Ottobre 1925
LA MANDRIA DI CAVALLI
Su verdi colli mandrie di cavalli dai giorni
Soffiano con le nari una patina d'oro.
Dall'alto poggio è scesa sul golfo azzurreggiantesi
La pece delle agitate criniere.
Sopra l'acqua in riposo tremolano le teste,
E le prende la luna con la briglia d'argento.
Sbuffando spaventati dall'ombra loro stessa,
Attendon di offuscare con le criniere il giorno.
*
Giorno di primavera che risuona alle orecchie
Propensione cordiale verso le prime mosche.
Ma sul far della sera per i prati i cavalli
Agitano le orecchie scalpitando.
Sempre più acuto il suono attaccato agli zoccoli
Ora nell'aria affonda, ora pende ai laburni.
E non appena l'onda si protende a una stella
Guizzano a pelo d'acqua mosche simili a cenere.
*
Il sole è spento. C'è pace sul prato.
Suona il pastore nel corno il suo canto.
La mandria ascolta, con le fronti attente,
Quel che le canta il gamajun ciuffuto.
L'eco briosa, sfuggita dal labbro,
Spinge i pensieri verso prati ignoti.
Amando il giorno tuo e la notte buia,
Per te, mia patria, ho fatto questo canto.
[1915]
AUTUNNO
a R.V. Ivanov
Quieto è il dirupo folto di ginepro.
Pettina la criniera autunno - saura.
Va l'azzurro stridore dei suoi ferri
Sopra il drappo fluviale delle sponde.
Con passo accorto, il vento - asceta monaco
Macera foglie ai bordi delle strade.
E bacia sopra l'arbusto del sorbo
Le rosse piaghe d'un Cristo invisibile.
[1914-1916]
IN PATRIA SONO STANCO D'ABITARE
In patria sono stanco d'abitare
Pensando ai vasti campi, in umor tetro;
Ladro errabondo me ne voglio andare,
Il mio tugurio lasciandomi dietro.
E per i bianchi riccioli del giorno
andrò a cercarmi una misera tana.
Dal gambale l'amico che ho più intorno
Trarrà - affilata contro me - la lama.
Avvolta se ne sta la gialla strada
Di primavera e di sole sul prato.
E la sua soglia sarà a me vietata
Proprio da lei il cui nome mi è grato.
Farò ritorno alla casa paterna,
Di gioia d'altri mi consolerò,
Alla finestra in una verde sera
Con la mia manica mi impiccherò.
Più dolcemente il capo inclineranno
Canuti salici lungo il recinto.
Fra latrati di cane inumeranno
Il corpo non lavato di me estinto.
Navigherà navigherà la luna,
I remi dentro i laghi abbandonando;
Vivrà la Russia non mutando alcuna
Sorte, ai recinti piangendo danzando.
[1915-1916]
NON INVANO SOFFIARONO I VENTI
Non invano soffiarono i venti,
Non invano infuriò la bufera.
Gli occhi miei misterioso qualcuno
Ha ubriacato di placida luce.
E di qualcuno la primaverile
Dolcezza nell'azzurra nebbia ha tolto
Me di tristezza per una stupenda
Ma non di qui, non divinata terra.
Il muto latteggiare non angoscia,
Lo sgomento stellare non travaglia,
L'eterno e l'universo amo da tempo
Come se fossero il mio focolare.
Tutto in essi è benefico e santo,
E quel che travaglia riluce.
Il tramonto, papavero acceso,
Zampilla sul vetro del lago.
Una visione nel mare del grano
Viene alle labbra irresistibilmente:
Il cielo che ha figliato
Lecca un rosso vitello.
[1917]
SVEGLIAMI DOMATTINA DI BUON'ORA
Svegliami domattina di buon'ora,
O madre mia paziente! Me ne andrò
Per la strada oltre il colle camminando
Incontro all'ospite desiderato.
Oggi, sul prato dentro il fitto bosco,
Ho visto tracce di larghe ruote.
Sotto una fronda di nuvole il vento
Gli scuote la dorata dugà.
Domani all'alba sfreccerà calcando
Sotto un cespuglio la luna-berretto,
Agiterà per gioco la cavalla
La rossa coda sopra la pianura.
Svegliami domattina di buon'ora,
Ed accendi la luce della stanza.
Si dice che ben presto diverrò
Un famosissimo poeta russo.
E te e l'ospite io canterò,
La nostra stufa, il gallo ed il tetto...
Si verserà delle tue mucche fulve
Il latte sui miei canti.
[1917]
DOVE SEI, DOVE SEI CASA PATERNA
Dove sei, dove sei casa paterna,
Che scaldavi la schiena sotto il colle?
Mio azzurro, azzurro fiore,
Sabbia non camminata.
Dove sei, dove sei casa paterna?
Canta un gallo oltre il fiume
Dove un pastore ha pascolato il gregge,
E tre stelle lontane
Dall'acqua risplendevano.
Canta un gallo oltre il fiume.
Mulino a vento il tempo spinge in basso
Il pendolo lunare oltre il villaggio
Fra la segala, e versa
L'invisibile pioggia delle ore.
Mulino a vento, il tempo spinge in basso...
Con miriade di frecce questa pioggia
Fra le nuvole ha avvolto la mia casa,
L'azzurro fiore ha reciso
E la dorata sabbia ha calpestato.
Con miriadi di frecce questa pioggia.
[1917-1918]
O CAMPI, CAMPI ARATI
O campi, campi arati,
Di Kolomna malinconia.
Sul cuore è il giorno di ieri
E nel cuore splende la Russia.
Fischiano come uccelli le verste
Sotto l'unghia ferrata del cavallo.
E pioviggina il sole
Sopra di me, a manciate.
O paese di piene tremende,
Di forze silenziose, a primavera.
Presso l'aurora e le stelle
Ho frequentato qui la scuola mia.
Ed ho letto e pensato
Sulla bibbia dei venti,
Con Isaia ho pascolato
I miei dorati armenti.
[1917-1918]
VADO VAGANDO SULLA PRIMA NEVE
Vado vagando sulla prima neve
Con mughetti di forze esplose in cuore.
La sera ha dato luce ad una stella,
Azzurro cero lungo il mio cammino.
Io non so se c'è luce oppure buio,
Se nella selva canta il vento o il gallo.
Forse sui campi al posto dell'inverno
Vi sono cigni adagiati sul prato.
Come sei bella tu, bianca pianura!
Un lieve gelo mi riscalda il sangue!
Quanta voglia ho di stringere al mio corpo
Delle betulle i seni denudati.
O sedimento torpido dei boschi!
Nevosa ebbrezza dei campi di biade!...
Quanta voglia ho di stringer fra le braccia
I fianchi legnosi dei salici.
[1917-1918]
APRI, D'OLTRE LE NUVOLE GUARDIANO
Apri, d'oltre le nuvole guardiano,
Le azzurre porte, a me, del giorno.
Un bianco angelo ha portato via
Il mio cavallo a mezzanotte.
Il superfluo a Dio non occorre,
E il cavallo è per me potenza e forza.
Sento come nitrisce lamentoso,
La catena d'oro mordendo.
Vedo come egli lotta e si dimena,
La stretta del laccio sforzando;
La saura lana, come dalla luna,
Da lui vola verso la nebbia.
[1918]
TEPPISTA
La pioggerella con umide scope
Spazza sterco di salici sui prati.
Sputa via, vento, il fogliame a bracciate,
Anch'io sono un teppista, come te.
Amo le azzurre folte selve quando,
Con portamento pesante di bue,
Con il ventre di foglie rantolante,
Sporcano i tronchi fino alle ginocchia.
È quello il mio gregge fulvo!
Chi mai potrebbe celebrarlo meglio?
Vedo, vedo il crepuscolo leccare
Impronte di passi umani.
Mia Russia, legnosa Russia!
Sono il tuo solo cantore ed araldo.
Ho nutrito di menta e di reseda
La tristezza dei miei versi ferini.
Fai lume, mezzanotte, alla brocca lunare
Per attingere latte alle betulle!
Il camposanto con le braccia delle croci
Sembra che voglia strozzare qualcuno.
Un nero brivido vaga sui colli,
Il malgenio del ladro nel giardino versando.
Ma anch'io son becero, bandito e ladro,
Nel sangue, di cavalli della steppa.
Chi vide mai come arde nella notte
La schiera dei èerëmuchi in bollore?
Dovrei con una mazza a notte stare
In qualche punto dell'azzurra steppa.
È appassito il cespuglio del mio capo:
M'ha essiccato la prigione dei canti.
Son dannato alla macina dei versi
Entro l'ergastolo dei sentimenti.
Vento insensato, non aver timore,
Sputa tranquillo il fogliame sui prati.
Anche nei canti, come te teppista,
Non mi snatura nomea di poeta
[1920]
CONFESSIONE DI UN TEPPISTA
Non tutti son capaci di cantare
E non a tutti è dato di cadere
Come una mela, verso i piedi altrui.
È questa la più grande confessione
Che mai teppista possa confidarvi.
Io porto di mia voglia spettinata la testa,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace nella tenebra schiarire
Lo spoglio autunno delle anime vostre;
E piace a me che mi volino contro
I sassi dell'ingiuria,
Grandine di eruttante temporale.
Solo più forte stringo fra le mani
L'ondulata mia bolla dei capelli.
È benefico allora ricordare
Il rauco ontano e l'erbeggiante stagno,
E che mi vivono da qualche parte
Padre e madre, infischiandosi del tutto
Dei miei versi, e che loro son caro
Come il campo e la carne, e quella pioggia fina
Che a primavera fa morbido il grano verde.
Per ogni grido che voi mi scagliate
Coi forconi verrebbero a scannarvi.
Poveri, poveri miei contadini!
Certo non siete diventati belli,
E Iddio temete e degli acquitrini le viscere.
Capiste almeno
Che vostro figlio in Russia
È fra i poeti il più grande!
Non si gelava il cuore a voi per lui,
Scalzo nelle pozzanghere d'autunno?
Adesso va girando egli in cilindro
E portando le scarpe di vernice.
Ma vive in lui la primigenia impronta
Del monello campagnolo.
Ad ogni mucca effigiata
Sopra le insegne di macelleria
Si inchina da lontano.
Ed incontrando in piazza i vetturini
Ricorda l'odore del letame sui campi,
Pronto, come uno strascico nuziale,
A reggere la coda dei cavalli.
Amo la patria. Amo molto la patria!
Pur con la sua tristezza di rugginoso salice.
Mi son gradevoli i grugni insudiciati dei porci,
E nel silenzio notturno l'argentina voce dei rospi.
Teneramente malato di memorie infantili
Sogno la nebbia e l'umido delle sere d'aprile.
Come a scaldarsi al rogo dell'aurora
S'è accoccolato l'acero nostro.
Ah, salendone i rami quante uova
Ho rubato dai nidi alle cornacchie!
È sempre uguale, con la verde cima?
È come un tempo forte la corteccia?
E tu, diletto,
Fedele cane pezzato!
Stridulo e cieco t'hanno fatto gli anni,
E trascinando vai per il cortile la coda penzolante,
Col fiuto immemore di porte e stalla.
Come grata ritorna quella birichinata:
Quando il tozzo di pane rubacchiato
Alla mia mamma, mordevamo a turno
Senza ribrezzo alcuno l'un dell'altro.
Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore.
Fioriscono gli occhi in viso
Simili a fiordalisi fra la segala.
Stuoie d'oro di versi srotolando,
Vorrei parlare a voi teneramente.
Buona notte! buona notte a voi tutti!
La falce dell'aurora ha già tinnito
Fra l'erba del crepuscolo.
Voglio stanotte pisciare a dirotto
Dalla finestra mia sopra la luna!
Azzurra luce, luce così azzurra!
In tanto azzurro anche morir non duole.
E non mi importa di sembrare un cinico
Con la lanterna attaccata al sedere!
Mio vecchio, buono ed estenuato Pégaso,
Mi serve proprio il tuo morbido trotto?
Io, severo maestro, son venuto
A celebrare i topi ed a cantarli.
L'agosto del mio capo si versa quale vino
Di capelli in tempesta.
Ho voglia d'essere la vela gialla
Verso il paese cui per mare andiamo.
[1920]
O TU CONTRADA, O TU CONTRADA MIA
O tu contrada, o tu contrada mia,
Metallo per le piogge dell'autunno.
Un lume specchia intirizzito il capo
Senza labbra, nella nera pozzanghera.
Ma certo è meglio ch'io più non vi guardi,
Per non scrutare in un attimo il peggio.
Tenterò quasi di chiudere gli occhi
Di fronte a questa rugginosa tenebra.
È così meno freddo e doloroso.
Guarda: in mezzo agli scheletri di casa
Il campanile-mugnaio trasporta
Come sacchi di rame le campane.
Se patisci la fame, sarai sazio,
Se infelice, sarai lieto e gaudioso,
Ma non guardare ad occhi troppo aperti,
Mio sconosciuto terreno fratello.
Come pensavo di fare, ho fatto,
Ma è stato tutto inutile, ugualmente!
Il corpo è certo troppo abituato
A sentire quel brivido e quel gelo.
Che importa, dunque! Ci son tanti altri,
Non sono al mondo l'unico vivente.
Ora ammicca il lampione, ora ridacchia,
Con quella testa sua priva di labbra.
Sotto la veste lisa solo il cuore
Sussurra a me, che ho visitato il cielo:
«Amico, amico, soltanto la morte
Chiude quegli occhi che videro chiaro».
[1921]
IN OGNI COSA VIVA C'È UN'IMPRONTA
In ogni cosa viva c'è un'impronta
Segnata a fondo dalla prima età.
S'io non fossi poeta
Sarei di certo truffatore e ladro.
Piccolo, mingherlino,
Sempre eroe fra i compagni,
Spesso, spesso col naso tutto rotto
Me ne tornavo a casa.
E incontrando la mamma spaventata
Sibilavo fra i denti insanguinati:
«Ho inciampato in un sasso, non è nulla,
Entro domani sarò già guarito».
E ancor oggi, che pur si è raffreddata
La ribollente trama di quei giorni,
Una forza inquieta ed insolente
S'è riversata sopra i miei poemi.
Un cumulo dorato di parole,
E da ciascuna riga senza fine
Si riverbera la spavalderia
Del monello di un tempo e attaccabrighe.
Son come allora temerario e ardito
E schizza terra vergine il mio passo.
Se prima mi picchiavano sul muso
Adesso è tutta l'anima che sanguina.
E dico ormai, ma più non alla mamma,
Bensì a canaglia estranea, sghignazzante:
«Ho inciampato in un sasso, non è nulla,
Entro domani sarò guarito».
[1922]
NON RIMPIANGO, NON LACRIMO, NON CHIAMO
Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo.
Fumo dai meli bianchi, tutto passa.
In preda all'oro della sfioritura,
Io non sarò più giovane.
Non batterai più forte come un tempo,
Cuore, toccato già dal primo freddo.
Né più mi tenterà a vagare scalzo
La terra delle betulle telose.
Sempre più rara agiti tu la fiamma,
Anima vagabonda, delle labbra.
O freschezza perduta,
Piena dei sensi e violenza di sguardi.
Di desideri son fatto più avaro
O ti ho soltanto, mia vita, sognato?
Come al galoppo, in sonante mattino,
Sopra un cavallo rosa, a primavera.
Tutti noi, tutti siamo caduchi a questo mondo,
Lento cola dagli aceri il rame delle foglie...
E sia allora per sempre benedetto
Quel che è venuto a fiorire e morire.
[1922]
ECCO ADESSO È DECISO. HO ABBANDONATO
Ecco adesso è deciso. Ho abbandonato
Senza ritorno i campi miei nativi.
E i pioppi, col fogliame loro alato,
Mai più sopra il mio capo stormiranno.
La bassa casa senza me si ingobba,
È crepato da tempo il vecchio cane.
Iddio mi condannò, sembra, a morire
Fra le tortuose strade moscovite.
Amo questa città, nel suo merletto,
Benché flaccida sia, benché sia vecchia:
L'Asia dorata, l'Asia sonnolenta,
Sulle sue cupole s'è addormentata.
E quando a notte la luna risplende,
Quando risplende... sa il diavolo come!
Io vado con la testa ciondolante,
Nel vicolo, alla bettola consueta.
Sordo baccano in quel sinistro covo:
Ma per tutta la notte, fino all'alba,
Io leggo i versi miei alle prostitute
E nell'alcool affogo coi banditi.
Sempre più rapido mi batte il cuore
E divago in discorsi fuori luogo:
«Come voi sono un essere fallito,
E m'è preclusa la via del ritorno».
La bassa casa senza me si ingobba,
È crepato da tempo il vecchio cane.
Iddio mi condannò, sembra, a morire
Fra le tortuose strade moscovite.
[1922-1923]
CANTA, CANTA! CON DITA IN SEMICERCHIO
Canta, canta! Con dita in semicerchio
Danzanti sulla dannata chitarra.
Annegarmi vorrei dentro quest'orgia,
O mio superstite, mio solo amico.
Non guardarle i bracciali né la seta
Dello scialle che cade dalle spalle.
Felicità cercavo in questa donna
E a caso vi trovai la perdizione.
Che l'amore è infezione non sapevo,
Non sapevo che l'amore è peste!
E venne lei, con l'occhio ammaliatore,
A condurre il teppista fuor di senno.
Canta, amico: volare fammi ancora
Al nostro antico burrascoso inizio.
Sbaciucchi pure un altro
Questa avvenente giovane immondizia.
Ma lascia andare: io non la riprovo.
Ma lascia andare: non la maledico.
Fa' che sia io a cantar di me stesso
Con questa corda bassa.
Scorre la rosea cupola dei giorni.
Nel cuore, il mucchio dei sogni dorati.
Ne ho tastate un bel po' di giovinette,
E donne alquante ne ho strette in disparte.
Questa è l'amara verità terrena,
Che ho spiato con occhi di bambino:
Leccano a turno i cani
Il liquame alla cagna.
Ma di che cosa allora ingelosirmi?
Per che cosa ridurmi in questo stato?
La nostra vita son lenzuola e letto,
La nostra vita è il gorgo dell'amplesso.
Canta, canta! Il fatidico aprirsi
Di queste braccia è fatale sventura.
Sai che ti dico? Mandiamoli a fare...
Né mai, amico, io ne morirò.
[1923]
SI È SOLLEVATO UN INCENDIO AZZURRO
Si è sollevato un incendio azzurro,
Le lontananze natie offuscando.
Ho cantato d'amore, ho rinunciato
A far scandali: per la prima volta.
Non ero che un giardino abbandonato,
Ero avido d'alcool e di donne.
Non amo più bere, ballare e perdere,
Senza voltarmi indietro, la mia vita.
Vorrei solo guardarti, contemplando
L'oro-castano abisso dei tuoi occhi
E, rinnegando il passato, far sì
Che con un altro tu non te ne vada.
Dolce andatura ed elegante vita:
Tu, dal cuore inflessibile, sapessi
Come è capace un teppista d'amare,
Come è capace d'esser sottomesso.
Le bettole per sempre scorderei,
Smettendo anche di scrivere versi:
Soltanto per sfiorare la tua mano
E come un fiore autunnale i capelli.
E vorrei sempre seguirti da presso,
Sia in patria che in paesi forestieri...
Ho cantato d'amore e ho rinunziato
A far scandali: per la prima volta.
[1923]
RITORNO IN PATRIA
Ho visitato i luoghi miei natali,
Quel piccolo borgo
Dove vissi fanciullo, e dove,
Come torre vedetta, a cima di betulla,
Si elevò il campanile senza croce.
Quante cose laggiù sono cambiate
In quel povero squallido tran-tran,
E quante novità sono seguite
Proprio da presso alla mia dipartita.
La casa paterna
Non posso riconoscere:
Più, sotto la finestra, non batte le ali l'acero
Slanciato, né la mamma siede più sulla loggia
Con becchime di kaša nutrendo i suoi pulcini.
Può darsi si sia fatta vecchia...
Sì, vecchia!
E con tristezza guardo tutt'intorno:
Mi è proprio sconosciuto questo luogo!
Come un tempo biancheggia il monte, solitario,
E sopra il monte
Un alto grigio sasso.
Qui c'è il cimitero!
Le croci marcescenti
A braccia spalancate son rimaste di ghiaccio
Come morti in battaglia corpo a corpo.
Per un sentiero, appoggiato al bastone,
Cammina un vecchio alzando polvere dall'erbaccia.
«Passante!
Dimmi, amico,
Dov'è che vive Esenina Tat'iana?»
«Tat'iana... Ehm...
Sì, dietro quell'isbà.
Ma tu che le vieni?
Parente ?
O non sei forse il figlio perduto?»
«Il figlio, sì.
Ma che cos'hai, vecchietto?
Dimmi perché
Mi stai guardando con tanta amarezza?»
«Bello, nipote mio,
Bello, non riconoscere tuo nonno!...»
«Oh, nonno mio! sei dunque proprio tu?»
E si versò quel triste colloquio
Come lacrime calde sui fiori polverosi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Tu, mi pare, fra poco avrai trent'anni...
Ma io di già novanta...
Presto andrò nella tomba.
Per te da molto è l'ora di tornare».
Così dicendo corrugò la fronte:
«Il tempo, già...
Tu non sei comunista?»
«No!»
«Le tue sorelle invece sono nel komsomòl.
Che schifezza! non resta che impiccarsi!
Ieri hanno tolto le icone alla nicchia
Dalla chiesa la croce ha tolto il commissario.
Non c'è più un luogo per pregare Iddio.
Ormai vado di soppiatto nel bosco
E prego innanzi ai tremoli...
Può darsi che sia utile...
Andiamo a casa:
Vedrai tutto da te».
Camminiamo pestando sul ciglio l'agrostemma.
Sorrido ai boschi ed ai campi arati,
Ma il nonno guarda triste il campanile.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
«Salve, madre mia, salve!»
E porto ancora il fazzoletto agli occhi:
Ché qui singhiozzerebbe anche una vacca,
Guardando questo misero angolino.
Sulla parete, un Lenin calendario.
Qui c'è la vita delle mie sorelle:
La loro, non la mia;
Ma a gettarmi in ginocchio son disposto
Avendo visto voi, contrade amate.
E giunsero i vicini...
Una donna col bimbo.
Proprio nessuno ormai mi riconosce.
E sull'ingresso byronianamente
Mi accoglie il nostro cagnetto latrando.
O mio amato paese!
Non eri tu,
Non eri tu così!
Ma neanch'io certo son quello d'un tempo.
Tanto più tristi e spenti mamma e nonno,
Tanto più allegra ride mia sorella.
Certo per me neanche Lenin è icona:
Conosco il mondo io...
Amo la mia famiglia...
Così mi inchino, chissà perché,
Sedendo sulla panca di legno.
«Parla dunque sorella»
Ed attacca a parlare, come bibbia,
Aprendo il panciuto Capitale.
... Su Marx,
Su Engels...
Con nessun clima
Io certamente ho letto questi libri.
E mi fa ridere
Il fatto che una vispa ragazzina
Alle corde mi metta su tutto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E sull'ingresso byronianamente
Mi accoglie il nostro cagnetto latrando.
[1924]
LENIN
La nostra legge non è ancora salda,
Mugghia il paese come la bufera.
Straripava da ogni lato, insolente,
Una libertà intossicante.
Russia, paese caro al cuore!
Compressa e afflitta è l'anima.
Da quanti anni non sentono i campi
Canto di galli, vociare di cani.
E il nostro quieto viver quotidiano
Ha perduto le parole di pace.
Dal vaiolo dei ferri di cavallo
Sono sfregiati il pascolo e le valli.
Scalpitare continuo, fra i lamenti,
Cigolan forte le taèanki e i carri.
Forse io dormo, e mi appare nel sogno
Che con le lance, da tutte le parti,
Ci stringono d'assedio i peceneghi.
No, non è sogno! Io vedo realmente -
E con lo sguardo da nulla offuscato -
Come, spronando nel guado i cavalli,
Un drappello galoppa dietro l'altro.
Dove mai vanno? Dov'è mai la guerra?
L'umida steppa non ode parole.
Io non so se è la luna che risplende,
O s'è un ferro, caduto a un cavaliere.
Tutto è confuso...
Ma lo si intende a vista:
dilaniato, da un capo ad un altro,
Il paese, nella guerra civile,
Scintillante di sciabole e di fuochi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Russia,
Suono terribile, suono incantevole,
Fra gli alberi betulle, tra i fiori il bucaneve:
Ma da dove è sbucato fuori lui,
Questo ribelle che ti tolse al sonno?
Genio severo! Egli non mi attrasse
Per il suo aspetto esterno.
Non andava a cavallo,
Né è mai volato incontro alle tempeste.
Dalle spalle mai teste non recise,
Né mise in fuga fanterie nemiche.
E in fatto di uccisioni non amava
Che la caccia alle quaglie.
Convenzionale era per noi l'eroe:
Amiamo quelli in maschere grifagne;
Egli invece con bimbetti mocciosi
D'inverno scivolava sulle slitte.
E non portava di quei capelli
Che affascinano languide donne.
Calvo come un vassoio,
Ha uno sguardo modesto fra i modesti.
Così simpatico, timido e semplice,
Egli è per me come una sfinge.
Con quale forza, non posso capire,
L'intero globo terrestre
Ha scosso? Eppur l'ha scosso...
Rumoreggia ed infuria,
Incrudelisci severo, maltempo!
Dall'infelice popolo cancella
La vergogna di carceri e di chiese.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quello era il tempo degli anni crudeli,
Ci dominavano i perfidi artigli.
Sulla pelle delle sventure paesane
Fiorivano i satrapi imperiali.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Lezzo sinistro! Monarchia! Nei secoli,
I festini seguivano ai festini,
Il nobile vendette il suo potere
Ai padroni di industrie ed ai banchieri.
Il popolo gemeva, e in tanto orrore
Aspettava qualcuno il paese...
Ed egli venne.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Con possente parola
Ha tutti noi guidato verso sorgenti nuove.
«Per far cessare - ci disse - i tormenti,
Prendete tutto voi con mani operaie.
Non avete altra salvezza:
Il vostro Soviet e il vostro potere».
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sotto l'urlo di bufere di neve
Andammo là dove egli guardava:
Andammo là dove egli vedeva
La libertà di tutti i popoli
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ed ecco è morto...
Il pianto è vergognoso.
Le muse non esaltano le voci di sciagura.
Dai cannoni latranti nel rame
È dato è dato l'ultimo saluto.
Chi ci salvò se n'è andato.
Ma coloro che sono in vita,
Quelli ch'egli ha lasciato,
Debbono, nella piena ribollente,
Il paese fissare con il cemento armato.
Per loro non dire:
«Lenin è morto»,
Non li ha portati il lutto all'angoscia.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ancor più austeri e gravi
Realizzano l'opera sua...
[1924]
LA RUSSIA CHE SE NE VA
Di tante cose ancora non c'è coscienza in noi,
Della vittoria di Lenin alunni;
E le nuove canzoni
Cantiamo in modo antico,
Come ce le insegnarono le nonne e i nonni.
Amici, amici,
Che scisma nel paese,
Che tristezza nell'allegro fermento!
Sarà dunque per questo che ho tanta voglia anch'io,
Rimboccandomi i pantaloni,
Di correr dietro al komsomól.
Scuso il dolore di chi se ne va:
Dove è mai dato ai vecchi
Correre dietro ai giovani?
Sono rimasti, non mietuta segala,
Sulla radice, a sfiorire e putrescere.
E del resto io stesso,
Né giovane né vecchio, in tutto ciò
Son condannato a fare da letame.
Non è forse per questo
Che mi dà un dolce sonno
Il suono della chitarra di bettola?
Cara chitarra,
Suona, suona,
Fammi sentire, zingara, qualcosa
Affinché scordi i giorni avvelenati
Che non conobbero carezza e pace.
Il potere sovietico lo accuso,
E gli conservo rancore per questo:
Nell'altrui lotta ho perduto di vista
La luminosa giovinezza.
Che cosa ho visto io?
Solo battaglie ho visto,
Ed invece dei canti
Ho ascoltato i cannoni.
Non è per questo che il pianeta ho corso
A perdifiato, con la testa gialla?
Pure sono felice, ché l'insieme
Delle tempeste mi ha dato
Non ripetibili impressioni:
E il gorgo ha rivestito il mio destino
Con un fiorame addobbato in oro.
Non sono un uomo nuovo!
A che serve nasconderlo?
Con un piede rimango nel passato
E, volendo raggiungere l'esercito d'acciaio,
Scivolo e cado con l'altro.
Ma vi son uomini diversi.
Essi
Sono ancor più negletti ed infelici,
Vivendo, come pula nel setaccio,
Fra vicende per loro inesplicabili.
Io li conosco
E li ho sogguardati: i loro occhi
Son più tristi di quelli delle vacche.
Fra le cure quotidiane degli uomini,
Come stagno ammuffisce il loro sangue.
Chi getterà una pietra in questo stagno?
Non fatelo!
Si leverebbe un fetido lezzo.
Avvizzendo in un fosso come foglie cadute,
Moriranno chiusi in se stessi.
E ve ne sono altri ancora:
Quelli che credono,
Azzardando un timido sguardo verso il futuro.
Grattandosi di dietro e davanti,
Essi discorrono di nuova vita.
Io li ascolto. E rivedo nel ricordo
Quel che borbotta il contadino ignudo:
«Coi Soviet si vive mica male...
Ma ci vorrebbe un po' di chiodi... e stoffa...»
Che poco occorre a questi barbacciuti:
La loro vita intera
Son le patate e il pane.
Ma perché sto ogni notte ad inveire
Contro il mancato, amaro mio destino?
Invidio tutti quelli
Che hanno trascorso la vita in battaglia,
Difendendo la grande idea.
Ma, rovinata la mia giovinezza,
Io non conservo nemmeno ricordi.
Che scandalo!
Che grande scandalo!
Sono finito in uno stretto vicolo
Io che potevo dare
Non quel che ho dato,
E m'era facile come uno scherzo.
Cara chitarra,
Suona, suona,
Fammi sentire, zingara, qualcosa
Affinché scordi i giorni avvelenati
Che non conobbero carezza e pace.
La tristezza non si affoga nel vino,
Non si risana l'anima, lo so,
Col deserto e il distacco.
Sarà dunque per questo
Che ho tanta voglia anch'io,
Rimboccandomi i pantaloni,
Di correr dietro al komsomòl.
[1924]
LETTERA A UNA DONNA
Voi ricordate,
Voi certamente tutto ricordate:
Come io stavo
Alla parete appoggiato,
E come, andando su e giù per la stanza
Un discorso tagliente
Mi scagliavate in faccia.
È tempo di lasciarci, dicevate;
E che vi aveva sfinito
La vita mia dissennata,
Ch'era tempo per voi di lavorare,
E mio destino
Rotolarmene ancora più in basso.
Amore mio!
Voi non mi avete amato.
Non sapevate voi che nella bolgia umana
Io fui come un cavallo fino alla bava spinto
Dagli speroni d'un cavaliere temerario.
Non sapevate che
Nel fitto fumo, nella quotidiana
Esistenza dal turbine sconvolta
Io mi tormento anche non capendo a che porta
Lo svolgersi fatale degli eventi.
Faccia a faccia
Non riesci a distinguere.
Ciò che è grande si vede da lontano.
Quando ribolle lo specchio del mare
Tutta la nave ha una gran brutta cera.
La terra è una nave!
Ad un tratto però
Nel bel mezzo di vortici e tempeste
Maestosamente a nuova vita e gloria
L'ha diretta qualcuno.
E chi di noi sopra la grande tolda
Non cadde, vomitando e bestemmiando?
Pochi son quelli, dall'animo esperto,
Rimasti saldi nel grande rullare.
E fu allora che anch'io
Nel selvaggio baccano,
Ma nel mestiere mio maturo e saggio,
Discesi nella stiva della nave
Per non vedere il vomito degli altri.
Quella stiva
Era la bettola russa.
Per distruggermi, senza
Soffrire per alcuno,
Mi chinai sul bicchiere tra i vapori
Asfissianti dell'alcool.
Vi ho tormentata,
Amore!
C'era grande tristezza
Nei vostri stanchi occhi:
Perché in mostra dinnanzi a voi
Dilapidavo me stesso in scandali.
Non sapevate che
Nel fitto fumo, nella quotidiana
Esistenza dal turbine sconvolta,
Io mi tormento anche
Non capendo a che porta
Lo svolgersi fatale degli eventi...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sono passati gli anni.
Ora ho un'età diversa.
E penso e sento in un diverso modo.
E col vino del dì di festa dico:
Sia lode e gloria al timoniere!
Sono oggi in vena
Di sentimenti teneri, e ricordo
Quella triste stanchezza.
Ed ecco
Mi affretto ad informarvi
Su ciò che adesso sono diventato
Da quello ch'ero allora!
Amore mio!
Com'è grato a me dirvi:
Ho evitato la ripida caduta.
Sono adesso, nel paese dei Soviet,
Il più impetuoso fra i compagni di strada.
Non sono più
Quello d'un tempo,
Né vi tormenterei
Come facevo allora.
Per la bandiera della libertà
E del luminoso lavoro
A piedi andrei fin sulla Manica.
Perdonatemi...
Lo so: siete cambiata.
Vivete
Con un marito intelligente e serio;
Non avete bisogno del nostro pandemonio,
E nemmeno di me
Avete alcun bisogno.
Vivete dunque
Dove vi porta la vostra stella,
Sotto l'ala di un tetto fatto a nuovo.
Vi saluta,
Di voi memore sempre,
Il vostro conoscente
Sergej Esenin
[1924]
LA TORMENTA
Tessete, giorni, il filo del passato.
Non puoi rifarla un'anima vivente,
No!
Né con me stesso mai mi intenderò.
Per l'amato me stesso
Non sono che un estraneo.
Vorrei leggere: il libro mi cade;
Lo sbadiglio mi invade
E mi prende il sonno...
Fuori della finestra
Singhiozza il vento prolungatamente
Quasi che presentisse
Vicino il funerale.
La nera vetta
Dell'acero spelacchiato
Con voce roca e nasale discorre
In cielo di quel che è stato.
Ma che razza di acero!
Non è che il palo della gogna:
Buono come patibolo
O legna per il fuoco.
E me per primo
Sarebbe bene impiccare,
Con le mani incrociate sulla schiena:
Perché con canto
Rauco e morboso
Ho turbato i sonni
Del mio amato paese.
Non amo
Gli squarciagola del gallo
E dico anzi
Che se ne avessi la forza
A tutti i galli
Tirerei le budella,
Perché i loro lamenti
Non strillino ogni notte;
Ma dimentico
Ch'io stesso come un gallo
Sfrenatamente ho sbraitato
Prima che si levasse
L'alba sul mio paese,
Calpestando i precetti dei padri,
E agitandomi
Col cuore e con i versi.
Ulula la tormenta
Come fosse un cinghiale
Che stiano macellando.
Fredda nebbia
Glaciale,
Non si distingue
Ciò che è lontano
Ciò che è vicino...
La luna, di sicuro,
L'hanno ingoiata i cani:
Da tanto tempo in cielo
Non la si vede più.
Dalla conocchia il filo traendo
La mamma
Con il fuso conversa.
Un gatto sordastro
Ascolta il colloquio,
Scuotendo dalla stufa
La testa sussiegosa.
Non per niente
Gli impauriti vicini
Dicono che assomiglia
A una nera civetta.
Mi si chiudono gli occhi,
Ma appena li riapro
Vedo come reale
Una scena del tempo delle fiabe:
Il gatto
Mi fa le fiche con la zampa,
E la mamma è una strega
Della montagna di Kiev.
Non capisco
Se son malato o sano,
Ma di certo i pensieri
Vagano senza meta.
Ho nelle orecchie
Un battere di pale sopra tombe
Ed il singhiozzo
Di lontani campanili.
Mi vedo morto
Steso dentro la bara,
Sotto gli alleluianti
Gemiti del sacrestano.
A me stesso defunto
Abbasso le palpebre,
Ponendovi due monete di rame.
Da questi soldi
Sopra gli occhi di un morto
Verrà tepore al becchino...
Che seppellendomi
Di forte grappa
Si offrirà un bicchiere.
Ad alta voce dicendo:
«Guarda che tipo!
Ne ha fatte in vita
Di tutti i colori...
Ma non riuscì a sciropparsi
Nemmeno cinque pagine
Del Capitale».
[1924]
LA PRIMAVERA
L'attacco del male è passato.
La tristezza è caduta in disgrazia:
Come un sogno di prima sera
Accetto la vita.
Ieri ho letto nel Capitale
Che anche i poeti
Hanno una loro legge.
Bufera di neve,
Urla pure come un diavolo, adesso,
E bussa, come un annegato nudo!
Liberatami la testa dall'alcool,
Sono compagno ai forti ed agli allegri.
Vano è compiangere chi è imputridito,
E neanche me compiangere bisogna
Perché umilmente potevo morire
Nel turbinare di questa tormenta.
Cip, cip, buongiorno
Cingallegra!
Non impaurirti!
Non ti toccherò.
E secondo la legge degli uccelli,
Posati sulla siepe
Se lo desideri.
C'è una legge di rotazione nel mondo
Che regola il rapporto
Fra gli esseri viventi.
Visto che sei di casa fra gli uomini,
Hai ben diritto
Di posarti e giacerti.
Salute a te,
Mio povero acero!
E scusami per averti offeso!
Il tuo abito ha un ben misero aspetto,
Ma sarai presto
Vestito a nuovo.
Aprile sua sponte
Ti farà crescere un berretto verde,
E tra le braccia
Con sommessa tenerezza
Dei rampicanti ti terrà il viluppo.
Presso di te verrà una giovinetta
Ad innaffiarti con l'acqua del pozzo,
Per far sì che nell'ottobre inclemente
Con le tormente tu possa lottare.
E di notte
Riemergerà la luna;
Non se la sono divorata i cani:
Era solo invisibile
Dietro l'umana
Insanguinata rissa.
Ma la rissa è finita...
Ed ecco la luna,
Con la sua luce color limone,
Gli alberi, agghindati col verde,
Aspergere
Di risonante chiarore.
Bevi dunque, petto mio,
La primavera!
Tormentati
Per nuovi versi!
Adesso, allontanandomi nel sogno,
Più con i galli
Non litigherò.
O terra, terra,
Tu non sei un metallo!
Il metallo, davvero,
Non può mettere gemme.
È sufficiente
Imbattersi in una riga,
Ed ecco subito
Compreso Il Capitale.
[1924]
IL MIO CAMMINO
Rientra fra i suoi argini la vita.
A me, abitante antico del villaggio,
Torna nella memoria
Quello che ho visto al paese natio.
Miei versi,
Pacatamente dite
Della mia vita il racconto.
Un'isbà contadina.
Finimenti che odorano di pece,
Una nicchia di vecchie icone,
Una lucerna dalla luce mite.
Com'è bello
Ch'io tutte le conservi
Le sensazioni dei miei primi anni.
Fuori delle finestre
Il candido falò della tormenta.
Ho nove anni.
La nonna, il gatto, il giaciglio da stufa...
E la nonna, sbadigliando ogni tanto
E segnando di croce le labbra,
Cantava qualcosa di triste
Che sapeva di steppa.
La tormenta sbraitava.
Presso la finestrella
Sembrava che ballassero i morti.
A quel tempo l'impero
Muoveva guerra ai giapponesi,
E ad ognuno lontane
Balenavano croci.
A quel tempo ignoravo
I marci affari della Russia,
Né sapevo gli scopi
Della guerra, e i motivi.
I campi di Riazan',
Dove falciavano i contadini,
E seminavano il loro grano,
Erano il mondo intero.
Solo questo ricordo:
Che mugugnavano i contadini,
Turpiloquiando il diavolo,
Iddio e lo Zar,
È che sola risposta
Era il sorriso delle lontananze
E della nostra liquida
Color limone aurora.
Allora per la prima volta
Io mi scontrai con la rima;
La ressa dei sentimenti
Mi dava le vertigini.
E dissi: «Poiché dunque
Questo prurito s'è destato,
Nelle parole riverserò tutta l'anima».
Anni lontani,
Siete oramai come dentro una nebbia.
Rammento il nonno
Dirmi tristemente:
«È tutta roba inutile...
Ma se proprio ti avvince,
Scrivi di segala
E ancor più di cavalle».
Allora nel cervello attanagliato
Dalla passione verso la mia musa,
In un silenzio segreto
Presero a scorrere i sogni.
... Ch'io sarei stato
Ricco e rinomato,
E che m'avrebbero eretto
Un monumento a Riazan'...
A quindici anni
M'innamorai svisceratamente,
E, non appena in solitudine,
Dolcemente pensavo
Che, raggiunta l'età,
Me la sarei sposata
La migliore tra le fanciulle.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Gli anni scorrevano,
Gli anni mutano i volti:
Ed una luce nuova
Sopra di essi si stende;
Sognatore di campagna,
Io diventai nella capitale
Un poeta di prima classe.
E, ammalatomi
Del tedio di scrittore,
Presi a vagabondare
Per paesi stranieri;
Non credendo agli incontri,
Non soffrendo i commiati,
Considerando inganno il mondo intero.
Compresi allora
Che cos'è la Russia;
Compresi pure che cos'è la gloria.
E per questo nell'anima
Come un veleno amaro
Penetrò nel profondo la tristezza.
Che cosa diavolo m'importa
D'essere un poeta.
Anche senza di me
Ce n'è abbastanza di rifiuti.
Ch'io crepi.
Soltanto...
Prego!
Non innalzate il monumento a Riazan'.
Russia... Zarume...
Angoscia...
E aristocratica condiscendenza...
Cosa contano mai?
Accogli dunque, o Mosca,
Il mio disperato teppismo.
Vedremo
Chi dei due la spunterà!
Ed ecco dai miei versi
Sui circoletti lustri e salottieri
Zampillare l'orina
Della cavalla di Riazan'.
Non vi aggrada?
Ma è giusto!
Con l'abitudine
Al Profumo d'origano e alle rose...
Ma questo pane
Che voi vi pappate,
L'abbiamo fatto, come dire...
Proprio con il letame...
Passarono altri anni.
Quello che in essi avvenne
Solo con le parole
Tutto non si può dire:
Lo zarismo soppiantando,
Con maestosa energia
Si levò in piedi la schiera operaia.
Stanco di trascinarmi
Per paesi stranieri
Feci ritorno
Alla casa natale.
Presso lo stagno
In sottanina bianca
Sta la betulla dalle verdi trecce.
Che betulla!
Incantevole! e che seni...
Seni come questi
Non se ne trovano nelle donne!
Dai campi
Uomini spruzzati di sole
I loro carri di segala
Portano incontro a me.
Non possono riconoscermi:
Sono per loro un passante.
Ma ecco, senza guardare,
Passa una campagnola.
Come una specie di corrente,
Sento lungo la schiena
Un inesprimibile brivido.
È proprio lei?
Possibile che non mi riconosca?
Ma sì!
Lascia pure che vada...
Anche senza di me
Non le mancheranno amarezze:
Non per nulla ha una piega
Così penosa la sua bocca.
Ogni sera,
Calandomi il berretto sul viso,
Per non tradire
Il gelo che ho negli occhi,
Io mi reco a guardare
Le steppe falciate
E ad ascoltare
Come canta lieve il ruscello.
Che fare mai?
La giovinezza è trascorsa!
Il tempo è venuto
Di dedicarmi al lavoro,
Perché dall'anima d'avventuriero
Mi vengano oramai canti maturi.
E la mutata vita del villaggio
Possa riempirmi
D'una nuova forza,
Così come un tempo
Mi condusse alla gloria
La conterranea mia
Cavalla russa.
[1925]
IO LO RICORDO, AMATA, IO LO RICORDO
Io lo ricordo, amata, io lo ricordo,
Lo splendore dei tuoi capelli;
Non fu allegra vicenda, né leggera,
Per me l'abbandonarti.
Delle notti autunnali mi ricordo,
Del murmure nell'ombra di betulle:
E se allora più corti erano i giorni,
Più a lungo dava luce a noi la luna.
Ed io ricordo che tu mi dicevi:
«Questi anni azzurri se ne andranno via,
E tu, mio amato, dimenticherai,
Per sempre, per un'altra».
Ma oggi il tiglio che va rifiorendo
Di nuovo ha ricordato ai sentimenti
Come teneramente cospargevo
A quel tempo i tuoi riccioli di fiori.
E il cuore, non disposto a raffreddarsi,
E amando un'altra con malinconia,
Va ricordando con quell'altra te,
Come un lungo racconto prediletto.
[1925]
NEBBIA TURCHINA E DISTESA DI NEVE
Nebbia turchina e distesa di neve,
Tenue color limone chiarore della luna,
Con pacato dolore com'è grato
Ricordare qualcosa dell'infanzia.
Come una sabbia mobile la neve sulla loggia.
Ecco, con questa stessa luna senza parole
Calcato in fronte un berretto di gatto,
Il mio tetto, furtivo, abbandonai.
Sono tornato alla terra natale:
Chi si ricorda, e chi non più, di me?
Della mia isbà padrone un tempo, adesso
Sto qui triste viandante messo al bando.
In silenzio gualcisco il mio berretto
Nuovo: non fa per me lo zibellino.
Mi rammento del nonno, della nonna,
Mi rammento la neve soffice sul cimitero.
Tutti v'ebbero pace, tutti là finiremo,
Per quanto tu possa in vita affannarti.
Ecco perché dagli uomini mi sento
Tanto attirato, ecco perché li amo.
Ecco perché per piangere ero quasi
E sorridendo l'anima s'è spenta.
Questa isbà con il cane sulla loggia
Guardo - lo sento - per l'ultima volta.
[1925]
AH, CHE TORMENTA! DIAVOLO, PORTALA VIA CON TE!
Ah, che tormenta! diavolo, portala via con te!
Con i suoi chiodi bianchi va sigillando il tetto!
Ma io non ho paura: nel mio destino è scritto
Che lo sviato cuore mi sigillasse a te.
[1925]
INNEVATA PIANURA, BIANCA LUNA, È CALATO
Innevata pianura, bianca luna, è calato
Il lenzuolo dei morti sulla nostra contrada.
Le betulle nel bianco per i boschi si dolgono.
Chi giace qui perduto? Morto? Ma non son io?
[1925]
I FIORI MI DICONO ADDIO
I fiori mi dicono addio,
Scrollando in giù le corolle,
Perch'io mai più rivedrò
Il suo volto e il paese natio.
Non importa, mia cara, non importa!
Li ho visti ed ho visto la terra,
E accolgo questo brivido tombale
Come se fosse una nuova carezza.
E poiché penetrai l'intera vita
Passandole dinanzi sorridendo,
Mi dico ad ogni istante
Che a questo mondo tutto si ripete.
Verrà un altro, e che importa! La tristezza
Non cancella chi parte: per la donna
Abbandonata e cara comporrà
Il successore un canto ancor più bello.
E nel silenzio ascoltandolo
Dal nuovo amante l'amata,
Di me può darsi si ricorderà
Come di un fiore che non si ripete.
[1925]
L'UOMO NERO
Amico mio, amico mio,
Io sono molto e molto malato!
Né io stesso conosco
Da dove mai mi venga questo male.
Forse è il vento che fischia
Sopra il campo deserto e desolato,
O forse, come selva di settembre,
È l'alcool, che i cervelli fa sfiorire.
Sventola la mia testa le orecchie
Come un uccello le ali,
Ma più non è capace
Di reggersi sul collo.
Un uomo nero,
Nero, nero,
Un uomo nero,
Si siede sul mio letto,
Un uomo nero,
Tutta la notte non mi fa dormire.
L'uomo nero
Segue col dito le righe d'un libro abietto.
E su di me nasaleggiando
Come un monaco sopra un defunto,
Mi legge la vita
D'un ribaldo ubriacone,
Angoscia e paura nell'anima instillandomi.
L'uomo nero,
Nero, nero.
«Ascolta, ascolta, -
Mi va mormorando -
Ci sono nel libro numerosi e bellissimi
Pensieri e progetti.
Quest'uomo
Viveva nel paese
Dei più abominevoli
Scassinatori e bricconi.
«In quel paese a dicembre
La neve è diabolicamente pura
E le tormente avviano
Allegri filatoi.
Era quell'uomo un avventuriero,
Ma di elevata
E sopraffina marca.
«Era elegante
E per giunta poeta,
Seppur di esile
Ma prensile forza,
Ed una certa donna
Di quarant'anni e passa
Chiamava sua diletta
E perfida fanciulla.
«La felicità - diceva -
È la destrezza di mente e di mani
Le anime maldestre sono sempre passate
Tutte per infelici.
Né ha importanza
Se tante sofferenze
Son generate dai gesti
Strampalati e bugiardi.
«Fra tempeste e bufere,
E dentro il gelo quotidiano,
Nelle crudeli perdite
E quando tu sei triste,
Mostrarsi sorridente e semplice
È la suprema arte del mondo».
«Non osare questo,
Uomo nero.
Tu non fai certo
Il palombaro di mestiere.
Che cosa dunque m'importa
D'un poeta scandaloso.
Leggi, per favore,
Questo racconto ad un altro».
L'uomo nero
Mi scruta fisso.
E gli si velano gli occhi
D'un vomito azzurrino:
Come volesse dirmi
Che son ladro e mariuolo
E, svergognato e spavaldo,
Ho derubato qualcuno.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Amico mio, amico mio,
Io sono molto e molto malato.
Né io stesso conosco
Da dove mai mi venga questo male.
Forse è il vento che fischia
Sopra il campo deserto e desolato,
O forse, come selva di settembre -,
È l'alcool, che i cervelli fa sfiorire.
Notte di gelo.
Assorta è la pace al crocevia.
Sto solo alla finestra,
Non aspettando ospite né amico.
Di porosa e soffice calce
È ricoperta tutta la pianura,
E gli alberi, come cavalieri,
Sono accorsi a convegno nel giardino.
Piange da qualche parte
Un sinistro uccello notturno.
I cavalieri di legno
Seminano un ticchettare di zoccoli.
Ecco di nuovo quella cosa nera
Che - toltasi il cilindro e liberatasi
Con negligenza della redingote -
Si siede alla mia poltrona.
«Ascolta, ascolta! -
Mi dice rauco, guardandomi in viso,
E sempre più vicino
Chinandosi. -
Non ho mai visto
Alcun gaglioffo
Inutilmente soffrire
Tanta stupida insonnia.
«Ma ammettiamo mi sbagli.
E già, c'è adesso la luna.
E che cos'altro occorre
A questo mondiciattolo ebbro di sonnolenza?
Può darsi, di nascosto
Giungerà ‹Lei›, dalle grosse cosce:
Le leggerai allora
Una tua qualche boccheggiante lirica?
«Come amo i poeti!
Che gente divertente!
In loro sempre trovo
La ben nota al cuore storiella:
La studentessa foruncolosa
Alla quale parla dei mondi
Un chiomatissimo mostro
Stremantesi d'erotico languore.
«Non so, non ricordo...
In un villaggio,
Credo a Kaluga,
O piuttosto a Riazan',
In una semplice
Famiglia contadina
Un ragazzo viveva,
Dagli occhi azzurri e dai capelli gialli...
«Divenne adulto
E per giunta poeta,
Seppur di esile
Ma prensile forza,
Ed una certa donna
Di quarant'anni e passa
Chiamava sua diletta
E perfida fanciulla».
«Uomo nero!
Sei un ospite abominevole:
Da lungo tempo
Lo si dice ai quattro venti».
Furiosamente mi imbestio
E vola il mio bastone
Diritto al grugno suo,
Fra bocca e naso...
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
... La luna è morta,
Alla finestra azzurreggia l'alba.
Ah, notte!
Che brutto scherzo,
Notte, m'hai tu giocato!
Io sto in cilindro.
Non c'è nessuno con me.
Sono solo,
Con lo specchio in frantumi...
[1925]
ARRIVEDERCI, AMICO, ARRIVEDERCI
Arrivederci, amico, arrivederci.
O vecchio mio, tu mi sei nel cuore.
Questa separazione destinata
Un incontro promette in futuro.
Arrivederci amico, senza parole e gesti,
Né tristezza e aggrottar di sopracciglia.
Non è nuovo morire, in questa vita,
Ma più nuovo non è di certo vivere.
[1925]