Poesia comico-realistica


I rimatori qui raccolti esemplificano una corrente della poesia toscana fra Due e Trecento, che per i temi toccati (di tipo realistico, concreto) e lo stile impiegato (comico, cioè medio, non alto) costituisce una sorta di contrappunto ai modi della poesia cortese e stilnovista. Gli autori antologizzati sono:



Rustico Filippi


Rustico Filippi visse a Firenze nella seconda metà del XIII secolo. Godè nella sua città di una certa fama come rimatore. Di Rustico restano 58 sonetti, in parte di argomento amoroso, in parte di materia comico-realistica.



Cecco Angiolieri


Rimatore senese vissuto tra il 1260 e il 1312, dunque della stessa generazione di Dante. Le poche notizie certe che si hanno della sua biografia depongono per un temperamento insofferente, estroso, bizzarro. Opinione confortata dai temi toccati nelle sue rime: il lamento per la povertà, la ribellione al padre, il fastidio per la moglie, l'elogio della vita dissipata.



Folgore da San Gimignano


Folgore è il nome con cui è conosciuto Iacopo di Michele da San Gimignano, vissuto tra il 1270 e il 1330 circa. Rimatore della stessa generazione di Dante, Folgore si caratterizza come una delle voci più originali della poesia minore toscana tra Due e Trecento, per l'attitudine a celebrare con accesa fantasia pittorica la vita splendida e raffinata di una gentile brigata durante i mesi dell'anno. 



Cenne de la Chitarra


Di questo rimatore aretino del sec. XIV si sa che esercitava l'arte della giulleria accompagnandosi con la chitarra (da cui l'appellativo. Ci resta una corona di 13 sonetti, che sono una divertente parodia dei sonetti dei mesi di Folgore da San Gimignano: Cenne sostituisce i piaceri esaltati da Folgore con l'elenco dei fastidi d'ogni genere che ciascun mese infligge a una brigata di poveretti.


RUSTICO FILIPPI


I


    A voi, che ve ne andaste per paura:

sicuramente potete tornare;

da ch'e' ci è dirizzata la ventura,

ormai potete guerra inconinzare.

    E' più non vi bisogna stare a dura,

da che nonn-è chi vi scomunicare:

ma ben lo vi tenete 'n isciagura

che non avete più cagion che dare.

    Ma so bene, se Carlo fosse morto,

che voi ci trovereste ancor cagione;

però del papa nonn-ho gran conforto.

    Ma io non voglio con voi stare a tenzone,

ca∑llungo temp'è ch'io ne fui acorto

che 'l ghibellino aveste per garzone.



II


    Su, donna Gemma, co∑la farinata

e col buon vino e co∑l'uova ricenti,

che la Mita per voi sia argomentata,

ch'io veggio ben ch'ell'ha alegati i denti.

    Non vedete com'ell'è sottigliata?

Maravigliar ne fate tutte genti.

Donna Filippa assai n'è biasimata

da tutti i suoi amici e da' parenti.

    Or acendete il foco e sì cocete

cosa che spesso in bocca si metta;

se non, per certo morir la farete:

    ché la gonella, che sì l'era stretta,

se ne porian far due, be∑llo vedete,

così è fatta magra e sotiletta.



III


    Oi dolce mio marito Aldobrandino,

rimanda ormai il farso suo a Pilletto,

ch'egli è tanto cortese fante e fino

che creder non déi ciò che te n'è detto.

    E no star tra la gente a capo chino,

ché non se' bozza, e fòtine disdetto;

ma sì come amorevole vicino

co∑noi venne a dormir nel nostro letto.

    Rimanda il farso ormai, più no il tenere,

ch'e' mai non ci verrà oltre tua voglia,

poi che n'ha conosciuto il tuo volere.

    Nel nostro letto già mai non si spoglia.

Tu non dovéi gridare, anzi tacere:

ch'a me non fece cosa ond'io mi doglia.



IV


    D'una diversa cosa ch'è aparita

consiglio ch'abbian guardia i fiorentini;

e qual è quei che vuol campar la vita,

sì mandi al Veglio per suoi asessini.

    Ché ci ha una lonza sì fiera ed ardita

che, se Carlo sapesse i suo' confini

e de la sua prodezza avesse udita,

tosto n'andrebbe sopra i Saracini.

    Ma chi è questa lonza or lo sacciate:

Paniccia egli è. Che fate, o da Fiorenza,

ch'oste no stanziate o cavalcate?

    Che s'e' seguisce inanzi sua valenza

com'egli ha fatta adietro, sì gli date

sicuramente in guardia la Proenza.



V


    Una bestiuola ho vista molto fera,

armata forte d'una nuova guerra,

a cui risiede sì la cervelliera

che de∑legnaggio par di Salinguerra.

    Se 'nsino 'l mento avesse la gorgiera,

conquisterebbe il mar, non che la terra;

e chi paventa e dotta sua visera

al mio parer nonn-è folle ned erra.

    Laida la cera e periglioso ha 'l piglio,

e burfa spesso a guisa di leone:

torrebbe l' tinto a cui desse di piglio;

    e gli occhi ardenti ha via più che leone:

de' suoi nemici asai mi maraviglio

sed e' non muoion sol di pensagione.



VI


    Se tu sia lieto di madonna Tana,

Azzuccio, dimmi s'io vertà ti dico;

e se tu no la veggi ancor puttana,

non ci guardar parente ned amico:

    ch'io metto la sentenza in tua man piana,

e di neiente no la contradico,

perch'io son certo la darai certana;

non ne darei de l'altra parte un fico.

    Ch'egli è più freddo che detto non aggio:

non vedi come 'l naso il manofesta?

ché redir non saprebbe di Cafaggio.

    E spesse volte duolegli la testa;

credo che stesse a balia ne Riamaggio:

tant'è salvaggio pare una tempesta.



VII


    Volete udir vendetta smisurata

c'ha∑fatta di sua donna l'Acerbuzzo?

La barba lunga un mese n'ha portata,

orando che dovea far Giovannuzzo.

    Dio, com' bene le stette a la sciaurata,

quand'ella soferia così gran puzzo!

Per quella via ne va da la cognata,

s'altra vendetta nonn-è di Cambiuzzo.

    Dunque, ben n'anderà per quella via:

che 'nmantenente fue passato il duolo

ch'e' la disotterrò, perché putia.

    Almen faccia vendetta del figliuolo!

Ma per quel ch'io ne spero che ne sia,

per un fiorin voglio esser cavigliuolo.



VIII


    Quando Dio messer Messerin fece

ben si credette far gran maraviglia,

ch'ucello e bestia ed uom ne sodisfece,

ch'a ciascheduna natura s'apiglia:

    ché nel gozzo anigrottol contrafece,

e ne le ren giraffa m'asomiglia,

ed uom sembia, secondo che si dice,

ne la piagente sua cera vermiglia.

    Ancor risembra corbo nel cantare,

ed è diritta bestia nel savere,

ed uomo è sumigliato al vestimento.

    Quando Dio il fece, poco avea che fare,

ma volle dimostrar lo suo potere:

sì strana cosa fare ebbe in talento.



IX


    Quando ser Pepo vede alcuna potta

egli anitrisce sì come distriere

e no sta queto: inanzi salta e trotta

e canzisce che par pur un somiere;

    e com' baiardo ad ella si ragrotta

e ponvi il ceffo molto volontiere,

ed ancor de la lingua già non dotta

e spesse volte mordele il cimiere.

    Chi vedesse ser Pepo incavallare

ed anitrir, quando sua donna vede,

che si morde le labbra e vuol razzare,

    quelli, che dippo par non si ricrede:

quando v'ha 'l ceffo sì la fa sciacquare,

sì le stringe la groppa ch'ella pede.



X


    Dovunque vai conteco porti il cesso,

oi buggeressa vecchia puzzolente,

che quale-unque persona ti sta presso

si tura il naso e fugge inmantenente.

    Li dent'i∑le gengìe tue ménar gresso,

ché li taseva l'alito putente;

le selle paion legna d'alcipresso

inver' lo tuo fragor, tant'è repente.

    Ch'e' par che s'apran mille monimenta

quand'apri il ceffo: perché non ti spolpe

o ti rinchiude, sì ch'om non ti senta?

    Però che tutto 'l mondo ti paventa:

in corpo credo figlinti le volpe,

ta∑lezzo n'esce fuor, sozza giomenta.



XI


    Tutte le donne ch'io audo laudare,

parmi che lor non aggiano bieltate;

quando posso la mia donna membrare

son neiente le laude che son date:

    ma' che vorria ch'Amor tanto in parlare

mi desse graza ch'io con veritate

savesse a tutta gente adimostrare

com'è somma de l'altre donne nate.

    Deo, che maraviglia sembreria

a dir tanta smisura di bellezze

quante son quelle di madonna mia!

    Perch'io non posso dir le grand'altezze;

io non so se m'aven per gelosia

ch'io nonn-oso nomar le sue adornezze.



XII


    Similmente la notte come 'l giorno

io dormo e poso ed ho sollazzo e gioco,

e simile mi volgo e giro intorno

e sto, senza pensier doglioso, poco;

    e spesse volte a pianger mi ritorno

e quindi bagno l'amoroso foco,

e lo pensiero e 'l pianto è 'l mio soggiorno:

oi lasso, che tutto ardo e 'ncendo e coco!

    E nessun foco mai cangia calore

o che faccia languire o tormentare,

per certo non, con' fa il foco d'Amore,

    che 'l natural ti fa poco durare:

ma quegli ha vita, ca più tosto more,

a cui non vole Amore alegro fare.



CECCO ANGIOLIERI


I


    La mia malinconia è tanta e tale

ch'i' non discredo che, s'egli 'l sapesse

un che mi fosse nemico mortale,

che di me di pietade non piangesse.

    Quella per cu' m'avvèn poco ne cale

ché mi potrebbe, sed ella volesse,

guarir 'n un punto di tutto 'l mie male

sed ella pur: "I' t'odio" mi dicesse.

    Ma quest'è la risposta c'ho da lei:

ched ella non mi vol né mal né bene

e ched i' vad'a far li fatti mei:

    ch'ella non cura s'i' ho gioi' e pene

men ch'una paglia che le va tra' piei.

Mal grado n'abbi Amor, ch'a le' mi diène!



II


    S'e' si potesse morir di dolore,

molti son vivi che serebber morti:

i' son l'un desso, s'e' non me ne porti

'n anim'e carn'il lucifer maggiore;

    avvegna ch'i' ne vo con la peggiore,

ché ne lo 'nferno non son così forti

le pene e li tormenti e li sconforti

com'un de' miei, qualunqu'è 'l minore.

    Ond'io esser non nato ben vorria,

od esser cosa che non si sentisse,

poi ch'i' non trovo 'n me modo né via

    se none 'n tanto che se si compisse

per avventura omai la profezia,

che l'uom vuol dir ch'Anticristo venisse.



III


    "Becchin'amor!". "Che vuo', falso tradito?".

"Che mi perdoni". "Tu non ne se' degno".

"Merzé, per Deo!". "Tu vien' molto gecchito".

"E verrò sempre". "Che sarammi pegno?".

    "La buona fé". "Tu ne se' mal fornito".

"No inver' di te". "Non calmar, ch'i' ne vegno!".

"In che fallai?". "Tu sa' ch'i' l'abbo udito".

"Dimmel, amor". "Va', che ti veng'un segno!".

    "Vuo' pur ch'i' muoia?". "Anzi mi par mill'anni".

"Tu non di' bene". "Tu m'insegnerai".

"Ed i' morrò". "Omè, che tu m'inganni!".

    "Die tel perdoni". "E ché non te ne vai?".

"Or potess'io!". "Tègnoti per li panni?".

"Tu tieni 'l cuore". "E terrò co' tuo guai".



IV


    Qualunque giorno non veggio 'l mi' amore,

la notte come serpe mi travollo,

e sì mi giro che paio un bigollo,

tanta è la pena che sente 'l meo core.

    Parmi la notte ben cento mill' ore,

dicendo: "Dio, sarà ma' dì? vedrollo?";

e tanto piango che tutto m'immollo,

ch'alcuna cosa m'alleggia 'l dolore.

    Ed i' ne son da lei così cangiato:

che 'n una ched e' giungo 'n sua contrada

sì mi fa dir ch'i' vi son troppo stato

    e ched i' voli, sì tosto men vada,

però ch'ell'ha 'l su' amor a tal donato

che per un mille più di me li aggrada.



V


    S'i' fosse foco, ardere' il mondo;

s'i' fosse vento, lo tempestarei;

s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dio, mandereil en profondo;

    s'i' fosse papa, serei allor giocondo,

ché tutti ' cristiani embrigarei;

s'i' fosse 'mperator, sa' che farei?

a tutti mozzarei lo capo a tondo.

    S'i' fosse morte, andarei da mio padre;

s'i' fosse vita, fuggirei da lui:

similemente faria da mi' madre.

    S'i' fosse Cecco com'i' sono e fui,

torrei le donne giovani e leggiadre:

le vecchie e laide lasserei altrui.



VI


    Tre cose solamente mi so' in grado,

le quali posso non ben ben fornire:

ciò è la donna, la taverna e 'l dado;

queste mi fanno 'l cuor lieto sentire.

    Ma sì me le conven usar di rado,

ché la mie borsa mi mett'al mentire;

e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,

ch'i' perdo per moneta 'l mie disire.

    E dico: "Dato li sia d'una lancia!",

ciò a mi' padre, che mi tien sì magro

che tornare' senza logro di Francia.

    Trarl'un denai' di man serìa più agro,

la man di pasqua che si dà la mancia,

che far pigliar la gru ad un bozzagro!



VII


    Non si disperin quelli de lo 'nferno

po' che n'è uscito un che v'era chiavato,

el quale è Cecco, ch'è così chiamato,

che vi credea istare in sempiterno.

    Ma in tal guisa è rivolto il quaderno

che sempre viverò grolificato,

po' che messer Angiolieri è scoiato,

che m'affriggea e di state e di verno.

    Muovi, nuovo sonetto, e vanne a Cecco,

a quel che giù dimora a la Badia:

digli che Fortarrigo è mezzo secco,

    che non si dia nulla maninconia;

ma di tal cibo imbecchi lo suo becco

ch'e' viverà più ch'Enoch ed Elia.



VIII


    Lassar vo' lo trovare de Becchina,

Dante Alighieri, e dir del Mariscalco:

ch'e' par fiorin d'òr, ed è de recalco;

par zuccar cafetin, ed è salina;

    par pan di grano, ed è di saggina;

par una torre, ed è un vil balco;

ed è un nibbio, e par un girfalco;

e pare un gallo, ed è una gallina.

    Sonetto mio, vàtene a Fiorenza,

dove vedrai le donne e le donzelle:

di' che 'l su' fatto è solo di parvenza.

    Ed eo per me ne conterò novelle

al bon re Carlo conte de Provenza,

e per sto mo' gli frigiarò la pelle.



IX


    Dante Alighier, Cecco, tu' serv'e amico,

si raccomand'a te com'a segnore;

e sì ti prego per lo dio d'Amore,

il qual è stat'un tu' signor antico,

    che mi perdoni s'i' spiacer ti dico,

ché mi dà sicurtà 'l tu' gentil cuore.

Quel ch'i' vo' dire è di questo tenore:

ch'al tu' sonetto in parte contradico.

    Ch'al meo parer ne l'una muta dice

che non intendi su' sottil parlare,

di que' che vide la tua Beatrice;

    e puoi hai detto a le tue donne care

che ben lo 'ntendi: e dunque contradice

a sé medesmo questo tu' trovare.



X


    Dante Alighier, s'i' so' buon begolardo,

tu me ne tien' ben la lancia a le reni;

s'i' desno con altrui, e tu vi ceni;

s'io mordo 'l grasso, e tu vi sughi el lardo;

    s'io cimo 'l panno, e tu vi freghi el cardo;

s'io so' discorso, e tu poco t'affreni;

s'io gentileggio, e tu misser t'avveni;

s'io so' fatto romano, e tu lombardo.

    Sì che, laudato Idio, rimproverare

poco può l'uno a l'altro di noi due:

sventura o poco senno cel fa fare.

    E se di tal materia vo' dir piùe,

Dante, risponde, ch'i' t'avrò a stancare:

ch'io so' lo pugnerone, e tu se' 'l bue.



FOLGÓRE DA SAN GIMIGNANO


Sonetti de' mesi

I


    Alla brigata nobile e cortese,

in tutte quelle parti dove sono,

con allegrezza stando sempre dono,

cani e uccelli e danari per ispese,

    ronzin portanti e quaglie a volo prese,

bracchi levar, correr veltri a∑bandono:

in questo regno Nicolò incorono,

perch'elli è 'l fior della città sanese;

    Tingoccio e Min di Tingo ed Ancaiano,

Bartolo e Mugàvero e Fainotto,

che pariano figliuol del∑re Priàno,

    prodi e cortesi più che Lancilotto,

se bisognasse, con le lance in mano

farian torniamenti a Camellotto.



II

Di gennaio


    I' doto voi del mese di gennaio

corte con fuochi di salette accese,

camere e letta d'ogni bello arnese,

lenzuol di seta e copertoi di vaio,

    treggea, confetti e mescere a razzaio,

vestiti di doagio e di racese;

e 'n questo modo stare alle difese,

muova scirocco, garbino e rovaio;

    uscir di fuor alcuna volta il giorno,

gittando della neve bella e bianca

alle donzelle che saran d'attorno;

    e quando la compagna fosse stanca,

a questa corte facciasi ritorno,

e sì riposi la brigata franca.



III

Di febbraio


    E di febbraio vi dono bella caccia

di cerbi, cavriuoli e di cinghiari,

corte gonnelle con grossi calzari,

e compagnia che vi diletti e piaccia;

    can da guinzagli e segugi da traccia,

e le borse fornite di danari,

ad onta degli scarsi e degli avari,

o chi di questo vi dà briga e 'mpaccia;

    e la sera tornar co' vostri fanti

carcati della molta salvaggina,

avendo gioia ed allegrezza e canti;

    far trar del vino e fumar la cucina,

e fin al primo sonno star razzanti;

e poi posar infin' alla mattina.



IV

Di marzo


    Di marzo sì vi do una peschiera

di trote, anguille, lamprede e salmoni,

di dentici, dalfini e storioni,

d'ogn'altro pesce in tutta la riviera;

    con pescatori e navicelle a schiera

e barche, saettìe e galeoni,

le qual vi portino a tutte stagioni

a qual porto vi piace alla primiera:

    che sia fornito di molti palazzi,

d'ogn'altra cosa che vi sie mestiero,

e gente v'abbia di tutti sollazzi.

    Chiesa non v'abbia mai né monistero:

lasciate predicar i preti pazzi,

ché hanno assai bugie e poco vero.



V

D'aprile 


    D'april vi dono la gentil campagna

tutta fiorita di bell'erba fresca;

fontane d'acqua che non vi rincresca,

donne e donzelle per vostra compagna;

    ambianti palafren, destrier di Spagna,

e gente costumata alla francesca

cantar, danzar alla provenzalesca

con istormenti nuovi d'Alemagna.

    E d'attorno vi sian molti giardini,

e giacchito vi sia ogni persona;

ciascun con reverenza adori e 'nchini

    a quel gentil, c'ho dato la corona

de pietre preziose, le più fini

c'ha 'l Presto Gianni o∑'l re di Babilona.



VI

Di maggio


    Di maggio sì vi do molti cavagli,

e tutti quanti sieno afrenatori,

portanti tutti, dritti corritori;

pettorali e testiere di sonagli,

    bandiere e coverte a molti intagli

e di zendadi di tutti colori;

le targe a modo degli armeggiatori;

viuole e rose e fior, ch'ogni uom v'abbagli;

    e rompere e fiaccar bigordi e lance,

e piover da finestre e da balconi

in giù ghirlande ed in su melerance;

    e pulzellette e giovani garzoni

baciarsi nella bocca e nelle guance;

d'amor e di goder vi si ragioni.



VII

Di giugno


    Di giugno dovvi una montagnetta

coperta di bellissimi arbuscelli,

con trenta ville e dodici castelli

che sieno intorno ad una cittadetta,

    ch'abbia nel mezzo una sua fontanetta;

e faccia mille rami e fiumicelli,

ferendo per giardini e praticelli

e rifrescando la minuta erbetta.

    Aranci e cedri, dattili e lumìe

e tutte l'altre frutte savorose

impergolate sieno per le vie;

    e le genti vi sien tutte amorose,

e faccianvisi tante cortesie

ch'a tutto 'l mondo sieno graziose.



VIII

Di luglio


    Di luglio in Siena, in sulla Saliciata,

con le piene inguistare de' trebbiani;

nelle cantine li ghiacci vaiani,

e man e sera mangiare in brigata

    di quella gelatina ismisurata

istarne arrosto e giovani fagiani,

lessi capponi e capretti sovrani,

e, cui piacesse, la manza e l'agliata.

    Ed ivi trar buon tempo e buona vita,

e non uscir di fuor per questo caldo;

vestir zendadi di bella partita;

    e, quando godi, star pur fermo e saldo,

e sempre aver la tavola fornita,

e non voler la moglie per castaldo.



IX

Di agosto


    D'agosto sì vi do trenta castella

in una valle d'alpe montanina,

che non vi possa vento di marina,

per istar sani e chiari come stella;

    e palafreni da montare in sella,

e cavalcar la sera e la mattina;

e l'una terra all'altra sia vicina,

ch'un miglio sia la vostra giornatella,

    tornando tuttavia verso casa;

e per la valle corra una fiumana,

che vada notte e dì traente e rasa;

    e star nel fresco tutta meriggiana;

la vostra borsa sempre a bocca pasa

per la miglior vivanda di Toscana.



X

Di settembre


    Di settembre vi do diletti tanti:

falconi, astori, smerletti e sparvieri,

lunghe, gherbegli e geti con carnieri,

bracchetti con sonagli, pasti e guanti;

    bolze, balestre dritte e ben portanti,

archi, strali, pallotte e pallottieri;

sianvi mudati girfalchi ed astieri

nidaci e di tutt'altri uccel volanti,

    che fosser buoni da snidar e prendere;

e l'un all'altro tuttavia donando,

e possasi rubare e non contendere;

    quando con altra gente rincontrando,

le vostre borse sempre acconce a spendere,

e tutti abbiate l'avarizia in bando.



XI

Di ottobre


    D'ottobre nel contado ha buono stallo:

e' pregovi, figliuol, che voi v'andiate;

traetevi buon tempo ed uccellate

come vi piace, a piede ed a cavallo;

    la sera per la sala andate a ballo,

e bevete del mosto e inebriate,

ché non ci ha miglior vita, in veritate;

e questo è ver come 'l fiorino è giallo.

    E poscia vi levate la mattina,

e lavatevi 'l viso con le mani;

l'arrosto e 'l vino è buona medicina.

    Alle guagnele, starete più sani

che pesce in lago o 'n fiume od in marina,

avendo miglior vita che cristiani.



XII

Di novembre


    E di novembre a Petriuolo, al bagno,

con trenta muli carchi di moneta:

le rughe sien tutte coperte a seta;

coppe d'argento, bottacci di stagno;

    e dare a tutti stazzonier guadagno;

torchi e doppier che vengan di Chiareta,

confetti con cedrata di Gaeta;

bea ciascuno e conforti 'l compagno.

    E 'l freddo vi sia grande 'l fuoco spesso;

fagiani, starne, colombi e mortiti,

levori e cavriuoli arrosto e lesso,

    e sempre avere acconci gli appetiti;

la notte 'l vento e 'l piover a ciel messo,

e siate nelle letta ben forniti.



XIII

Di dicembre


    E di dicembre una città in piano:

sale terrene e grandissimi fuochi,

tappeti tesi, tavolieri e giuochi,

torticci accesi e star co' dadi in mano;

    e l'oste inebriato e catelano,

e porci morti e finissimi cuochi;

e morselli ciascun bèa e manuchi;

le botti sien maggior che San Galgano.

    E siate ben vestiti e foderati

di guarnacche, tabarri e di mantelli

e di cappucci fini e smisurati;

    e beffe far de' tristi cattivelli,

de' miseri dolenti sciagurati

avari: non vogliate usar con elli.



XIV

La conclusione


    Sonetto mio, a Nicolò di Nisi,

colui ch'è pien de tut[t]a gentilezza,

di' da mia parte con molt'alegrezza

ch'io son acconcio a tutti suoi servisi;

    e più m'è caro che non val Parisi

d'avere sua amistade e contezza;

sed ello avesse imperial ricchezza,

starieli me' che San Francesco in Sisi.

    Raccomendami a lui tutta fiata

ed a la sua compagna ed Ancaiano,

ché senza lui non è lieta brigata.

    Folgòre vostro da San Giminiano

vi manda, dice e fa quest'ambasciata:

che voi n'andaste con suo cuor in mano.



CENNE DELLA CHITARRA


Risposta per contrarî ai sonetti de' mesi di Folgóre da

Sangeminiano.

I


    A la brigata avara senza arnesi:

in tutte quelle parti dove sono,

davanti a' dadi e tavolier' li pono,

perché al sole stien tutti distesi;

    e in camicia stieno tutti i mesi

per poter più leggèr' ire al perdono;

entro la malta e 'l fango gl'imprigiono,

e sien domati con diversi pesi.

    E Paglierino sia lor capitano;

e abbia parte di tutto lo scotto,

con Benci e Lippo savio da Chianzano,

    Senso da Panical, c'ha leggèr trotto.

Chi lo vedesse schermir giuso al piano,

ciascun direbbe: "E' pare un anitrotto".



II

Di gennaio


    Io vi doto, del mese di gennaio,

corti con fumo al modo montanese,

letta qual'ha nel mare il genovese

acqua e vento che non cali maio,

    povertà [di] fanciulle a colmo staio,

da ber aceto forte galavrese

e star[e] come ribaldo in arnese,

con panni rotti, senza alcun denaio.

    Ancor vi do così fat[t]o soggiorno:

con una vecchia nera, vizza e ranca,

catun gittando [de] la neve a torno;

    apresso voi seder in una banca,

e resmirando quel so viso adorno;

così reposi la brigata manca.



III

Di febbraio


    Di febbraio vi metto in valle ghiaccia

con orsi grandi vecchi montanari,

e voi cacciando con rotti calzari;

la nieve metta sempre e si disfaccia;

    e quel che piace a l'uno, a l'altro spiaccia:

con fanti ben ritrosi e bacalari;

tornando poi la sera ad osti cari,

lor moglie tesser tele ed ordir accia.

    E 'n questo vo' che siate senza manti,

con vin di pome, che stomaco affina;

in tal' alberghi gran sospiri e pianti,

    tremuoti, venti; e no sian con ruina,

ma sian sì forti, che ciascun si smanti

da prima sera enfino la mattina.



IV

Di marzo


    Di marzo vi riposo in tal manera:

in Puglia piana, tra molti lagoni,

e 'n essi gran mignatte e ranaglioni;

poi da mangiar abbiate sorbe e péra,

    olio di noci vecchio, mane e sera,

per far caldegli, arance e gran cidroni;

barchette assai con remi e con timoni,

ma non possiate uscir de tal rivera.

    Case di paglia con diversi razzi;

da bere vin gergon, che sia ben nero;

letta di schianze e di gionchi piumazzi.

    Tra voi signor[e] sia un priete fero,

che da nessun peccato vi dislazzi;

per ciascun luogo v'abbia un munistero.



V

Di aprile


    D'aprile vi do vita senza lagna:

tafani a schiera con asini a tresca,

ragghiando forte, perché non v'incresca,

quanti ne sono in Perosa o Bevagna;

    con birri romaneschi e di Campagna,

e ciaschedun di pugna sì vi mesca:

e, quando questo a gioco no riesca,

restori i marri de pian de Romagna.

    Per danzatori vi do vecchi armini;

una campana, la qual peggio sona,

stormento sia a voi, e non refini.

    E quel che 'n mil[l]antar sì largo dona,

en ira vegna de li soi vicini,

perché di cotal gente sì ragiona.



VI

Di maggio


    Il maggio voglio che facciate en Cagli

con una gente di lavoratori,

con muli e gran distrier' zoppicatori:

per pettorali forti reste d'agli.

    Intorno a questo sìanovi gran bagli

di villan scapigliati e gridatori,

de' qual' resolvan sì fatti sudori,

che turben l'aire sì che mai non cagli;

    altri villan poi facendovi mance

di cipolle porrate e di marroni,

usando in questo gran gavazze e ciance:

    in giù letame ed in alto forconi;

vecchie e massai baciarsi per le guance;

di pecore e di porci si ragioni.



VII

Di giugno


    Di giugno siate in tal[e] campagnetta,

che ve sien[o] corbi ed argironcelli;

le chiane intorno senza caravelli:

entro nel mezzo v'abbia una isoletta,

    de la qual esca sì forte venetta,

che mille parte faccia e ramicelli

d'acqua di solfo, e cotai gorgoncelli,

sì ch'ella adacqui ben tal contradetta.

    Sorbi e pruni acerbi siano lìe,

nespole crude e cornie savorose;

le rughe sian fangose e stret[t]e vie;

    le genti vi sian nere e gavinose,

e faccianvisi tante villanie,

che a Dio ed al mondo siano noiose.



VIII

Di luglio


    Di luglio vo' che sia cotal brigata

en Arestano, con vin di pantani,

con acque salse ed aceti soprani,

carne di porco grassa apeverata;

    e poi, diretro a questo, una insalata

di salvi' e ramerin, per star più sani,

carne de volpe guascotta a due mani

e, a cui piacesse, drieto cavolata;

    con panni grossi e lunghi d'eremita:

e sia sì forte e [sì] terribil caldo

com'ha il solleone a la finita;

    ed un brutto converso per castaldo,

avaro, che si apaghi di tal vita:

la moglie a ciaschedun sia 'n manovaldo.



IX

Di agosto


    D'agosto vi reposo en aire bella,

en Sinegal[l]ia, che mi par ben fina;

il giorno sì vi do, per medicina,

che cavalcate trenta migliatella,

    e tut[t]i en trottier' magri senza sella,

sempre lung'a un'acqua di sentina;

da l'altra parte si faccia tonnina,

poi ritornando a poso di macella.

    E, se ben cotal poso non vi anasa,

met[t]ovi en Chiusi, la cit[t]à sovrana,

sì stanchi tutti da non disfar l'asa;

    la borsa di ciascuno stretta e vana,

e stare come lupi a boc[c]a pasa,

tornando in Siena un die la semana.



X

Di settembre


    Di settembre vi do gioielli alquanti:

àgor'e fusa, cumino e asolieri;

nottol'e chieppe con nibbi lainieri;

archi da lana bistorti e pesanti;

    barbagianni, assiuoli, allocchi tanti

quanti ne son di qui a Monpeslieri;

guanti di lana, borsa da braghieri:

stando così a vostre donne davanti.

    E sempre questo comperar e vendere,

con tal mercadantìa il più usando;

e di settembre tal diletto prendere;

    e per Siena entro gir alto gridando:

"Muoia chi cortesia vuol difendere,

ch'i Salimbeni antichi li diér bando".



XI

Di ottobre


    D'ottobre vi conseglio senza fallo

che ne [la] Falterona dimorate,

e de le frutta, che vi so', mangiate

a riglie grand', e non vi canti gallo.

    Chiare vi son l'acque come cristallo;

or bevete, figliuoli, e ristorate;

uccellar bon v'è a' varchi, en veritate,

ché farete nel collo nervo e callo,

    in quel[l]'aire, che[d] è sot[t]ile e fina:

ben stanno en Pisa più chiari i pisani,

e 'l genovese lungo la marina.

    Prendere 'l mi' consegl' non siate vani:

arosto vi darò mésto con strina,

che 'l sentiranno i p[i]edi con le mani.



XII

Di novembre


    Di novembre vi metto in un gran stagno,

in qual parte più pò fredda pianeta,

con quella povertà che non si acqueta

di moneta acquistar, che fa gran danno.

    Ogni buona vivanda vi sia in banno;

per lume, facel[l]ine da verdeta;

castagne con mele aspre di Faeta:

[i]stando tutti ensieme en briga e lagno.

    [E] fuoco non vi sia, ma fango e gesso,

se no 'n alquanti luochi di romiti,

che sia di venti miglia lo più presso;

    di vin e carne del tut[t]o sforniti:

[s]c[h]ernendo voi qual è più laido biesso,

veggendovi star tutti sì sguarniti.



XIII

Di dicembre


    Di dicembre vi pongo in un pantano

con fango, ghiaccia ed ancor panni pochi;

per vostro cibo fermo fave e mochi;

per oste ab[b]iate un troio maremmano;

    un cuoco brut[t]o, sec[c]o, tristo e vano,

che vi dia colli guascotti e, que', pochi:

e qual tra voi ha lumi, dadi o rochi

tenuto sia come tra savi un vano.

    Panni rotti vi do e debrilati;

apresso questo, on[n]'omo en capegli;

bot[t]acci di vin montanar fal[l]ati.

    E chi ve mira sì se meravegli,

vedendovi sì brut[t]i e rabuf[f]ati,

tornando in Siena così bei fancegli.