui suoi colleghi, più di lui capaci di farsi rispettare dai minatori). Di questa novella ci avverrà di parlare ancora.

Ma l'attenzione di Pirandello si sa fare anche più precisa. Egli (nella novella II fumo) ci parla di tutti «i pesi a cui doveva sottostare un povero affittuario di zolfare. Li sapeva tutti, lui,... Ed ecco, oltre l'affitto breve, l'estaglio, cioè la quota d'affitto che doveva essere pagata in natura, sul prodotto lordo, al proprietario del suolo. ...E, oltre l'estaglio, le tasse governative d'ogni sorta; e poi l'obbligo di costruire, non solo le gallerie inclinate per l'accesso alla zolfara e quella per la ventilazione e i pozzi per l'estrazione e l'eduzione delle acque; ma anche i calcheroni, i forni, le strade, i caseggiati...».

Con inquietudine più compromessa, e con più sofferta partecipazione, Pirandello assisteva allo spettacolo che gli si svolgeva intorno e sotto gli occhi sulle banchine di Porto Empedocle: «Mentre si vestiva, sentiva giù stridere i carri carichi di zolfo, carri senza molle, ferrati, traballanti sul bracciale fradicio dello stradone polveroso popolato di magri asinelli bardati, che arrivavano a frotte, anch'essi con due pani di zolfo a contrappeso. Scendendo alla spiaggia, vedeva le spigonare, dalla vela triangolare ammainata a metà su l'albero, in attesa del carico, oltre il braccio di levante, lungo la riva, sulla quale si allineava la maggior parte dei depositi di zolfo. Sotto alle cataste s'impiantavano le stadere, sulle quali lo zolfo era pesato e quindi caricato sulle spalle degli uomini di mare protette da un sacco commesso alla fronte. Scalzi, in calzoni di tela, gli uomini di mare recavano il carico alle spigonare, immergendosi nell'acqua fino all'anca, e le spigonare, appena cariche, sciolta la vela, andavano a scaricare lo zolfo nei vapori mercantili ancorati nel porto o fuori. Così, fino al tramonto del sole, quando lo scirocco non impediva l'imbarco» [Lontano).

E tutto a Porto Empedocle gli pareva sbagliato, assurdo. Quelli che lavorano allo zolfo non sanno che cosa se ne faccia, tranne che fiammiferi, in quei paesi lontani dove lo portano «tanti vapori inglesi, americani, tedeschi, francesi, perfino greci, che stanno pronti con le stive aperte come tante bocche a ingojarselo; ci tirano una bella fischiata, e addio! Che ne faranno, di là, nei loro paesi? Nessuno lo sa; nessuno si cura di saperlo! E la ricchezza nostra intanto, quella che dovrebbe essere la ricchezza nostra, se ne va via dalle vene delle nostre montagne sventrate, e noi rimaniamo qua, come tanti ciechi, come tanti allocchi, con le ossa rotte dalla fatica e le tasche vuote...» (Il fumo). Qui «non si costruiscono le banchine sulle scogliere del nuovo porto, da cui l'imbarco si potrebbe fare più presto e comodamente coi carri e i vagoncini, perchè i pezzi grossi del paese sono i proprietari delle spigonare» ( I vecchi e i giovani).

«Una gru o una cicogna»

Ma tutti questi furono accertamenti di carattere economico che Pirandello potè più tardi in qualche modo liberare dal groviglio ansioso in cui gli si affacciarono in quella particolare stagione della vita. Un ben diverso metro, indiscreto e passionale, dovette avere la sua valutazione in quei tre mesi di grande prova. È infatti un periodo, questo, in cui il biografo può scorgere nettamente segnata la violenza del mondo contro il cielo platonico pirandelliano.

Qualunque ne fosse l'origine noi non siamo riusciti a decifrarla (potrebbe trattarsi della precocità di formazione del super-io pirandelliano, e della mitizzazione che se ne cristallizzò affondata in abissi ignorati) sopravvive in Pirandello fanciullo e adolescente, e poi giovane e infine uomo maturo, e vecchio sul passo della morte, un archetipo segreto e ignorato di perfezione. Tutto il mondo sempre si proietta, con forza di offesa, contro questo idealizzante principio. L'immagine del mondo è perciò, a contrasto, sempre per Pirandello un'immagine di caduta e di imperfezione. Quella che suole essere chiamata la religiosità pirandelliana ha questa origine. La furia di Pirandello, quando è furia, nasce anche dall'ira per questa incoerenza di cui egli ha segreta coscienza. Su questa incoerenza nasce il senso di una condanna propria e di tutti.

Ma è il senso della propria particolare diversità che fu con chiarezza percepito per la prima volta da Pirandello in questo momento di violenta espulsione da un gioco, facile in fondo, di studio e di varia attesa romantica, che era anche un momento di decisioni da assumersi senza l'aiuto di nessuno. E il giovane Pirandello camminava troppo sull'orlo di un abisso di solitudine psicologica perchè potesse muoversi senza appoggiarsi agli altri, alla più libera volontà degli altri o delle cose e dei fatti che lo sorreggessero nella vita pratica, e lo alleviassero dalla responsabilità di vivere.

Questa fu infatti l'ultima volta, dopo quei gesti infantili compiuti contro il padre, che Pirandello tentò con giovanile accanimento, di assumersi in piena autonomia le redini della propria vita. Poi, nella vita esterna, ma non solo in quella, lasciò fare, si abbandonò agli altri e alle cose, tutt'al più si difese, fino a quando morì.

Qui, a Porto Empedocle, a diciannove anni, Pirandello misura in profondità la propria estraneità alle iniziative pratiche del mondo, alla qualità concreta delle cose. Era come se delle cose egli fosse portato a costatare piuttosto la mancanza di peso, una qualità di energia puramente astratta e simbolica, l'assenza di valore materiale. Era un prendere coscienza della propria inettitudine alla misurazione dagli altri considerata normale degli oggetti del mondo: la vanificazione stessa dell'attività economica, di quei dati di cui gli pareva di prendere possesso.

C'è un personaggio, fra i tanti che, nell'opera di Pirandello, si muovono in quel disordine umano e subumano della vita di Porto Empedocle, che è aderentemente autobiografico.

Si tratta (nella novella Lontano) di uno straniero venuto, come un metaforico angelo, da un nord perfetto e vago, dove tutto è casto, onesto e pulito, a cadere e a invischiarsi in questo sud sconcertante e barbarico, in un inferno emblematico e indecifrabile. Gli abitanti di Porto Empedocle lo chiamano «l'arso»; ed è una deformazione caricaturale, grottesca, del suo nome (Lars), che implica una inettitudine all'ospitalità, una sorda incapacità di accoglimento. Egli si ammala di simbolica nostalgia, come l'albatro baudelairiano, «comique... gauche et veule», esiliato in una terra estranea, in mezzo ai lazzi e ai fischi dei monelli: «Egli... sedeva sul muricciolo delle banchine a guardare i bastimenti ormeggiati... La gente si fermava a osservarlo, mentr'egli se ne stava in quell'atteggiamento tra smarrito e estatico: lo guardava come si guarda una gru o una cicogna stanca e sperduta, discesa dall'alto dei cieli».

Il personaggio è nato la novella è del 1901 dalla sublimata memoria di quei terribili giorni dei vent'anni dello scrittore, e probabilmente anche da altre accumulazioni e concrezioni dell'esperienza: nè è da escludere una inconscia identificazione, per quegli anni trascorsi a Bonn, con un mitico, astratto cittadino del nord. C'è una complessa pagina autobiografica nel personaggio di Lars Cleen.

Pirandello, della Porto Empedocle dei traffici che poi in realtà non dovevano essere così turbinosi e assordanti come appaiono nella sua ossessiva memoria non saprà parlarci in altri termini che di affascinata avversione: «...l'odore che la polvere dello zolfo sparsa dappertutto dava al sudore degli uomini affaccendati, l'odore del catrame, l'odore dei salati, l'afrore che esalava sulla spiaggia dalla fermentazione di tutto quel pacciame d'alghe...» (Lontano). Una vita violenta e bestiale, contrapposta, implicitamente o esplicitamente, a una umana e superiore, irraggiungibile ormai come la lontana terra di Lars Cleen.

Se Pirandello non potrà non amare, anche, quella terra che gli era entrata nel sangue, cercherà di salvare il suo amore ai margini di riposo, verso il mare, «tra il fiammeggiar di quei magnifici tramonti del Mediterraneo che fanno tremolare e palpitare l'infinita distesa delle acque come in un delirio di luci e di colori...» [La morta e la viva), verso la periferia, la campagna e il cimitero sull'altopiano bianco, marnoso, che lo sovrasta: «Dal paese sottostante saliva un vocio incessante, indistinto, come d'un tumulto lontano, e quelle onde di voci rissose vanivano contro il muro bianco, grezzo, che cingeva il cimitero perduto lassù nel silenzio... Più distinto, più chiaro, veniva dalle campagne il tremulo canto dei grilli e, da lontano, il borboglio continuo del mare» (Prima notte). «Il respiro è lassù, per i morti... giù, sulla spiaggia, non si respira; in mezzo al traffico tumultuoso e polverulento dello zolfo, del carbone, del legname, dei cereali e dei salati, non si respira... cova in quelle case oppresse, tane più che case, un tristo tanfo umido e acre, che corrompe a lungo andare ogni virtù... Il fumo non trova sfogo e ristagna in quelle tane... gli uomini.,, imbrigati e imbestiati... tutto il giorno sulla spiaggia e sulle navi., le donne... sono come arrabbiate... e questa loro rabbia sfogano facendo figliuoli! Chi dodici, chi quattordici, chi sedici...» (II libretto rosso).

Alcina

Durante quei tre mesi, il padre di Pirandello ebbe tempo di fare un piano a lungo termine perchè il matrimonio con Lina andasse a monte. Egli realisticamente prevedeva che più il tempo sarebbe passato e meno Luigi avrebbe voluto legarsi in un matrimonio che lo sviava dagli studi prediletti. Insomma il tempo avrebbe calmato gli ardori di Luigi. Era meglio quindi assecondarlo su questa strada.

Perciò Stefano, alla fine dell'esatte, dopo che potè misurare, persino nel fisico del figliuolo, quel prevedibile risultato di fallimento e di disperazione, chiamò Luigi nel suo scagno e gli disse che ormai, essendosi persuaso della sua inabilità a quel lavoro, preferiva farlo tornare a Palermo, a frequentarvi l'università. Si trovava in condizione abbastanza agiata per poterglielo consentire. Luigi si sarebbe iscritto in legge e, laureato, avrebbe provveduto, con la sua professione, alla famiglia.

Stefano guadagnava così quattro anni. E, a conti fatti, anche Luigi, il quale non si fece ripetere l'invito e partì per Palermo dove raggiunse l'università e insieme la fidanzata.

Egli sapeva ormai, dopo Porto Empedocle, nel profondo di se stesso, che la sua sarebbe stata la carriera del letterato e nessun'altra. Se non gli era tutto chiaro e limpido al riguardo, chiaro era che nessun ostacolo lo avrebbe fermato.

Non prese nessuna esplicita decisione, non compì nessun gesto preciso che aprisse in lui una lucida prospettiva dell'avvenire. Ma cominciò invece, senza rendersene probabilmente chiaramente conto, a tergiversare, a predisporre i pensieri e i fatti in modo che senza fare violenza alle cose e alle persone, facendosi anzi in qualche modo trasportare da esse, gli si aprisse da sola una porta nel muro da cui si trovava circondato.

Cominciò coll'iscriversi in legge; ma insieme anche in lettere (la cosa era allora possibile). Poi, per tutto questo suo ultimo anno trascorso a Palermo, non fece altro che dibattere in se stesso il caso di chi fosse molto innamorato, e, nello stesso tempo, si sentisse, con esclusione e disinteressatamente, chiamato alla carriera intellettuale, all'arte e alla poesia. E non si sa bene se la lotta si svolgesse in realtà, a lungo, bipertito fronte, e non forse in un'unica direzione. Le lettere inviate in questi mesi a Lina, la prediletta sorella, sono una continua, dolorosa, accesa confessione di questo stato.

Certo quella colorazione di eroismo romantico, quel riserbo compiaciuto, l'assaporamento nascosto della clandestinità dell'amore per Lina, quando era segreto e vago e dettava i versi, si erano all'improvviso brutalmente mutati in un piccolo teatro di forme convenzionali. Il fidanzamento ufficiale, i due guardati a vista e indicati come un mostro: «i fidanzati!»; le visite obbligate dei parenti e ai parenti, le passeggiate in carrozzella, sotto scorta, al Foro Italico, sia pure fra il mare e le zagare, l'esposizione al pubblico, dal palchetto, agli spettacoli del Politeama Garibaldi, e poi quella differenza d'età, che per un temperamento come quello di Pirandello, sensibile alle disarmonie oggettive, era non piccolo motivo d'insofferenza: «Nel vedersi presentare a tutti, così ancor quasi ragazzo, senza uno stato, come promesso sposo di Lillì, s'era sentito ridicolo agli occhi di tutti e specialmente di quegli altri giovinotti che, corrisposti, avevano per qualche tempo amoreggiato con la sua fidanzata» (Tra due ombre): tutto questo non veniva più ripagato abbastanza dall'affezione amorosa, pur viva ancora, per Lina. Lei, dal suo canto, aveva accresciuto la sua tenerezza per Luigi; ed era, come sembra, una bella ragazza di vivace sensualità.

Ma Lina, agli occhi di Luigi, si era facilmente trasformata in una Alcina, «fata crudele e diversa», in un'ammaliatrice, amica-nemica.

Tra le poesie di Mal giocondo, scritte in questo periodo, abbiamo una composizione in più parti45 che è una trasparente allegoria della storia dei sentimenti di Pirandello di fronte a questa Alcina: «Vi condurrò sotto un velame antico a intender novo caso e nova pena». Prima v'è stato da lottare contro la volgare «turba rea», «lo stuolo aspro e villano», che si opponeva al suo amore, contro una «vecchia maledica e rissosa», nella cui figura è probabile si nasconda la madre di Lina, che avrebbe voluta darla sposa ad altri; poi sono adombrate le miti ancelle, messaggere di pace e di assenso (sappiamo infatti dal Nardelli che vi furono di tali ambasciatrici fra i due):

«Alcina, fata crudele, e diversa, da lungi non sorridermi così: la turba rea, che il passo tien, dispersa non ho per anco, e pugno notte e dì.

Una vecchia maledica e rissosa schizzando fiele aizza contro me l'iniqua turba, e senza tregua e posa la mèta mi contende: o Alcina, te.

Vengan, eh'è tempo, come un dì a Ruggero, le miti ancelle, e pórganmi la man, le ancelle tue di pace, e con l'altero gesto, dòmin lo stuolo aspro e villan».

Poi Alcina è fra le braccia del poeta, ma ohimè, è proprio una Alcina che nasconde in una faccia di bellezza un'essenza di inganno, in un aspetto giovanile la sua vecchiezza: «Vecchia sei tu», dice con cruda cattiveria il ventenne che si crede stregato dalla ventiquattrenne cugina:

«O vaga Alcina, alla fin tra le tue braccia, se non è sogno, stretto anch'io mi sto:

Perchè si bella e pur si trista sei, dimmi, dolce amor mio, dimmi perchè...

Vecchia sei tu, ma celami la vera essenza tua con vista giovanil, come la vecchia Terra a primavera le rughe cela coi fiori d'aprii».

Poi il poeta passa alle spicce:

«Io ti dirò, co '1 mio miglior saluto: «Come sei brutta, o bella Alcina, tu...»

E a questo punto la vicenda ci appare scoperta a sufficienza, il suo esito e la sua fine scontati.

In Luigi poi non c'era e non poteva esserci posto per una felicità tanto facile: se egli riusciva ad abbandonarsi al piacere di stare insieme con Lina, nonostante tutte le cose e le persone imperfette che la circondavano, nonostante tutti i compromessi di quel fidanzamento, tuttavia non riusciva ormai a ricacciare dentro di sè quell'onda che saliva prepotente. Salda e irrevocabile era la sua vocazione di scrittore, che cercava tutt'altre esperienze e tutt'altri orizzonti che un matrimonio con Lina. Questo avrebbe significato, di necessità così almeno gli pareva un taglio, una rinunzia definitiva46.

«L'oubli de vivre»

Pirandello, con Lina, tentò la sua prima e forse unica integra avventura d'amore, mai più ripetuta (Jenny rappresenterà solo un suggestivo avventurato caso di vita goliardica e la moglie sarà un'altra cosa): con lei misurò le sue forze, e constatò la sua particolare inettitudine sentimentale. Tra lui e lei, tra la sua stessa sensualità, che doveva essere prepotente, e quella di lei si frapponeva quell'assorbente schermo platonico in cui si svalutava ogni voce e si perdeva ogni gesto. Era ormai, la sua, una strada obbligata quella della vanificazione di ogni concreta esperienza, un passo ancora verso l'oubli de vivre (verso la vita che si scrive e non si vive): «Non memorie, non dolori. Sono in preda a un confuso stupor vago, levemente di lontani dolor conscio, di lontani desideri. E un fantastico stupor di sogni strani ho negli occhi, e parmi al guardo una luce fresca e mite alberghi il cielo oltre i limiti visivi...». «... Se tristi grue pel ciel fosco passare vedea mesto, tra gli alberi battuti

- dai primi venti d'autunno, in mente io mi dicea: "Là giù, là giù, lontano nel bel paese dei miei sogni andranno, ove eterna fiorisce primavera " E a lui credea n'andassero portate

- dal lungo vento, anche le foglie ai rami strappate; a lui le nuvole, e le vaghe da i petti umani illusion fuggite...» (Mal giocondo)-, «Allora il suo pensier vaga pel cielo quasi l'alma ritorni in sua natura... E allora l'idea nell'alma tanto pura va ad incontrare quell'ignoto vero qual sarà sempre inesplicato ancora. Allor godrà soltanto della cara bellezza che negar sempre gli volle questa natura avara!» (Prime note).

-Abbastanza direttamente, con la voce di confessione di cui era provvisto in quel tempo di poesie, Pirandello ci rivela il suo stato d'animo in una ritornante ripetuta immagine di costrizione, e in una di bene perduto e da perdere. Nei versi di Pirandello, la rappresentazione si serve di vivi, semplificati, grezzi termini sado-masochistici, come in quella ballata (Mal giocondo-, Romanzi, II) in cui l'eroe cerca invano per monti e per mari un ideale «fantasma sfuggente» e finisce prigioniero in una selva viva: «...verdi non vide serpentelli arguti da viluppi disciorsi, ed a le gambe al collo al seno ai polsi attorcigliarsi tenacemente; mille steli di fior strani non vide d'ogni attorno allungarsi insidiosi, nè sentì delle spine, ond'eran aspri, l'acuto morso... ora egli sta ne la gran selva chiuso de i verdi serpi, de i rami, de i fiori, de lo stupor, de le spine in potere, tutto tenuto... E scherno atroce, da presso gli splende di tra le fronde allargate, sì come un vivo sole, il fantasma agognato... Pria ch'egli il giunga, o sfiorir quell'immensa dee primavera, che avvinto lo tiene o lui le carni tra quegli aspri nodi lasciare a brani». Nè ci pare necessario sottolineare il riferimento, qui, alla situazione presente di Luigi, fidanzato di Lina.

La situazione presente si confonde e si fa unica esperienza con quella ormai acquisita della delusione degli anni infantili: «Nè a te paese dei miei sogni novi ora più credo e tardi ahimè, compresi che vano era cercarti sotto il sole...» (cito da Mal giocondo, la raccolta delle poesie nate in questo clima). E, con più acuta percezione, ecco il trasferimento di quelle irrimediabili esperienze nella drammatica favola dell'alienazione platonica: «Dal dì che il dio racchiuso entro il mio sen, sì come in cineraria antica urna, destossi e a voi per l'aria lo spirito deluso, lo spirito mortale in alto, in alto, per gli spazi vani spoglio mi balestrò d'affetti umani, quasi da l'arco strale; e naufragai smarrito oltre l'azzurro, nei silenzi oscuri, e corsi (anima, pensi e ti spauri) le vie dell'infinito, altro da quel ch'io era su la Terra, tra gli uomini discesi... Or non è cosa alcuna che più mi piaccia o m'addolori. Sento la viltà della terra...»

Di qui al rifiuto della realtà e alla pratica del rinvio (leopardiana pratica! ), che nasconde una fondamentale cattiva volontà, o impotenza della volontà, distratta in altre più forti e deviate direzioni, il passo è breve: «ch'io non ti giunga mai, mio superbo ideale! Soffrir, lottare io voglio: naufrago, in mezzo al mare veder lungi uno scoglio, e nuotare... e nuotare. Beni non ha la terra che una volta goduti ai nostri occhi non paiano già d'ogni pregio muti. Dato non sia fruire di ciò che il cuore adora: Fammi, o donna soffrire, e t'amerò lung'ora» (Mal giocondo). (Anche in Pasqua di Gea, la raccolta di versi di Pirandello universitario, Luigi Russo nota che «l'amore non vi è mai possesso, o letizia contemplante: l'amore posseduto diventa una brutta realtà. Meglio lasciarlo larva. Il poeta dice alla donna amata: «Non oggi, va! dimani»),

E i tempi sono maturi per la fuga. Luigi chiede alla sua donna, adducendo gelosia per altri precedenti amori di lei, di andare altrove: «Andiamo altrove... così tra queste mura dolorose racchiuso langue e a poco a poco manca il grande amor ch'a te mi lega; e franca più non ti dice l'anima le cose». Infatti il poeta se ne andrà, come vedremo, ma solo. E Lina dovrà solitaria subire la sorte delle dilazioni e poi non mancheranno i motivi per la separazione definitiva.

La Facoltà di legge

Quest'ultimo periodo palermitano sembra tutto preso dalla vicenda sentimentale dello scrittore. Ma egli è anche iscritto a due Facoltà universitarie, quella di legge e quella di lettere.

Se non sembra accorgersi molto di quel vivo fermento ideologico e politico, che, proprio nella Facoltà di legge di Palermo, si stava avverando in questi anni, tuttavia un certo orecchio, distratto o no, dovette porgervi, perchè si trovò pure in mezzo a «quell'atmosfera entusiasta di cui parla Francesco De Luca, che fu amico di Pirandello e uno dei dirigenti più influenti del movimento dei Fasci siciliani1 che si era creata principalmente fra gli studenti universitari». «Era un entusiasmo il De Luca dirà quasi mistico, quello con il quale da intelligenze ed animi filoneisti era accolta una novella teoria riformatrice della società». Pirandello infatti, ne I vecchi e i giovani, metterà in evidenza anche se modificandone il valore, l'entusiasmo e dedizione dei dirigenti siciliani dei Fasci, sentimento di partecipazione di cui potrà magari, chi sa, perfino essersi un poco infervorato anche lui, a vent'anni.

Certo egli, nel suo romanzo, sarà sempre incerto tra il prender parte con quei generosi socialisti, e il tenersene al di sopra in una specola di saggezza e di ironia.

Enrico La Loggia, girgentano anche lui e quasi certamente suo conoscente, poiché era anch'egli studente di legge a Palermo, scriverà nel marzo del 1894 (sul Giornale degli economisti) che i dirigenti dei Fasci si erano formati in seno a «una generazione di studenti universitari, che frequentavano in quegli anni l'Università di Palermo. La Facoltà di legge, con quella di medicina, era la " cittadella del radicalismo " alimentata principalmente dagli studenti provenienti dalla provincia, i " regnicoli " come erano chiamati a Palermo».

Il «regnicolo» Pirandello, per quanto distratto dalle vicende della sua vita privata, risentì, come è confermato dalle circostanze che si vedranno, l'influenza dei giovani radicali della sua università. Un atteggiamento di questo genere si affaccerà ancora saltuariamente, anche ne I vecchi e i giovani, che in un certo modo rievocano, anche se in una strana e distanziata dimensione, la Sicilia dei vent'anni di Pirandello. Ma l'animo politico di Pirandello, come si vedrà, sarà diversamente complicato. Il lato contraddittorio del suo temperamento permetterà un sovrapporsi cronologico di esperienze e di convinzioni, fra le quali sarà presente anche questa radicaleggiante, assorbita nell'ambiente palermitano. Dato il suo gusto dell'estremismo astratto, l'atteggiamento tra giacobino e socialista dei giovani colleghi universitari dovette attrarlo. Né si può pensare che alla sua intelligenza, comunque curiosa, potessero passare inosservati questi fermenti.

Pirandello era inadatto a capire di politica secondo un'intelligenza del tutto chiara e partecipe, ma, fino a un certo superficiale grado, di politica, s'interessò sempre. Gli mancherà spesso la capacità di darne accettabili giudizi di valore e apparirà quasi sempre seguace di concetti poco originali, grezzamente e talora con troppa foga e passionalità fatti propri e restituiti, ma ciò non toglie che egli nei vari momenti della sua vita non abbia voluto dire la sua, senza curarsi troppo neanche di contraddirsi, o di contraddire al significato più serio della sua opera.

Della sua volontà di partecipazione abbiamo prove dirette, anche per questi anni giovanili, in qualche poesia di intonazione politica, che, carducciana o rapisardiana, si ricollega al clima studentesco cui si è fatto cenno (Rapisardi fu l'apostolo e il profeta dei giovani dei Fasci): «Mutaro i tempi. L'antico genio, li antichi affetti già un fiero turbine incalza da l'imo, e respinge acre, fuor de la vita, ventando. — Al suo gagliardo soffio già crollano le vecchie sedi (son chiese e reggie) e tanta rovina recente con violenta furia pervade — soverchiatrice onda di popolo, che spezza e abbatte, che freme e s'agita al fin di sua possa cosciente, reclamante il suo dritto alla vita» (Mal giocondo). E già in una poesia del 1883 (fra le inedite) aveva carduccianamente cantato: «...in tutta festa là s'alzano patiboli, e gioconda ride la ciurma al salto d'una testa!»

L'abbandono

I contatti di Pirandello con l'ambiente universitario palermitano non durarono a lungo. Infatti egli bruciò le tappe della partenza, servendosi di ragioni del tutto plausibili. La vicinanza di Lina gli impediva di studiare, e invece perchè si avvicinasse il tempo del matrimonio, era necessario affrettare gli studi universitari. Perciò era opportuno che Luigi andasse via da Palermo e si iscrivesse in un'altra università. Qui, lontano da ogni distrazione, avrebbe solo pensato a studiare e sarebbe tornato a lei già laureato e pronto a sposarla.

Non sappiamo quale fosse la reazione di Lina alla decisione di Luigi (dubitiamo che ne fosse entusiasta); i genitori di Luigi furono invece del tutto d'accordo. Gli avrebbero mandato un assegno mensile a Roma, dove si trovava il fratello della madre, lo zio Rocco Ricci Gramitto.

Luigi così, in un giorno di novembre di quello stesso anno 1887, saluta da una nave Palermo e la costa siciliana.

Non essendo rimasta nessuna delle lettere alla fidanzata, non possiamo assistere da vicino alla vicenda patetica di questa separazione, ma immaginiamo che sia stata molto triste per Lina, e molto meno per Luigi; come d'altronde, lui stesso, poeta sincero, ci svela in un'altra poesia di Mal giocondo scritta a Roma. Qui egli si descrive tutto assorto e rasserenato nella sua prima giornata romana. Occorre, la poesia, citarla tutta, perchè ci dà netto, al di là delle stesse parole, nel tono, l'impressione di melanconica liberazione del primo arrivo a Roma:

«Quale di rose pioggia purissima da i cieli accesi piovve l'aurora su Roma grave, da un gran silenzio tenuta ancora,

il dì che, dietro l'ombra fuggevole rapito io folle d'un sogno vano, t'abbandonai senza una lacrima, o amor lontano.

Del bel Tritone fuor da la buccina sentii, correndo la piazza ratto, al cuor l'arguto zampillo gelido piombarmi a un tratto.

Inebriate del lume roseo le vaghe rondini garriano intorno, e le campane lontan squillavano, nunzie del giorno.

Quale di rose pioggia purissima! Da lungi i vetri de le dormenti case romane mi salutavano, razzando ardenti.

Su le memorie care, su i fervidi amor miei vani, su '1 van desio cadeva in Roma di rose pallide il nembo pio».

La Sicilia

Pirandello, a vent'anni, lascia la Sicilia. Che cosa rimarrà, in lui, di siciliano, radicato e non più riducibile? Quanta parte di lui doveva rimanere siciliana, e quanta trasformarsi, sprovincializzarsi?

È una domanda, a cui non si può rispondere se non con molta approssimazione. Occorre anzitutto liberarsi di tutte quelle metafore a cui hanno fatto spesso ricorso i critici pirandelliani ogni volta che hanno qualificato lo scrittore ora come «figlio della Magna Grecia», ora come «sofista siceliota», ora come «mediterraneo» e «cicala greca». La Sicilia a cui Pirandello rimane radicato è in realtà, fuori della retorica, un'altra Sicilia, quella del suo Ottocento, la Girgenti e la Porto Empedocle della sua infanzia ed adolescenza.

Bisogna ricordare che la provincia di Girgenti, nell'ex arabo Val di Mazara, fu, e rimaneva, e ancor oggi rimane, la più arabizzata fra le province siciliane. Quel «senso di violenza, quella presenza di forze sinistre e misteriose», che vi vede ancor oggi «serpeggiare» Denis Mack Smith47, è quella stessa eredità araba che Pirandello, da ragazzo, scorgeva con sgomento, sulle piazze e nelle vie della sua Kerkent: «...Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte protratte interiezioni... E avevano seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti e lampeggianti d'un'ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio...»".

La Sicilia in cui Pirandello crebbe era una regione in cui la storia si muoveva molto lentamente, nonostante l'unificazione. Il latifondismo e il costume feudale rappresentavano molto più di oggi i fondamenti di tutta la vita sociale: anche l'industria dello zolfo, come si è visto, si svolgeva secondo rapporti di lavoro per molti aspetti ancora medioevali. La divisione in caste, più numerose di quanto non si creda, appariva solo fittiziamente capace di mutamento poiché le strutture rimanevano quasi immobili e avveniva tutt'al più una sostituzione di persone nelle varie posizioni e ruoli.

A tale situazione sociale che era anche rigidamente formalizzata, corrispondeva la contropartita del carattere siciliano. I dinamismi psichici, specie in chi appartiene ai ceti subalterni sono come fermi, bloccati a un grado intensissimo di potenzialità: mentre in realtà essi si scavano senza sosta coperte gallerie in cui si svolge una vita segreta e violenta, che sfocia frequentemente in un gesco solo, irrimediabile (il gesto a cui si rimane uncinati, di cui Pirandello si dispera); e talora invece non affiora mai, in tutta la vita.

Ed ecco una caratteristica fondamentale del temperamento isolano di Pirandello (in lui accentuata dalla particolare storia personale che abbiamo raccontata): la repressione e l'esplosività. La letteratura pirandelliana potrà leggersi, da un certo momento della sua vita in poi, quando cioè saranno finiti gli esercizi mimetici del suo noviziato poetico, in questa chiave di esplosività e di violenza.

La Sicilia dell'infanzia di Pirandello era anche la Sicilia dell'omertà e della complementare allusività semantica. Solo superficialmente Pirandello sembra fuori da queste siciliane attitudini, che infatti non si affacciano esplicitamente quasi mai nelle sue pagine. Di fatto, invece, in una profonda latebra, avviene la trasposizione: quel senso di reticenza, di segretezza, di allusività, di esplosività che è l'aspetto che si esteriorizza di quell'animo, diviene il segreto stesso, la frequenza fedele dello stile di Pirandello prosatore e soprattutto drammaturgo: allusivo, spezzato, ammiccante, tortuoso, e improvvisamente esplosivo.

Una ricerca stilistica di tipo spitzeriano (con una accentuazione freudiana) darebbe la conferma precisa di tale fenomeno. Basti pensare a un censimento di tutte le parole stranamente agglutinanti, stranamente arcaiche o neologistiche, uncinate verso il basso, o tutte raccolte in se stesse, invischiate all'interno e all'esterno, stentate e incappucciate di sillabe e di raddoppi, e sempre tentanti uno sforzo semantico irregolare, eccessivo, talvolta rabbioso e sadico, affioranti, come bolle di lava, sulla superficie mal controllata della prosa pirandelliana.

Che è non l'assumere la parola da un sereno contesto di mediazioni, ma un sussultante strapparla con tutte le radici da un ingorgato terreno psicologico. Sono sintomi, che non potrebbero essere più precisi, di un'anima repressa.

In questo, Pirandello non ha modelli, tranne che nelle radici segrete della razza. Anche il ribellismo di Pirandello, la sua tensione anarchica, che inaspettatamente, e per lo più con scarso profitto, si scarica, si può assimilare (in stretto parallelismo con una già da noi intravista componente freudiana) a un clima sociologico che gli studiosi di storia siciliana conoscono bene. (Gli avvenimenti rivoluzionari siciliani hanno avuto sempre questa fisionomia).

E che cos'è l'anarchismo dei Siciliani e la loro inveterata inettitudine alle forme della vita associata, «la generale assenza di senso collettivo» (Denis Mack Smith), se non una forma di ribellione sociale istintiva e atavica a ogni principio d'autorità? Sono gli Arabi arroccati sulle colline prossime alle coste, imprigionati figli millenari dei lontani liberi nomadi, che la trasmettono ancora. Tanta persistenza di aspetti di costume anacronistici, tipica costante sociologica di tutta una collettività, scopre facilmente le sue cause economico-sociali, ma queste non sono le uniche cause. (Tutto, un giorno, potrà mutare in Sicilia, se, per una di quelle verificabili accelerazioni storiche, saranno mutate le strutture: ma la camicia di forza del costume sarà l'ultima ad essere strappata).

Pirandello, a vent'anni, si portava dietro dalla Sicilia anche una concezione rigida della famiglia e del costume femminile. Sarà contento, in Germania, di trovare maniere più libere e semplificate nei rapporti fra i sessi, e ne comunicherà la sua lieta meraviglia alla sorella rimasta in Sicilia. (Le scriverà di avere conosciuto due ragazze, con cui ha fatto facilmente amicizia, commentando: «Il modo con cui si prende amicizia è semplicissimo. Quando una signorina esce ad ora un po' tarda... temendo di incontrar per via qualche ubriaco si avvicina al primo giovine che a lei pare un gentiluomo, e lo invita a volerle far da cavaliere... Son sicuro che se raccontassi questo a un mio amico di Sicilia, strizzerebbe un occhio come per dire: intendo bene di che si tratta! E io gli darei senz'altro dell'imbecille. Comprendo anche che tal modo di vita non si addicerebbe per nulla ai nostri paesi, dove regna l'ipocrisia e la buona educazione fa difetto in presso che tutti gli uomini»). Ma non muterà per questo le sue rigide opinioni apprese nell'adolescenza e nella giovinezza. Vedremo come egli dichiarerà la sua avversione ai movimenti di emancipazione femminile del principio del secolo e saprà, più tardi, solo in una sfera altamente drammatica riconoscere alla donna il diritto a una integra autonoma vita sentimentale, mentre, al livello della socialità, egli sarà preso in una rete di scoperti conformismi assimilabili, più che alle convenzioni della contemporanea Italia umbertina, a quelle di un'atavica Sicilia musulmano-cattolica.

Se da un lato, infatti, Pirandello si terrà sempre stretto, senza avvedersene, al concetto cattolico del peccato della carne, al suo significato di caduta primaria e metafisica, e l'abbandono dei sensi rappresenterà per lui qualcosa di molto più grave che un fallo sociale o che un venir meno alla lealtà e alla fiducia degli altri, quasi uno scadimento di carattere totale e religioso, dall'altro egli incorrerà in un pregiudizio di moralità sessuale anche più estremo e radicale. Preesisteva in lui, infatti, fin dai primissimi anni, e prevaleva su qualsiasi altro concetto, quello legato al tabù sacrale del sesso. Integrità fisiologica del sesso e legge morale convergono al punto che, più tardi, nel Pirandello maturo, si faranno oggetto di drammi di aura religiosa (come L'innesto, dove lo stupro non è tanto violenza, quanto, soprattutto, profanazione). La sacertà del concetto di verginità aveva in Pirandello radici profonde. Oltre che il basilare influsso, sulla sua formazione infantile, di una società cattolica che professava idee inderogabili in proposito, va tenuta in debito conto infatti la lunga secolare eredità del costume arabo: da più che ottocento anni, di padre in figlio, di madre in figlia, fino a lui e oltre, nei Rabbati, Favare e Kerkent di cui egli ci parla, si era tramandata la recisa persuasione di un valore assoluto della verginità e della castità della donna. In Sicilia, la disonestà della donna, in quello scorcio dell'Ottocento, con molta più rituale puntualità che non oggi, veniva punita con la morte. Non appare perciò senza cause quel nodo di moralità sessuale («pudibonderia», dice Piovene48), che, nell'opera di Pirandello, non si scioglierà se non per gravi scosse e violentazioni. La purezza era divenuta anche una perfetta idea etica dell'inconscio platonico pirandelliano. Ogni presa di posizione ribelle al riguardo, rappresenterà, anzitutto per lo scrittore stesso, prima che per i personaggi, un vero choc traumatico: donde nascerà quella efficacia drammatica dei molti conflitti che su tale tematica si svolgeranno nel suo teatro. (Il che non esclude che Pirandello potesse, individualmente, peccare, ed eventualmente pentirsi).

Ma forse l'elemento di educazione ambientale che più fece presa nell'anima di Pirandello, e si annodò strettamente alle ragioni dell'opera, fu quello del formalismo dei Siciliani, del costume imposto, al quale non ci si ribella se non con grave scandalo e pericolo: «Appena giungi in Sicilia, dice Sebastiano Aglianò", ti senti investire da ogni parte dalla massima, dalla sentenza che non ammette repliche. Tutti giudicano di te. Tra i tanti pesi della sua esistenza, il siciliano ha anche quello del controllo che gli viene esercitato dal simile. La sua padronanza di se stesso, che è pur così forte, ha un limite ferreo nell'atteggiamento del prossimo. Praticamente se egli può sfuggire alla morsa dell'opinione corrente si mostra più che avventato: e questa è una prova che la purificazione in lui non s'è compiuta dall'interno». \

L'eccessività di alcune reazioni anticonvenzionali pirandelliane ha anche queste origini. Un prepotente bisogno d'indipendenza, ossessivamente imbrigliato, negli anni della giovinezza, nel clima pesante, apprensivo e oppressivo dei gretti riti sociali, sarà un seme delle rivendicazioni future.

Si può dire che Pirandello, uscito dalla Sicilia, tenterà nella vita di ogni giorno, di mimetizzarsi e assuefarsi alle nuove dimensioni sociali in cui verrà a trovarsi, ma che sempre ne sarà impedito da una preesistente molla di ribellione, da un trauma, anche sociale, che l'aveva profondamente ferito da ragazzo. Il gusto dello scandalo che sarà una principale componente dell'opera pirandelliana può richiamare queste origini, così come quelle più intime e private.

Inoltre il formalismo sarà sempre per Pirandello la rete che esclude gli uomini dalla libertà (egli talora sublimerà nella parola forma un'accezione del formalismo). Ma egli era nato in una terra, in un ambiente e in un secolo in cui il formalismo era il modo di vivere prevalente. La vita e l'opera di Pirandello vivranno, in questo senso, in un vivace disordine di compromessi, tra l'accettazione delle convenzioni e talora anche delle convenienze e il rifiuto più radicale di esse. .

La Sicilia che Pirandello portava con sè in quel suo primo distacco rappresentava ancora tutto quanto egli era; ma c'era in lui anche una potente spinta centrifuga, che contrastava il riflusso nostalgico. Vibrava forte in lui una tensione d'avversione che se non si mutò mai in rottura sempre dettò un conseguente comportamento dello scrittore. Pirandello, anche sforzandovisi, non riuscirà ad avere parole del tutto sincere d'amore per la sua terra, e invece troverà facilmente gli atteggiamenti opposti, critici e polemici, nei riguardi di essa. Ma non si può semplificare troppo. Dopo venti anni di condizionamento ambientale, qualunque nuovo atteggiamento volontario e involontario non potrà ormai più essere avulso da quelle basi vitali.

In Pirandello ci sarà una struttura sostanzialmente siciliana (con «struttura» in questo caso non si intende qualcosa di rigido e fermo, ma ossessivamente dinamico e prigioniero) e, in superficie, un mutamento nuovo, cosciente in parte e in parte incosciente, che rimarrà sempre in simbiosi e in movimento scambievole con quei fondamenti.

Ogni nuova stratificazione culturale, auto-imposizione etica e intellettuale, potrà subire improvvisi cedimenti e crolli, e far tornare al vivo il terreno originario.

Ci si può chiedere: in questi anni giovanili Pirandello avrà intuito con forma critica cosciente ciò che la Sicilia rappresentava per lui, e ciò che essa, per se stessa, risultava a un esame storico obiettivo? ITj saprà mai, più tardi, dare una valutazione razionale e storicisticamente valida?

Non ci pare. Egli della sua isola ci parlerà continuamente, scriverà novelle siciliane durante tutta la sua vita e non solo, come per comodo di distinzione vogliono i critici, ai suoi inizi (fino al 1918, le novelle siciliane ricorrono nella proporzione di una a due, rispetto a quelle continentali)-, scriverà anche, tre, su sei romanzi, di ambiente siciliano (e anche Uno, nessuno e centomila avrà riconoscibile localizzazione girgentana), e uno di questi sarà un romanzo di ambizione storica; ma anche nello stesso I vecchi e i giovani, nelle stesse valutazioni politiche, Pirandello non sfuggirà mai ai risentimenti strettamente autobiografici. La Sicilia, vicina o lontana nel tempo, per lui sarà sempre l'occasione di uno scontro affettivo. I giudizi non saranno mai del tutto sereni e nasceranno da una vena soggettiva e parziale. Il che sarebbe poi tutto bene, e una riprova del temperamento più artistico che critico dello scrittore, se l'autobiografia non rimanesse di solito troppo grezza e poco filtrata, oltre che alquanto ibrida e letterariamente impura.

Si salvano però da ogni disordine espressivo alcune opere la cui riuscita senza scorie ci persuade dell'importanza, in senso assoluto, per l'opera, dell'esperienza di vita siciliana dello scrittore. Basta ricordarsi di novelle come II corvo di Mìzzaro, o come Ciàula scopre la luna e di una commedia classica come Liolà, per restare negli stretti contenuti isolani. Ma questa sarebbe ancora una valutazione limitativa, perchè, nonostante ogni nuovo diverso apporto nella sua formazione, egli rimane uno scrittore siciliano, in tutta l'estensione della sua opera, al punto che un Pirandello privo dell'accezione isolana ci sembrerebbe un'astrazione e una falsificazione critica.

1 Sappiamo di questo periodo universitario dalle lettere alla sorella Lina, da quelle a Ernesto Monaci, da alcune testimonianze del fratello Enzo, e da quelle, piuttosto scarse al riguardo, del Nardelli. Inoltre da vari articoli, e opere varie contemporanee, di Pirandello. Man mano si fornirà il riferimento bibliografico di tutte le fonti scritte.