Esenin

Poesie


DI SE STESSO


Sono nato nel 1895, il 21 settembre, nel villaggio di Konstantínovo, che si trova nella circoscrizione di Kuz'mín, appartenente al distretto e al governatorato di Riazàn'.
Dall'età di due anni fui affidato al nonno materno, uomo discretamente agiato, presso il quale abitavano tre figli adulti e scapoli, con cui trascorsi quasi tutta la mia infanzia. I miei zii erano giovanotti di spericolatezza matricolata. Avevo tre anni e mezzo quando mi misero su un cavallo senza sella che subito lanciarono al galoppo. Ricordo che, completamente frastornato, mi tenni forte al garrese.
In seguito, mi insegnarono a nuotare. Uno di essi (zio Saša) mi prendeva con sé in barca, si allontanava dalla riva, mi denudava e mi gettava in acqua come un cagnolino. Inesperto e terrorizzato, agitavo le braccia mentre lui, finché non ero sul punto di affogare, non faceva che strillare: «Ehi! carogna! Ma sei proprio un buono a nulla?...» «Carogna» era per lui un appellativo affettuoso. Dopo ancora, a otto anni, per un altro zio facevo spesso le veci di cane da caccia, andando a prendere a nuoto le anatre impallinate. Sugli alberi mi arrampicavo molto bene.
Fra i ragazzini ero sempre capobanda e attaccabrighe, e ne uscivo sempre con sgraffiature. Per la mia monelleria mi rimproverava solo la nonna, mentre il nonno qualche volta mi spronava lui stesso alle scazzottature e diceva spesso alla moglie: «E insomma, lasciamelo stare, cretina: così diventerà più forte!» La nonna mi amava con tutte le sue forze, e la sua tenerezza era sconfinata. Ogni sabato mi lavavano col sapone, mi accorciavano le unghie, mi ondulavano i capelli con olio da lampade perché il solo pettine non la spuntava sui miei riccioli. Ma anche l'olio poteva ben poco. Io ogni volta strillavo a più non posso, e perfino adesso continuo a sentire una certa avversione per il sabato. Così trascorse la mia infanzia.
Divenuto adolescente, volevano fare di me un maestro di villaggio e a questo scopo mi mandarono in una scuola magistrale religiosa, al termine della quale avrei dovuto frequentare l'Istituto magistrale di Mosca. Fortunatamente, ciò non ebbe a verificarsi.
A scrivere versi incominciai presto, a nove anni ma l'attività creativa consapevole la faccio risalire ai 16-17. Alcuni versi di questi anni; sono inclusi nella raccolta Radunica.
A diciotto anni rimasi stupito perché le riviste non pubblicavano i versi che io inviavo: così mi recai a Pietroburgo, dove mi accolsero con grande cordialità. Il primo che vidi fu Blok, il secondo Gorodeckij. Mentre guardavo Blok, mi scorreva il sudore perché era la prima volta che vedevo un poeta in carne e ossa. Gorodeckij mi fece conoscere Kljuev sul quale fino ad allora non avevo mai sentito parola alcuna. Con Kljuev nacque una grande amicizia, nonostante tutto ciò che nell'intimo ci divideva.
In quel periodo frequentai per un anno e mezzo l'Università Šanjavskij, e tornai in campagna.
All'università conobbi i poeti Semenovskij, Nasedkin, Kolokolov e Filipèenko.
Fra i poeti contemporanei apprezzavo soprattutto Blok, Belyj e Kljuev. Belyj mi ha dato molto per quel che riguarda la forma, mentre Blok e Kljuev mi hanno insegnato il lirismo.
Nel 1919, con un gruppo di amici, pubblicai il manifesto dell'immaginismo: che era la scuola della forma poetica che noi intendevamo promuovere. Ma questa scuola, non poggiando su fondamenta, si estinse da sé, dopo aver abbandonato la verità per l'immagine organica.
Ai miei molti versi e poemi religiosi rinuncerei volentieri, ma essi sono molto rappresentativi del cammino di un poeta prima della rivoluzione.
Da quando ebbi otto anni, la nonna prese a trascinarmi per svariati monasteri; a casa faceva alloggiare perennemente ogni specie di pellegrini e di pellegrine. Si cantavano vari inni religiosi. Il nonno era tutt'altro tipo. Quanto al bere non era uno sciocco. E per lui vi erano continue nozze senza sacramenti.
In seguito, lasciata la casa di campagna, dovetti a lungo ingegnarmi per sbarcare il lunario.
Negli anni della rivoluzione fui interamente dalla parte dell'Ottobre, anche se accolsi il tutto a modo mio, dal punto di vista contadino.
Per quel che riguarda l'evoluzione della forma, sono sempre più attirato da Puškin.
Quanto alle altre notizie biografiche, esse sono nei miei versi.


Ottobre 1925


LA MANDRIA DI CAVALLI

Su verdi colli mandrie di cavalli dai giorni

Soffiano con le nari una patina d'oro.


Dall'alto poggio è scesa sul golfo azzurreggiantesi

La pece delle agitate criniere.


Sopra l'acqua in riposo tremolano le teste,

E le prende la luna con la briglia d'argento.


Sbuffando spaventati dall'ombra loro stessa,

Attendon di offuscare con le criniere il giorno.


*


Giorno di primavera che risuona alle orecchie

Propensione cordiale verso le prime mosche.


Ma sul far della sera per i prati i cavalli

Agitano le orecchie scalpitando.


Sempre più acuto il suono attaccato agli zoccoli

Ora nell'aria affonda, ora pende ai laburni.


E non appena l'onda si protende a una stella

Guizzano a pelo d'acqua mosche simili a cenere.


*


Il sole è spento. C'è pace sul prato.

Suona il pastore nel corno il suo canto.


La mandria ascolta, con le fronti attente,

Quel che le canta il gamajun ciuffuto.


L'eco briosa, sfuggita dal labbro,

Spinge i pensieri verso prati ignoti.


Amando il giorno tuo e la notte buia,

Per te, mia patria, ho fatto questo canto.


[1915]


AUTUNNO

a R.V. Ivanov


Quieto è il dirupo folto di ginepro.

Pettina la criniera autunno - saura.


Va l'azzurro stridore dei suoi ferri

Sopra il drappo fluviale delle sponde.


Con passo accorto, il vento - asceta monaco

Macera foglie ai bordi delle strade.


E bacia sopra l'arbusto del sorbo

Le rosse piaghe d'un Cristo invisibile.


[1914-1916]


IN PATRIA SONO STANCO D'ABITARE

In patria sono stanco d'abitare

Pensando ai vasti campi, in umor tetro;

Ladro errabondo me ne voglio andare,

Il mio tugurio lasciandomi dietro.


E per i bianchi riccioli del giorno

andrò a cercarmi una misera tana.

Dal gambale l'amico che ho più intorno

Trarrà - affilata contro me - la lama.


Avvolta se ne sta la gialla strada

Di primavera e di sole sul prato.

E la sua soglia sarà a me vietata

Proprio da lei il cui nome mi è grato.


Farò ritorno alla casa paterna,

Di gioia d'altri mi consolerò,

Alla finestra in una verde sera

Con la mia manica mi impiccherò.


Più dolcemente il capo inclineranno

Canuti salici lungo il recinto.

Fra latrati di cane inumeranno

Il corpo non lavato di me estinto.


Navigherà navigherà la luna,

I remi dentro i laghi abbandonando;

Vivrà la Russia non mutando alcuna

Sorte, ai recinti piangendo danzando.


[1915-1916]


NON INVANO SOFFIARONO I VENTI

Non invano soffiarono i venti,

Non invano infuriò la bufera.

Gli occhi miei misterioso qualcuno

Ha ubriacato di placida luce.


E di qualcuno la primaverile

Dolcezza nell'azzurra nebbia ha tolto

Me di tristezza per una stupenda

Ma non di qui, non divinata terra.


Il muto latteggiare non angoscia,

Lo sgomento stellare non travaglia,

L'eterno e l'universo amo da tempo

Come se fossero il mio focolare.


Tutto in essi è benefico e santo,

E quel che travaglia riluce.

Il tramonto, papavero acceso,

Zampilla sul vetro del lago.


Una visione nel mare del grano

Viene alle labbra irresistibilmente:

Il cielo che ha figliato

Lecca un rosso vitello.


[1917]


SVEGLIAMI DOMATTINA DI BUON'ORA

Svegliami domattina di buon'ora,

O madre mia paziente! Me ne andrò

Per la strada oltre il colle camminando

Incontro all'ospite desiderato.


Oggi, sul prato dentro il fitto bosco,

Ho visto tracce di larghe ruote.

Sotto una fronda di nuvole il vento

Gli scuote la dorata dugà.


Domani all'alba sfreccerà calcando

Sotto un cespuglio la luna-berretto,

Agiterà per gioco la cavalla

La rossa coda sopra la pianura.


Svegliami domattina di buon'ora,

Ed accendi la luce della stanza.

Si dice che ben presto diverrò

Un famosissimo poeta russo.


E te e l'ospite io canterò,

La nostra stufa, il gallo ed il tetto...

Si verserà delle tue mucche fulve

Il latte sui miei canti.


[1917]


DOVE SEI, DOVE SEI CASA PATERNA

Dove sei, dove sei casa paterna,

Che scaldavi la schiena sotto il colle?

Mio azzurro, azzurro fiore,

Sabbia non camminata.

Dove sei, dove sei casa paterna?


Canta un gallo oltre il fiume

Dove un pastore ha pascolato il gregge,

E tre stelle lontane

Dall'acqua risplendevano.

Canta un gallo oltre il fiume.


Mulino a vento il tempo spinge in basso

Il pendolo lunare oltre il villaggio

Fra la segala, e versa

L'invisibile pioggia delle ore.

Mulino a vento, il tempo spinge in basso...


Con miriade di frecce questa pioggia

Fra le nuvole ha avvolto la mia casa,

L'azzurro fiore ha reciso

E la dorata sabbia ha calpestato.

Con miriadi di frecce questa pioggia.


[1917-1918]


O CAMPI, CAMPI ARATI

O campi, campi arati,

Di Kolomna malinconia.

Sul cuore è il giorno di ieri

E nel cuore splende la Russia.


Fischiano come uccelli le verste

Sotto l'unghia ferrata del cavallo.

E pioviggina il sole

Sopra di me, a manciate.


O paese di piene tremende,

Di forze silenziose, a primavera.

Presso l'aurora e le stelle

Ho frequentato qui la scuola mia.


Ed ho letto e pensato

Sulla bibbia dei venti,

Con Isaia ho pascolato

I miei dorati armenti.


[1917-1918]


VADO VAGANDO SULLA PRIMA NEVE

Vado vagando sulla prima neve

Con mughetti di forze esplose in cuore.

La sera ha dato luce ad una stella,

Azzurro cero lungo il mio cammino.


Io non so se c'è luce oppure buio,

Se nella selva canta il vento o il gallo.

Forse sui campi al posto dell'inverno

Vi sono cigni adagiati sul prato.


Come sei bella tu, bianca pianura!

Un lieve gelo mi riscalda il sangue!

Quanta voglia ho di stringere al mio corpo

Delle betulle i seni denudati.


O sedimento torpido dei boschi!

Nevosa ebbrezza dei campi di biade!...

Quanta voglia ho di stringer fra le braccia

I fianchi legnosi dei salici.


[1917-1918]


APRI, D'OLTRE LE NUVOLE GUARDIANO

Apri, d'oltre le nuvole guardiano,

Le azzurre porte, a me, del giorno.

Un bianco angelo ha portato via

Il mio cavallo a mezzanotte.


Il superfluo a Dio non occorre,

E il cavallo è per me potenza e forza.

Sento come nitrisce lamentoso,

La catena d'oro mordendo.


Vedo come egli lotta e si dimena,

La stretta del laccio sforzando;

La saura lana, come dalla luna,

Da lui vola verso la nebbia.


[1918]


TEPPISTA

La pioggerella con umide scope

Spazza sterco di salici sui prati.

Sputa via, vento, il fogliame a bracciate,

Anch'io sono un teppista, come te.


Amo le azzurre folte selve quando,

Con portamento pesante di bue,

Con il ventre di foglie rantolante,

Sporcano i tronchi fino alle ginocchia.


È quello il mio gregge fulvo!

Chi mai potrebbe celebrarlo meglio?

Vedo, vedo il crepuscolo leccare

Impronte di passi umani.


Mia Russia, legnosa Russia!

Sono il tuo solo cantore ed araldo.

Ho nutrito di menta e di reseda

La tristezza dei miei versi ferini.


Fai lume, mezzanotte, alla brocca lunare

Per attingere latte alle betulle!

Il camposanto con le braccia delle croci

Sembra che voglia strozzare qualcuno.


Un nero brivido vaga sui colli,

Il malgenio del ladro nel giardino versando.

Ma anch'io son becero, bandito e ladro,

Nel sangue, di cavalli della steppa.


Chi vide mai come arde nella notte

La schiera dei èerëmuchi in bollore?

Dovrei con una mazza a notte stare

In qualche punto dell'azzurra steppa.


È appassito il cespuglio del mio capo:

M'ha essiccato la prigione dei canti.

Son dannato alla macina dei versi

Entro l'ergastolo dei sentimenti.


Vento insensato, non aver timore,

Sputa tranquillo il fogliame sui prati.

Anche nei canti, come te teppista,

Non mi snatura nomea di poeta


[1920]


CONFESSIONE DI UN TEPPISTA

Non tutti son capaci di cantare

E non a tutti è dato di cadere

Come una mela, verso i piedi altrui.


È questa la più grande confessione

Che mai teppista possa confidarvi.


Io porto di mia voglia spettinata la testa,

Lume a petrolio sopra le mie spalle.

Mi piace nella tenebra schiarire

Lo spoglio autunno delle anime vostre;

E piace a me che mi volino contro

I sassi dell'ingiuria,

Grandine di eruttante temporale.

Solo più forte stringo fra le mani

L'ondulata mia bolla dei capelli.


È benefico allora ricordare

Il rauco ontano e l'erbeggiante stagno,

E che mi vivono da qualche parte

Padre e madre, infischiandosi del tutto

Dei miei versi, e che loro son caro

Come il campo e la carne, e quella pioggia fina

Che a primavera fa morbido il grano verde.

Per ogni grido che voi mi scagliate

Coi forconi verrebbero a scannarvi.


Poveri, poveri miei contadini!

Certo non siete diventati belli,

E Iddio temete e degli acquitrini le viscere.


Capiste almeno

Che vostro figlio in Russia

È fra i poeti il più grande!

Non si gelava il cuore a voi per lui,

Scalzo nelle pozzanghere d'autunno?

Adesso va girando egli in cilindro

E portando le scarpe di vernice.


Ma vive in lui la primigenia impronta

Del monello campagnolo.

Ad ogni mucca effigiata

Sopra le insegne di macelleria

Si inchina da lontano.

Ed incontrando in piazza i vetturini

Ricorda l'odore del letame sui campi,

Pronto, come uno strascico nuziale,

A reggere la coda dei cavalli.


Amo la patria. Amo molto la patria!

Pur con la sua tristezza di rugginoso salice.

Mi son gradevoli i grugni insudiciati dei porci,

E nel silenzio notturno l'argentina voce dei rospi.

Teneramente malato di memorie infantili

Sogno la nebbia e l'umido delle sere d'aprile.

Come a scaldarsi al rogo dell'aurora

S'è accoccolato l'acero nostro.

Ah, salendone i rami quante uova

Ho rubato dai nidi alle cornacchie!

È sempre uguale, con la verde cima?

È come un tempo forte la corteccia?


E tu, diletto,

Fedele cane pezzato!

Stridulo e cieco t'hanno fatto gli anni,

E trascinando vai per il cortile la coda penzolante,

Col fiuto immemore di porte e stalla.

Come grata ritorna quella birichinata:


Quando il tozzo di pane rubacchiato

Alla mia mamma, mordevamo a turno

Senza ribrezzo alcuno l'un dell'altro.


Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore.

Fioriscono gli occhi in viso

Simili a fiordalisi fra la segala.

Stuoie d'oro di versi srotolando,

Vorrei parlare a voi teneramente.


Buona notte! buona notte a voi tutti!

La falce dell'aurora ha già tinnito

Fra l'erba del crepuscolo.

Voglio stanotte pisciare a dirotto

Dalla finestra mia sopra la luna!


Azzurra luce, luce così azzurra!

In tanto azzurro anche morir non duole.

E non mi importa di sembrare un cinico

Con la lanterna attaccata al sedere!

Mio vecchio, buono ed estenuato Pégaso,

Mi serve proprio il tuo morbido trotto?

Io, severo maestro, son venuto

A celebrare i topi ed a cantarli.

L'agosto del mio capo si versa quale vino

Di capelli in tempesta.


Ho voglia d'essere la vela gialla

Verso il paese cui per mare andiamo.


[1920]


O TU CONTRADA, O TU CONTRADA MIA

O tu contrada, o tu contrada mia,

Metallo per le piogge dell'autunno.

Un lume specchia intirizzito il capo

Senza labbra, nella nera pozzanghera.


Ma certo è meglio ch'io più non vi guardi,

Per non scrutare in un attimo il peggio.

Tenterò quasi di chiudere gli occhi

Di fronte a questa rugginosa tenebra.


È così meno freddo e doloroso.

Guarda: in mezzo agli scheletri di casa

Il campanile-mugnaio trasporta

Come sacchi di rame le campane.


Se patisci la fame, sarai sazio,

Se infelice, sarai lieto e gaudioso,

Ma non guardare ad occhi troppo aperti,

Mio sconosciuto terreno fratello.


Come pensavo di fare, ho fatto,

Ma è stato tutto inutile, ugualmente!

Il corpo è certo troppo abituato

A sentire quel brivido e quel gelo.


Che importa, dunque! Ci son tanti altri,

Non sono al mondo l'unico vivente.

Ora ammicca il lampione, ora ridacchia,

Con quella testa sua priva di labbra.


Sotto la veste lisa solo il cuore

Sussurra a me, che ho visitato il cielo:

«Amico, amico, soltanto la morte

Chiude quegli occhi che videro chiaro».


[1921]


IN OGNI COSA VIVA C'È UN'IMPRONTA

In ogni cosa viva c'è un'impronta

Segnata a fondo dalla prima età.

S'io non fossi poeta

Sarei di certo truffatore e ladro.


Piccolo, mingherlino,

Sempre eroe fra i compagni,

Spesso, spesso col naso tutto rotto

Me ne tornavo a casa.


E incontrando la mamma spaventata

Sibilavo fra i denti insanguinati:

«Ho inciampato in un sasso, non è nulla,

Entro domani sarò già guarito».


E ancor oggi, che pur si è raffreddata

La ribollente trama di quei giorni,

Una forza inquieta ed insolente

S'è riversata sopra i miei poemi.


Un cumulo dorato di parole,

E da ciascuna riga senza fine

Si riverbera la spavalderia

Del monello di un tempo e attaccabrighe.


Son come allora temerario e ardito

E schizza terra vergine il mio passo.

Se prima mi picchiavano sul muso

Adesso è tutta l'anima che sanguina.


E dico ormai, ma più non alla mamma,

Bensì a canaglia estranea, sghignazzante:

«Ho inciampato in un sasso, non è nulla,

Entro domani sarò guarito».


[1922]


NON RIMPIANGO, NON LACRIMO, NON CHIAMO

Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo.

Fumo dai meli bianchi, tutto passa.

In preda all'oro della sfioritura,

Io non sarò più giovane.


Non batterai più forte come un tempo,

Cuore, toccato già dal primo freddo.

Né più mi tenterà a vagare scalzo

La terra delle betulle telose.


Sempre più rara agiti tu la fiamma,

Anima vagabonda, delle labbra.

O freschezza perduta,

Piena dei sensi e violenza di sguardi.


Di desideri son fatto più avaro

O ti ho soltanto, mia vita, sognato?

Come al galoppo, in sonante mattino,

Sopra un cavallo rosa, a primavera.


Tutti noi, tutti siamo caduchi a questo mondo,

Lento cola dagli aceri il rame delle foglie...

E sia allora per sempre benedetto

Quel che è venuto a fiorire e morire.


[1922]


ECCO ADESSO È DECISO. HO ABBANDONATO

Ecco adesso è deciso. Ho abbandonato

Senza ritorno i campi miei nativi.

E i pioppi, col fogliame loro alato,

Mai più sopra il mio capo stormiranno.


La bassa casa senza me si ingobba,

È crepato da tempo il vecchio cane.

Iddio mi condannò, sembra, a morire

Fra le tortuose strade moscovite.


Amo questa città, nel suo merletto,

Benché flaccida sia, benché sia vecchia:

L'Asia dorata, l'Asia sonnolenta,

Sulle sue cupole s'è addormentata.


E quando a notte la luna risplende,

Quando risplende... sa il diavolo come!

Io vado con la testa ciondolante,

Nel vicolo, alla bettola consueta.


Sordo baccano in quel sinistro covo:

Ma per tutta la notte, fino all'alba,

Io leggo i versi miei alle prostitute

E nell'alcool affogo coi banditi.


Sempre più rapido mi batte il cuore

E divago in discorsi fuori luogo:

«Come voi sono un essere fallito,

E m'è preclusa la via del ritorno».


La bassa casa senza me si ingobba,

È crepato da tempo il vecchio cane.

Iddio mi condannò, sembra, a morire

Fra le tortuose strade moscovite.


[1922-1923]


CANTA, CANTA! CON DITA IN SEMICERCHIO

Canta, canta! Con dita in semicerchio

Danzanti sulla dannata chitarra.

Annegarmi vorrei dentro quest'orgia,

O mio superstite, mio solo amico.


Non guardarle i bracciali né la seta

Dello scialle che cade dalle spalle.

Felicità cercavo in questa donna

E a caso vi trovai la perdizione.


Che l'amore è infezione non sapevo,

Non sapevo che l'amore è peste!

E venne lei, con l'occhio ammaliatore,

A condurre il teppista fuor di senno.


Canta, amico: volare fammi ancora

Al nostro antico burrascoso inizio.

Sbaciucchi pure un altro

Questa avvenente giovane immondizia.


Ma lascia andare: io non la riprovo.

Ma lascia andare: non la maledico.

Fa' che sia io a cantar di me stesso

Con questa corda bassa.


Scorre la rosea cupola dei giorni.

Nel cuore, il mucchio dei sogni dorati.

Ne ho tastate un bel po' di giovinette,

E donne alquante ne ho strette in disparte.


Questa è l'amara verità terrena,

Che ho spiato con occhi di bambino:

Leccano a turno i cani

Il liquame alla cagna.


Ma di che cosa allora ingelosirmi?

Per che cosa ridurmi in questo stato?

La nostra vita son lenzuola e letto,

La nostra vita è il gorgo dell'amplesso.


Canta, canta! Il fatidico aprirsi

Di queste braccia è fatale sventura.

Sai che ti dico? Mandiamoli a fare...

Né mai, amico, io ne morirò.


[1923]


SI È SOLLEVATO UN INCENDIO AZZURRO

Si è sollevato un incendio azzurro,

Le lontananze natie offuscando.

Ho cantato d'amore, ho rinunciato

A far scandali: per la prima volta.


Non ero che un giardino abbandonato,

Ero avido d'alcool e di donne.

Non amo più bere, ballare e perdere,

Senza voltarmi indietro, la mia vita.


Vorrei solo guardarti, contemplando

L'oro-castano abisso dei tuoi occhi

E, rinnegando il passato, far sì

Che con un altro tu non te ne vada.


Dolce andatura ed elegante vita:

Tu, dal cuore inflessibile, sapessi

Come è capace un teppista d'amare,

Come è capace d'esser sottomesso.


Le bettole per sempre scorderei,

Smettendo anche di scrivere versi:

Soltanto per sfiorare la tua mano

E come un fiore autunnale i capelli.


E vorrei sempre seguirti da presso,

Sia in patria che in paesi forestieri...


Ho cantato d'amore e ho rinunziato

A far scandali: per la prima volta.


[1923]


RITORNO IN PATRIA

Ho visitato i luoghi miei natali,

Quel piccolo borgo

Dove vissi fanciullo, e dove,

Come torre vedetta, a cima di betulla,

Si elevò il campanile senza croce.


Quante cose laggiù sono cambiate

In quel povero squallido tran-tran,

E quante novità sono seguite

Proprio da presso alla mia dipartita.


La casa paterna

Non posso riconoscere:

Più, sotto la finestra, non batte le ali l'acero

Slanciato, né la mamma siede più sulla loggia

Con becchime di kaša nutrendo i suoi pulcini.


Può darsi si sia fatta vecchia...

Sì, vecchia!

E con tristezza guardo tutt'intorno:

Mi è proprio sconosciuto questo luogo!

Come un tempo biancheggia il monte, solitario,

E sopra il monte

Un alto grigio sasso.


Qui c'è il cimitero!

Le croci marcescenti

A braccia spalancate son rimaste di ghiaccio

Come morti in battaglia corpo a corpo.


Per un sentiero, appoggiato al bastone,

Cammina un vecchio alzando polvere dall'erbaccia.

«Passante!

Dimmi, amico,

Dov'è che vive Esenina Tat'iana?»


«Tat'iana... Ehm...

Sì, dietro quell'isbà.

Ma tu che le vieni?

Parente ?

O non sei forse il figlio perduto?»


«Il figlio, sì.

Ma che cos'hai, vecchietto?

Dimmi perché

Mi stai guardando con tanta amarezza?»


«Bello, nipote mio,

Bello, non riconoscere tuo nonno!...»

«Oh, nonno mio! sei dunque proprio tu?»

E si versò quel triste colloquio

Come lacrime calde sui fiori polverosi

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Tu, mi pare, fra poco avrai trent'anni...

Ma io di già novanta...

Presto andrò nella tomba.

Per te da molto è l'ora di tornare».

Così dicendo corrugò la fronte:

«Il tempo, già...

Tu non sei comunista?»


«No!»

«Le tue sorelle invece sono nel komsomòl.

Che schifezza! non resta che impiccarsi!

Ieri hanno tolto le icone alla nicchia

Dalla chiesa la croce ha tolto il commissario.

Non c'è più un luogo per pregare Iddio.

Ormai vado di soppiatto nel bosco

E prego innanzi ai tremoli...

Può darsi che sia utile...


Andiamo a casa:

Vedrai tutto da te».


Camminiamo pestando sul ciglio l'agrostemma.

Sorrido ai boschi ed ai campi arati,

Ma il nonno guarda triste il campanile.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Salve, madre mia, salve!»

E porto ancora il fazzoletto agli occhi:

Ché qui singhiozzerebbe anche una vacca,

Guardando questo misero angolino.


Sulla parete, un Lenin calendario.

Qui c'è la vita delle mie sorelle:

La loro, non la mia;

Ma a gettarmi in ginocchio son disposto

Avendo visto voi, contrade amate.


E giunsero i vicini...

Una donna col bimbo.

Proprio nessuno ormai mi riconosce.

E sull'ingresso byronianamente

Mi accoglie il nostro cagnetto latrando.


O mio amato paese!

Non eri tu,

Non eri tu così!

Ma neanch'io certo son quello d'un tempo.

Tanto più tristi e spenti mamma e nonno,

Tanto più allegra ride mia sorella.


Certo per me neanche Lenin è icona:

Conosco il mondo io...

Amo la mia famiglia...

Così mi inchino, chissà perché,

Sedendo sulla panca di legno.


«Parla dunque sorella»


Ed attacca a parlare, come bibbia,

Aprendo il panciuto Capitale.

... Su Marx,

Su Engels...

Con nessun clima

Io certamente ho letto questi libri.


E mi fa ridere

Il fatto che una vispa ragazzina

Alle corde mi metta su tutto.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E sull'ingresso byronianamente

Mi accoglie il nostro cagnetto latrando.


[1924]


LENIN

La nostra legge non è ancora salda,

Mugghia il paese come la bufera.

Straripava da ogni lato, insolente,

Una libertà intossicante.


Russia, paese caro al cuore!

Compressa e afflitta è l'anima.

Da quanti anni non sentono i campi

Canto di galli, vociare di cani.


E il nostro quieto viver quotidiano

Ha perduto le parole di pace.

Dal vaiolo dei ferri di cavallo

Sono sfregiati il pascolo e le valli.


Scalpitare continuo, fra i lamenti,

Cigolan forte le taèanki e i carri.

Forse io dormo, e mi appare nel sogno

Che con le lance, da tutte le parti,

Ci stringono d'assedio i peceneghi.

No, non è sogno! Io vedo realmente -

E con lo sguardo da nulla offuscato -

Come, spronando nel guado i cavalli,

Un drappello galoppa dietro l'altro.

Dove mai vanno? Dov'è mai la guerra?

L'umida steppa non ode parole.

Io non so se è la luna che risplende,


O s'è un ferro, caduto a un cavaliere.

Tutto è confuso...


Ma lo si intende a vista:

dilaniato, da un capo ad un altro,

Il paese, nella guerra civile,

Scintillante di sciabole e di fuochi

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Russia,

Suono terribile, suono incantevole,

Fra gli alberi betulle, tra i fiori il bucaneve:

Ma da dove è sbucato fuori lui,

Questo ribelle che ti tolse al sonno?

Genio severo! Egli non mi attrasse

Per il suo aspetto esterno.

Non andava a cavallo,

Né è mai volato incontro alle tempeste.

Dalle spalle mai teste non recise,

Né mise in fuga fanterie nemiche.

E in fatto di uccisioni non amava

Che la caccia alle quaglie.


Convenzionale era per noi l'eroe:

Amiamo quelli in maschere grifagne;

Egli invece con bimbetti mocciosi

D'inverno scivolava sulle slitte.

E non portava di quei capelli

Che affascinano languide donne.

Calvo come un vassoio,

Ha uno sguardo modesto fra i modesti.

Così simpatico, timido e semplice,

Egli è per me come una sfinge.

Con quale forza, non posso capire,

L'intero globo terrestre

Ha scosso? Eppur l'ha scosso...

Rumoreggia ed infuria,

Incrudelisci severo, maltempo!

Dall'infelice popolo cancella

La vergogna di carceri e di chiese.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Quello era il tempo degli anni crudeli,

Ci dominavano i perfidi artigli.

Sulla pelle delle sventure paesane

Fiorivano i satrapi imperiali.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Lezzo sinistro! Monarchia! Nei secoli,

I festini seguivano ai festini,

Il nobile vendette il suo potere

Ai padroni di industrie ed ai banchieri.

Il popolo gemeva, e in tanto orrore

Aspettava qualcuno il paese...

Ed egli venne.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Con possente parola

Ha tutti noi guidato verso sorgenti nuove.

«Per far cessare - ci disse - i tormenti,

Prendete tutto voi con mani operaie.

Non avete altra salvezza:

Il vostro Soviet e il vostro potere».

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sotto l'urlo di bufere di neve

Andammo là dove egli guardava:

Andammo là dove egli vedeva

La libertà di tutti i popoli

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ed ecco è morto...

Il pianto è vergognoso.

Le muse non esaltano le voci di sciagura.

Dai cannoni latranti nel rame

È dato è dato l'ultimo saluto.

Chi ci salvò se n'è andato.

Ma coloro che sono in vita,

Quelli ch'egli ha lasciato,

Debbono, nella piena ribollente,

Il paese fissare con il cemento armato.


Per loro non dire:

«Lenin è morto»,

Non li ha portati il lutto all'angoscia.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ancor più austeri e gravi

Realizzano l'opera sua...


[1924]


LA RUSSIA CHE SE NE VA

Di tante cose ancora non c'è coscienza in noi,

Della vittoria di Lenin alunni;

E le nuove canzoni

Cantiamo in modo antico,

Come ce le insegnarono le nonne e i nonni.


Amici, amici,

Che scisma nel paese,

Che tristezza nell'allegro fermento!

Sarà dunque per questo che ho tanta voglia anch'io,

Rimboccandomi i pantaloni,

Di correr dietro al komsomól.


Scuso il dolore di chi se ne va:

Dove è mai dato ai vecchi

Correre dietro ai giovani?

Sono rimasti, non mietuta segala,

Sulla radice, a sfiorire e putrescere.


E del resto io stesso,

Né giovane né vecchio, in tutto ciò

Son condannato a fare da letame.

Non è forse per questo

Che mi dà un dolce sonno

Il suono della chitarra di bettola?


Cara chitarra,

Suona, suona,

Fammi sentire, zingara, qualcosa

Affinché scordi i giorni avvelenati

Che non conobbero carezza e pace.


Il potere sovietico lo accuso,

E gli conservo rancore per questo:

Nell'altrui lotta ho perduto di vista

La luminosa giovinezza.


Che cosa ho visto io?

Solo battaglie ho visto,

Ed invece dei canti

Ho ascoltato i cannoni.

Non è per questo che il pianeta ho corso

A perdifiato, con la testa gialla?


Pure sono felice, ché l'insieme

Delle tempeste mi ha dato

Non ripetibili impressioni:

E il gorgo ha rivestito il mio destino

Con un fiorame addobbato in oro.


Non sono un uomo nuovo!

A che serve nasconderlo?

Con un piede rimango nel passato

E, volendo raggiungere l'esercito d'acciaio,

Scivolo e cado con l'altro.


Ma vi son uomini diversi.

Essi

Sono ancor più negletti ed infelici,

Vivendo, come pula nel setaccio,

Fra vicende per loro inesplicabili.


Io li conosco

E li ho sogguardati: i loro occhi

Son più tristi di quelli delle vacche.

Fra le cure quotidiane degli uomini,

Come stagno ammuffisce il loro sangue.


Chi getterà una pietra in questo stagno?

Non fatelo!

Si leverebbe un fetido lezzo.

Avvizzendo in un fosso come foglie cadute,

Moriranno chiusi in se stessi.


E ve ne sono altri ancora:

Quelli che credono,

Azzardando un timido sguardo verso il futuro.

Grattandosi di dietro e davanti,

Essi discorrono di nuova vita.


Io li ascolto. E rivedo nel ricordo

Quel che borbotta il contadino ignudo:

«Coi Soviet si vive mica male...

Ma ci vorrebbe un po' di chiodi... e stoffa...»


Che poco occorre a questi barbacciuti:

La loro vita intera

Son le patate e il pane.

Ma perché sto ogni notte ad inveire

Contro il mancato, amaro mio destino?


Invidio tutti quelli

Che hanno trascorso la vita in battaglia,

Difendendo la grande idea.

Ma, rovinata la mia giovinezza,

Io non conservo nemmeno ricordi.


Che scandalo!

Che grande scandalo!

Sono finito in uno stretto vicolo

Io che potevo dare

Non quel che ho dato,

E m'era facile come uno scherzo.


Cara chitarra,

Suona, suona,

Fammi sentire, zingara, qualcosa

Affinché scordi i giorni avvelenati

Che non conobbero carezza e pace.


La tristezza non si affoga nel vino,

Non si risana l'anima, lo so,

Col deserto e il distacco.

Sarà dunque per questo

Che ho tanta voglia anch'io,

Rimboccandomi i pantaloni,

Di correr dietro al komsomòl.


[1924]


LETTERA A UNA DONNA

Voi ricordate,

Voi certamente tutto ricordate:

Come io stavo

Alla parete appoggiato,

E come, andando su e giù per la stanza

Un discorso tagliente

Mi scagliavate in faccia.


È tempo di lasciarci, dicevate;

E che vi aveva sfinito

La vita mia dissennata,

Ch'era tempo per voi di lavorare,

E mio destino

Rotolarmene ancora più in basso.


Amore mio!

Voi non mi avete amato.

Non sapevate voi che nella bolgia umana

Io fui come un cavallo fino alla bava spinto

Dagli speroni d'un cavaliere temerario.


Non sapevate che

Nel fitto fumo, nella quotidiana

Esistenza dal turbine sconvolta

Io mi tormento anche non capendo a che porta

Lo svolgersi fatale degli eventi.


Faccia a faccia

Non riesci a distinguere.

Ciò che è grande si vede da lontano.

Quando ribolle lo specchio del mare

Tutta la nave ha una gran brutta cera.


La terra è una nave!

Ad un tratto però

Nel bel mezzo di vortici e tempeste

Maestosamente a nuova vita e gloria

L'ha diretta qualcuno.


E chi di noi sopra la grande tolda

Non cadde, vomitando e bestemmiando?

Pochi son quelli, dall'animo esperto,

Rimasti saldi nel grande rullare.


E fu allora che anch'io

Nel selvaggio baccano,

Ma nel mestiere mio maturo e saggio,

Discesi nella stiva della nave

Per non vedere il vomito degli altri.

Quella stiva

Era la bettola russa.

Per distruggermi, senza

Soffrire per alcuno,

Mi chinai sul bicchiere tra i vapori

Asfissianti dell'alcool.


Vi ho tormentata,

Amore!

C'era grande tristezza

Nei vostri stanchi occhi:

Perché in mostra dinnanzi a voi

Dilapidavo me stesso in scandali.


Non sapevate che

Nel fitto fumo, nella quotidiana

Esistenza dal turbine sconvolta,

Io mi tormento anche

Non capendo a che porta

Lo svolgersi fatale degli eventi...


. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .


Sono passati gli anni.

Ora ho un'età diversa.

E penso e sento in un diverso modo.

E col vino del dì di festa dico:

Sia lode e gloria al timoniere!


Sono oggi in vena

Di sentimenti teneri, e ricordo

Quella triste stanchezza.

Ed ecco

Mi affretto ad informarvi

Su ciò che adesso sono diventato

Da quello ch'ero allora!


Amore mio!

Com'è grato a me dirvi:

Ho evitato la ripida caduta.

Sono adesso, nel paese dei Soviet,

Il più impetuoso fra i compagni di strada.


Non sono più

Quello d'un tempo,

Né vi tormenterei

Come facevo allora.

Per la bandiera della libertà

E del luminoso lavoro

A piedi andrei fin sulla Manica.


Perdonatemi...

Lo so: siete cambiata.

Vivete

Con un marito intelligente e serio;

Non avete bisogno del nostro pandemonio,

E nemmeno di me

Avete alcun bisogno.


Vivete dunque

Dove vi porta la vostra stella,

Sotto l'ala di un tetto fatto a nuovo.

Vi saluta,

Di voi memore sempre,

Il vostro conoscente

Sergej Esenin


 [1924]


LA TORMENTA

Tessete, giorni, il filo del passato.

Non puoi rifarla un'anima vivente,

No!

Né con me stesso mai mi intenderò.

Per l'amato me stesso

Non sono che un estraneo.


Vorrei leggere: il libro mi cade;

Lo sbadiglio mi invade

E mi prende il sonno...

Fuori della finestra

Singhiozza il vento prolungatamente

Quasi che presentisse

Vicino il funerale.


La nera vetta

Dell'acero spelacchiato

Con voce roca e nasale discorre

In cielo di quel che è stato.

Ma che razza di acero!

Non è che il palo della gogna:

Buono come patibolo

O legna per il fuoco.


E me per primo

Sarebbe bene impiccare,

Con le mani incrociate sulla schiena:

Perché con canto

Rauco e morboso

Ho turbato i sonni

Del mio amato paese.


Non amo

Gli squarciagola del gallo

E dico anzi

Che se ne avessi la forza

A tutti i galli

Tirerei le budella,

Perché i loro lamenti

Non strillino ogni notte;


Ma dimentico

Ch'io stesso come un gallo

Sfrenatamente ho sbraitato

Prima che si levasse

L'alba sul mio paese,

Calpestando i precetti dei padri,

E agitandomi

Col cuore e con i versi.


Ulula la tormenta

Come fosse un cinghiale

Che stiano macellando.

Fredda nebbia

Glaciale,

Non si distingue

Ciò che è lontano

Ciò che è vicino...


La luna, di sicuro,

L'hanno ingoiata i cani:

Da tanto tempo in cielo

Non la si vede più.

Dalla conocchia il filo traendo

La mamma

Con il fuso conversa.


Un gatto sordastro

Ascolta il colloquio,

Scuotendo dalla stufa

La testa sussiegosa.

Non per niente

Gli impauriti vicini

Dicono che assomiglia

A una nera civetta.


Mi si chiudono gli occhi,

Ma appena li riapro

Vedo come reale

Una scena del tempo delle fiabe:

Il gatto

Mi fa le fiche con la zampa,

E la mamma è una strega

Della montagna di Kiev.


Non capisco

Se son malato o sano,

Ma di certo i pensieri

Vagano senza meta.

Ho nelle orecchie

Un battere di pale sopra tombe

Ed il singhiozzo

Di lontani campanili.


Mi vedo morto

Steso dentro la bara,

Sotto gli alleluianti

Gemiti del sacrestano.

A me stesso defunto

Abbasso le palpebre,

Ponendovi due monete di rame.


Da questi soldi

Sopra gli occhi di un morto

Verrà tepore al becchino...

Che seppellendomi

Di forte grappa

Si offrirà un bicchiere.


Ad alta voce dicendo:

«Guarda che tipo!

Ne ha fatte in vita

Di tutti i colori...

Ma non riuscì a sciropparsi

Nemmeno cinque pagine

Del Capitale».


[1924]


LA PRIMAVERA

L'attacco del male è passato.

La tristezza è caduta in disgrazia:

Come un sogno di prima sera

Accetto la vita.

Ieri ho letto nel Capitale

Che anche i poeti

Hanno una loro legge.


Bufera di neve,

Urla pure come un diavolo, adesso,

E bussa, come un annegato nudo!

Liberatami la testa dall'alcool,

Sono compagno ai forti ed agli allegri.


Vano è compiangere chi è imputridito,

E neanche me compiangere bisogna

Perché umilmente potevo morire

Nel turbinare di questa tormenta.


Cip, cip, buongiorno

Cingallegra!

Non impaurirti!

Non ti toccherò.

E secondo la legge degli uccelli,

Posati sulla siepe

Se lo desideri.


C'è una legge di rotazione nel mondo

Che regola il rapporto

Fra gli esseri viventi.

Visto che sei di casa fra gli uomini,

Hai ben diritto

Di posarti e giacerti.


Salute a te,

Mio povero acero!

E scusami per averti offeso!

Il tuo abito ha un ben misero aspetto,

Ma sarai presto

Vestito a nuovo.


Aprile sua sponte

Ti farà crescere un berretto verde,

E tra le braccia

Con sommessa tenerezza

Dei rampicanti ti terrà il viluppo.


Presso di te verrà una giovinetta

Ad innaffiarti con l'acqua del pozzo,

Per far sì che nell'ottobre inclemente

Con le tormente tu possa lottare.


E di notte

Riemergerà la luna;

Non se la sono divorata i cani:

Era solo invisibile

Dietro l'umana

Insanguinata rissa.


Ma la rissa è finita...

Ed ecco la luna,

Con la sua luce color limone,

Gli alberi, agghindati col verde,

Aspergere

Di risonante chiarore.


Bevi dunque, petto mio,

La primavera!

Tormentati

Per nuovi versi!

Adesso, allontanandomi nel sogno,

Più con i galli

Non litigherò.


O terra, terra,

Tu non sei un metallo!

Il metallo, davvero,

Non può mettere gemme.

È sufficiente

Imbattersi in una riga,

Ed ecco subito

Compreso Il Capitale.


[1924]


IL MIO CAMMINO

Rientra fra i suoi argini la vita.

A me, abitante antico del villaggio,

Torna nella memoria

Quello che ho visto al paese natio.

Miei versi,

Pacatamente dite

Della mia vita il racconto.


Un'isbà contadina.

Finimenti che odorano di pece,

Una nicchia di vecchie icone,

Una lucerna dalla luce mite.

Com'è bello

Ch'io tutte le conservi

Le sensazioni dei miei primi anni.


Fuori delle finestre

Il candido falò della tormenta.

Ho nove anni.

La nonna, il gatto, il giaciglio da stufa...

E la nonna, sbadigliando ogni tanto

E segnando di croce le labbra,

Cantava qualcosa di triste

Che sapeva di steppa.


La tormenta sbraitava.

Presso la finestrella

Sembrava che ballassero i morti.

A quel tempo l'impero

Muoveva guerra ai giapponesi,

E ad ognuno lontane

Balenavano croci.


A quel tempo ignoravo

I marci affari della Russia,

Né sapevo gli scopi

Della guerra, e i motivi.

I campi di Riazan',

Dove falciavano i contadini,

E seminavano il loro grano,

Erano il mondo intero.


Solo questo ricordo:

Che mugugnavano i contadini,

Turpiloquiando il diavolo,

Iddio e lo Zar,

È che sola risposta

Era il sorriso delle lontananze

E della nostra liquida

Color limone aurora.


Allora per la prima volta

Io mi scontrai con la rima;

La ressa dei sentimenti

Mi dava le vertigini.

E dissi: «Poiché dunque

Questo prurito s'è destato,

Nelle parole riverserò tutta l'anima».


Anni lontani,

Siete oramai come dentro una nebbia.

Rammento il nonno

Dirmi tristemente:

«È tutta roba inutile...

Ma se proprio ti avvince,

Scrivi di segala

E ancor più di cavalle».


Allora nel cervello attanagliato

Dalla passione verso la mia musa,

In un silenzio segreto

Presero a scorrere i sogni.

... Ch'io sarei stato

Ricco e rinomato,

E che m'avrebbero eretto

Un monumento a Riazan'...


A quindici anni

M'innamorai svisceratamente,

E, non appena in solitudine,

Dolcemente pensavo

Che, raggiunta l'età,

Me la sarei sposata

La migliore tra le fanciulle.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Gli anni scorrevano,

Gli anni mutano i volti:

Ed una luce nuova

Sopra di essi si stende;

Sognatore di campagna,

Io diventai nella capitale

Un poeta di prima classe.


E, ammalatomi

Del tedio di scrittore,

Presi a vagabondare

Per paesi stranieri;

Non credendo agli incontri,

Non soffrendo i commiati,

Considerando inganno il mondo intero.


Compresi allora

Che cos'è la Russia;

Compresi pure che cos'è la gloria.

E per questo nell'anima

Come un veleno amaro

Penetrò nel profondo la tristezza.


Che cosa diavolo m'importa

D'essere un poeta.

Anche senza di me

Ce n'è abbastanza di rifiuti.

Ch'io crepi.

Soltanto...

Prego!

Non innalzate il monumento a Riazan'.


Russia... Zarume...

Angoscia...

E aristocratica condiscendenza...

Cosa contano mai?

Accogli dunque, o Mosca,

Il mio disperato teppismo.


Vedremo

Chi dei due la spunterà!

Ed ecco dai miei versi

Sui circoletti lustri e salottieri

Zampillare l'orina

Della cavalla di Riazan'.


Non vi aggrada?

Ma è giusto!

Con l'abitudine

Al Profumo d'origano e alle rose...

Ma questo pane

Che voi vi pappate,

L'abbiamo fatto, come dire...

Proprio con il letame...


Passarono altri anni.

Quello che in essi avvenne

Solo con le parole

Tutto non si può dire:

Lo zarismo soppiantando,

Con maestosa energia

Si levò in piedi la schiera operaia.


Stanco di trascinarmi

Per paesi stranieri

Feci ritorno

Alla casa natale.

Presso lo stagno

In sottanina bianca

Sta la betulla dalle verdi trecce.


Che betulla!

Incantevole! e che seni...

Seni come questi

Non se ne trovano nelle donne!

Dai campi

Uomini spruzzati di sole

I loro carri di segala

Portano incontro a me.


Non possono riconoscermi:

Sono per loro un passante.

Ma ecco, senza guardare,

Passa una campagnola.

Come una specie di corrente,

Sento lungo la schiena

Un inesprimibile brivido.


È proprio lei?

Possibile che non mi riconosca?

Ma sì!

Lascia pure che vada...


Anche senza di me

Non le mancheranno amarezze:

Non per nulla ha una piega

Così penosa la sua bocca.


Ogni sera,

Calandomi il berretto sul viso,

Per non tradire

Il gelo che ho negli occhi,

Io mi reco a guardare

Le steppe falciate

E ad ascoltare

Come canta lieve il ruscello.


Che fare mai?

La giovinezza è trascorsa!

Il tempo è venuto

Di dedicarmi al lavoro,

Perché dall'anima d'avventuriero

Mi vengano oramai canti maturi.


E la mutata vita del villaggio

Possa riempirmi

D'una nuova forza,

Così come un tempo

Mi condusse alla gloria

La conterranea mia

Cavalla russa.


[1925]


IO LO RICORDO, AMATA, IO LO RICORDO

Io lo ricordo, amata, io lo ricordo,

Lo splendore dei tuoi capelli;

Non fu allegra vicenda, né leggera,

Per me l'abbandonarti.


Delle notti autunnali mi ricordo,

Del murmure nell'ombra di betulle:

E se allora più corti erano i giorni,

Più a lungo dava luce a noi la luna.


Ed io ricordo che tu mi dicevi:

«Questi anni azzurri se ne andranno via,

E tu, mio amato, dimenticherai,

Per sempre, per un'altra».


Ma oggi il tiglio che va rifiorendo

Di nuovo ha ricordato ai sentimenti

Come teneramente cospargevo

A quel tempo i tuoi riccioli di fiori.


E il cuore, non disposto a raffreddarsi,

E amando un'altra con malinconia,

Va ricordando con quell'altra te,

Come un lungo racconto prediletto.


[1925]


NEBBIA TURCHINA E DISTESA DI NEVE

Nebbia turchina e distesa di neve,

Tenue color limone chiarore della luna,

Con pacato dolore com'è grato

Ricordare qualcosa dell'infanzia.


Come una sabbia mobile la neve sulla loggia.

Ecco, con questa stessa luna senza parole

Calcato in fronte un berretto di gatto,

Il mio tetto, furtivo, abbandonai.


Sono tornato alla terra natale:

Chi si ricorda, e chi non più, di me?

Della mia isbà padrone un tempo, adesso

Sto qui triste viandante messo al bando.


In silenzio gualcisco il mio berretto

Nuovo: non fa per me lo zibellino.

Mi rammento del nonno, della nonna,

Mi rammento la neve soffice sul cimitero.


Tutti v'ebbero pace, tutti là finiremo,

Per quanto tu possa in vita affannarti.

Ecco perché dagli uomini mi sento

Tanto attirato, ecco perché li amo.


Ecco perché per piangere ero quasi

E sorridendo l'anima s'è spenta.

Questa isbà con il cane sulla loggia

Guardo - lo sento - per l'ultima volta.


[1925]


AH, CHE TORMENTA! DIAVOLO, PORTALA VIA CON TE!

Ah, che tormenta! diavolo, portala via con te!

Con i suoi chiodi bianchi va sigillando il tetto!

Ma io non ho paura: nel mio destino è scritto

Che lo sviato cuore mi sigillasse a te.


[1925]


INNEVATA PIANURA, BIANCA LUNA, È CALATO

Innevata pianura, bianca luna, è calato

Il lenzuolo dei morti sulla nostra contrada.

Le betulle nel bianco per i boschi si dolgono.

Chi giace qui perduto? Morto? Ma non son io?


[1925]


I FIORI MI DICONO ADDIO

I fiori mi dicono addio,

Scrollando in giù le corolle,

Perch'io mai più rivedrò

Il suo volto e il paese natio.


Non importa, mia cara, non importa!

Li ho visti ed ho visto la terra,

E accolgo questo brivido tombale

Come se fosse una nuova carezza.


E poiché penetrai l'intera vita

Passandole dinanzi sorridendo,

Mi dico ad ogni istante

Che a questo mondo tutto si ripete.


Verrà un altro, e che importa! La tristezza

Non cancella chi parte: per la donna

Abbandonata e cara comporrà

Il successore un canto ancor più bello.


E nel silenzio ascoltandolo

Dal nuovo amante l'amata,

Di me può darsi si ricorderà

Come di un fiore che non si ripete.


[1925]


L'UOMO NERO

Amico mio, amico mio,

Io sono molto e molto malato!

Né io stesso conosco

Da dove mai mi venga questo male.

Forse è il vento che fischia

Sopra il campo deserto e desolato,

O forse, come selva di settembre,

È l'alcool, che i cervelli fa sfiorire.


Sventola la mia testa le orecchie

Come un uccello le ali,

Ma più non è capace

Di reggersi sul collo.

Un uomo nero,

Nero, nero,

Un uomo nero,

Si siede sul mio letto,

Un uomo nero,

Tutta la notte non mi fa dormire.


L'uomo nero

Segue col dito le righe d'un libro abietto.

E su di me nasaleggiando

Come un monaco sopra un defunto,

Mi legge la vita

D'un ribaldo ubriacone,

Angoscia e paura nell'anima instillandomi.

L'uomo nero,

Nero, nero.


«Ascolta, ascolta, -

Mi va mormorando -

Ci sono nel libro numerosi e bellissimi

Pensieri e progetti.

Quest'uomo

Viveva nel paese

Dei più abominevoli

Scassinatori e bricconi.


«In quel paese a dicembre

La neve è diabolicamente pura

E le tormente avviano

Allegri filatoi.

Era quell'uomo un avventuriero,

Ma di elevata

E sopraffina marca.


«Era elegante

E per giunta poeta,

Seppur di esile

Ma prensile forza,

Ed una certa donna

Di quarant'anni e passa

Chiamava sua diletta

E perfida fanciulla.


«La felicità - diceva -

È la destrezza di mente e di mani

Le anime maldestre sono sempre passate

Tutte per infelici.

Né ha importanza

Se tante sofferenze

Son generate dai gesti

Strampalati e bugiardi.


«Fra tempeste e bufere,

E dentro il gelo quotidiano,

Nelle crudeli perdite

E quando tu sei triste,

Mostrarsi sorridente e semplice

È la suprema arte del mondo».


«Non osare questo,

Uomo nero.

Tu non fai certo

Il palombaro di mestiere.

Che cosa dunque m'importa

D'un poeta scandaloso.

Leggi, per favore,

Questo racconto ad un altro».


L'uomo nero

Mi scruta fisso.

E gli si velano gli occhi

D'un vomito azzurrino:

Come volesse dirmi

Che son ladro e mariuolo

E, svergognato e spavaldo,

Ho derubato qualcuno.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Amico mio, amico mio,

Io sono molto e molto malato.

Né io stesso conosco

Da dove mai mi venga questo male.

Forse è il vento che fischia

Sopra il campo deserto e desolato,

O forse, come selva di settembre -,

È l'alcool, che i cervelli fa sfiorire.


Notte di gelo.

Assorta è la pace al crocevia.

Sto solo alla finestra,

Non aspettando ospite né amico.

Di porosa e soffice calce

È ricoperta tutta la pianura,

E gli alberi, come cavalieri,

Sono accorsi a convegno nel giardino.


Piange da qualche parte

Un sinistro uccello notturno.

I cavalieri di legno

Seminano un ticchettare di zoccoli.

Ecco di nuovo quella cosa nera

Che - toltasi il cilindro e liberatasi

Con negligenza della redingote -

Si siede alla mia poltrona.


«Ascolta, ascolta! -

Mi dice rauco, guardandomi in viso,

E sempre più vicino

Chinandosi. -

Non ho mai visto

Alcun gaglioffo

Inutilmente soffrire

Tanta stupida insonnia.


«Ma ammettiamo mi sbagli.

E già, c'è adesso la luna.

E che cos'altro occorre

A questo mondiciattolo ebbro di sonnolenza?

Può darsi, di nascosto

Giungerà ‹Lei›, dalle grosse cosce:

Le leggerai allora

Una tua qualche boccheggiante lirica?


«Come amo i poeti!

Che gente divertente!

In loro sempre trovo

La ben nota al cuore storiella:

La studentessa foruncolosa

Alla quale parla dei mondi

Un chiomatissimo mostro

Stremantesi d'erotico languore.


«Non so, non ricordo...

In un villaggio,

Credo a Kaluga,

O piuttosto a Riazan',

In una semplice

Famiglia contadina

Un ragazzo viveva,

Dagli occhi azzurri e dai capelli gialli...


«Divenne adulto

E per giunta poeta,

Seppur di esile

Ma prensile forza,

Ed una certa donna

Di quarant'anni e passa

Chiamava sua diletta

E perfida fanciulla».


«Uomo nero!

Sei un ospite abominevole:

Da lungo tempo

Lo si dice ai quattro venti».

Furiosamente mi imbestio

E vola il mio bastone

Diritto al grugno suo,

Fra bocca e naso...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

... La luna è morta,

Alla finestra azzurreggia l'alba.

Ah, notte!

Che brutto scherzo,

Notte, m'hai tu giocato!

Io sto in cilindro.

Non c'è nessuno con me.

Sono solo,

Con lo specchio in frantumi...


[1925]


ARRIVEDERCI, AMICO, ARRIVEDERCI

Arrivederci, amico, arrivederci.

O vecchio mio, tu mi sei nel cuore.

Questa separazione destinata

Un incontro promette in futuro.


Arrivederci amico, senza parole e gesti,

Né tristezza e aggrottar di sopracciglia.

Non è nuovo morire, in questa vita,

Ma più nuovo non è di certo vivere.


[1925]