PREMESSA DELL'AUTORE
La fiaba Il piccolo Zaccheo, detto Cinabro (Berlino, presso F. Dummler, 1820) non contiene altro che la pura e semplice elaborazione di un'idea scherzosa. Non poco, dunque, ebbe a stupirsi il suo autore quando s'imbatté in una recensione in cui questo scherzo, buttato giù a cuor leggero, per il divertimento immediato e del tutto privo di altre pretese, veniva analizzato con aria seria e ponderata, e veniva citata ogni possibile fonte cui l'autore potesse essersi rifatto nella sua creazione. Quest'ultimo aspetto fu per lui piacevole, se non altro per il fatto di trarne egli stesso lo stimolo per mettersi alla ricerca di tali fonti, arricchendo in tal modo il proprio sapere... Ma al fine di evitare ora questo genere di malintesi, il curatore di queste pagine intende chiarire in anticipo che La principessa Brambilla, al pari de Il piccolo Zaccheo, non è affatto un libro per gente ben disposta a prendere tutto per vero e sul serio. Il curatore prega tuttavia umilmente quel compiacente lettore, il quale fosse desideroso e pronto a metter da parte per qualche ora la serietà, e ad abbandonarsi al gioco impertinente e capriccioso di uno spiritello a volte forse troppo sfacciato, di non perdere di vista comunque la base del tutto, vale a dire quei fogli di Callot così sovraccaricati in senso fantastico, e inoltre di immaginare che cosa può aspettarsi un musicista da un capriccio.
E se il curatore si permette di riandare con la mente a quel proposito di Carlo Gozzi (nella premessa al Re de' Genj) secondo il quale un intero arsenale di stramberie e di apparizioni di fantasmi non è certo sufficiente per crear l'anima a una fiaba, cosa che può riuscire solo grazie a un fondamento profondo, grazie a un'idea costitutiva elaborata sulla base di una qualsivoglia visione filosofica della vita, ciò può soltanto alludere a quanto egli intendeva fare, e non certo a ciò che gli è riuscito.
Berlino, settembre 1820
CAPITOLO PRIMO
Magici effetti di un elegante costume su una giovane crestaia. - Definizione dell'attore, nel ruolo di primo amoroso. - Sulle smorfie delle ragazze italiane. - Come un omino rispettabile, seduto dentro un tulipano, si dedica alle scienze mentre buone dame lavorano a tombolo tra le orecchie delle mule. - Il ciarlatano Celionati e il dente del principe assiro. - Celeste e rosa. - Pantalone e la fiasca di vino dal sorprendente contenuto.
Calava il crepuscolo, nei conventi suonava l'Ave Maria: la leggiadra e bella fanciulla di nome Giacinta Soardi gettò da parte il ricco abito femminile di pesante raso rosso al cui ricamo aveva attentamente lavorato e, piena di malumore, dall'alta finestra guardò giù nella viuzza stretta e cupa, che era completamente deserta.
La vecchia Beatrice andava intanto raccogliendo con ogni cura i variopinti costumi di ogni sorta che stavano sparsi su tavoli e seggiole nella piccola stanza, e li appendeva in bell'ordine. Con entrambe le mani piantate sui fianchi si mise poi davanti all'armadio aperto, ed esclamò compiaciuta: «Davvero, Giacinta, questa volta siamo state proprio brave; mi pare quasi di avere già davanti agli occhi tutta la gente allegra della sfilata... Certo che Mastro Bescapi non ci aveva mai fatto tante ricche ordinazioni del genere... Ma lui sa bene che la nostra bella Roma quest'anno risplenderà di nuovo in tutto il suo lusso, sfarzo e magnificenza. E stai bene attenta, Giacinta, a come domani, il primo giorno di carnevale, esploderà l'esultanza! E domani... domani Mastro Bescapi ci rovescerà in grembo un'intera manciata di ducati! Vedrai, Giacinta! Ma che cos'hai, bambina mia? Te ne stai lì a testa bassa, tutta imbronciata... arrabbiata? e domani è carnevale!».
Giacinta si era rimessa a sedere sullo sgabello da lavoro e il mento tra le mani, guardava fisso a terra, senza badare alle parole della vecchia. Ma visto che questa non la finiva più di ciarlare degli imminenti divertimenti del carnevale, le disse: «Taci un po', vecchia, e non parlarmi di un tempo che per gli altri può ben essere divertente, ma che a me non porta se non scontento e noia. A che mi serve l'aver lavorato giorno e notte? A che mi servono i ducati di Mastro Bescapi?... Non restiamo noi due comunque povere in canna? E non dobbiamo forse fare in modo che il guadagno di questi giorni ci basti, e a fatica, a sfamarci tutto l'anno? Ti sembra che avanzi qualcosa per divertirci un po'?».
«Questa poi!», replicò la vecchia. «Vorrei proprio sapere che ha a che fare la nostra miseria col carnevale! Come se l'anno scorso non fossimo andate a spasso dalla mattina fino a notte fonda, e io non facessi un gran bel figurone vestita da dottore?... E non ti avevo forse al braccio, con quel costume da giardiniera che eri un amore... hihi! e le più belle maschere non ti venivano dietro, rivolgendoti paroline di zucchero filato? Dunque, non era divertente? E che cosa ci impedisce di fare lo stesso quest'anno? Il mio dottore devo solo spazzolarlo a dovere per far sparire tutte le tracce di quei brutti coriandoli di cui lo avevano ricoperto, e la tua bella giardiniera è ancora lì appesa. Qualche nastro nuovo, qualche fiore fresco... di che altro avete bisogno, madamigella, per apparire bella ed elegante?». «Che dite, vecchia», saltò su Giacinta, «che dite?... Con quei miseri stracci dovrei andarmene a spasso?... No di certo!... Un bel costume da spagnola, ben aderente, che si apra poi in tante pieghe ampie e ricche, con larghe maniche a spacchetti dalle quali escano fuori stupendi merletti... e un cappellino ornato di lunghe piume impertinenti, una cintura, un nastro al collo di rilucenti diamanti... è così che Giacinta vorrebbe sfilare, e poi sedersi davanti a Palazzo Ruspoli... Come accorrerebbero i cavalieri da ogni parte... "Chi è quella dama?... di certo una contessa... o una principessa", e persino Pulcinella per l'ammirazione resterebbe estasiato e dimenticherebbe le sue sfrontate canzonature!». «Vi ascolto», prese a dire la vecchia, «vi ascolto e non credo alle mie orecchie. Dite, da quando vi è entrato in corpo il diavolo stregato dell'orgoglio?... E allora, se davvero pretendete di paragonarvi a contesse e principesse, siate dunque tanto brava da procurarvi uno spasimante che per i vostri begli occhi sappia pescare nella borsa di Fortunatus, e cacciate via il signor Giglio, quello spiantato che, se per caso gli capita di trovarsi in tasca un paio di ducati, spreca tutto in pomate profumate e ghiottonerie, e che con me è ancora in debito di due paoli per un bavero di trina fresco di bucato».
In mezzo a queste chiacchiere, la vecchia aveva sistemato e acceso la lampada. Ma quando la forte luce cadde sul viso di Giacinta, la vecchia si accorse che dagli occhi le scendevano amare lacrime, rotolandole sul volto come perle. «Giacinta», gridò la vecchia, «per l'amor di Dio, che cosa c'è, che hai?... Bambina mia, non volevo certo te la prendessi tanto. Ora calmati, non lavorare così di lena; vedrai che il vestito sarà comunque pronto in tempo». «Ah», sospirò Giacinta, senza levare gli occhi dal lavoro che aveva ripreso in mano, «ah, è proprio il vestito, questo malvagio vestito, che mi ha riempito la mente di tutti questi folli pensieri. Dite, vecchia, avete mai visto in tutta la vostra vita un abito che si possa paragonare a questo per bellezza e magnificenza? Mastro Bescapi ha davvero superato se stesso; doveva essersi impadronito di lui uno spirito straordinario, quando ha tagliato questo raso. E poi i magnifici merletti, le lucenti passamanerie, le pietre preziose che ci ha consegnato per le guarnizioni. Darei tutto l'oro del mondo per sapere chi è la fortunata che si potrà adornare con quest'abito divino». «Ma», la interruppe la vecchia, «che c'importa di questo? Noi facciamo il lavoro e guadagnamo dei soldi. Però è certamente vero che Mastro Bescapi si è comportato in modo così circospetto e segreto, così strano... che deve trattarsi per forza almeno di una principessa, e per quanto io di solito non sia davvero curiosa, questa volta mi piacerebbe proprio che Mastro Bescapi mi dicesse il suo nome, e anzi domani lo metterò alle strette finché non lo tirerà fuori». «Oh no, no», saltò su Giacinta, «io non voglio per nulla saperlo, preferisco immaginare che nessuna donna mortale indosserà mai quest'abito, ma che ho lavorato per adornare una misteriosa fata. Mi sembra già che dalle pietre lucenti mi guardino ridenti ogni sorta di spiritelli, sussurrandomi: "cuci... cuci ancora per la nostra bella regina... noi ti aiutiamo, noi ti aiutiamo!". E quando intreccio i merletti e le passamanerie, mi pare quasi che piccoli e graziosi elfi corrano attorno insieme a gnomi dalla corazza d'oro e... Ahi!», gridò Giacinta, che, proprio guarnendo la scollatura, si era punta un dito tanto forte che il sangue ne usciva come da una fontanella. «Che il cielo ci aiuti!», esclamò la vecchia, «che il cielo ci aiuti! Questo bel vestito!», portando la lampada tanto vicino, che parecchie gocce d'olio vi caddero sopra. «Che il cielo ci aiuti! Questo bel vestito!», le fece eco Giacinta, mezzo morta di spavento. Ma, nonostante fosse certo che tutti e due, il sangue e l'olio erano sgocciolati sul vestito, tuttavia né la vecchia né Giacinta riuscirono a scoprire la più piccola traccia di una macchia. Allora Giacinta riprese rapida a cucire, finché non saltò su con un allegro: «Finito! finito!», tenendo il vestito ben in alto.
«Ah, che bello!», esclamò la vecchia, «ah, è magnifico, splendido! No, cara Giacinta, mai le tue care manine avevano fatto niente di simile... E sai, Giacinta, mi pare proprio che il vestito sia stato tagliato preciso per la tua figura, come se Mastro Bescapi non avesse preso la misura su nessun'altra che te!». «Magari fosse vero!», replicò Giacinta, facendosi sempre più rossa in viso, «tu sogni, vecchia; sono io forse così alta e snella come la signora, per la quale certo dev'essere il vestito?... Prendilo, prendilo, mettilo via con cura fino a domani! E voglia il cielo che alla luce del giorno non venga fuori qualche brutta macchia!... Che faremmo, allora, poverette noi?... Prendetelo dunque!». La vecchia esitava.
«Certo», continuò però Giacinta, osservando l'abito, «certo, mentre ci lavoravo, a volte ho pensato che il vestito dovesse starmi bene. Alla vita potrei ben essere snella abbastanza, e per quel che è della lunghezza...». «Giacintina», esclamò la vecchia con gli occhi scintillanti, «tu indovini i miei pensieri, e io i tuoi... Che lo indossi chi vuole, principessa, regina, fata, non fa differenza, ma la mia Giacintina dev'essere la prima ad adornarsene». «Mai e poi mai», replicò Giacinta; ma la vecchia le prese il vestito dalle mani, lo distese con cura su di una poltrona, e cominciò a scioglierle i capelli, che poi seppe sistemarle ben vaporosi e aggraziati attorno al volto; poi prese dall'armadio il cappellino adorno di fiori e piume con cui, per ordine di Bescapi, avrebbero dovuto abbellire quell'abito, e lo fissò ai riccioli castani di Giacinta. «Bambina mia come ti sta a pennello già il solo cappellino! Ma ora giù quei corsetto!». Così esclamò la vecchia, cominciando a spogliare Giacinta, la quale, tutta piena di incantevole pudore, non osava più contraddirla.
«Ah!», mormorò la vecchia, «questo collo così delicatamente tornito, questo petto di gigli, queste braccia di alabastro quelle della Venere dei Medici non sono fatte meglio, e Giulio Romano non ne ha dipinte di più belle... Vorrei proprio sapere quale principessa non invidierebbe per questo la mia dolce bambina!». Ma mentre ella faceva indossare alla giovane il magnifico abito, fu come se le venissero in aiuto invisibili spiritelli. Tutto andava a posto e si aggiustava da sé, ogni spillo si sistemava all'istante, ogni piega prendeva da sola il suo verso, era impossibile credere che quell'abito potesse essere stato fatto per qualcun'altra che non Giacinta stessa.
«Oh, santi del Paradiso!», esclamò la vecchia, non appena Giacinta le fu davanti, adornata così splendidamente, «oh, santi del Paradiso! Di certo tu non sei la mia Giacinta... ah... ah... come siete bella, illustrissima principessa!... Ma aspetta... aspetta! Facciamo luce, bisogna illuminare a giorno la nostra stanzetta!». E così dicendo andava raccogliendo tutte le candele benedette che aveva messo da parte alle feste della Madonna, e le accendeva, cosicché Giacinta si trovò circondata da uno splendente bagliore.
Stupita per la grande bellezza di Giacinta, e ancor più per il modo pieno di grazia e di dignità al contempo con cui ella andava su e giù per la stanza, la vecchia congiunse le mani, ed esclamò: «Oh, se solo qualcuno potesse vedervi, se solo il Corso tutto intero potesse ammirarvi!».
In quella si spalancò la porta, e Giacinta fuggì con un grido verso la finestra; dopo essere entrato di due passi nella stanza, un giovane restò immobile e quasi impietrito, come fosse inchiodato al pavimento.
Mentre quel giovane se ne sta lì senza voce e senza moto, tu, amatissimo lettore, lo puoi osservare a tuo agio. Ti renderai conto che può avere appena ventiquattro o venticinque anni, e che ha un aspetto gradevole e garbato. E tuttavia il suo abbigliamento appare strano da descrivere, poiché, nonostante ogni capo per taglio e colore non possa essere criticato, tutto l'insieme non vuole proprio andar d'accordo, e offre un gioco di colori completamente contrastanti. E al contempo, nonostante tutto sia pulito e curato, traspare una certa povertà; ciò si nota dal bavero di pizzo, che deve avere un solo cambio disponibile, e dalle piume, tenute insieme con fil di ferro e spilli, con cui è ornato lo stravagante cappello che porta piantato di traverso in testa. E dunque, benevolo lettore, ti accorgerai subito che il giovane uomo così acconcio altri non può essere che un attore un po' vanesio, i cui meriti non sono troppo apprezzati; e in realtà è davvero così. In poche parole... si tratta di quello stesso Giglio Fava che è ancora in debito di due paoli con la vecchia Beatrice per la lavatura di un bavero di trina.
«Ah, che vedo mai?», declamò in quella Giglio Fava in tono così enfatico quasi fosse in scena al Teatro Argentina, «ah, che vedo mai... È forse un sogno che ancor m'inganna?... No! è proprio lei, la divina... Oserò dunque rivolgermi a lei con le più ardenti parole d'amore?... Principessa... oh, principessa!». «Non fare il furbo», esclamò Giacinta, voltandogli rapida le spalle, «e risparmia le tue buffonate per i prossimi giorni!».
«Forse che non so», replicò Giglio, dopo aver ripreso fiato, con un sorrisetto a denti stretti, «forse che non so che sei tu, mia leggiadra Giacinta, ma dimmi, che significa questo stupendo abito?... Invero non mi sei mai apparsa tanto attraente, non vorrei mai vederti diversa».
«Ah sì?», fece eco Giacinta piena di collera. «E dunque il tuo amore va al mio vestito di raso, al mio cappellino piumato?». E così dicendo sgusciò svelta svelta nella stanzetta accanto, per riuscirne poco dopo, tolto ogni ornamento, con i panni consueti. Nel frattempo la vecchia aveva spento le candele e dato una bella lavata di testa a quel saccente di Giglio, che aveva rovinato la felicità di Giacinta nel provarsi quel bel vestito, destinato a chissà quale nobile dama, e che per di più era stato tanto poco galante da far capire che era stato proprio tale sfarzo ad aumentare il fascino di lei, facendola apparire più desiderabile del solito. Giacinta sopraggiunse a dar man forte alla vecchia, finché il povero Giglio, tutto umiltà e pentimento, riuscì alla fine a mettersi tranquillo e ad assicurare che la causa della sua meraviglia era stata la straordinaria coincidenza di circostanze eccezionali. «Ma lascia che ti racconti!», prese a dire. «Lascia che ti racconti, mia leggiadra bambina, dolce vita mia, il sogno favoloso che ho fatto ieri notte, dopo essermi gettato sul mio giaciglio, stanco e disfatto per aver recitato la parte del principe Taer che, come ben sai, e come il mondo intero sa, io recito in maniera perfetta oltre ogni dire. Mi pareva di stare ancora sulla scena e di litigare ad alta voce con quell'avaraccio dell'impresario, che mi rifiutava ostinatamente un paio di miseri ducati d'anticipo. Costui mi ricopriva di ogni sorta di stupidi rimproveri; ma quando io, per difendermi meglio, volli fare un gesto nobile, la mia mano colpì disavvedutamente la guancia destra dell'impresario, in modo tale che ciò che ne risultò fu il suono e la melodia di un potente ceffone; l'impresario mi si gettò addosso senza mezzi termini con un grosso coltello in mano, io mi scansai, e in quella mi cadde a terra il mio bel berretto da principe che tu stessa, mia dolce speranza, mi hai adornato tanto gentilmente delle più belle piume che mai siano state strappate a uno struzzo. In preda al furore, quel mostro, quel barbaro, vi si gettò sopra, trafiggendolo con il coltello, finché quello non si torse ai miei piedi e morì tra tormentosi lamenti. Io volevo - dovevo - vendicare quell'infelice. Gettato il mantello sul braccio sinistro e brandendo la spada principesca, mi lanciai sull'empio assassino. Quello però fuggì rapido dentro una casa, e con lo schioppo di Truffaldino mi tirò addosso dal balcone. Ma ciò che era strano era il fatto che il lampo dell'arma da fuoco rimanesse a mezz'aria, e che mi rinviasse un bagliore simile a quello di rilucenti diamanti. E quanto più il vapore si diradava, tanto più allora riuscivo a rendermi conto che ciò che avevo scambiato per lo schioppo di Truffaldino altro non era che lo splendido gioiello sul cappellino di una dama... "Oh, voi tutti, dèi santi! oh, voi tutte, potenze celesti!", così una voce dolcissima parlava, anzi! cantava, anzi! esalava un amoroso profumo di suoni e parole... "Oh Giglio!... Mio Giglio!". E io intanto vedevo un essere di tale divina leggiadria, di tale immensa grazia, che l'infocato scirocco di un amore ardente mi corse per tutte le vene e i nervi, e il torrente di fuoco si condensò in lava, sgorgata dal vulcano del mio cuore in fiamme. "Io sono", disse quella dea, avvicinandosi, "sono la principessa..."». «Come?», Giacinta in collera interruppe l'uomo, che era caduto in estasi. «Come? Ti permetti dunque di sognare un'altra che me? Ti permetti di innamorarti solo guardando una stupida, insignificante visione sfuggita allo schioppo di Truffaldino?». E così presero a piovere sul povero Giglio rimproveri e lamenti e ingiurie e imprecazioni, e a nulla valsero le sue proteste e le assicurazioni che la principessa del sogno era vestita esattamente come Giacinta nel momento in cui era entrato. Persino la vecchia Beatrice, che di solito non era molto disposta a prender partito per il signor Taschevuote, come lo chiamava, si sentì alla fine presa da compassione e non dette tregua a quell'ostinata di Giacinta, finché non ebbe perdonato al suo innamorato quel sogno, con la condizione però che non ne facesse mai più parola. La vecchia preparò un buon piatto di maccheroni, e Giglio tirò fuori dalle tasche del mantello un cartoccio di dolci e un altro in cui stava una boccetta riempita di un vino davvero buono, poiché, al contrario del sogno, l'impresario gli aveva veramente anticipato qualche ducato. «Devo ammettere che pensi a me, mio buon Giglio», disse Giacinta, infilandosi nella boccuccia un fruttino candito. Giglio ricevette persino il permesso di baciarle il dito che era stato ferito da quel brutto ago, e così tornarono la gioia e la felicità. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e certo dovette essere proprio il diavolo in persona a suggerire a Giglio, dopo che aveva bevuto un paio di bicchieri, l'idea di parlare a questo modo: «Non avrei mai creduto che tu, dolce vita mia, avresti potuto essere così gelosa di me. Ma hai ragione. Io sono infatti di gradevolissimo aspetto, e per natura dotato di ogni sorta di magnifici talenti; e per di più, sono un attore. L'attor giovane, che reciti divinamente come me la parte del principe innamorato, con tutti gli "oh" e gli "ah" che ci vogliono, è un romanzo ambulante, un intrigo a due gambe, una canzone d'amore con labbra per baciare e braccia per stringere, un'avventura fuggita dalla copertina e trasformatasi in vita vera, che resta davanti agli occhi delle più belle anche dopo che hanno chiuso il libro. E per questo che esercitiamo un'irresistibile magia sulle povere donne, le quali vanno pazze per tutto quello che siamo e mostriamo: il nostro animo, i nostri occhi, le nostre false pietre preziose, le piume e i nastri. Non c'è rango che valga, né condizione: lavandaie o principesse... è lo stesso! E dunque ti dico, mia adorata bambina, che se non m'inganna qualche misterioso presentimento, e non mi prende in giro un folletto dispettoso, il cuore di quella bellissima principessa arde davvero d'amore per me. Se ciò si è verificato, o se dovesse ancora verificarsi, allora, mia carissima speranza, non dovrai volermene se io non lascerò inutilizzata la miniera d'oro che mi si apre davanti, se ti trascurerò un poco, perché comunque una poveretta di crestaia...». Giacinta aveva ascoltato con attenzione sempre crescente, avvicinandosi intanto sempre più a Giglio, nei cui occhi sfavillanti si rispecchiava la notturna visione di sogno; ma qui balzò in piedi, e suonò al fortunato innamorato della bellissima principessa un tale ceffone che tutte le stelle di quel misterioso schioppo di Truffaldino si misero a ballare davanti ai suoi occhi; poi scappò svelta in camera. E a nulla servirono più tutte le preghiere e le suppliche. «Ora, da bravo, andatevene a casa, oggi fa le smorfie e non c'è niente da fare», disse la vecchia, illuminando al povero Giglio le strette scale. Ci deve essere qualcosa di veramente particolare nelle smorfie, in quei modi stranamente capricciosi e quasi sgarbati delle giovani fanciulle italiane; i conoscitori assicurano infatti concordi che proprio da questi modi si sprigiona una meravigliosa magia, un fascino a tal punto irresistibile che chi ne è colpito, invece di strappare indignato i suoi legami, Vi si impiglia sempre più, cosicché un amante liquidato bruscamente, invece di dichiarare addio per sempre, continua a sospirare e a supplicare con sempre maggior ardore, come in quella canzone d'amore: "Vien qua, Dorina bella, non far la smorfiosella!". Colui che parla così con te, benevolo lettore, ama credere che tali piaceri nati da dispiaceri possano sbocciare soltanto nel gioioso sud, poiché tali bei fiori di una sostanza tanto pacifica non riescono a veder la luce nel nostro nord. Almeno nel luogo dove vive, egli non può assolutamente paragonare un certo stato d'animo, spesso incontrato nelle fanciullette appena sfuggite all'infanzia, a quella smorfiosa civetteria. Se il cielo ha regalato loro tratti armoniosi del volto, esse li deformano sconvenientemente, e per loro al mondo tutto è in quel momento ora troppo stretto ora troppo largo, e quaggiù sulla terra non v'è posto adatto per la loro svelta figurina, e preferiscono mille volte sopportare il tormento di un paio di scarpe troppo strette che stare a sentire una parola gentile o addirittura arguta, e se la prendono terribilmente a male per il fatto che tutti gli uomini e i giovanotti nel perimetro della città siano innamorati cotti di loro, cosa che poi alla fine condividono perfettamente, senza più inquietarsi per nulla. E non esiste, per questo stato dell'anima del sesso più gentile, alcuna espressione. Il substrato d'impertinenza che vi è contenuto si riflette, come in uno specchio concavo, nei ragazzi in quel periodo che i rozzi maestri di scuola chiamano anni della sguaiataggine. E tuttavia non c'era proprio da rimproverare il povero Giglio se, così straordinariamente eccitato, anche da sveglio sognava di principesse e di avventure meravigliose. Quel giorno stesso infatti, mentre passeggiava per il Corso, sentendosi già a metà principe Taer nel suo aspetto esteriore, ma interamente principe nella sua anima gli erano accadute davvero parecchie avventure.
Era dunque accaduto che presso la Chiesa di San Carlo, proprio là dove via Condotti incrocia il Corso, in mezzo ai pizzicagnoli e ai banchetti di pastasciuttai, aveva issato la sua pedana il celebre signor Celionati, un ciarlatano conosciuto in tutta Roma, che ora arringava il popolo raccoltosi lì attorno con una quantità di fole e fiabe di gatti alati e radici di mandragola e così via, riuscendo in tal modo anche a spacciare un certo rimedio per l'amore infelice e il mal di denti, le estrazioni della lotteria e la podagra. Proprio allora, in lontananza, si fece udire una musica strana di cembali, pifferi e tamburi cosicché la folla si sparpagliò tutt'attorno, correndo e precipitandosi lungo il Corso in direzione di piazza del Popolo, gridando forte: «Guardate, guardate!... Ma che, è già carnevale?... Guardate, guardate!».
La gente aveva ragione; infatti il corteo che attraverso la Porta del Popolo si snodava lentamente lungo il Corso non poteva davvero essere considerato altro che la più straordinaria mascherata che si fosse mai vista. Sulla groppa di dodici piccoli unicorni, candidi come la neve e dagli zoccoli dorati, sedevano figure avvolte in rosse tuniche di raso, le quali suonavano leggiadramente pifferi d'argento, percuotendo cembali e piccoli tamburi. Quasi alla maniera dei Fratelli della Buona Morte, nelle tuniche erano ritagliati soltanto gli occhi e i fori erano bordati di trecce d'oro, cosa che dava all'insieme un aspetto piuttosto strano. Quando il vento sollevava un poco la tunica di uno dei piccoli cavalieri, spuntava fuori una zampa d'uccello, le cui dita erano adorne di anelli di brillanti. Dietro questi dodici graziosi musicisti, due imponenti struzzi venivano trainando un grande tulipano d'oro collocato su un piedistallo con ruote, ove sedeva un piccolo vecchio con una lunga barba bianca, abbigliato di una tunica di stoffa d'argento e con un imbuto pure d'argento ficcato a mo' di berretto sul venerabile capo. Il vecchio, con un gigantesco paio d'occhiali sul naso, leggeva con grande attenzione da un grosso libro che teneva aperto davanti a sé. Egli era seguito da dodici mori riccamente vestiti, armati di lunghe lance e corte sciabole, i quali, ogniqualvolta il vecchietto voltava una pagina producendo un sottile e penetrante: «Kurri - pire - ksi - li - iii», si mettevano a cantare con voce potente: «Bram - bure - bil - bal - Ala monsa Kikiburra - son - ton!». Dietro ai mori, sopra dodici muli il cui colore appariva argento puro, cavalcavano dodici figure, incappucciate quasi come i musicanti, con la differenza che le tuniche dallo sfondo d'argento erano riccamente ricamate di perle e diamanti, e le braccia erano scoperte fino alle spalle. La meravigliosa pienezza e bellezza di queste braccia, adorne dei più magnificenti bracciali, sarebbero bastate a rivelare che sotto le tuniche dovevano nascondersi le più belle dame; ma, per di più, ciascuna lavorava alacremente a tombolo mentre cavalcava, e a tale scopo tra le orecchie delle mule erano fissati grandi cuscini di velluto. Seguiva poi una grossa carrozza che pareva tutta d'oro ed era tirata da otto bellissimi muli coperti di gualdrappe d'oro, i quali a loro volta erano condotti per le briglie ornate di diamanti da piccoli paggi abbigliati con farsetti piumati. Gli animali sapevano scuotere le grandi orecchie con indescrivibile dignità, e intanto si udivano suoni simili a quelli di un'armonica, al che le bestie stesse come pure i paggi levavano un grido intonato a essi, e tutto l'insieme risuonava nel modo più aggraziato. La gente si pigiò attorno alla carrozza cercando di guardarvi dentro, ma non vide altro che il Corso e se stessa, i finestrini infatti altro non erano che specchi. Qualcuno, vedendosi in tal modo riflesso, credette di sedere già dentro la lussuosa carrozza, uscendo per questo fuori di sé dalla gioia, cosa che poi accadde a tutto il popolo radunato, lorché si vide salutato in modo estremamente gentile e accattivante da un piccolo graziosissimo Pulcinella che stava in piedi sul tetto della carrozza. Tra il più sfrenato giubilo generale non si fece quasi più attenzione allo scintillante seguito, formato da altri musicanti, mori e paggi, vestiti come i primi, tra i quali si trovavano però anche alcune scimmie abbigliate con grande buon gusto nei colori più delicati, le quali danzavano con una mimica parlante sulle zampe posteriori, e non avevano uguali nel far capriole di ogni sorta. Così quell'avventura si snodò per il Corso e per le strade fino a piazza Navona, dove si arrestò dinanzi al palazzo del principe Bastianello da Pistoia.
I battenti del palazzo si spalancarono, la folla festante ammutolì di colpo assistendo al miracolo che allora si produsse. Su per lo scalone di marmo e attraverso lo stretto portone si infilò allora senza la minima difficoltà tutto quel corteo, unicorni, cavalli, mule, carrozza, struzzi, dame, mori, paggi, mentre un «Ah!» a mille voci riempì l'aere quando, dopo che furono entrati gli ultimi ventiquattro mori disposti in una scintillante fila, il portone si richiuse infine con un tonante rimbombo.
Il popolo, dopo essere rimasto inutilmente a lungo a guardare pieno di curiosità, e giacché nel palazzo tutto era calmo e silenzioso, considerò divertimento non disdicevole il dar l'assalto a quel luogo da fiaba, e venne disperso dagli sbirri solo con fatica.
Così tutti sciamarono di nuovo sul Corso. Ma dinanzi alla chiesa di San Carlo stava ancora sul suo palchetto, ignorato da tutti, il signor Celionati, che gridava e imprecava infuriato: «Popolo stupido... popolo ignorante!... Gente, come vi salta in mente di mettervi a correre di qua e di là come matti, senza capir nulla di ciò che accade, abbandonando il vostro onesto Celionati?... Qui sareste dovuti restare, per ascoltare dalla bocca del più saggio, del più esperto e iniziato filosofo cosa rappresenti tutto ciò che siete stati a guardare a bocca spalancata, come tanti sciocchi bimbetti!... Ma lo stesso voglio informarvi di tutto... udite... udite... chi davvero è entrato nel Palazzo Pistoia... udite... udite... chi è che ora si fa scuotere la polvere dall'abito in Palazzo Pistoia!». Queste parole arrestarono di colpo il mulinello chiassoso del popolo, che ora si fece attorno al palco di Celionati, guardando all'insù con occhi pieni di curiosità.
«Cittadini di Roma!», esclamò allora con enfasi Celionati.
«Cittadini di Roma! Esultate, giubilate, gettate in aria i cappelli, i berretti, o quel che altrimenti portate in testa! Vi è toccata una gran sorte; perché a penetrare entro le vostre mura è stata la celeberrima principessa Brambilla dalla lontana Etiopia, un miracolo di bellezza e per di più così ricca di incommensurabili tesori, che senza alcuna fatica potrebbe far lastricare tutto il Corso con i più favolosi brillanti e diamanti - e chi può dire, che cosa farà per la vostra gioia!... Io lo so bene, tra di voi si trovano molti che non sono asini, ma che invece sono esperti di storia. Costoro sapranno certo che la serenissima principessa Brambilla è una pronipote del saggio re Cofetua, il quale costruì Troia, e che il suo prozio è il grande re di Serendippo, un signore tanto amichevole, che qui a San Carlo tra di voi, carissimi figlioli, si è spesso e volentieri ben servito di maccheroni!... E aggiungo anche che la nobile signora Brambilla ha avuto per comare di battesimo niente di meno che la regina dei Tarocchi, di nome Tartagliona, e che Pulcinella è stato il suo maestro di mandolino, e così ora ne sapete abbastanza per uscir fuori di cervello... dunque, fatelo, gente! Per virtù delle mie scienze occulte, e della magia bianca, nera, gialla e blu, io so che ella è venuta qui poiché crede di trovare tra le maschere del corteo il suo amico del cuore e fidanzato, il principe assiro Cornelio Chiapperi, il quale ha lasciato l'Etiopia per farsi cavar qui a Roma un dente del giudizio, operazione che io ho felicemente portato a termine!... Guardate qui voi stessi!». Celionati aprì allora una piccola scatolina dorata, ne trasse un bianchissimo e lungo dente aguzzo, tenendolo alzato davanti a sé. Il popolo gridò di gioia e di entusiasmo, acquistando avidamente i modelli del dente principesco, che venivano messi in vendita dal ciarlatano. «Vedete», riprese allora a dire Celionati, «vedete, brava gente, dopo che il principe assiro Cornelio Chiapperi si fu sottoposto all'operazione con fermezza e coraggio, non si sa come né perché, si smarrì... Cercate, brava gente, cercate gente, il principe assiro Cornelio Chiapperi, cercatelo nelle vostre stanze, nelle camere, nelle cucine e nelle cantine, negli armadi e nei cassetti!... Chi lo troverà, e lo ricondurrà incolume alla principessa Brambilla, riceverà una ricompensa pari a cinque volte cento ducati d'oro. Tale è l'enorme cifra che la principessa Brambilla ha messo sulla sua testa, senza contare poi la quantità non trascurabile di intelligenza e di arguzia che contiene... Cercate, gente, cercate! Ma riuscirete voi a scoprire chi sia il principe assiro Cornelio Chiapperi, anche se vi si parasse davanti al naso?... Sì!... E sarete in grado di riconoscere la serenissima principessa Brambilla, anche se fosse qui in carne e ossa in mezzo a voi?... No, non ci riuscirete, se non vi servirete degli occhiali che ha fabbricato il saggio mago indiano Ruffiamonte in persona; e per questo, per puro e semplice amore del prossimo e compassione di voi, ve li voglio offrire, a condizione che non siate avari dei vostri paoli...». Così dicendo, il ciarlatano aprì una cesta, esponendo alla vista una quantità indescrivibile di grossi occhiali.
Se il popolo già si era messo a questionare per accaparrarsi i principeschi denti del giudizio la cosa non poté che peggiorare per gli occhiali. Dagli improperi si passò agli spintoni e alle botte, finché poi, secondo l'uso italiano, non si videro luccicare i coltelli, cosicché gli sbirri dovettero nuovamente intervenire per disperdere il popolo, come era accaduto davanti al Palazzo Pistoia.
Mentre avveniva tutto ciò, Giglio Fava, sprofondato in grandi sogni, era rimasto davanti al Palazzo Pistoia e ne fissava le mura, che avevano inghiottito il più bizzarro di tutti i cortei di maschere in quel modo del tutto inesplicabile. Era stranamente impressionato, poiché non riusciva a padroneggiare una sensazione inconsueta, e tuttavia dolce, che si era impadronita completamente del suo animo; e ancora più straordinario era il fatto che egli si vedeva costretto a mettere in relazione il sogno della principessa che, schizzata fuori dalla scintilla dello schioppo, si era gettata nelle sue braccia, con quel fantastico corteo, e anzi aveva anche il presentimento che nella carrozza dai vetri a specchio non sedesse nessun altro che la sua immagine di sogno. Un leggero colpo sulla spalla lo risvegliò dalle sue fantasticherie; davanti a lui stava il ciarlatano
«Ehi», prese a dire Celionati, «ehi, mio buon Giglio, non vi ha fatto davvero bene abbandonarmi, e non comprarmi un dente del giudizio del principe, né un paio d'occhiali magici». «Ma andate via», replicò Giglio, «andatevene via con le vostre bambinate, con tutte queste chiacchiere assurde con cui incantate la gente per rifilargli le vostre cianfrusaglie senza valore!» «Oh, oh», continuò Celionati, «non fate tanto il superbo, mio giovin signore! Vorrei proprio che tra tutte le mie merci, che vi piace di definire senza valore, aveste scelto qualche eccellente arcano, anzi specialmente quel certo talismano che vi darebbe la forza di diventare un attore eccezionale, o almeno un attore sopportabile, visto che al momento attuale vi compiacete di recitare da far pena!». «Che cosa?», esclamò Giglio infuriato, «che cosa? Signor Celionati, voi vi prendete la libertà di giudicarmi un attore da far pietà? Io, che sono l'idolo di Roma?». «Bamboccio!», rispose Celionati senza scomporsi, «bamboccio che non siete altro, son tutte pure illusioni, in cui non c'è una parola di verità. Ma seppure talvolta vi si è dischiuso uno spirito particolare, che vi ha permesso di azzeccare una parte, è però oramai inevitabile che perdiate quel po' di applausi e di fama che vi eravate guadagnato in quel modo. Poiché vedete, voi avete completamente dimenticato il vostro principe, e seppure la sua immagine resti da qualche parte dentro di voi, essa è divenuta così sbiadita, muta e irrigidita, e voi non riuscite più a riportarla in vita. Tutto il vostro spirito è pieno di una strana immagine di sogno, che ora credete sia entrata nel Palazzo Pistoia entro quella carrozza di specchi... Vi rendete conto che io vi leggo nel pensiero?».
Giglio arrossendo abbassò gli occhi. «Signor Celionati», mormorò, «voi siete davvero un uomo ben strano. Dovete certo avere ai vostri ordini forze miracolose, che vi permettono di indovinare i miei pensieri più segreti... E tuttavia continuate a metter su quell'assurda commedia per il popolo... non riesco davvero a far quadrare le cose... comunque... datemi qua un paio di quei vostri occhialoni!».
Celionati scoppiò in una fragorosa risata. «Ecco», esclamò, «ecco come siete tutti quanti! Finché ve ne andate a spasso con la testa sgombra e lo stomaco in buona salute non credete a niente altro che a ciò che toccate con le vostre mani, ma se vi capita un'indigestione del corpo o dello spirito, allora acchiappate avidamente tutto quanto vi viene offerto. Oh oh! Quel professore che ha lanciato la sua scomunica sui miei rimedi, così come su tutti gli altri mezzi simpatetici del mondo, il giorno dopo si trascinava con triste e patetica serietà verso il Tevere per gettare nelle sue acque, come gli aveva consigliato una vecchia mendicante, la sua pantofola sinistra, poiché era convinto di far annegare in tal modo anche una febbre perniciosa, che lo tormentava orribilmente; e quel sapiente signore tra tutti i sapienti signori portava nell'orlo del soprabito della polvere di erba calderina per guadagnarsi la fortuna nel gioco del pallone. Io lo so, signor Fava, con i miei occhiali voi volete guardare la vostra immagine di sogno, la principessa Brambilla; e invece in questo momento non vi riuscirà!... In ogni modo, prendete e provateci!».
Pieno di bramosia, Giglio afferrò i begli occhialoni luccicanti che Celionati gli offriva, e guardò verso il palazzo. Con sua meraviglia, le mura si erano trasformate in trasparente cristallo; ma ciò che si presentò alla sua vista non era altro che un variopinto e confuso intrico di ogni sorta di figure, e soltanto di tanto in tanto una scintilla elettrica attraversava il suo interno, annunciando la stupenda visione che invano sembrava volersi sottrarre a quel folle caos.
«Che tutti i maledetti diavoli dell'inferno vi portino con sé!», gridò allora una voce spaventevole proprio accanto a Giglio che, sprofondato nel suo osservare, si sentì all'istante agguantare per le spalle, «che tutti i maledetti diavoli dell'inferno vi possano...! Voi mi mandate in rovina. Tra dieci minuti devo alzare il sipario; voi avete la prima scena, e ve ne state qui a fissare a bocca aperta, da sciocco e folle, le vecchie mura di questo palazzo disabitato!».
Era l'impresario del teatro in cui recitava Giglio, che era corso per tutta Roma terrorizzato e in preda ai sudori della morte, alla ricerca del suo primo amoroso scomparso, per rintracciarlo infine dove meno se lo aspettava.
«Aspettate un momento!», esclamò Celionati, afferrando all'istante per le spalle con notevole fermezza il povero Giglio, il quale, simile a un palo conficcato a terra, non riusciva più a muoversi, «aspettate un momento!». E poi, a voce più bassa: «Signor Giglio, è possibile che domani, sul Corso, rivediate la vostra immagine di sogno. Ma sareste davvero un gran pazzo se voleste agghindarvi con una bella maschera, che vi sottrarrebbe alla vista della più affascinante. Quanto più essa sarà improvvisata, quanto più sarà brutta, tanto meglio! Un bel nasone, che porti con eleganza e serenità di spirito i miei occhiali! Quelli non dovete proprio dimenticarli!».
Celionati lasciò andare Giglio, e in un batter d'occhio l'impresario filò via con il suo amoroso veloce come il vento.
Il giorno dopo, fin dal mattino Giglio non trascurò di procurarsi un costume che, secondo il consiglio di Celionati, gli apparisse sufficientemente improvvisato e brutto. Uno stravagante cappuccio ornato da due lunghe penne di gallo, e poi una maschera sul viso provvista di un rosso naso a uncino che per la lunghezza spropositata e la forma appuntita superava tutti gli eccessi dei nasi più assurdi, e quindi un corpetto con bottoni enormi, non dissimile da quello di Brighella, una larga spada di legno... Lo spirito di sacrificio di Giglio nel predisporre tutto ciò, si arrestò solo quando arrivò a infilarsi un ampio pantalone a sbuffo che gli ricadeva sulle pantofole, nascondendo il più leggiadro piedistallo su cui avesse mai poggiato e fosse transitato un primo amoroso. «No», esclamò Giglio, «non è possibile che la serenissima non faccia alcun conto di una figura ben proporzionata, e che non se ne scappi via spaventata vedendomi così orribilmente deforme. Voglio proprio imitare quell'attore che, recitando in orribile travestimento la parte del mostro turchino nella commedia di Gozzi, da sotto la variopinta zampa del gatto tigrino riuscì a mostrare la mano bellissima che la natura gli aveva dato, e così, ancor prima della sua trasformazione, seppe conquistarsi il cuore di tutte le dame!... Ciò che a lui riuscì con la mano riesca a me col piede!». E così dicendo, Giglio si infilò un bel paio di pantaloni di seta azzurro cielo adorni di fiocchi rosso scuro, indossandoli su calze rosa e scarpe bianche con vaporosi fiocchi anch'essi rossi: tutto ciò faceva un bellissimo effetto, pur contrastando in modo alquanto stravagante con il resto del suo costume.
Giglio era perfettamente convinto che la principessa Brambilla gli sarebbe andata incontro con tutto il lusso e la magnificenza, circondata dal più splendido seguito; ma poiché non vedeva nulla, pensò che Celionati, dicendo che sarebbe riuscito a scorgere la principessa solo grazie agli occhiali magici, alludesse a chissà quale strano travestimento con il quale la bellissima si fosse camuffata.
Allora Giglio si mise a correre su e giù per il Corso, squadrando da capo a piedi tutte le maschere femminili, senza accorgersi dei punzecchiamenti generali, finché non giunse per caso in un luogo più appartato. «Buon signore, mio caro, mio buon signore!», si sentì chiamare da una voce nasale. Davanti a lui stava un tipo che, per la sua grandiosa comicità, superava tutto quanto egli avesse mai visto di quel genere. La maschera con la barbetta appuntita, gli occhiali, i capelli ispidi, la posizione del corpo tutto ripiegato in avanti per via delle spalle curve e il piede destro avanzato, parevano alludere a Pantalone; ma con tutto ciò non andava certo d'accordo il berretto che spioveva a punta sul davanti, ornato da due penne di gallo. E il corpetto, i calzoni e lo spadino di legno erano chiaramente quelli dell'egregio Pulcinella.
«Buon signore», disse Pantalone (così chiameremo questa maschera, nonostante le varianti del suo costume) a Giglio «mio buon signore! Che lieto giorno è questo, che mi regala il piacere, l'onore di incontrarla! Non potrebbe darsi il caso che lei appartenga alla mia famiglia?»
«Immensamente», replicò Giglio, inchinandosi con cortesia, «immensamente ne sarei felice, poiché lei, mio buon signore, mi piace davvero in modo straordinario, eppur non so proprio come una qualsivoglia parentela...»
«O Dio!», Pantalone interruppe Giglio, «o Dio! Mio buon signore, non è mai stato in Assiria?»
«Come un oscuro ricordo», rispose Giglio, «mi viene in mente che una volta stavo per intraprendere quel viaggio, ma non andai più in là di Frascati, dove quella carogna del vetturino mi buttò fuori davanti alla porta della città, e così il mio naso...»
«O Dio!», esclamò Pantalone, «è dunque vero?... Questo naso, queste penne di gallo... Mio carissimo principe!... Mio Cornelio!... Ma io vedo che lei impallidisce per la gioia di avermi ritrovato... O mio principe! Solo un sorsetto, un sorsetto solo!»...
Così dicendo, sollevò la grossa fiasca che gli stava davanti, e la porse a Giglio. E in quell'istante da essa emanò un sottile vapore rossastro, che si addensò fino a dar forma al soave viso della principessa Brambilla, e la piccola, cara immagine continuò a uscire, ma solo fino alla vita, tendendo le piccole braccine verso Giglio. Questi, ormai del tutto estasiato, esclamò: «Oh, esci dunque completamente fuori, che io possa ammirarti in tutta la tua bellezza!». Allora una voce dura e minacciosa gli risuonò nelle orecchie: «Tu, sciocco bellimbusto con il tuo celeste e rosa, come ti permetti di farti passare per il principe Cornelio!... Vattene a casa, dormici sopra, pezzo di babbeo!». «Screanzato!», urlò Giglio; ma accorsero altre maschere, si misero in mezzo, e Pantalone e la fiasca furono in un attimo scomparsi senza lasciar traccia.
CAPITOLO SECONDO
Di quello strano stato d'animo in cui chi si trova a capitarci si ferisce i piedi su pietre acuminate, dimentica di salutare persone distinte e, correndo, sbatte la testa contro porte chiuse. - Influenza di un piatto di maccheroni sull'amore e l'infatuazione. - Terribili pene dell'inferno degli attori e di Arlecchino. - Come Giglio non trovò la sua fanciulla e venne invece sopraffatto dai sarti e salassato. - Il principe nella bomboniera e l'amata perduta. - Come Giglio volle essere il cavaliere della principessa Brambilla perché gli era cresciuta una bandiera sulla schiena.
Amato lettore, non dovrai adirarti se colui che ha preso a narrare la storia avventurosa della principessa Brambilla proprio nel modo in cui l'ha trovata accennata negli arditi tratti di penna di Mastro Callot, ti spinge ad abbandonarti di buon grado, e almeno fino alle ultime righe di questo libriccino, al meraviglioso in esso contenuto, per quanto poco tu possa credervi... Ma forse, già nel momento in cui l'intera fiaba si è installata in Palazzo Pistoia, oppure quando la principessa Brambilla è emersa dal vapore azzurrino della damigiana, hai esclamato: «Che assurda pagliacciata!» e hai gettato via di malumore il volumetto, senza curarti delle belle incisioni!... E allora, tutto ciò che sto per dirti al fine di conciliarti con gli strani incantesimi del capriccio di Callot, arriverebbe troppo tardi, e questo sarebbe un bel guaio per me e per la principessa Brambilla! Ma forse non hai perduto la speranza che l'autore, intimidito da chissà quale altra folle creazione, che improvvisamente gli abbia sbarrato la strada e lo abbia costretto ad addentrarsi per una via traversa nel folto della selva, sia ora tornato alla ragione e abbia ripreso l'ampia via maestra, e ciò ti ha forse incoraggiato a continuare la lettura!... Buona fortuna!... Posso soltanto dirti, o benevolo lettore (ma forse tu già lo sai dalla tua stessa esperienza), che di tanto in tanto mi è riuscito di afferrare qualche favolosa avventura proprio nell'istante in cui essa, miraggio dello spirito agitato, stava per dissolversi nel nulla, dandole forma, cosicché ogni occhio dotato di forza visiva adatta a simili fenomeni è riuscito a scorgerla nella vita vera, e proprio perciò a crederle. Forse da qui mi è venuto il coraggio di continuare a coltivare apertamente il mio piacevole rapporto con ogni sorta di avventurose figure e con tante creature abbastanza straordinarie, di invitare persino le persone più serie a far parte di questa bizzarra e variopinta compagnia, e io mi auguro, caro lettore, che tu non prenda questo coraggio per arroganza, bensì per un perdonabile desiderio di attrarti fuori della cerchia ristretta dalla abituale vita quotidiana, e di offrirti un divertimento tutto particolare in un ambito estraneo, ma che tuttavia fa parte di quel regno che lo spirito umano, nella vita e nell'esistenza vere, domina con il suo libero arbitrio... E comunque, se tutto ciò non dovesse bastare, nella paura che ora mi assale, posso soltanto rifarmi a libri serissimi, nei quali accadono cose del tutto simili e sulla cui completa attendibilità non si può sollevare il benché minimo dubbio. In particolare, per quanto riguarda il corteo della principessa Brambilla, che senza difficoltà e con tutto il suo seguito di unicorni, cavalli e vetture è riuscito a passare per gli stretti portali di Palazzo Pistoia, già nella Storia straordinaria di Peter Schlemihl, del cui racconto siamo grati all'audace circumnavigatore del globo Adalbert von Chamisso, si parla di un certo affabile signore in grigio il quale compì un gioco di prestigio da far invidia a qualsiasi magia. Come è noto, egli infatti, su semplice richiesta, tirò fuori tranquillamente e senza alcuna difficoltà cerotto inglese, cannocchiale, tappeto, padiglione e infine carrozza e cavalli dalla stessa tasca della redingote... E dunque, per quel che ne è della principessa... Ma ora basta!... Tuttavia, ci sarebbe ancora da dire che spesso, nella vita, ci troviamo all'improvviso dinanzi alla porta spalancata di un meraviglioso e magico regno, cosicché ai nostri sguardi è consentito insinuarsi nel più intimo recesso di quel potente spirito, il cui respiro ci muove segretamente verso le più strane intuizioni; ma tu, amatissimo lettore, potresti a ragione obiettare di non aver mai veduto sfilare da quella porta un capriccio di tale follia, quale quello che pretendo di aver visto io. E perciò preferisco chiederti se mai nella vita ti sia accaduto di fare un sogno strano, da non potersi attribuire né allo stomaco imbarazzato, né allo spirito del vino o della febbre, ma in cui ti pareva invece che la straordinaria e sublime magica visione, che altrimenti ti aveva parlato solo per lontani presentimenti, in un segreto solidazio con il tuo spirito si fosse impadronita di tutto te stesso, mentre tu, tremante d'amore, non osavi né azzardavi abbracciare la dolce sposa che, ornata di rilucenti gioielli, era entrata nella cupa, sconsolata officina dei pensieri... che però, dinanzi allo splendore della magica visione, s'illuminava di vivi bagliori, mentre tutta la brama, tutta la speranza, l'intimo desiderio di catturare l'inesprimibile, si risvegliavano e crescevano e ardevano in lampi infuocati e tu avresti voluto soccombere in un innominabile dolore, ed essere solo lei, la splendida immagine magica! E serviva forse a qualcosa risvegliarsi dal sogno? Non restavi preda di quel rapimento senza nome, che nella vita esteriore tormenta l'anima con lancinante dolore, non restavi forse in questo stato d'animo? E tutto, intorno a te, non ti appariva deserto, squallido privo di colore? E non vaneggiavi forse che quel sogno fosse la tua vera esistenza, mentre tutto ciò che fino ad allora avevi creduto fosse la tua vita era solo un fraintendimento dei tuoi sensi offuscati? E tutti i tuoi pensieri non si focalizzavano in un unico punto che, calice ardente di un'estrema passione, proteggeva il tuo più dolce segreto dalla cieca, insensata agitazione della vita quotidiana?... Oh! in tale sognante stato d'animo ci si può ben ferire i piedi su pietre acuminate, dimenticare di togliersi il cappello dinanzi a persone di riguardo, dare agli amici il buongiorno a tarda sera, sbattere la testa contro la prima porta che capita, perché ci si dimentica di aprirla; in breve lo spirito porta il corpo come un vestito scomodo, che da ogni parte pare troppo largo, troppo lungo e mal fatto...
È in questa situazione che venne a trovarsi il giovane attore Giglio Fava, dopo aver inutilmente tentato per molti giorni di seguito di trovare la seppur minima traccia della principessa Brambilla. Tutto ciò che di meraviglioso incontrava sul Corso gli pareva soltanto la continuazione di quel sogno che gli aveva portato la bella, la cui immagine sorgeva ora dal mare sconfinato della nostalgia, in cui egli avrebbe voluto perdersi e annegare. Solo il suo sogno era vita, tutto il resto un nulla insignificante e vuoto; e così, ci si può ben immaginare come egli trascurasse completamente il suo mestiere d'attore a tal punto che, invece di pronunciare le battute della sua parte, si metteva a parlare della principessa Brambilla, giurando che avrebbe avuto la meglio sul principe assiro, che anzi egli stesso si sarebbe trasformato in principe, e infine nella ridda dei suoi pensieri si smarrì in un labirinto di discorsi folli e incomprensibili. Tutti lo prendevano ormai per pazzo; e primo fra tutti l'impresario, che alla fine lo licenziò in tronco, e così perse anche la sua magra paga. Quei pochi ducati che costui, per pura generosità, gli aveva buttato lì congedandolo, potevano bastare solo per un breve periodo, e poi c'era da aspettarsi la miseria più nera. Normalmente questa situazione avrebbe causato a Giglio grandi preoccupazioni e timori; ma ora non ci pensava neppure, poiché si librava in un cielo in cui non si ha bisogno dei ducati di questa terra.
Per quanto riguarda i comuni bisogni della vita, che non erano poi gran cosa, Giglio era solito placare la sua fame passando da uno dei tanti fritteroli che, come si sa, piazzano le loro cucine improvvisate in mezzo alla strada. Cosi avvenne che un giorno gli venne voglia di gustare un buon piatto di maccheroni, il cui profumo si spandeva tutt'attorno alla bancarella. Si avvicinò, ma quando fece per pagare il suo frugale pasto e tirò fuori il borsellino, rimase di stucco alla scoperta che dentro non c'era più neanche un baiocco. In quel momento si fece in lui prepotentemente largo il principio terreno, dal quale quello spirituale, per quanto si dia orgogliosamente da fare, viene tenuto in vergognosa schiavitù qui sulla terra. Giglio sentì come mai era accaduto prima che, nonostante fosse pieno dei più sublimi pensieri, desiderava davvero quella bella scodella di maccheroni che gli aveva fatto venire una fame incredibile, e cercò allora di garantire al fritterolo che il caso voleva non avesse con sé il denaro per pagare la pietanza che pensava di gustare, ma certo lo avrebbe fatto un altro giorno. Il cuoco gli rise in faccia, e rispose che anche se non aveva soldi poteva senz'altro soddisfare la sua fame; doveva soltanto lasciargli in pegno il bel paio di guanti che portava, oppure il cappello o la mantellina. Solo allora il povero Giglio vide davvero con chiarezza la terribile situazione in cui si trovava. E vide anche se stesso, mendicante coperto di stracci, ridotto a chiedere un piatto di minestra davanti ai conventi. Ma ancor più forte si sentì colpito al cuore quando, risvegliatosi dai suoi sogni, si accorse solo in quel momento della presenza di Celionati il quale, al suo solito posto dinanzi alla chiesa di San Carlo, intratteneva il popolo con le sue consuete fandonie; vedendolo, costui gli gettò un'occhiata nella quale Giglio credette di leggere un atroce scherno... E la sua stupenda visione di sogno era scomparsa nel nulla, dileguato ogni dolce presagio. Per lui era certo che quel pazzo di Celionati lo aveva ammaliato con ogni sorta di diavolerie e d'incantesimi, e che, sfruttando con sardonico e maligno piacere la sua sciocca vanità, si era preso indegnamente gioco di lui con la storia della principessa Brambilla.
Fuggì via furioso da lì; e non sentiva più neanche la fame, poiché pensava soltanto a come vendicarsi di quel vecchio stregone. Egli stesso non avrebbe saputo dire quale strano sentimento, nonostante tutto il furore e tutta l'ira, si stesse facendo strada nel suo animo, e lo costringesse a fermarsi, quasi che uno sconosciuto incantesimo lo tenesse improvvisamente prigioniero... "Giacinta!", qualcosa gridò in lui. Egli si trovava infatti dinanzi alla casa in cui abitava la fanciulla, le cui ripide scale egli aveva tanto spesso salito nell'ora incantata del crepuscolo. E qui ripensò a come l'illusoria immagine di sogno avesse suscitato all'inizio l'indignazione della fanciulla, a come poi egli l'avesse abbandonata senza più rivederla e senza più pensare a lei, e così aveva perduto l'innamorata, era caduto in disgrazia e in miseria, tutto a causa delle sciagurate e folli burle di Celionati. Completamente immerso nella tristezza e nel dolore non riusciva a tornare in sé, finché non si fece largo la decisione di salire da Giacinta per riconquistarsi la sua benevolenza, costasse quel che costasse... Detto fatto... Ma quando bussò alla porta di Giacinta, all'interno il silenzio rimase di tomba... Avvicinò l'orecchio, ma non si percepiva neanche un respiro. Allora chiamò a voce alta e lamentosa più volte il nome di Giacinta; e quando neppure così ricevette risposta, incominciò a profferire le più toccanti ammissioni della propria follia; e sosteneva che era stato il diavolo in persona ad ammaliarlo, nei panni del maledetto ciarlatano Celionati, terminando poi con le più sperticate assicurazioni del suo profondo rimorso e del suo ardente amore.
Allora da sotto risuonò una voce: «Vorrei proprio sapere chi è quell'asino che, qui in casa mia, si scioglie in lamenti e piange prima del tempo, perché ci manca ancora un bel pezzo al mercoledì delle Ceneri!». Era il signor Pasquale, il grasso padrone di casa, che veniva salendo con fatica le scale e che, vedendo Giglio, gli gridò: «Ah, siete voi, signor Giglio? Ditemi un po', chi è lo spirito maligno che vi porta a piagnucolare gli "oh" e gli "ah" di qualche vostra stupida tragedia davanti a questa stanza vuota?». «Stanza vuota?», esclamò allora Giglio, «che stanza vuota? Per tutti i santi del Paradiso, signor Pasquale, ditemi, dov'è Giacinta? Dove si trova, lei, la mia vita, il mio tutto?». Il signor Pasquale fissò Giglio in faccia, e disse poi calmo calmo: «Signor Giglio, io so quel che vi è capitato; tutta Roma ha saputo che avete dovuto abbandonare le scene perché vi ha dato di volta il cervello... Andate dal dottore, andate dal dottore, fatevi salassare un paio di libbre di sangue, mettete la testa sotto l'acqua fredda!». «Se non sono ancora pazzo», replicò Giglio concitato, «se non sono ancora completamente pazzo, lo diventerò presto, se non mi dite all'istante che ne è stato di Giacinta». «Non crederete» continuò il signor Pasquale senza perdere la calma, «non crederete davvero di darmi a bere che non siete al corrente del fatto che, otto giorni fa, Giacinta se n'è andata da casa mia, e che poi la vecchia Beatrice l'ha seguita?».
Ma quando Giglio, fuori di sé dalla collera, gridò: «Dov'è Giacinta?», afferrando violentemente per il bavero il grasso padrone di casa, costui prese a gridare: «Aiuto! aiuto! Assassino!», tanto forte che tutta la casa si mise in agitazione. Allora sbucò uno zoticone d'un servo grande e grosso che, afferrato il povero Giglio e trascinatolo giù per le scale, lo scaraventò fuori dalla casa con una leggerezza tale che sembrava avesse tra le mani una bambola di stracci.
Senza far troppo caso alla brutta caduta, Giglio si rimise in piedi e cominciò a correre, ora davvero spinto attraverso le strade di Roma da una specie di follia. Un certo istinto, che nasceva dall'abitudine, lo portò in teatro, anzi fin dentro i camerini degli attori, proprio mentre suonava l'ora in cui egli era solito affrettarvisi. Soltanto lì si rese conto di dove si trovasse, ma con quale meraviglia, in quel luogo in cui normalmente eroi tragici paludati d'oro e d'argento incedono con assoluta gravità ripetendo versi magniloquenti con i quali si ripromettono di generare nel pubblico meraviglia e furore, si vide invece circondato da Pantalone e da Arlecchino, da Truffaldino e da Colombina, insomma da tutte le maschere della Commedia dell'Arte. Egli restò là, come abbarbicato a terra, a guardarsi attorno con occhi spalancati come uno che, svegliatosi improvvisamente dal sonno, si veda attorniato da una compagnia strana e bizzarra, a lui del tutto ignota.
L'aspetto confuso e preoccupato di Giglio dovette far venire all'impresario una specie di rimorso di coscienza, che lo trasformò all'improvviso in un uomo cordiale e pieno di cuore.
«Dunque vi meravigliate», disse al giovane, «vi meravigliate certo, signor Fava, di trovare qui tutto cambiato dal tempo in cui mi avete abbandonato? Ma vi devo confessare che tutte quelle azioni patetiche, che per solito facevano la fama e il vanto del mio teatro, avevano cominciato ad annoiare il pubblico a un punto tale che anch'io ero preso dallo stesso tedio, anche perché la mia borsa cadeva sempre più in una miserevole condizione di vero e proprio dissanguamento. Allora ho mandato al diavolo tutta quella roba tragica, e ho aperto il mio teatro al libero scherzo, alle aggraziate celie delle nostre maschere, e me ne sono trovato davvero contento!».
«Ah!», esclamò Giglio con le guance infuocate, «ah, signor impresario, ammettette dunque che la mia partenza ha distrutto le vostre tragedie! Con la caduta dell'eroe è venuta meno anche la folla, che prima era animata dal suo respiro?».
«Quanto a questo», replicò l'impresario ridacchiando, «quanto a questo, meglio non andare troppo a fondo! E comunque mi sembrate di malumore, e dunque vi prego, andate giù e guardate la mia pantomima! Forse vi rallegrerà, e forse vi farà anche mutare d'intendimento e tornerete a recitare per me, per quanto in un modo del tutto differente; perché certo sarebbe possibile che... ma ora andate, andate! Eccovi qui una contromarca, venite nel mio teatro ogni volta che vi piace!».
Giglio fece ciò che gli era stato detto, più per cupa indifferenza verso tutto ciò che gli stava intorno che per vero desiderio di assistere alla pantomima.
Non lontano da lui stavano due maschere, sprofondate in una animata conversazione. Giglio udì fare spesso il suo nome; ciò lo risvegliò dal suo torpore, e allora scivolò più vicino, con il cappotto alzato fino agli occhi, a coprire il viso, per poter ascoltare tutto senza esser riconosciuto.
«Avete ragione», diceva una di esse, «è colpa di Fava se in questo teatro non si possono più mettere in scena tragedie. Ma a differenza di voi, questa colpa la cerco e la trovo non nella sua uscita dal teatro, bensì nella sua entrata». «Com'è possibile?», chiese l'altra. «Dunque», continuò la prima, «io da parte mia, nonostante il fatto che egli sia spesso e volentieri riuscito a far furore, ho sempre pensato che fosse l'attore più pietoso che sia mai esistito. Bastano forse due occhi scintillanti, un paio di belle gambe, un abito elegante, penne colorate sul berretto e nastri sgargianti sulle scarpe a fare il giovane eroe tragico? In effetti, quando Giglio appariva sulla scena con quei suoi misurati passettini da ballerino, quando, senza curarsi degli altri attori, faceva l'occhiolino verso i palchi e, fissandosi in una posa stranamente leziosa, dava modo alle belle di ammirarlo, allora davvero mi appariva come un giovane e sciocco galletto variopinto che si pavoneggi al sole. Quando poi, con occhi stralunati, fendendo l'aria con le mani, sollevandosi subito sulle punte dei piedi, o piegandosi in due come un temperino, declamava versi stentati con la sua voce stridula, ditemi, qual umano, ragionevole petto poteva in tal modo commuoversi davvero? Ma noi italiani siamo fatti così; ci piace l'eccesso, che per un momento ci scuote nel profondo, ma che poi disprezziamo, non appena ci accorgiamo che ciò che abbiamo preso per un essere vivo altro non è che una bambola priva di vita che, tirata ad arte dai fili, ci ha ingannato con i suoi bizzarri movimenti. E lo stesso sarebbe successo anche con Fava: poco a poco sarebbe miseramente arrivato alla fine, se non avesse affrettato da se stesso la sua morte precoce». «Mi pare», così l'altra prese la parola, «mi pare che voi giudichiate troppo duramente il povero Fava.
Quando lo definite vanesio e manierato, quando sostenete che egli non ha mai portato sulla scena un personaggio ma solo se stesso, e che ha sempre cercato di strappare applausi in modo anche indecoroso, potete anche aver ragione, ma si deve ammettere che aveva davvero talento, e il fatto che alla fine sia sprofondato nella follia deve muoverci a compassione, tanto più che causa della sua pazzia è stato proprio lo sforzo della recitazione». «Ma questo», replicò la prima ridendo, «questo non lo dovete credere! Potete davvero immaginarvi che Fava sia diventato pazzo per pura e semplice smania amorosa? Egli è convinto che una principessa si sia innamorata di lui, e ora la insegue per mari e per monti... E, al contempo, è diventato povero in canna per la sua fannullonaggine, tanto che oggi ha dovuto lasciare in pegno guanti e cappello a un fritterolo per un piatto di maccheroni al dente». «Ma che dite?», esclamò l'altra maschera, «è mai possibile che sia pazzo a tal punto?... Ma al povero Giglio, che comunque ci ha allietato tante serate, dovremmo in un modo o nell'altro far arrivare un po' d'aiuto. Quel cane d'un impresario, a cui ha fatto entrar in tasca parecchi ducati, dovrebbe metterci del suo e non lasciarlo andare in malora». «Non è necessario», disse la prima maschera, «visto che la principessa Brambilla, che conosce la sua follia e la sua miseria, e che, come tutte le donne, ritiene qualsiasi follia amorosa non soltanto perdonabile, ma anche bella, ed è disposta a indulgere a compassione, gli ha appena fatto arrivare di nascosto un piccolo borsellino pieno di ducati». Udendo le parole dello sconosciuto Giglio infilò meccanicamente e quasi senza accorgersene la mano in tasca e sentì davvero un piccolo borsellino pieno di tintinnanti monete d'oro, che doveva esservi stato messo per volere della sognata principessa Brambilla. Qualcosa di simile a una scossa elettrica gli passò attraverso il corpo. Ma non riuscì a far posto alla gioia per quel miracolo che, proprio nel momento giusto, lo salvava da una situazione disperata, poiché fu preso dai sudori freddi per la paura. Si vide infatti come un giocattolo abbandonato alla mercé di forze ignote, e stava quasi per precipitarsi sulle due maschere sconosciute, ma nello stesso istante si rese conto che esse, dopo quel fatale colloquio, erano scomparse nel nulla.
Di tirar fuori dalla tasca il borsellino, per convincersi ancor più concretamente della sua esistenza, Giglio non osava, temendo che gli si dileguasse tra le mani come un miraggio. E abbandonandosi così completamente ai suoi pensieri, e facendosi intanto sempre più calmo, cominciò a pensare che tutto ciò che era stato portato a credere fosse l'incantesimo di forze magiche e burlone, forse in fondo era solo un semplice scherzo che Celionati, stravagante e capriccioso, dirigeva dalle quinte oscure e profonde mediante fili invisibili solo a lui. Pensò anche che lo sconosciuto stesso avrebbe potuto infilargli il borsellino in tasca nella confusione della folla, e che tutto ciò che costui aveva detto della principessa Brambilla poteva non essere altro che il seguito della burla che Celionati aveva incominciato. Ma proprio mentre nel suo animo tutta la magia si trasformava in modo del tutto naturale in una cosa banale, nella quale egli intendeva risolvere l'intera faccenda, in lui si ravvivò nuovamente tutto il dolore per le ferite infertegli dal suo impietoso critico. Nell'inferno degli attori non possono esistere tormenti più atroci degli attacchi diretti al cuore contro la loro vanità. E la vulnerabilità stessa di questo punto, il sentimento di disarmata debolezza, nell'accresciuto scoramento accresce anche il dolore delle percosse, il quale, se anche egli cerca di reprimerlo o di lenirlo mediante mezzi convenienti, gli fa percepire ancor più quanto sia stato davvero colpito... Così Giglio non riusciva a liberarsi della fatidica immagine del giovane galletto assurdamente variopinto che pieno di sé si pavoneggia al sole e tanto più violentemente si arrabbiava e si rodeva per via di essa, quanto più nel suo animo e pur senza volerlo doveva forse ammettere che la caricatura rispecchiava veramente l'originale.
E certo non si sbaglia a dire che Giglio, nella sua irritazione, non guardò affatto il palcoscenico e non fece attenzione alla pantomima, anche se la sala riecheggiava spesso delle risa, degli applausi, delle urla di gioia degli spettatori.
La pantomima non rappresentava altro che le avventure amorose, ripetute in cento e cento variazioni, dell'ottimo Arlecchino con la dolce, capricciosa e incantevole Colombina. Già la bella figlia del vecchio e ricco Pantalone aveva rifiutato la sua mano al Cavaliere dalle vesti rilucenti e ornate e al saggio Dottore, dichiarando ai quattro venti che non avrebbe amato e sposato altri che il piccolo, agile uomo dalla faccia nera e dal costume fatto di cento stracci multicolori rattoppati insieme, già Arlecchino aveva preso la fuga insieme alla sua fedele fidanzata e, protetto da un potente incantesimo, era felicemente sfuggito all'inseguimento di Pantalone, di Truffaldino, del Dottore e del Cavaliere. E ora si era arrivati al punto in cui Arlecchino, mentre amoreggiava con la sua fidanzata, veniva sorpreso dagli sbirri, e insieme con lei avrebbe dovuto venir condotto in prigione. Cosa che avveniva davvero; ma proprio nel momento in cui Pantalone con il suo seguito stava per mettere alla berlina la disgraziata coppia, e Colombina, addolorata, implorava in ginocchio e tra mille lacrime la salvezza del suo Arlecchino, questi sguainava la spatola, e da tutte le parti, dalla terra, dall'aria accorrevano graziosissimi, splendenti esseri di bellissimo aspetto, si inchinavano profondamente dinanzi a lui e lo portavano in trionfo insieme a Colombina. Pantalone, rimasto di stucco per la sorpresa, si lasciava ora cadere, completamente distrutto, sulla panchina di pietra che si trovava nella prigione, e invitava il Cavaliere e il Dottore a prendervi anch'essi posto; tutti e tre si mettevano a discutere su cosa ora si potesse fare. Truffaldino si metteva dietro di loro, infilava curioso la testa tra l'uno e l'altro, senza volerne sapere di andarsene, sebbene da tutte le parti gli piovessero sonori ceffoni. Ora però volevano alzarsi, ma si trovavano per incantesimo inchiodati alla panchina, alla quale improvvisamente spuntavano un paio di grandiose ali, e così a bordo di un mostruoso avvoltoio e tra alte grida d'aiuto, l'intera compagnia se ne volava via... Ora il carcere si trasformava in un'ampia sala a colonnato, adorna di ghirlande di fiori, nel cui centro si innalzava un trono coperto di ricchi drappi. Si sentiva poi una bella musica di tamburi, pifferi e cembali. Si avvicinava un luccicante corteo; Arlecchino veniva portato su un palanchino da quattro mori, ed era seguito da Colombina, seduta in un magnifico cocchio trionfale.
Entrambi venivano accompagnati sul trono da ministri dai ricchi abiti, Arlecchino sollevava la spatola come scettro, tutti gli si inginocchiavano davanti rendendogli omaggio, e si scorgeva anche Pantalone con i suoi in mezzo al popolo inginocchiato e osannante. Arlecchino regnava, potente imperatore, insieme alla sua Colombina, su di un regno bello, fantastico, luminoso!
Ma non appena il corteo fu in mezzo alla scena, e Giglio gettò uno sguardo all'insù, pieno di meraviglia e di sorpresa non riuscì più a distoglierlo, poiché vi riconobbe tutti i personaggi del corteo della principessa Brambilla, gli unicorni, i mori, le dame che lavoravano a tombolo tra le orecchie delle mule. Né mancava il venerando dotto e uomo di stato nel tulipano luccicante d'oro, il quale passando aveva alzato gli occhi dal libro e pareva fare amichevoli cenni del capo verso Giglio. Soltanto, al posto della carrozza di specchi tutta chiusa della principessa, Colombina sfilava su un cocchio trionfale aperto.
Nell'animo di Giglio stava per prender forma l'oscuro presentimento che anche questa pantomima potesse essere in misterioso rapporto con tutte le cose straordinarie che gli erano accadute; ma proprio come chi sogna tenta invano di afferrare le immagini che nascono in realtà dal proprio Io, anche Giglio non riusciva ad approdare ad alcun pensiero chiaro circa una possibile relazione tra le due situazioni.
Nel caffè lì accanto Giglio ebbe modo di persuadersi che i ducati della principessa Brambilla non erano un miraggio, ma che anzi avevano suono e conio davvero ottimi. "Hm!", pensò, "Celionati mi ha infilato in tasca il borsellino per grande bontà d'animo e per compassione, ma io voglio saldare il mio debito non appena tornerò a furoreggiare al Teatro Argentina, cosa che certamente avverrà, perché solo l'invidia più feroce, la cabala più implacabile poteva far gridare ai quattro venti che io sia un cattivo attore!". Il sospetto che il denaro provenisse da Celionati aveva le sue buone ragioni d'essere, poiché in realtà il vecchio lo aveva già altre volte aiutato a uscire da situazioni difficili. Ma intanto gli fece un effetto strano quando trovò ricamate sul grazioso borsellino le parole: «Ricordati della tua immagine di sogno!». Egli stava osservando tutto pensieroso l'iscrizione, quando qualcuno gli gridò nell'orecchio: «Alla fine ti trovo, traditore, infedele, mostro di falsità e d'ingratitudine!». Era stato acchiappato da un Dottore sformato per la grassezza, che ora senza tanti complimenti prendeva posto davanti a lui, continuando con ogni sorta di improperi. «Che volete da me? Siete pazzo, folle?», gridò Giglio; ma a quel punto il Dottore si tolse la brutta maschera dal viso, e Giglio riconobbe la vecchia Beatrice. «Per tutti i santi del paradiso!», esclamò Giglio completamente fuori di sé, «siete voi, Beatrice?... E dov'è Giacinta? Dov'è la dolce, leggiadra fanciulla?... Il mio cuore è spezzato per l'amore e la nostalgia! Dov'è Giacinta?». «Chiedete pure», replicò la vecchia scontrosa, «chiedete pure, uomo pazzo e insensato! In prigione sta la povera Giacinta, e lì languisce la sua gioventù, e la causa di tutto questo siete proprio voi. Perché se non avesse avuto la testolina piena di voi, se avesse avuto un po' più di pazienza, non si sarebbe punta il dito cucendo la guarnizione sull'abito della principessa Brambilla, e non vi avrebbe fatto quell'orribile macchia, e così il degno Mastro Bescapi, che il diavolo se lo porti, non avrebbe preteso da lei il risarcimento del danno e poi non l'avrebbe fatta mettere in galera, una volta che non eravamo riuscite a raggranellare il denaro che chiedeva... Voi avreste potuto essere d'aiuto... ma proprio allora il signor fannullone d'un attore ha pensato bene di far fagotto...». «Basta!», Giglio interruppe la vecchia chiacchierona, «è colpa tua, che non sei corsa da me a dirmi tutto. La mia vita per la divina!... Se non fosse già mezzanotte, correrei da quell'odioso Bescapi... questi ducati... la mia bambina sarebbe libera nel giro di un'ora; e allora, che m'importa che sia mezzanotte? Via, via, a salvarla!». E subito Giglio volò via. La vecchia gli rise dietro sorniona...
Ma come spesso accade, quando nella più grande foga di far qualcosa, dimentichiamo proprio l'aspetto più importante, così Giglio, dopo esser corso a perdifiato per le vie di Roma, si rese conto solo allora che avrebbe dovuto informarsi con la vecchia riguardo all'abitazione di Bescapi, che gli era completamente sconosciuta. Ma il caso o il destino vollero tuttavia che egli, capitato alla fine in piazza di Spagna, si trovasse proprio di fronte alla casa di Bescapi quando esclamò ad alta voce: «Lo sa solo il diavolo dove sta di casa Bescapi!». Immediatamente uno sconosciuto lo prese sottobraccio e lo condusse in casa, dicendogli intanto che Mastro Bescapi abitava proprio lì, e che egli poteva senz'altro ancora ritirare la maschera che forse aveva ordinato. Entrato nella stanza, e poiché Mastro Bescapi non era in casa, l'uomo lo pregò di indicargli egli stesso il costume che aveva scelto; forse si trattava di un semplice tabarro, oppure... Ma Giglio agguantò per il collo quell'uomo, che non era altri che un semplice lavorante sarto, parlando così confusamente di macchie di sangue, di prigione, di pagamenti e di liberazione immediata, che il garzone restò a fissarlo negli occhi sbalordito e a bocca aperta, senza esser capace di replicar parola. «Maledetto! Lo fai apposta a non capirmi: portami qui all'istante il tuo padrone, quel cane dannato!». Così gridava Giglio, avvinghiato al garzone. Ma anche qui gli successe come in casa del signor Pasquale. Il garzone strillava in modo tale che da ogni parte accorse gente. Bescapi stesso si precipitò dentro; ma non appena lui scorse Giglio, esclamò. «Per tutti i santi, è l'attore impazzito, il povero signor Fava! Tenetelo, gente, tenetelo forte!». E allora tutti gli furon sopra, facilmente ebbero la meglio, gli legarono mani e piedi, e lo sdraiarono sopra un letto. Bescapi gli si avvicinò; e proprio a lui Giglio si mise a fare mille amari rimproveri per la sua tirchieria, per la sua crudeltà, e parlò dell'abito della principessa Brambilla, della macchia di sangue, del pagamento, e così via. «Calmatevi ora», diceva Bescapi dolcemente, «calmatevi ora dunque, carissimo signor Giglio, fate sparire i fantasmi che vi tormentano! Fra pochi minuti tutto vi apparirà diverso».
Ciò che Bescapi intendeva si vide subito; poiché infatti entrò un chirurgo e, senza far caso alle sue proteste, tagliò al povero Giglio una vena per salassarlo. Stremato per tutti i casi della giornata e per il salasso, il povero Giglio cadde in un sonno profondissimo e simile a un deliquio.
Quando si svegliò, era notte fonda tutt'intorno a lui; solo a fatica gli riuscì di ricordarsi di ciò che gli era accaduto nelle ultime ore; sentì che lo avevano sciolto, ma per la stanchezza non poteva quasi muoversi né fare un gesto. Attraverso una fessura che si trovava forse in una porta entrò infine nella stanza un fioco raggio di luce, e allora gli sembrò di percepire un respiro profondo, e poi un leggero bisbiglio, che piano piano si trasformò in parole comprensibili: «Siete davvero voi, mio carissimo principe?... E in questo stato? Così piccolo, così piccolo, che io credo potreste entrare nella mia bomboniera!... Ma non crediate davvero che io per questo vi stimi o vi consideri di meno; non so forse io che voi siete un signore così amabile e prestante, e che io ora sto solo sognando?... Abbiate dunque soltanto la bontà di mostrarvi a me domani, non foss'altro che con la voce sola!... Gettate il vostro sguardo su questa povera fanciulla, infatti è proprio così che dovrebbe avvenire, altrimenti...» e qui le parole si affievolirono in un confuso bisbiglio... La voce aveva qualcosa di insolitamente dolce, affascinante; Giglio si sentì attraversato da un brivido misterioso; ma proprio mentre cercava con tutte le forze di tendere l'orecchio, quel mormorio, che quasi si poteva paragonare al sussurro di una fonte vicina, lo fece di nuovo cadere in un sonno profondo... Il sole risplendeva chiaro nella stanza quando un tocco leggero destò Giglio dal sonno. Mastro Bescapi stava dinanzi a lui e parlava, prendendogli la mano e ridendo di buon umore: «Non è forse vero che vi sentite meglio, mio caro signore? Ma certo, grazie a Dio! Siete ancora un po' pallido, ma il polso è regolare. Il cielo ha voluto che, in quel terribile attacco di parossismo, vi si conducesse in casa mia e che mi fosse permesso di rendere un piccolo servigio a voi, che io considero il più straordinario attore di Roma, la cui perdita ci ha tutti gettati nella più nera tristezza». Le ultime parole di Bescapi furono davvero un potente balsamo per le sue ferite aperte; e in quella Giglio però fece, tutto serio e cupo: «Signor Bescapi, non ero né malato né pazzo quando entrai in casa vostra. Voi siete stato davvero crudele a far mettere in prigione la mia bellissima fidanzata, la povera Giacinta Soardi, perché non aveva potuto ripagarvi un bell'abito che vi aveva rovinato, ma che dico, santificato, facendovi cadere sopra il suo roseo icòre che sgorgava da una ferita che si era procurata con l'ago da ricamo nel delicato ditino. Ditemi dunque subito quanto pretendete per quell'abito; io vi pagherò questa somma, e poi andremo all'istante a liberare quella dolce, meravigliosa bambina dalla prigione in cui langue a causa della vostra avarizia». Così dicendo, Giglio si alzò dal letto più in fretta che poté, tirando fuori dalla tasca il borsellino pieno di ducati che, se fosse stato necessario, era deciso a vuotare completamente. Ma Bescapi lo fissò allora con occhi spalancati, dicendo: «Come avete potuto mettervi in testa una storia tanto assurda, signor Giglio? Non ne so un accidente di un abito che Giacinta mi avrebbe rovinato, né di una macchia di sangue, né di far andare in prigione qualcuno!». Ma quando Giglio ebbe raccontato di nuovo tutta la storia, così come l'aveva appresa da Beatrice, ed ebbe descritto in particolare il bel vestito che egli stesso aveva visto da Giacinta, allora Mastro Bescapi si disse più che certo che la vecchia si fosse presa gioco di lui; poiché in tutta quella bella storia egli poteva senz'altro dire che non c'era un briciolo di verità, e che oltretutto egli non aveva mai e poi mai dato a Giacinta in lavorazione un abito simile a quello che Giglio credeva di aver visto. Giglio non riusciva a scorgere alcuna malafede nelle parole di Bescapi, perché non si poteva capire come mai costui non avrebbe dovuto prendere il denaro che gli veniva offerto, e così alla fine si convinse che anche qui agiva la potente stregoneria di cui ormai era in balìa. Che altro restava da fare, se non abbandonare la casa di Mastro Bescapi, e restare in attesa della buona sorte che forse avrebbe ricondotto tra le sue braccia la bella Giacinta, per la quale ora ardeva di nuovo d'amore?
Davanti alla porta di Bescapi stava però una persona che Giglio si sarebbe augurato essere mille miglia lontano, vale a dire il vecchio Celionati. «Ehi!», costui chiamò Giglio ridendo, «ehi, siete davvero un'anima buona a voler gettare al vento per la vostra fidanzata, che non è neanche più tale, quei vostri ducati, che la buona sorte vi ha fatto arrivare». «Siete davvero», replicò Giglio, «siete davvero un uomo temibile e crudele!... Cosa vi spinge a immischiarvi nella mia vita? A impadronirvi della mia esistenza?... Vi vantate di un'onniscienza, che credo vi costi ben poca fatica... giacché mi circondate di spie, che sanno di me vita, morte e miracoli... sobillate tutto e tutti contro di me... è a voi che devo la perdita della mia Giacinta, del mio posto... a voi e ai vostri mille malefici». «Ecco qua», esclamò Celionati scoppiando a ridere, «ecco qua il mio bel guadagno a essermi interessato così tanto dell'importantissima persona del signor ex attore Giglio Fava!... E tuttavia, Giglio, ragazzo mio, tu hai davvero bisogno di un tutore che ti riporti sulla retta via, che ti diriga verso uno scopo». «Sono maggiorenne», disse Giglio, «e vi prego, signor ciarlatano, di lasciarmi fare tranquillamente i fatti miei». «Oh, oh!», replicò Celionati, «solo non siate tanto arrogante! E poi? Se io avessi in serbo per te buone, anzi ottime occasioni, se volessi la tua massima felicità sulla terra, se facessi da tramite fra te e la principessa Brambilla?». «Oh Giacinta, Giacinta, oh me infelice, che t'ho perduta! C'è mai stato nella mia vita un giorno più nero e disgraziato di ieri?». Così si lamentava Giglio completamente fuori di sé. «Via, via», disse Celionati cercando di calmarlo, «in fondo la giornata di ieri non è stata del tutto disgraziata. Già i buoni insegnamenti che avete ricevuto in teatro vi sono stati abbastanza salutari, e vi hanno frenato proprio quando stavate per dare in pegno guanti, cappello e mantello per un piatto di maccheroni al dente; e poi avete assistito a quella che si può definire la più straordinaria rappresentazione del mondo, poiché esprime quanto c'è di più profondo senza bisogno di parole; e poi vi siete ritrovato in tasca proprio i ducati che vi mancavano...». «E che venivano da voi, proprio da voi, lo so», lo interruppe Giglio. «E se anche così fosse», proseguì Celionati, «la cosa non cambia affatto; ma basta, voi avete ricevuto l'oro, vi siete rimesso in sesto lo stomaco, siete entrato felicemente in casa di Bescapi, dove vi è stato rifilato un utile e proficuo salasso, e infine avete dormito sotto lo stesso tetto della vostra innamorata!». «Che dite?», saltò su Giglio, «che dite? Con la mia innamorata? con la mia innamorata sotto lo stesso tetto?» «Proprio così», rispose Celionati, «guardate un po' lassù!».
Giglio eseguì, e cento fulmini gli attraversarono il petto quando scorse sul balcone la sua dolce Giacinta, elegantemente vestita e più graziosa, più attraente che mai, e dietro a lei la vecchia Beatrice. «Giacinta, mia Giacinta, dolce vita mia», esplose pieno di passione. Ma Giacinta gli gettò un'occhiata piena di disprezzo, e lasciò il balcone, mentre Beatrice la seguiva all'istante.
«Continua con le sue dannate smorfie», disse Giglio sconsolato; «ma anche questo passerà». «È difficile!», prese a dire Celionati, «poiché, mio buon Giglio, voi certo non sapete che nello stesso momento in cui voi audacemente correvate dietro alla principessa Brambilla, un principe bello e prestante si è invaghito della vostra donna, e a quanto pare...». «Per tutti i diavoli dell'inferno!», gridò Giglio, «quel vecchio diavolo di Beatrice ha fatto da ruffiana; ma io l'avvelenerò con la polvere per i topi, quella vecchia scellerata, e al dannato principe pianterò un coltello nel cuore...». «Lasciate perdere tutto questo!», lo interruppe Celionati, «lasciate perdere, buon Giglio, andatevene tranquillo a casa, e fatevi salassare ancora un poco se vi vengono brutti pensieri! Che Dio vi accompagni. Ci rivediamo presto sul Corso...». E così dicendo Celionati si affrettò ad attraversare la strada.
Giglio restò lì come abbarbicato a terra, gettando sguardi rabbiosi verso il balcone, digrignando i denti e mormorando le più orribili imprecazioni. Ma quando Mastro Bescapi mise la testa fuori dalla finestra, pregandolo comunque di entrare ad aspettare dentro casa la nuova crisi che pareva imminente, Giglio, credendolo unito in complotto con la vecchia ai suoi danni, gli gridò in faccia: «Maledetto ruffiano!», e corse via da lì come impazzito.
Sul Corso incontrò alcuni vecchi compagni, con i quali entrò in una vicina osteria, per far dileguare tutto il suo malumore, tutte le sue pene d'amore, tutta la sua disperazione, nella vampa di un infuocato vino di Siracusa.
Normalmente una decisione del genere non è davvero la più consigliabile; poiché lo stesso fuoco che divora il malumore, divampando indomabile, fa anche sì che dentro bruci tutto ciò che in genere si desidera preservare dalle fiamme; ma per Giglio andò tutto bene. Abbandonandosi con piacere alla gradevole e vivace conversazione con gli attori, a ogni sorta di ricordi di buffe avventure teatrali, egli dimenticò veramente tutte le disgrazie che gli erano successe. Separandosi, si dettero appuntamento per la sera sul Corso, decidendo di comparire con le maschere più pazze che si potessero inventare.
Il costume che aveva già una volta indossato parve a Giglio sufficientemente mostruoso; questa volta però non esitò neanche a infilarsi quello stravagante paio di pantaloni lunghi, e per di più attaccò il mantello a un bastone dietro le spalle, cosicché sembrava quasi che gli fosse spuntata una bandiera sulla schiena. Così acconciato si mise a percorrere le strade avanti e indietro, abbandonandosi allo sfrenato piacere di non preoccuparsi più né per la sua immagine di sogno, né per l'innamorata perduta.
Ma rimase davvero di stucco quando, poco lontano dal Palazzo Pistoia, improvvisamente gli si parò davanti un'alta, nobile figura, che indossava quel magnifico abito, vestita del quale una volta Giacinta l'aveva sorpreso, o meglio, quando scorse davanti a sé la sua immagine di sogno, proprio come se fosse stata vera. Attraverso tutte le membra gli passò come un fulmine; ma egli stesso non sapeva come quell'angoscia, quella paura della passione d'amore che di solito riesce a paralizzare i sensi, di fronte alla superba immagine dell'amata si fossero invece improvvisamente volatilizzate, per far posto a un lieto coraggio e a un tale piacere quali mai aveva provato nel suo animo. Il piede destro in avanti, il petto in fuori, le spalle ben erette, egli si mise subito nella posa più elegante, in cui era solito recitare le parti più straordinarie, si tolse dalla ispida parrucca il berretto con le lunghe e appuntite penne di gallo e iniziò a parlare, mantenendo sempre il tono nasale che si adattava al suo travestimento, e guardando costantemente fissa attraverso gli occhialoni la principessa Brambilla (poiché di lei si trattava, non c'era il minimo dubbio): «La più splendida delle fate, la più nobile delle dee si aggira sulla terra; l'invidiosa cera della maschera nasconde la trionfante bellezza del suo volto, ma dallo splendore che lo circonda si irraggiano mille lampi che colpiscono il petto del vecchio come del giovane, e tutti infiammati d'amore e di passione rendono omaggio alla divina».
«Ma», replicò la principessa, «ma in quale pomposa tragedia siete andato a pescare questo bel modo di parlare, mio caro Pantalon Capitano, o chiunque altri possiate voler impersonare?... Ditemi piuttosto, a quali vittorie alludono i trofei che portate tanto orgogliosamente sulle spalle?». «Nessun trofeo», esclamò Giglio, «perché per la vittoria sto ancora combattendo!... Quella che ho innalzato è la bandiera della speranza, della nostalgica e appassionata bramosia cui mi sono consacrato, il segnale di pericolo della capitolazione incondizionata, l"'abbiate pietà di me" che da queste pieghe deve riuscire a farvi vento. Prendetemi come cavaliere, principessa! Solo allora combatterò, vincerò e porterò trofei, per la miglior fama della vostra grazia e della vostra bellezza». «Se volete esser mio cavaliere», replicò la principessa, «allora armatevi come si conviene! Copritevi il capo d'un elmo minaccioso, afferrate la buona, forte spada! Allora soltanto potrò credervi». «Se volete esser la mia dama», fece eco Giglio, «l'Armida di Rinaldo, siatelo completamente! Toglietevi questi magnifici gioielli che mi disturbano, e mi avvincono come una pericolosa magia. Questa splendente macchia di sangue...». «Siete fuor di senno!», gridò vivacemente la principessa, e allontanandosi rapida piantò lì in asso Giglio.
A Giglio sembrava di non essere stato affatto lui a parlare con la principessa, come se avesse pronunciato del tutto involontariamente cose che neppure lui stesso capiva; ed era quasi sul punto di credere che il signor Pasquale e Mastro Bescapi avessero ragione, quando dicevano che era un po' matto. Ma poiché si stava avvicinando un corteo di maschere che rappresentavano nelle maniere più assurde tutti i parti mal riusciti della fantasia, e poiché egli aveva immediatamente riconosciuto i suoi compagni, gli tornò subito la sua allegria dimenticata. Si mescolò dunque al gruppo che saltava e ballava, gridando forte: «Muoviti, muoviti, pazzo fantasma! Muovetevi, possenti e burloni spiriti dello scherzo più spudorato! Ora sono tutto vostro, e potete considerarmi vostro simile!».
Giglio credette di notare in mezzo ai suoi compagni anche il vecchio dalla cui fiasca era uscita la figura della principessa Brambilla. Ma ancor prima che potesse accertarsene, quello lo aveva afferrato e girato per le spalle, bisbigliandogli nell'orecchio: «Fratellino, t'ho acchiappato! Fratellino, t'ho acchiappato!...».
CAPITOLO TERZO
Di quei biondi che si permettono di trovare Pulcinella noioso e di cattivo gusto. - Divertimenti tedeschi e italiani. - Come Celionati, seduto al «Caffè Greco», sostenesse di non star seduto al «Caffè Greco», bensì di fabbricare rappé parigino sulle rive del Gange. - Meravigliosa storia del re Ofioch, che regnava sul paese detto del Giardino di Urdar, e della regina Liris. - Come il re Cofetua sposò una giovane mendicante, così un'elegante principessa corse dietro a un cattivo attore, e Giglio mise mano a una spada di legno, travolse sul Corso cento maschere, finché alla fine si fermò, poiché il suo Io aveva incominciato a ballare.
«Voi biondi!... Voi con gli occhi azzurri! Voi giovani arroganti, al cui "Buona sera, bella fanciulla!", pronunciato con minacciosa voce di basso, si spaventa persino la più impudente donna di malaffare, può il vostro sangue congelato nell'eterna brina invernale sciogliersi nella raffica selvaggia della tramontana, o nel calore ardente di un canto d'amore? A che pro vi vantate della vostra immensa gioia di vivere, del vostro fresco buonumore, se non riuscite a trovare in voi stessi alcun senso per il più pazzo, il più divertente divertimento di tutti i divertimenti, così come ci viene offerto, nella sua più grande pienezza, dal nostro benedetto carnevale?... Voi, che osate addirittura trovare a volte noioso e di cattivo gusto il nostro prode Pulcinella, e definire prodotti di uno spirito impazzito i più buffi mostri partoriti dal più comico sarcasmo!». Così andava dicendo Celionati al «Caffè Greco» dove, secondo la sua abitudine, si era recato a sera, prendendo posto in mezzo agli artisti tedeschi i quali, alla stessa ora, erano soliti frequentare quel locale situato nella strada Condotti, dove ora si lasciavano andare ad aspre critiche sulle buffonate del carnevale.
«Come potete», prese a dire il pittore tedesco Franz Reinhold, «come potete parlare così, mastro Celionati! Ciò contrasta di molto con quanto siete solito sostenere a favore dello spirito e dell'essenza dei tedeschi. Certo, a noi tedeschi avete sempre rimproverato di pretendere che qualsiasi scherzo voglia significare un'altra cosa dallo scherzo in sé e per sé, e io vi dò certamente ragione, per quanto in un senso completamente diverso da quello che voi possiate intendere. Che Dio vi perdoni, se doveste in qualche modo attribuirci la stupidità di far valere l'ironia solo allegoricamente! Allora vi sbagliereste di grosso. Noi ci rendiamo ben conto che presso voi italiani il puro scherzo sembra essere molto più di casa che non da noi; ma vorrei però cercare di chiarirvi bene quale differenza io trovi tra il vostro e il nostro scherzo, o meglio, tra la vostra e la nostra ironia... Ora, stavamo proprio parlando delle assurde e mostruose maschere che passeggiano sul Corso; a esse posso riallacciarmi per una specie di paragone... Se io vedo uno di questi tipi buffi spingere il popolo a ridere mediante orrende smorfie, mi pare allora come se a lui stesse parlando un archetipo che, dopo esserglisi rivelato, non gli lasciasse comprendere le sue parole, mentre quello cerca - proprio come accade nella vita, quando si tenta di cogliere il senso di discorsi strani e incomprensibili - di imitarne arbitrariamente i gesti, per quanto in maniera eccessiva, a causa della fatica che costa tutto ciò. Il nostro scherzo invece è la lingua stessa di quell'archetipo, la quale risuona proprio a partire dal nostro interno, e che determina la necessità del gesto mediante quel principio dell'ironia che si trova di dentro, così come la roccia che giace sul fondo di un impetuoso torrente costringe la sua superficie a formare tante onde increspate... Non crediate però, Mastro Celionati, che io non abbia il gusto del burlesco che si trova proprio nelle apparenze esteriori e che trae i suoi motivi solo dall'esterno, e che nel vostro popolo non rintracci una forza straordinaria nel far entrare il burlesco all'interno della vita. Ma perdonate, Celionati, se io affermo che il burlesco, per essere tollerato, necessita di un'aggiunta di serenità che invece non trovo affatto nei vostri personaggi. La serenità, che è ciò che mantiene puro il nostro scherzo, soccombe invece in quel principio di oscenità che muove il vostro Pulcinella e cento altre simili maschere, e così in mezzo a tutti gli scherzi e le burle compare quella tremenda, spaventosa furia dell'ira, dell'odio e della disperazione che vi spinge alla pazzia, all'assassinio. Quando, in quel giorno di carnevale in cui ciascuno porta una candela e tutti cercano di spengere la candela degli altri, e quando poi nel più pazzo e scatenato giubilo e tra le più rimbombanti risate tutto il Corso trema all'urlo: "Ammazzato sia chi non porta moccolo", credetemi davvero, Celionati, che proprio nel momento in cui anch'io, completamente trasportato dalla forsennata allegria del popolo, più forte degli altri soffio e grido: "Ammazzato sia!", vengo preso da misteriosi brividi, di fronte ai quali non può assolutamente nascere quella serenità che è propria del nostro spirito tedesco».
«Serenità», disse Celionati ridacchiando, «serenità!... Ditemi dunque, mio sereno signor tedesco, che ne pensate delle nostre maschere teatrali? Del nostro Pantalone, Brighella, Tartaglia?» .
«Eh», replicò Reinhold, «penso che queste maschere spalancano una miniera inesauribile degli scherzi più divertenti, dell'ironia più pungente, dei capricci più liberi e vorrei quasi dire più sfrontati, come penso anche che esse facciano riferimento molto più alle manifestazioni esteriori della natura umana che non alla natura umana in sé e per sé o, per meglio dire, che esse si rivolgano molto più agli uomini in generale che non all'essere umano in particolare... Del resto, caro Celionati, vi prego di non prendermi per pazzo se metto abbastanza in dubbio il fatto che nella vostra nazione si trovino persone dotate dell'umorismo più profondo. Questa chiesa invisibile non fa differenza tra le nazioni; essa ha membri ovunque... E se vi dicessi, caro Mastro Celionati, che voi stesso, con l'insieme dei vostri modi e dei vostri atti, ci sembrate già da lungo tempo un bel po' stravagante? Come riuscite a mostrarvi al popolo nei panni del più fantasioso ciarlatano, e poi, quando vi ritrovate in nostra compagnia, dimentico di tutto ciò che è italico, a deliziarci con storie straordinarie che ci colpiscono nel profondo dell'animo, finché con le vostre fole e fiabe non finite per invischiarci e tenerci prigionieri con i lacci di una strana magia? In effetti, il popolo ha ragione quando strombazza ai quattro venti che siete uno stregone; da parte mia, penso semplicemente che voi apparteniate a quella chiesa invisibile che vanta membri tra i più straordinari, sebbene siano tutti nati dalle stesse radici».
«Ma che potete dire», esclamò Celionati tutto concitato, «che potete pensare voi di me, mio signor pittore, che potete pensare, sospettare, congetturare?... Siete dunque voi tutti tanto convinti che io sieda davvero qui tra voi a chiacchierare inutilmente di cose inutili, delle quali comunque nessuno di voi capisce nulla, anche se non avete ancora guardato dentro il chiaro specchio d'acqua della fonte di Urdar, e se Liris non vi ha ancora sorriso?».
«Oh oh!», esclamarono allora tutti assieme, «ecco che torna alle sue solite peripezie, alle sue solite peripezie... Avanti, signor stregone!... Avanti». «Ma avete o no sale in zucca?» esclamava intanto Celionati, tempestando il tavolo di pugni tanto forti, che tutti finirono per tacere.
«Ma avete o no sale in zucca?», continuò poi più tranquillamente. «Che peripezie? Che balli? Vi chiedo soltanto come fate a essere tanto convinti che io sieda davvero qui tra voi a chiacchierare di ogni sorta di cose, che voi credete di percepire con le vostre orecchie, senza pensare che forse è solo un folletto d'aria un po' burlone che si fa gioco di voi. Chi vi assicura che quel Celionati, al quale voi ora volete dare a intendere che gli italiani non capiscono niente di ironia, non se ne stia invece proprio ora andando a passeggio sulle rive del Gange, cogliendo fiori profumati per fabbricare con essi del rappé parigino per il naso di qualche idolo magico?... O che non stia camminando per le oscure e spaventose tombe di Menfi, per interpellare il più vecchio dei re circa l'uso officinale del dito mignolo del suo piede sinistro per la più fiera principessa del Teatro Argentina?... O ancora che non sia sprofondato in profondi discorsi alla Fonte di Urdar con il suo più intimo amico, il mago Ruffiamonte?... Ma basta, voglio davvero far finta che Celionati sia veramente seduto qui al "Caffè Greco", e raccontarvi del re Ofioch, della regina Liris e dello specchio d'acqua della Fonte di Urdar, se vi compiacerete di stare ad ascoltare».
«Raccontate», disse uno dei giovani artisti, «raccontate, dunque, Celionati; già sento che si tratterà di una di quelle vostre storie tanto straordinarie e avventurose, così belle da sentire» .
«Purché», cominciò Celionati, «purché nessuno di voi creda che io vi stia qui a imbastire storie senza senso, dubitando che tutto sia davvero accaduto proprio come io lo racconto! Del resto, qualsiasi dubbio sparirà se io vi garantisco che ho appreso tutto quanto dalla bocca del mio amico Ruffiamonte il quale in un certo senso è anche il protagonista di questa storia. Appena un paio di centinaia d'anni fa, passeggiando insieme tra i vulcani dell'Islanda alla ricerca di un certo talismano venuto fuori dai flutti e dalla lava, parlammo a lungo della Fonte di Urdar. Dunque, aprite bene le orecchie, schiudete gli animi!».
... E qui, mio carissimo lettore, devi metterti di buon grado ad ascoltare una storia che sembra essere del tutto al di fuori di quegli avvenimenti che ho iniziato a raccontarti, ponendosi così come uno spiacevole inciso. Ma come a volte accade, che pur continuando caparbiamente su di un sentiero che apparentemente porta fuori strada, si approda invece improvvisamente alla meta, che prima si era persa di vista, allo stesso modo potrebbe darsi che questo episodio sia solo apparentemente una falsa strada, e che porti invece dritto al nocciolo della storia principale. Ascolta dunque, o mio lettore, la meravigliosa
Storia del re Ofioch e della regina Liris.
Tanto tanto tempo fa, e si potrebbe anche dire in un tempo che seguiva immediatamente il Tempo dell'Origine, proprio come il mercoledì delle Ceneri segue il martedì grasso, regnava sul paese detto del Giardino di Urdar il giovane re Ofioch... Io non so se il tedesco Büsching abbia descritto il paese del Giardino di Urdar con precisione geografica; ma quel che è certo è il fatto che, come del resto mi ha mille volte assicurato il mago Ruffiamonte, esso apparteneva ai paesi più benedetti da Dio che siano mai esistiti e mai esisteranno. Aveva pascoli e prati di trifoglio tanto opulenti che il più pingue bestiame non avrebbe mai avuto il desiderio di abbandonare la cara patria, e poi stupende foreste con alberi e piante, abbondante selvaggina e profumi così dolci che i venti della mattina e della sera non si saziavano mai di spirarvi attorno. C'era vino e olio e frutta di ogni tipo in gran quantità. Acque argentine attraversavano tutto il paese, oro e argento venivano regalati dalle montagne, le quali, come fanno le persone veramente ricche, si abbigliavano con grande semplicità d'un grigio sfumato, e chiunque si desse un po' di pena poteva scavare dalla sabbia le più belle pietre preziose, da usare a suo piacimento come bottoni per giacche e camicie. Se, al di fuori della residenza reale, tutta in marmo e alabastro, non v'erano vere e proprie costruzioni in pietra, ciò era dovuto alla mancanza di cultura che, a quel tempo, non faceva ancora capire agli uomini quanto sia meglio star distesi su di una comoda poltrona, protetti da solide mura, che non abitare accanto a un fragoroso torrente, in una bassa capanna circondata da fronde ondeggianti, esposti al pericolo che questo o quell'albero sfrontato spinga un suo ramo fin dentro la finestra e simile a un ospite sgradito, dica la sua su qualsiasi argomento, o addirittura che la vite e l'edera giochino a fare i tappezzieri. Se si aggiunge poi che gli abitanti del paese del Giardino di Urdar erano i più straordinari patrioti e amavano moltissimo il loro re, anche se non capitava loro di vederlo spesso, e che gli gridavano «Evviva!» anche in giorni diversi dal suo compleanno, allora si deve ben dire che il re Ofioch era davvero il più felice monarca della terra. E ciò avrebbe potuto esser vero se non lui solo, ma anche molti altri nel paese, che si potevano annoverare tra i più saggi, non fossero caduti in una certa strana tristezza che, pur tra tanta magnificenza, non lasciava penetrare alcuna gioia. Il re Ofioch era un giovane giudizioso, di buoni princìpi e di chiaro intelletto, anche dotato di senso poetico. E tutto questo potrebbe apparire assolutamente incredibile e inammissibile, se non fosse spiegabile e scusabile per via dell'epoca in cui egli viveva.
Ma nell'anima di re Ofioch riecheggiavano probabilmente ancora i suoni di quella meravigliosa epoca primigenia della più grande felicità, quando la natura comunicava all'uomo, proteggendolo e curandolo come sua creatura prediletta, la concezione immediata dell'esistente e, con essa, la comprensione del più alto ideale, della più pura armonia. Poiché spesso gli pareva quasi che gli parlassero dolci voci nel segreto fruscio del bosco, nello stormire delle fronde e nel sussurro delle fonti; che dalle nuvole dorate scendessero fino a lui braccia splendenti per abbracciarlo, mentre il petto gli si gonfiava di bruciante nostalgia. Ma poi tutto crollava in rovine deserte e sconnesse, e lo sfiorava l'ala ghiacciata di un cupo e terribile demonio, che lo aveva strappato da sua madre, ed egli si vedeva impotente e abbandonato da lei infuriata. La voce del bosco, delle lontane montagne, che di solito risvegliavano in lui la nostalgia e i dolci ricordi di una gioia ormai passata, si trasformava nel ghigno di quell'oscuro demonio. Ma il soffio bruciante di quel ghigno accese nell'animo del re Ofioch la folle idea che la voce del demonio fosse la voce della madre in collera, la quale ora come nemica tentava di annientare il proprio figlio rinnegato.
Come si è detto, alcuni nel paese avevano colto la malinconia del re e, comprendendola, ne erano stati anch'essi colpiti. Ma la maggior parte delle persone non capivano quella tristezza, e in modo particolare non la capiva l'intero consiglio di stato che, per il bene del regno, era rimasto savio.
In questa sua ottima condizione, il consiglio di stato credette di comprendere che niente altro poteva salvare il re Ofioch dalla sua profonda malinconia che il ricevere in sposa una buona fanciulla graziosa e allegrissima. Gli occhi di tutti furono così sulla principessa Liris, la figlia del re di un paese vicino... E la principessa Liris era davvero bella come ci si può immaginare solo la figlia di un re. Ma sebbene tutto ciò che la circondava, o che lei vedeva o sentiva, passasse oltre senza lasciar tracce nel suo spirito, ella rideva costantemente, e poiché nel paese del Giardino di Hirdar (così era chiamato il regno di suo padre) non ci si sapeva immaginare alcuna ragione di questa contentezza, proprio come accadeva nel Giardino di Urdar per la tristezza del re Ofioch, così, le due anime regali sembravano fatte l'una per l'altra. Del resto, il solo divertimento della principessa che si configurasse come vero e proprio divertimento era quello di lavorare a tombolo, circondata dalle sue dame di compagnia, che dovevano anche loro far la stessa cosa, così come il re Ofioch sembrava trovar piacere solo nell'inseguire in assoluta solitudine gli animali del bosco... Il re Ofioch non ebbe assolutamente nulla da obiettare contro la sposa che gli era stata prescelta; anzi, per lui tutto il matrimonio fu solo un affare di stato del tutto indifferente, che abbandonò alle preoccupazioni dei suoi ministri, i quali l'avevano preso tanto a cuore.
Le nozze vennero celebrate con tutto lo sfarzo possibile. Tutto procedette benissimo e molto felicemente, finché non accadde un piccolo incidente al poeta di corte, a cui il re Ofioch gettò sulla testa il carme nuziale offertogli da costui, cosicché questi, per lo spavento e l'ira, cadde all'istante preda di una terribile pazzia, per via della quale egli si immaginò di possedere un animo talmente poetico da non poter ormai più continuare a far versi, diventando da quel momento in poi incapace di assolvere il suo compito di poeta di corte.
Passarono settimane e mesi; ma in re Ofioch non si manifestava la benché minima traccia di una diversa disposizione d'animo. I ministri, cui la ridente regina piaceva enormemente, continuavano a consolare il popolo e se stessi, dicendo: «Verrà, verrà!».
Ma non venne un bel niente; anzi, il re Ofioch diventava di giorno in giorno ancora più severo e triste di quanto non fosse mai stato e, quel che è peggio, nel suo animo si faceva strada una profonda avversione per la regina ridente; cosa che però costei non sembrava affatto notare, e del resto era quasi impossibile stabilire se al mondo ella si accorgesse di qualcos'altro che non fossero i fusi del tombolo.
Avvenne allora che il re Ofioch capitò un giorno, durante la caccia, nella parte più selvaggia e cupa del bosco, dove si stagliava alta nel cielo una torre di pietra nera, antichissima come la creazione, e che pareva cresciuta dalle rocce stesse. Un cupo mugghìo attraversava le cime degli alberi, e dai profondi baratri rocciosi rispondevano voci ululanti e lamenti che straziavano il cuore. In questo luogo spaventevole, l'animo di re Ofioch fu toccato in un modo stranissimo e meraviglioso. Gli sembrò infatti come se in ciascuna spaventosa sillaba di quei profondissimi gemiti rilucesse un bagliore di speranza per la riconciliazione; e gli parve anche di non percepire più l'ira beffarda, ma anzi! solo i toccanti lamenti della madre per il figlio perduto e rinnegato; e gli parve anche che tali lamenti gli arrecassero consolazione, poiché la madre non sarebbe stata adirata in eterno.
Proprio mentre il re Of ioch se ne stava lì, perduto nei suoi pensieri, un'aquila si levò in volo e si librò sopra i merli della torre. Involontariamente, il re Ofioch afferrò l'arco e scagliò una freccia verso l'aquila; ma, invece di colpire questa, la freccia si conficcò nel petto di un venerabile vecchio, che solo in quel momento il re Ofioch scorse sui merli della torre. E lo spavento si impadronì di lui quando si rammentò del fatto che la torre era il punto prescelto per l'osservazione astronomica e che, come dice la leggenda, su di essa gli antichi re del paese erano soliti salire in notti piene di mistero per poi, quali intermediari designati tra il popolo e la dominatrice di tutti i viventi, annunciare al popolo la volontà e le sentenze dei potenti. Si rese allora conto di trovarsi proprio nel luogo che tutti evitavano accuratamente, poiché si diceva che sui merli della torre si trovasse il vecchio mago Ermodio, caduto in un sonno millenario, e che se fosse stato svegliato da questo sonno, allora si sarebbe scatenata l'ira degli elementi, che sarebbero entrati in lotta gli uni contro gli altri, e in questa battaglia tutto sarebbe stato distrutto.
Profondamente turbato, il re Ofioch stava per cadere a terra; ma proprio in quel momento si sentì toccare delicatamente, e vide davanti a sé il mago Ermodio, con in mano la freccia che l'aveva colpito al petto, e con un dolce sorriso che illuminava i severi e venerabili tratti del suo volto; egli così parlò: «Tu mi hai risvegliato da un lungo sonno profetico, re Ofioch! Che tu sia ringraziato per questo, poiché ciò è avvenuto nel momento giusto. È infatti ormai giunto per me il momento di recarmi in Atlantide, per ricevere dalle mani della grande e potente regina il dono che mi promise quale segno della riconciliazione e che ora, o re Ofioch, dovrà far scomparire dal tuo cuore la spina che lo dilania. Il pensiero disintegra l'intuizione, ma il prisma di quel cristallo scaturito dalla lotta nuziale tra i flutti infuocati e il veleno nemico irradia la nuova intuizione, figlia essa stessa del pensiero!... Vivi in pace, re Ofioch! Tra tredici volte tredici lune mi vedrai di nuovo, e io ti porterò il più bel dono della madre riconciliata, che scioglierà il tuo dolore nel piacere più grande, davanti al quale si liquefà il carcere di ghiaccio in cui la tua sposa, la regina Liris, è da tanto tempo tenuta prigioniera dal più temibile di tutti i dèmoni... Addio, re Ofioch!».
Con queste misteriose parole, il vecchio mago si separò dal giovane re, scomparendo nel folto del bosco.
Se il re Ofioch era stato prima triste e pensieroso, ora lo divenne molto di più. Le parole del vecchio Ermodio erano rimaste impresse nella sua anima; ed egli le ripeté all'astrologo di corte, che avrebbe dovuto interpretarne il senso, per lui oscuro. L'astrologo di corte le interpretò però dicendo che in realtà in esse non era contenuto alcun senso; poiché infatti non esisteva alcun prisma e nessunissimo cristallo, e in ogni caso, come sapeva benissimo ogni alchimista, essi non potevano certo venir fuori da flutti infuocati e da veleno nemico, e poi, tutto quello che Ermodio, nel suo discorso sconnesso, aveva detto del pensiero e della nuova intuizione, era comunque destinato a restare incomprensibile, proprio perché nessun astrologo né filosofo di una qualche onesta preparazione si sarebbe avventurato nella lingua priva di senso di quell'epoca rozza, alla quale apparteneva il mago Ermodio. Il re Ofioch non solo non rimase per niente soddisfatto di questo discorso ma, pieno di collera, aggredì duramente l'astrologo, e fu una vera fortuna che in quell'istante non avesse nulla tra le mani da tirare in testa a quello sciagurato, come aveva fatto con il carme del poeta di corte. Ruffiamonte sostiene, sebbene di ciò non ci sia traccia nelle cronache e solo la leggenda popolare del Giardino di Urdar lo dia per certo, che in questa circostanza il re Ofioch abbia dato dell'asino all'astrologo di corte. Poiché dunque il giovane e malinconico re non riusciva proprio a togliersi dal cuore quelle mistiche parole del mago Ermodio, egli decise alla fine di trovarne da sé il senso, a qualsiasi prezzo. Su di una lapide di marmo nero fece iscrivere a lettere d'oro queste parole: «Il pensiero distrugge l'intuizione» e tutto il resto che aveva detto il mago, e poi fece murare la lapide in una sala lontana e cupa del suo palazzo. Davanti alla lapide egli si sedette su di un morbido divano imbottito e, poggiata la testa sulla mano e fissando l'iscrizione, si abbandonò a profonde meditazioni.
Avvenne allora che la regina Liris capitasse del tutto casualmente nella sala in cui il re Ofioch stava davanti all'iscrizione. Ma sebbene ella, secondo la sua abitudine, ridesse tanto forte che le pareti tremavano, tuttavia il re sembrò non accorgersi per nulla della sua cara e allegra compagna. Non distolse infatti il suo sguardo fisso dalla nera lapide di marmo. Alla fine, anche la regina Liris vi volse gli occhi. E non appena ebbe letto le misteriose parole, il suo riso si spense, e lei in silenzio cadde seduta sul divano accanto al re. E dopo che tutti e due, il re Ofioch e la regina Liris, ebbero fissato per un certo tempo l'iscrizione, cominciarono a sbadigliare sempre più forte, finché non chiusero gli occhi e non sprofondarono in un sonno profondo come la morte, da cui nessun artificio umano riuscì a svegliarli. Li si sarebbe creduti morti, e li si sarebbe sepolti nella cripta reale con tutte le cerimonie d'uso nel paese del Giardino di Urdar, se il leggero respiro, il polso che seguitava a battere e il colorito dei volti non fossero stati segnali inequivocabili che la vita continuava. Visto che oltretutto a quell'epoca mancava ancora un erede, il consiglio di stato prese la decisione di governare al posto del re Ofioch dormiente, e seppe farlo con tanta abilità che nessuno ebbe anche solo a sospettare il letargo del monarca... Erano trascorse tredici volte tredici lune dal giorno in cui il re Ofioch aveva avuto quell'importante colloquio con il mago Ermodio e allora gli abitanti del Giardino di Urdar ebbero modo di assistere a uno spettacolo così fantastico quale mai avevano.
Il grande mago Ermodio fece infatti la sua apparizione in quel luogo, sopra una nuvola di fuoco, circondato da spiriti elementari dei due sessi e, mentre nell'aria risuonava con misteriosi accordi tutta l'armonia della natura, atterrò sul tappeto fiorito di un bel prato profumato. Sopra la sua testa sembrava splendere una stella lucente, il cui bagliore infuocato la vista non poteva sostenere. Ma essa non era altro che un prisma di abbagliante cristallo che però, poiché il mago lo teneva sollevato nell'aria, cominciò a sciogliersi in gocce brillanti che cadevano a terra, facendo sgorgare all'istante in un lieto mormorio la più bella fonte argentina.
A quel punto, tutto si mise in movimento attorno al mago. Mentre gli spiriti della terra si immergevano nelle profondità, gettando su fiori di metallo brillante, gli spiriti del fuoco e dell'acqua fluttuavano tra poderosi guizzi dei loro elementi, e gli spiriti dell'aria sibilavano e turbinavano tra loro, combattendo e giostrando come in uno scherzoso torneo. Il mago si sollevò alto nell'aria, dischiudendo il suo ampio mantello; allora tutto fu avvolto da un fitto velo di rugiada che si levava da terra, e quando essa si fu dissipata, al posto dell'arena degli spiriti si era formato uno splendido e chiarissimo specchio d'acqua, che racchiudeva pietre splendenti, piante e fiori, e nel cui centro zampillava lieta la sorgente che, quasi in uno scherzo faceto, mandava tutt'attorno le sue onde increspate.
Nel preciso istante in cui il misterioso prisma del mago si sciolse, formando la sorgente, la coppia reale si ridestò dal suo lungo sonno incantato. Entrambi, il re Ofioch e la regina Liris, spinti da un'irresistibile bramosia, si affrettarono subito lì. Furono i primi a guardare dentro l'acqua. Ma quando, nella sua sconfinata profondità, scorsero lo scintillante cielo blu, i cespugli, gli alberi, i fiori, tutta la natura, e il loro stesso Io che vi si specchiava rovesciato, allora fu come se un nero velo si sollevasse, e apparisse chiaro davanti ai loro occhi un nuovo mondo fantastico, pieno di vita e di gioia, e con la scoperta di questo mondo si accese nel loro animo un entusiasmo che non avevano mai conosciuto né sospettato. Dopo aver a lungo guardato dentro l'acqua, si sollevarono, si guardarono l'un l'altra e... risero; così infatti dev'esser definita l'espressione fisica non tanto del più profondo benessere interiore, quanto della felicità per la vittoria delle interne forze psichiche... Se la trasfigurazione che era avvenuta sul volto della regina Liris e che ora conferiva ai suoi bei tratti vera vita vero fascino celeste, non avesse già da sola testimoniato del cambiamento del suo stato d'animo, tutti lo avrebbero però indovinato dal modo in cui ora ella rideva. Poiché infatti il suo riso era così totalmente diverso da quello con cui prima aveva sempre tormentato il re, che molte persone sensate furono del parere che non era più lei a ridere, bensì un altro meraviglioso essere nascosto dentro di lei. Le stesse circostanze valsero anche per il riso del re Ofioch. Dopo che ebbero riso per un po' in questo modo tutto loro, esclamarono più o meno all'unisono: «Oh!... prima giacevamo tra sogni terribili in una terra deserta e inospitale, e ora ci siamo svegliati in patria... ora ci riconosciamo in noi stessi, e non siamo più creature rinnegate!...». Poi si gettarono l'uno sul petto dell'altra, con l'espressione dell'amore più profondo... Durante quest'abbraccio, tutti quelli che riuscirono a radunarsi lì attorno guardarono nell'acqua; e coloro che erano stati contagiati dalla tristezza del re, guardando dentro l'acqua, sentirono lo stesso effetto della coppia reale; mentre gli altri, che erano sempre stati lieti, rimasero del loro consueto umore. Molti medici giudicarono quell'acqua comunissima, senza particolari aggiunte di minerali; ma alcuni filosofi sconsigliarono nel modo più assoluto di guardar dentro quello specchio d'acqua, poiché l'essere umano, se vede se stesso e il mondo a rovescio, facilmente perde l'equilibrio. Tuttavia ci furono alcuni membri della classe più colta del paese che sostennero che non esisteva proprio nessuna Fonte di Urdar... E proprio Fonte di Urdar venne subito chiamata dal re e dal popolo quell'acqua straordinaria, sgorgata dal misterioso prisma di Ermodio... Il re Ofioch e la regina Liris caddero subito entrambi ai piedi del grande mago Ermodio, che aveva portato loro la salvezza e la felicità, ringraziandolo con le più belle parole ed espressioni che in quel momento vennero loro in mente. Il mago Ermodio li fece alzare con atteggiamento austero e grave, strinse al suo petto prima la regina e poi il re e promise loro, poiché il bene del paese del Giardino di Urdar gli stava molto a cuore, di farsi vedere sull'osservatorio in eventuali momenti critici. Il re Ofioch volle allora baciargli la veneranda mano, ma questi non lo permise assolutamente, e anzi si levò immediatamente nell'aria. Da lassù gridò ancora queste parole, con una voce che riecheggiava come tante campane metalliche suonate a festa: «Il pensiero distrugge l'intuizione e, strappato dal seno materno l'essere umano vaga senza patria tra folli illusioni e nel cieco torpore, finché l'immagine del pensiero non dà al pensiero stesso la consapevolezza di esistere, insegnandogli a comandare come un signore, ma anche a obbedire come un vassallo, nella profondissima e ricchissima miniera dischiusagli dalla sua regale madre».
Fine della storia del re Ofioch e della regina Liris.
Celionati tacque, e anche i giovani rimasero in silenzio, sprofondati a riflettere sulla storiella del vecchio ciarlatano, che si erano però immaginati completamente diversa.
«Signor Celionati», così infine Franz Reinhold ruppe il silenzio, «la vostra storiella sa di Edda, di Voluspa, di Sanscrito, o che so io, di qualche altro antico libro mitico; ma, se vi ho ben capito, la Fonte di Urdar data agli abitanti del paese del Giardino di Urdar per farli felici non è altro che ciò che i tedeschi chiamano umorismo, quella meravigliosa forza del pensiero che nasce dalla più approfondita osservazione della natura e che è capace di creare un proprio doppio ironico, le cui bizzarre stupidaggini gli rendano possibile riconoscere anche... sì, voglio mantenere questa parola spregiativa... le proprie stupidaggini, e quelle di tutto l'esistente, divertendosene. Ma in realtà, Mastro Celionati, con il vostro mito avete mostrato che siete anche esperto di ben altri scherzi che non quelli del vostro carnevale; d'ora in poi, considero che facciate parte di quella chiesa invisibile, e mi inginocchio dinanzi a voi, come il re Ofioch dinanzi al gran mago Ermodio; poiché anche voi siete un potente stregone».
«Ma che dite», esclamò Celionati, «ma che ragionate di favole, di miti? Vi ho forse raccontato, ho forse inteso raccontarvi qualcosa di diverso da una bella storia, tratta dalla vita del mio amico Ruffiamonte?... Voi certo sapete che costui, mio intimo amico, è proprio il grande mago Ermodio, che ha salvato il re Ofioch dalla sua tristezza. E se proprio non mi volete credere, potete chiedere a lui conferma di tutto; poiché infatti si trova qui, e abita nel Palazzo Pistoia». Celionati aveva appena nominato il Palazzo Pistoia, che ciascuno si rammentò del più straordinario e incredibile di tutti i cortei mascherati, che pochi giorni prima era penetrato proprio dentro quel palazzo, e allora presero a tempestare il bizzarro ciarlatano con cento domande su ogni possibile relazione con lui, in quanto essi consideravano come logica premessa il fatto che, essendo egli stesso un'avventura su due gambe, doveva senz'altro essere meglio informato di chiunque altro riguardo a tutte le cose straordinarie che si erano manifestate nel corteo.
«Certamente», esclamò Reinhold ridendo, «certamente quel bel vecchietto, quello che seduto dentro al tulipano si occupava di scienze varie, era il vostro intimo amico, il grande mago Ermodio, vale dire il negromante Ruffiamonte?».
«Infatti», replicò Celionati pacato, «è proprio così, figlio mio! Ma forse non è ancora arrivato il momento di parlare di ciò che avviene in Palazzo Pistoia... Dunque!... Se il re Cofetua ha sposato una fanciulla mendicante, allora anche la grande e potente principessa Brambilla può certo correr dietro a un cattivo attore». E così Celionati lasciò il caffè, e nessuno capì né intuì che cosa avesse voluto dire con le ultime parole; ma poiché questo con i discorsi di Celionati accadeva molto spesso, nessuno si dette particolarmente la pena di starci ancora a pensare... Mentre tutto questo accadeva al «Caffè Greco», Giglio scorrazzava su e giù per il Corso nel suo stravagante costume. Secondo i desideri della principessa Brambilla, non aveva tralasciato di indossare un cappello, la cui falda esageratamente rialzata lo faceva assomigliare a uno straordinario elmo, né di armarsi a dovere con una grossa spada di legno. Tutto il suo animo era pieno della dama del suo cuore; ma lui stesso non capiva come potesse essere che conquistarsi l'amore della principessa non gli sembrasse più una cosa eccezionale, né una fortuna di sogno; ma anzi, in una sfrontata spavalderia, credeva alla necessità che ella dovesse diventar sua perché non poteva fare altrimenti. E questo penisiero accese in lui un'enorme allegria, che si faceva largo nelle smorfie più esagerate, e dinanzi alla quale egli stesso nell'animo era intimorito.
La principessa Brambilla non si fece vedere in alcun luogo ma Giglio gridava, completamente fuori di sé: «Principessa... colombella... cuoricino... ti troverò, vedrai, ti troverò!», e correva, scontrandosi con cento maschere tutt'attorno, finché i suoi occhi si fermarono su di una coppia di ballerini, che catturarono tutta la sua attenzione.
Un tipo assai buffo, vestito proprio come Giglio fin nel più piccolo dettaglio, e quasi un suo secondo Io per altezza, conformazione e così via, stava infatti ballando, mentre suonava al contempo la chitarra, con una signorina splendidamente vestita, che batteva le nacchere. Se Giglio era rimasto impietrito alla vista del suo Io danzante, tuttavia il suo petto si infiammò di nuovo quando osservò la fanciulla. Era convinto infatti di non aver mai visto tanta grazia e bellezza; ciascuno dei suoi movimenti svelava l'entusiasmo di una gioia tutta speciale, ed era proprio questo entusiasmo a conferire un'indicibile seduzione persino alla selvaggia sfrenatezza della danza.
Non si poteva infatti negare che proprio lo straordinario contrasto dei due ballerini produceva un effetto come di scurrilità, che costringeva a ridere anche tutti quelli che stavano lì in mezzo, in adorante ammirazione della bella fanciulla; ma proprio questo sentimento ambiguo, nato da tali contrastanti elementi, era ciò che alimentava nell'animo quell'entusiasmo per una gioia sconosciuta e indicibile, da cui erano presi sia la ballerina che il suo buffo compagno. A Giglio stava venendo un presentimento su chi potesse essere quella ballerina, quando accanto a lui una maschera disse: «Quella è la principessa Brambilla, che danza con il suo innamorato, il principe assiro Cornelio Chiapperi!».
CAPITOLO QUARTO
Dell'utile invenzione del sonno e del sogno, e che cosa ne pensi Sancio Panza. - Come un impiegato di Württenberg cadde per le scale, e Giglio non riuscì a guardare attraverso il proprio Io. Paraventi retorici, doppie sciocchezze e il moro bianco. - Come il vecchio principe Bastianello da Pistoia sparse semi d'arancia sul Corso e protesse le maschere. Il beau jour delle ragazze brutte. - Notizie della famosa maga Circe, che fabbrica lacci, nonché della graziosa erba serpentina, che cresce nella fiorita Arcadia. - Come Giglio per la disperazione si pugnalò, e dopo si mise a tavola, si servì con disinvoltura, ma poi augurò buona notte alla principessa.
Non dovrà apparirti strano, mio amatissimo lettore, se in una cosa che si chiama per l'appunto capriccio, ma che è tanto simile a una fiaba quasi lo fosse davvero, appaiono così tanti bizzarri fantasmi, tante fantasiose illusioni quante ne può ben nutrire e coltivare lo spirito umano, specialmente ogniqualvolta la scena teatrale viene trasferita all'interno dell'animo. Ma non potrebbe darsi che proprio questa in fin dei conti sia la scena più adatta? Forse anche tu, come me, mio caro lettore, sei dell'idea che lo spirito umano stesso sia la fiaba più straordinaria che esista. Quale mondo fantastico giace racchiuso nel nostro petto! Nessun ciclo solare può limitarlo, e i suoi tesori superano l'insondabile ricchezza di tutta la creazione visibile! Come sarebbe spenta, misera e cieca come una talpa la nostra esistenza, se lo spirito del mondo non avesse fornito a noi, poveri figli diseredati della natura, quell'inestinguibile miniera di diamanti nel nostro petto, dal quale nella luce e nello splendore ci appare quel regno meraviglioso che ormai ci appartiene! Beato colui che è pienamente conscio di questo possesso! E ancor più beato, e da considerare felice, è chi non solo riesce a contemplare le pietre preziose del Perú che sono dentro di lui, ma anche a portarle fuori, a tagliarle, ed a strappar loro una luce magnifica... Ma ora a noi!... Sancio era dell'avviso che Dio dovesse render merito a chi inventò il sonno, perché fu indubbiamente una persona davvero assennata; ma in verità ancor più dev'essere stimato chi ha inventato il sogno. Ma non quel genere di sogno che nasce dentro di noi solo quando giaciamo sotto la soffice coltre del sonno... no! quell'altro, quello che continuiamo a sognare per tutta la vita, che spesso prende sulle sue ali il peso opprimente dell'esistenza terrena, e davanti al quale si fa muta qualsiasi amara sofferenza, tace qualsiasi sconsolato lamento per le speranze deluse, poiché esso stesso, simile a un raggio celeste acceso nel nostro petto, insieme al desiderio infinito promette anche la sua realizzazione...
Questi pensieri vennero in mente a colui che, mio caro lettore, proprio per te si è messo a inscenare lo strano capriccio della principessa Brambilla, nel momento esatto in cui intendeva procedere a descrivere il bizzarro stato d'animo in cui si era venuto a trovare Giglio Fava mascherato, quando gli vennero sussurrate all'orecchio le parole: «Questa è la principessa Brambilla che balla con il suo innamorato, il principe assiro Cornelio Chiapperi!». Raramente gli autori riescono a tacere al lettore ciò che pensano di questa o di quella fase in cui si trovano i loro eroi; anzi, essi fanno fin troppo volentieri la parte del coro nel loro libro, e chiamano riflessioni tutto quello che in realtà non è affatto necessario alla storia, ma che vi si può infilare come elegante svolazzo. E proprio come elegante svolazzo possono dunque essere considerati anche i pensieri con cui è iniziato questo capitolo; poiché infatti essi sono altrettanto inutili per la storia in sé quanto per la descrizione dello stato d'animo di Giglio, che non era affatto così strano e inusuale come si potrebbe giudicare dalla rincorsa che ha preso il suo autore... Ma tagliamo corto!... A Giglio Fava, quando udì quelle parole, accadde semplicemente di sentirsi all'istante proprio l'assiro Cornelio Chiapperi che danzava con la principessa. Qualsiasi coscienzioso filosofo di solida esperienza riuscirà a spiegare questo fatto con la massima semplicità, cosicché persino un ginnasiale riuscirebbe a comprendere quest'esperimento dello spirito interiore. Il detto psicologo infatti non farà nulla di meglio che citare dal Repertorio di psicologia empirica di Mauchard il fatto dell'impiegato di Württemberg che, ubriaco, cadde per le scale e poi non la finiva più di commiserare il suo scrivano, che lo accompagnava, per la brutta caduta. «Dopo tutto», continuerà lo psicologo, «da ciò che finora sappiamo di Giglio Fava, costui soffre di una condizione che può essere assimilata completamente all'ubriachezza, a un'ubriachezza dello spirito, prodotta da certe forze eccentriche dell'Io che eccitano i nervi, e poiché gli attori in modo particolare sono molto inclini a questo genere di ubriacatura ecc. ecc.».
E dunque Giglio credeva di essere il principe assiro Cornelio Chiapperi; e sebbene questa non fosse una cosa tanto straordinaria, un po' più difficile da spiegare potrebbe essere da dove provenisse quella bizzarra gioia mai sentita prima, che penetrava tutto il suo animo con un fiammeggiante ardore. Sempre più forte suonava le corde della sua chitarra, sempre più folli e smisurati diventavano le sue smorfie e i salti della sua pazza danza. Ma il suo Io stava davanti a lui e, ballando e saltando anch'esso, faceva le sue stesse smorfie e con la larga spada di legno tirava in aria fendenti verso di lui... Brambilla era sparita!... "Oh oh", pensò Giglio, "è soltanto colpa del mio Io se non vedo la mia sposa, la principessa; non posso guardare attraverso il mio Io, e il mio stramaledetto Io vuole colpirmi con un'arma pericolosa, ma lo farò suonare e ballare fino alla morte, e allora io sarò veramente io, e la principessa sarà mia!".
Nel corso di questi pensieri alquanto confusi, i salti di Giglio si fecero sempre più convulsi, ma proprio in quell'attimo la spada di legno dell'Io colpì la chitarra così violentemente che essa volò in mille pezzi, e Giglio cadde a terra all'indietro in malo modo. La fragorosa risata della folla che aveva circondato i due danzatori risvegliò Giglio dai suoi sogni. Nel capitombolo gli erano caduti occhialoni e maschera, dunque venne riconosciuto e cento voci gridarono: «Bravo, bravissimo, signor Giglio!». Giglio si riprese e si affrettò ad allontanarsi da lì, poiché si era reso improvvisamente conto che era stato davvero sconveniente per un attore tragico l'aver offerto al pubblico uno spettacolo grottesco. Giunto che fu a casa sua, gettò via la brutta maschera, si nascose in un tabarro e tornò su via del Corso.
Nel suo vagare approdò alla fine davanti a Palazzo Pistoia, e qui si sentì afferrare da dietro, mentre una voce gli sussurava all'orecchio: «Se non m'ingannano il vostro passo e i vostri gesti, siete certo voi, mio onorevole signor Fava?».
Giglio riconobbe l'abate Antonio Chiari. Alla vista dell'abate gli rivennero in mente all'improvviso i bei tempi andati, quando egli ancora portava sulla scena eroi tragici e poi, dopo essersi liberato del coturno, scivolava su per le strette scale che lo portavano dall'amata Giacinta. L'abate Chiari (forse un antenato del più famoso Chiari che entrò in lite con il conte Gozzi, ma che alla fine dovette arrendersi) fin dalla giovinezza aveva addestrato con non poca fatica lo spirito e la mano a fabbricare tragedie che erano grandiose riguardo all'invenzione, pur presentandosi estremamente piacevoli e belle riguardo all'esecuzione. Egli evitava accuratamente che una qualsivoglia situazione spaventosa si presentasse davanti agli occhi degli spettatori, se non mitigata con tutte le circostanze attenuanti, e foderava tutto l'orrore di un qualsiasi fatto pauroso con il resistente stucco di così tante belle parole e giri di frase, che gli ascoltatori ingoiavano senza paura la dolce poltiglia, senza percepirne l'amara sostanza. Persino le fiamme dell'inferno sapeva utilizzare utilmente, trasformandole in una trasparenza amica, e mettendo loro davanti l'oliato parafuoco della sua retorica, mentre versava nelle acque fumanti dell'Acheronte l'acqua di rose dei suoi versi martelliani, cosicché il fiume infernale scorreva bello tranquillo e diventava un fiume poetico. Cose del genere piacciono a molti, e dunque non c'è da meravigliarsi se l'abate Antonio Chiari poteva essere considerato un beniamino del pubblico. Siccome poi aveva anche un genio speciale per scrivere le cosiddette parti a effetto, fu cosa scontata che il poetico abate diventasse anche una sorta di idolo degli attori. Un certo spiritoso poeta francese dice che esistono due tipi di sciocchezze, vale a dire un primo tipo che i lettori e gli ascoltatori non comprendono, e un secondo tipo che neanche l'autore stesso (poeta o scrittore che sia) riesce a capire. Di quest'ultimo e ben più sublime genere fanno parte le sciocchezze drammatiche, di cui sono costituite in grande misura le cosiddette parti a effetto delle tragedie. I discorsi pieni di parole altisonanti che non capisce né lo spettatore né l'attore, e che persino l'autore stesso non ha capito, sono proprio i più applauditi. Nel comporre tali scempiaggini l'abate Chiari era un maestro assoluto, così come Giglio Fava possedeva una forza straordinaria nel recitarle, facendo nel contempo tali facce e prendendo tali assurde pose, da far sì che proprio perciò il pubblico si mettesse a strillare, in una sorta di delirio tragico. Entrambi, Giglio e Chiari, esercitavano dunque l'uno sull'altro un reciproco effetto e si stimavano oltre misura... e del resto non avrebbe potuto essere altrimenti.
«Bene», disse l'abate, «bene, che alla fine vi ho incontrato, signor Giglio! Ora voglio sentire da voi per filo e per segno tutto quello che qua e là mi si è venuto raccontando di voi, vita morte e miracoli che mi son parsi del tutto folli e sciocchi... Dite un po', vi hanno giocato un brutto tiro, non è forse così? Quell'asino d'un impresario vi ha cacciato via dal teatro perché si è messo in testa che l'entusiasmo che suscitavano in voi le mie tragedie non fosse altro che una specie di pazzia, dal momento che non volevate recitare nient'altro che i miei versi? Questa è davvero grossa! Voi lo sapete, quel pazzo ha smesso del tutto con la tragedia, e ora sul suo palcoscenico non fa rappresentare altro che quelle stupide pantomime di maschere, che mi disgustano e mi offendono a morte... E dunque quel sempliciotto d'un impresario non vuole più accettare nessuna mia tragedia, sebbene io da uomo onesto possa assicurarvi, signor Giglio, che in entrambi i miei lavori mi è davvero riuscito di mostrare agli italiani cosa sia una vera tragedia. Per quanto riguarda i tragici antichi, cioè quell'Eschilo, quel Sofocle e compagnia bella - voi ne avrete senz'altro sentito parlare - va da sé che la loro essenza aspra e dura è del tutto antiestetica e può essere giustificata solo con lo stato di infantilismo in cui all'epoca si trovava l'arte, e tuttavia essa resta per noi assolutamente indigeribile. E della Sofonisba del Trissino o della Canace di Speroni, prodotti strombazzati ai quattro venti per pura stoltezza come alti capolavori di una fase poetica più antica, non se ne parlerà proprio più quando le mie tragedie avranno erudito il popolo sulla potenza, sulla forza trascinante del vero elemento tragico, che viene prodotto mediante il mio modo di espressione. Soltanto, è davvero una gran disgrazia che, al momento, nessun teatro voglia più rappresentare le mie opere, da quando il vostro ex impresario, quel voltagabbana, ha cambiato mestiere... Ma aspettate, trotto d'asino dura poco. Presto il vostro impresario ci sbatterà il muso, insieme al suo Arlecchino, Pantalone e Brighella, o come altro si chiamano quei miserabili prodotti di un vaneggiamento nefasto, e allora... Per davvero, signor Giglio, la vostra dipartita dal teatro mi ha trafitto il cuore; poiché nessun altro attore al mondo si è spinto tanto avanti quanto voi nella comprensione dei miei pensieri più originali e inediti. Ma andiamocene via da questo dannato pigiapigia che mi stordisce! Venite a casa mia! Là vi leggerò la mia nuova tragedia, che vi provocherà la più grande meraviglia della vostra vita. L'ho intitolata Il moro bianco. Non vi stupite della stranezza del titolo! Esso corrisponde perfettamente alla straordinarietà, all'eccezionalità dell'opera».
A ogni parola del loquace abate, Giglio si sentiva via via sempre più strappato da quello stato di bizzarra eccitazione in cui si era venuto a trovare. Tutto il suo cuore si aprì alla gioia quando egli si ripensò nelle vesti di eroe tragico, nell'atto di declamare gli incomparabili versi del signor abate Antonio Chiari. Egli chiese allora al poeta con pressante interesse se anche nel Moro bianco fosse contenuta una bella parte a effetto, che egli avrebbe potuto recitare. «Forse che», replicò l'abate con gran foga, «forse che in tutte le mie tragedie ho mai scritto altro che parti a effetto? È una vera sfortuna che le mie opere non possano essere rappresentate da grandi interpreti anche nei ruoli più marginali. Nel Moro bianco entra in scena uno schiavo proprio all'inizio della catastrofe il quale pronuncia questi versi:
Ah! giorno di dolori! crudel inganno!
Ah, signore infelice, la tua morte
mi fa piangere e subito partire!
ma poi scompare subito rapidamente, e non rientra più in scena. La parte è di piccolo conto, lo ammetto, ma voi, signor Giglio, dovete credermi se vi dico che anche il miglior attore impiegherebbe una vita intera per imparare a recitare questi versi con quello spirito con cui io li ho concepiti e composti in modo da riuscire a incantare il popolo, a trascinarlo in un folle entusiasmo».
Così parlando, l'abate e Giglio erano giunti tutti e due in via del Babbuino, dove l'abate abitava. La scala che salirono era così ripida, che Giglio per la seconda volta sentì vivo il ricordo di Giacinta, e nel suo animo desiderò di incontrare lassù l'amato bene piuttosto che non il moro bianco dell'abate.
Questi accese due candele, spinse per Giglio una poltrona davanti allo scrittoio, prese un manoscritto piuttosto panciuto, si piazzò di fronte a Giglio, e cominciò solenne: «Il moro bianco, tragedia ecc.».
La prima scena iniziava con un lungo monologo di un qualche protagonista della tragedia, che prima parlava del tempo poi della speranza nell'abbondanza dell'imminente vendemmia, e quindi passava a considerare l'inammissibilità del fratricidio.
Giglio stesso non avrebbe saputo dire come mai i versi dell'abate, che gli erano sempre parsi meravigliosi, quel giorno gli sembravano invece così ridicoli, sciocchi e noiosi... Già!... Nonostante l'abate recitasse il suo testo con la voce potente e minacciosa del pathos più esagerato, al punto che tremavano persino le pareti, Giglio cadde in uno stato trasognato, nel quale gli passò nella mente tutto quello che gli era accaduto dal giorno in cui il Palazzo Pistoia aveva inghiottito il più straordinario corteo di maschere che si fosse mai visto. Abbandonandosi completamente a questi pensieri, sprofondò ben bene nella poltrona, incrociò le braccia, mentre la testa gli ricadeva sempre più giù sul petto...
Un forte colpo sulla spalla lo strappò ai suoi trasognati pensieri. «Come!», gridava infuriato l'abate, che era saltato in piedi e gli aveva dato quel colpo. «Come!... Non ci posso credere, voi dormite?... Non volete dunque ascoltare il mio Moro bianco?... Ah! Ora capisco tutto. Il vostro impresario ha ben avuto ragione a cacciarvi via; perché non siete altro che un miserabile briccone, privo di sensibilità e di comprensione per le vette della poesia... Lo sapete ora, il vostro destino è deciso, non vi potrete mai più risollevare dal fango in cui siete precipitato!... Vi siete addormentato ascoltando il mio Moro bianco; e questo è un crimine imperdonabile, un peccato contro lo Spirito Santo. Andatevene al diavolo!».
Giglio si spaventò molto per l'ira sfrenata dell'abate. Con umiltà e mestizia gli argomentò che per comprendere le sue tragedie era necessario uno spirito forte e fermo, e che invece, per quanto riguardava lui (Giglio, appunto), tutto il suo animo era schiacciato e oppresso dagli avvenimenti in parte stranamente paurosi, in parte sciagurati, in cui si era trovato coinvolto negli ultimi giorni.
«Credetemi», diceva Giglio, «credetemi, signor Abate, una misteriosa fatalità si è impadronita di me. Sono come un'arpa spezzata, che non riesce più a contenere in sé né a far risuonare alcuna armonia. Voi non crederete sul serio che io mi sia addormentato nel bel mezzo dei vostri grandiosi versi, in realtà mi ha colto una sonnolenza così morbosa e irresistibile, che persino i più potenti discorsi del vostro impareggiabile Moro bianco mi sono sembrati piatti e noiosi». «Siete forse impazzito?», gridò l'abate. «Non vi mettete così in collera!», proseguì Giglio. «Io vi onoro come massimo maestro, al quale devo la mia arte tutta intera, e presso di voi vengo a cercare consiglio e aiuto. Permettetemi di raccontarvi tutto, così come mi è accaduto, e statemi accanto in questo momento di grande difficoltà! Fate in modo che io possa espormi alla luce solare della fama che irradierà dal vostro Moro bianco, guarendo così dalla più maligna di tutte le febbri!».
A queste parole di Giglio, l'abate si ammansì e si fece raccontare tutto dello strambo Celionati, della principessa Brambilla e così via.
Non appena Giglio ebbe terminato il racconto e dopo essersi concesso qualche attimo di riflessione, egli prese a dire, con voce seria e solenne: «Da tutto quello che mi hai raccontato, Giglio, figlio mio, posso senz'altro dedurre a ragione che tu sei del tutto innocente. Ti perdono, e affinché tu comprenda che la mia generosità e la bontà del mio cuore sono davvero senza limiti, desidero che attraverso di me ti giunga la più grande fortuna di cui tu possa mai godere nel tuo percorso terreno! Prendi per te il ruolo del Moro bianco, e, quando lo reciterai, esso possa appagare il tuo più intimo, ardente desiderio delle cose più elevate e sublimi! Tuttavia, Giglio, figlio mio, il diavolo ti tiene in pugno. Una cabala infernale contro i vertici della poesia, contro le mie tragedie, contro di me, vuole usare te come strumento di morte... Non hai mai sentito parlare del vecchio principe Bastianello da Pistoia, che abitava in quel vecchio palazzo nel quale sono entrati quei vigliacchi mascherati e che, ormai molti anni orsono, scomparve da Roma senza lasciar di sé traccia alcuna? Ora, questo vecchio principe Bastianello era un tipo eccentrico, e tutto ciò che diceva o faceva era stravagante e bizzarro. Ad esempio sosteneva di discendere dalla casa reale di un paese lontano e sconosciuto e di avere tre o quattrocento anni, mentre io stesso conoscevo il prete che lo aveva battezzato qui a Roma. Parlava spesso di visite che riceveva segretamente da membri della sua famiglia, ed effettivamente in casa sua si vedevano di frequente comparire all'improvviso i più strani personaggi, i quali poi scomparivano altrettanto subitamente di come erano apparsi... Ma c'è forse una cosa più facile che far travestire in modo bizzarro servitori e cameriere? Poiché infatti altri non erano quei bizzarri personaggi, che il popolo sciocco restava ad ammirare a bocca aperta, considerando che il principe fosse un tipo davvero speciale, fors'anche uno stregone. In effetti, di balordaggini ne faceva molte, questo è sicuro, e una volta, a carnevale, si mise a spargere per il Corso semi d'arance, dai quali immediatamente uscirono fuori piccoli e graziosi Pulcinella, ed egli andava dicendo che questi erano i frutti più dolci per i romani... Ma perché devo annoiarvi con queste assurde storie del principe, senza dirvi subito per quale ragione lo ritengo un uomo pericolosissimo? Potete immaginare che quel perverso d'un vecchio si è riproposto di sotterrare qualsiasi buon gusto nella letteratura e nelle arti? Potete immaginare che egli, specialmente per quanto riguarda il teatro, ha preso le maschere sotto la sua protezione e ha deciso che valga solo la tragedia antica, mentre del genere letterario della tragedia sostiene che solo un cervello andato in fumo lo può coltivare? In realtà, non ho mai capito a fondo che intendesse; ma su per giù sembrava quasi affermare che il culmine della tragedia dovrebbe essere espresso mediante un genere speciale di scherzo. E... non è forse incredibile, è quasi impossibile dirlo... le mie tragedie... mi capite bene?... le mie tragedie sarebbero oltremodo divertenti, per quanto in modo del tutto diverso, in quanto in esse il pathos tragico faceva senza volere la parodia di se stesso... Ma che contano i pensieri e le opinioni degli sciocchi? Se almeno il principe si fosse limitato a essi! Invece fu con i fatti, e con fatti terribili, che si manifestò il suo odio contro di me e contro le mie tragedie! La catastrofe si verificò prima ancora che voi veniste a Roma... Si rappresentava la più grandiosa delle mie tragedie (ad eccezione del Moro bianco), cioè Lo spettro fraterno vendicato. Gli attori superavano se stessi, non avevano mai catturato così a fondo il senso profondo delle mie parole, né mai prima erano stati così perfettamente tragici nei gesti e negli atteggiamenti... E anzi, signor Giglio, fatemi cogliere quest'occasione per dirvi che, per quanto riguarda i vostri gesti, ma specialmente i vostri atteggiamenti, siete ancora un po' indietro. Il signor Zechielli, il mio attore tragico di allora, a gambe larghe e ben dritto e piantato sulla scena, con le braccia in alto, riusciva a poco a poco a girare tutto il corpo su se stesso, in modo che il viso compariva sopra la schiena e così, nei gesti e nell'espressione, sembrava agli spettatori un vero Giano bifronte... Una cosa del genere produce un effetto dei più clamorosi, da molti punti di vista, e dev'essere ripetuta ogniqualvolta io prescrivo: "Comincia a disperarsi!". Ficcatevelo bene in mente, ragazzo mio, e fate in modo di disperarvi proprio come il signor Zechielli! Ma ora basta! Torniamo al mio Spettro fraterno... La rappresentazione fu la più insuperabile che io ricordi, e tuttavia, a ogni discorso dei miei eroi, il pubblico scoppiava in fragorose risate. Ma quando vidi in un palco il principe Pistoia dare ogni volta il segnale di quelle risate, non ebbi alcun dubbio che fosse lui solo - Dio sa con quali infernali intrighi e raggiri! - a volermi fare questo spaventoso dispetto. Come fui felice quando il principe sparì da Roma! Ma il suo spirito continua a vivere in quel vecchio strambo ciarlatano, in quel pazzo di Celionati, il quale ha cercato, senza peraltro riuscirvi, di rendere ridicole le mie tragedie facendole rappresentare da un teatro di marionette. Ma oramai è certo che il fantasma del principe Bastianello si aggira nuovamente per Roma, e lo dimostra l'assurda mascherata che è entrata nel suo palazzo... E Celionati perseguita voi per nuocere a me. Già gli è riuscito di farvi cacciar via dalle scene, e di distruggere il teatro tragico del vostro impresario. Ora deve rendervi del tutto estraneo all'arte, e lo fa mettendovi in testa ogni sorta di baggianate, di fantasmi di principesse, di spettri grotteschi e via dicendo. Seguite il mio consiglio, signor Giglio, restatevene tranquillo a casa vostra, bevete più acqua che vino, e mettetevi a studiare con la più gran diligenza il mio Moro bianco, che voglio proprio darvi! Solo nel Moro bianco, se cercherete bene, troverete consolazione, pace e quindi felicità, onore e fama per voi... State bene, signor Giglio!».
La mattina dopo, Giglio era davvero deciso a fare ciò che gli aveva detto l'abate, vale a dire studiare l'ottima tragedia Il moro bianco. Ma non ci riuscì proprio, poiché tutte le lettere della pagina si confondevano, andando a formare la figura della bella e cara Giacinta Soardi. «No», gridò infine Giglio pieno d'impazienza, «no, non ce la faccio più, devo andare da lei, dalla mia amata. Lo so, lei mi ama ancora, deve amarmi, e nonostante tutte le sue smorfie non me lo potrà nascondere quando mi rivedrà. Solo allora mi toglierò di dosso questa febbre che l'infame Celionati mi ha appiccicato addosso, ed emergerò da questo assurdo caos di sogni e illusioni come rinato, nei panni del moro bianco, come la fenice dalla cenere!... Benedetto sia l'abate Chiari, che mi ha riportato sulla retta via».
Giglio si vestì subito a festa per recarsi a casa di Mastro Bescapi dove pensava di incontrare la sua innamorata. Già sul punto di varcare la soglia, egli sentì improvvisamente l'effetto del Moro bianco, che si era ripromesso di leggere. Il pathos tragico si impossessò allora di lui, quasi fosse una febbre violenta! «Come», esclamò, spingendo avanti il piede destro, mentre al contempo mandava indietro il busto e tendeva in avanti le braccia, con le dita allargate, come se volesse cacciar via un fantasma. «Come?... E se lei non mi amasse più? Se lei incantata dai magici miraggi dell'Orco di un mondo più elevato, inebriata dalla bevanda di Lete che tutto fa scordare, col cessare del mio ricordo, mi avesse davvero dimenticato? Se un rivale... Oh, pensiero spaventoso, che il nero Tartaro ha partorito nelle sue profondità gravide di morte!... Ah! disperazione!... Omicidio e morte!... Avvicinati, amico mio amato, tu che riparando ogni onta subita nella sanguigna vampa delle rose, dai pace e consolazione... e vendetta!». Giglio gridò le ultime parole in modo tale che ne risuonò la casa intera. Di colpo, afferrò il lucido pugnale che si trovava sul tavolo, e se lo mise alla cintura. Ma era solo un pugnale di scena.
Mastro Bescapi non apparve meno meravigliato, quando Giglio gli chiese di Giacinta. Fece finta di non sapere affatto che ella avesse mai abitato nella sua casa, e non servirono a nulla neppure tutte le assicurazioni di Giglio di averla vista pochi giorni prima sul balcone e di averle parlato; Bescapi invece cambiò completamente discorso, e ridendo s'informò se il recente salasso gli avesse giovato. Non appena Giglio sentì parlare di salassi, se la diede a gambe all'istante. Ma quando arrivò a piazza di Spagna vide una vecchia che strascicava i piedi, trasportando a fatica un paniere coperto: ella riconobbe subito la vecchia Beatrice. "Ah" mormorò tra sé e sé, "tu devi essere la mia stella cometa, io ti seguirò!". E non poco dovette meravigliarsi quando la vecchia più che camminare si trascinò fin là dove Giacinta aveva sempre abitato, e si fermò dinanzi alla porta del signor Pasquale, depositandovi il pesante paniere. In quello stesso istante si avvide di Giglio, che l'aveva seguita a breve distanza. «Ah!», esclamò a voce alta, «ah, mio caro signor perdigiorno, alla fine vi fate di nuovo vivo?... Dunque, siete davvero un bell'innamorato fedele, che se ne va in giro di qua e di là dove non ha nulla da fare, e si dimentica della sua ragazza proprio in pieno divertimento di carnevale!... Via, aiutatemi almeno a portar su questo cesto pesante, così potrete vedere un po' se Giacintina ha messo da parte per voi un altro paio di schiaffi, che vi rimettano a posto codesta testa vuota». Giglio ricoprì la vecchia di durissimi rimproveri per averlo ingannato con le più sciocche bugie come quella che Giacinta fosse in prigione; ma la vecchia dal canto suo sosteneva di non saperne nulla, dicendo invece che Giglio si era inventato tutto di sana pianta, che Giacinta non aveva mai lasciato la sua stanzetta in casa del signor Pasquale, e che durante questo carnevale era stata più assennata che mai. Giglio si strofinò la fronte, si pizzicò il naso, come se volesse capire se sognava o se era desto. «Non c'è da sbagliarsi», disse, «o sto sognando ora, oppure tutto questo tempo ho fatto il sogno più strano e confuso che possa esistere». «Ora», lo interruppe la vecchia, «siate così gentile da prendere il cesto. Mettervelo sulla schiena, pesante com'è, sarà il modo migliore di capire se siete desto o no». Giglio si caricò senz'altri indugi il paniere sulla schiena e salì la stretta scala, con le sensazioni più straordinarie nell'animo. «Ma cosa diavolo avete ficcato in questo paniere?», fece allora alla vecchia, che saliva avanti a lui. «Che domanda stupida!», replicò lei. «Non vi siete ancora reso conto che sono stata al mercato a far la spesa per la mia Giacintina. E per di più, oggi abbiamo ospiti».
«Ospiti?», domandò Giglio, con tono strascicato. Ma ormai erano già su, e la vecchia disse a Giglio di mettere a terra il paniere e di entrare nella stanzetta, dove avrebbe trovato Giacinta.
Il cuore di Giglio batteva forte per un cupo presentimento per una dolce paura. Bussò leggermente, aprì la porta. Giacinta era seduta e, come sempre, lavorava solerte al tavolo ricoperto di fiori, di nastri e di ogni sorta di guarnizioni. «Ehi, signor Giglio», esclamò Giacinta, guardandolo con occhi splendenti, «ehi, ma da dove mi riapparite qui? Credevo aveste lasciato Roma già da tanto tempo!». Giglio trovò la sua innamorata così straordinariamente carina da restar sulla porta, sbalordito e incapace di proferir parola. E, in realtà, tutto il suo essere appariva come inondato dalla magia della grazia; il più bel colorito risplendeva sulle sue guance, e gli occhi, sì, persino gli occhi brillavano mentre, come abbiamo detto guardavano Giglio dritto fin dentro il cuore... Si sarebbe davvero potuto dire che Giacinta aveva il suo beau jour, ma poiché oggi quest'espressione francese non è più ammessa, si può soltanto notare per inciso che non solo il beau jour ha una propria ragion d'essere, ma anche che esso si realizza in ben precise circostanze. Ogni gentile signorina di poca bellezza o anche di discreta bruttezza, sia essa spinta a farlo da ragioni interne o esterne, deve soltanto pensare più vivacemente del solito: «Sono davvero una ragazza splendida!», ed esserne veramente convinta, per poter, con questo fantastico pensiero, far sorgere da sola il suo beau jour, insieme al più sublime benessere nell'anima...
Alla fine però Giglio, completamente fuori di sé, si gettò ai piedi dell'innamorata, e con un tragico: «Mia Giacinta, dolce vita mia!», le afferrò le mani. Ma di colpo sentì un ago conficcarglisi tanto profondamente in un dito, da dover balzar su dal dolore, sentendosi costretto a saltare per la stanza, gridando: «Diavolo! diavolo!». Giacinta scoppiò in una risata argentina, prendendo poi a parlare molto tranquilla e ben disposta: «Vedete, signor Giglio, ecco la ricompensa per il vostro comportamento sgarbato e impetuoso. Comunque è molto gentile da parte vostra venirmi a trovare; poiché forse ben presto non potrete più vedermi così, senza tante cerimonie. Vi permetto di restare un po' con me. Sedetevi sulla sedia lì di fronte e raccontatemi cosa avete fatto in tutto questo tempo, in quali nuovi ruoli state recitando, e così via! Lo sapete che vi ascolto volentieri, e quando non precipitate in quel vostro maledetto pathos piagnucoloso che il signor abate Chiari vi ha gettato addosso come il malocchio - che Dio non gli tolga per questo la pace eterna! - vi ascolto proprio volentieri». «Giacinta mia», disse Giglio, tra il dolore dell'amore e quello della puntura dell'ago, «Giacinta mia, dimentichiamo tutte le pene della separazione!... Sono tornate le dolci e beate ore della felicità, dell'amore...». «Non so proprio», lo interruppe Giacinta, «non so proprio che sciocchezze andiate dicendo. Parlate delle pene della separazione, ma posso assicurarvi che da parte mia, poiché ho davvero creduto che vi foste separato da me, non ho sentito per questo neanche l'ombra della pena. E se chiamate ore beate quelle in cui vi prendevate la briga di annoiarmi, allora non credo proprio che esse torneranno mai. Ma in tutta confidenza, signor Giglio, voi avete qualcosa che mi piace, e a volte non mi siete riuscito sgradevole, e perciò vi permetterò volentieri in avvenire di vedermi, per quanto poco ciò potrà accadere, e per quanto i nostri rapporti, impedendo qualsiasi familiarità e imponendo una certa distanza vi imporranno alcuni obblighi». «Giacinta!», esclamò Giglio, «che strani discorsi son questi?». «Qui», replicò Giacinta, «non c'è in gioco niente di strano. Sedetevi lì tranquillo, buon Giglio!, perché forse è l'ultima volta che stiamo insieme con tanta confidenza... Ma sul mio favore potrete sempre contare, perché, come vi ho detto, non vi priverò mai di quella benevolenza che ho sempre nutrito per voi». Beatrice entrò recando in mano un paio di piatti ricolmi di bellissima frutta, e con un promettente fiasco infilato sotto il braccio. Il contenuto del paniere cominciava a rivelarsi. Attraverso la porta aperta Giglio vide un bel fuoco allegro crepitare nella stufa, mentre il tavolo della cucina era stracarico di ogni sorta di ghiottonerie. «Giacintina», disse Beatrice gongolante, «se il nostro piccolo pranzo deve davvero far onore all'ospite, allora mi occorre ancora un po' di denaro». «Prendi, vecchia, tutto ciò di cui hai bisogno», replicò Giacinta, tendendo alla vecchia un borsellino tra le cui maglie si vedevano luccicare bei ducati. Giglio restò impietrito nel riconoscere in quel borsellino il fratello gemello di quello che, come ormai era certo fosse accaduto, Celionati gli aveva infilato in tasca, e i cui ducati erano già agli sgoccioli. «Cos'è questo miraggio infernale?», gridò strappando rapido il borsellino dalle mani della vecchia, e tenendolo fermo davanti agli occhi. Ma ricadde esausto sulla sedia quando sul borsellino lesse queste parole: «Ricordati della tua immagine di sogno!». «Oh, oh!», lo apostrofò la vecchia, riprendendosi il borsellino che Giglio le porgeva col braccio teso. «Oh, oh, signor perdigiorno, una tale visione meravigliosa vi mette tutto in stupore e agitazione?... Allora ascoltate questa bella musica, e divertitevi!». Così dicendo, prese a scuotere il borsellino facendo tintinnare l'oro che vi stava dentro, e uscì dalla stanza. «Giacinta», disse Giglio sopraffatto dalla disperazione e dal dolore, «Giacinta! Quale orribile, spaventoso segreto... Pronunciate! pronunciate la mia condanna a morte!». «Siete sempre il solito», replicò Giacinta, mentre, con le dita unite insieme, sollevava contro la finestra il sottile ago da ricamo, infilando abilmente nella cruna una gugliata di filo argentato, «siete e restate sempre il solito. Per voi è diventato così facile andare in estasi per qualsiasi cosa, che ve ne andate in giro come una noiosa tragedia vivente, piena di ancor più noiosi "oh", "ah" e "ahimè"!... Qui non c'è nulla di tragico né di spaventoso; ma se vi riesce di stare un attimo buono, e di non atteggiarvi come un mezzo matto, allora vi racconterò volentieri un paio di cose». «Parlate, datemi la morte!», mormorò Giglio, con la voce mezzo strozzata. «Certo vi ricorderete, signor Giglio», iniziò Giacinta, «vi ricorderete di ciò che mi raccontaste, non molto tempo fa, a proposito delle meraviglie di un giovane attore? Voi definiste un simile straordinario eroe un'avventura d'amore in carne e ossa, un romanzo ambulante, e non so più che altro ancora. Ora voglio anch'io compiacermi di affermare che una giovane modista, alla quale il cielo ha generosamente concesso una figura graziosa, un bel viso e soprattutto quell'intima forza magica grazie alla quale soltanto una ragazza può davvero diventare una ragazza, è una meraviglia ancor più grande. Una tale beniamina della natura benigna è davvero un'avventura piacevolissima che aleggia nell'aere, e la stretta scala che conduce a lei è la scala celeste che porta nel regno di ingenui e audaci sogni d'amore. Ella stessa è il dolce segreto della moda femminile che esercita un irresistibile incantesimo su voi uomini, ora con il luccicante splendore di variopinti colori, ora con il morbido riflesso dei bianchi raggi lunari, o della nebbia rosata, o di azzurri vapori serali. Incantati dalla nostalgia e dal desiderio, vi avvicinate al meraviglioso segreto, e guardate la potente fata in mezzo ai suoi strumenti magici; ma allora, non appena toccato dalle sue piccole, bianche dita, ogni merletto si trasforma in rete d'amore, ogni nastro che annoda si fa laccio, con cui vi imprigiona. E nei suoi occhi si rispecchia ogni incantevole follia amorosa, e riconosce se stessa, e trova in se stessa l'intima gioia del cuore. Voi sentite i vostri sospiri trovar risposta nel petto della bella ma una risposta lieve e dolce come Eco che, piena di nostalgia, invoca l'amato da montagne lontane e incantate. Non conta più né il rango né il denaro; la piccola stanza dell'aggraziata Circe diventa sia per il ricco principe che per il povero attore un'Arcadia fiorita e profumata nel deserto inospitale della sua vita, e in essa trova la salvezza. E se pure tra i bei fiori di quest'Arcadia cresce un po' d'erba serpentina, che fa? Essa appartiene senza dubbio al genere più seducente, che dà fiori stupendi e profuma in modo meraviglioso...». «Oh, sì», Giglio interruppe Giacinta, «e dai fiori stessi esce fuori quella bestiolina, il cui nome porta già quell'erba fiorita e profumata, e all'improvviso colpisce con la lingua come con un ago acuminato...». «Certo», riprese Giacinta, «ogniqualvolta un uomo estraneo, che non ha niente a che vedere con quest'Arcadia, vuole stupidamente ficcarci il naso». «Ben detto», continuò Giglio, tutto pieno di rabbia e di rancore, «ben detto mia bella Giacinta! Devo proprio ammettere che in tutto il tempo in cui non ti ho vista sei diventata meravigliosamente intelligente! Il tuo filosofare su te stessa a questo modo mi lascia di stucco. Probabilmente ti trovi molto bene nel ruolo di Circe incantatrice nell'attraente Arcadia della tua soffitta, che il Mastro sarto Bescapi non trascura di rifornire di tutti i necessari strumenti magici» «Può essere», continuò Giacinta, con grande tranquillità, «può essere che mi accada come a te. Anch'io ho fatto una grande quantità di bei sogni... E tuttavia, mio caro Giglio, prendi come un mezzo scherzo, come una sciocca burla, tutto ciò che ho detto della natura di una bella modista, e non riferirlo del tutto a me, poiché questo è forse il mio ultimo lavoro del genere... Non sorprenderti, mio buon Giglio! Ma è molto facile che io, l'ultimo giorno di carnevale, scambi questo misero vestitino con un mantello di porpora, e questo piccolo sgabello con un trono!». «Fulmini e saette!», gridò Giglio, saltando su tutto agitato, col pugno alla fronte. «Fulmini e saette! Morte e dannazione! È dunque vero tutto ciò che quell'ipocrita canaglia mi ha soffiato all'orecchio! Ah! apriti dunque, fiammeggiante abisso dell'Orco! Venite fuori, neri spiriti alati dell'Acheronte!... Basta!». Giglio s'imbarcò allora nello spaventoso e disperato monologo di una qualche tragedia dell'abate Chiari. Giacinta ricordava ogni verso di questo monologo, che Giglio le aveva già declamato cento volte e, senza alzar gli occhi dal lavoro, suggeriva all'innamorato le parole quando egli, nella sua disperazione, ogni tanto s'impappinava. Alla fine egli tirò fuori il pugnale, se lo conficcò nel petto, cadde a terra facendo rimbombare tutta la stanza, si rialzò, si spolverò ben bene, si asciugò il sudore dalla fronte, e chiese sorridendo: «Non è vero, Giacinta, che il grande maestro si riconosce subito?» «Senza dubbio», replicò Giacinta senza muoversi, «senza dubbio. Hai recitato magnificamente, caro Giglio. Ma ora penso proprio che sia giunto il momento di metterci a tavola».
Nel frattempo, la vecchia Beatrice aveva apparecchiato, mettendo in tavola qualche vassoio dal profumo meraviglioso e disponendo anche il fiasco misterioso accanto ai luccicanti bicchieri di cristallo. Non appena Giglio vide tutto ciò, sembrò andare completamente fuori di sé: «Ah, l'ospite... il principe... Che mi succede? Dio mio! Non ho recitato una commedia, sono davvero disperato... Sì, tu mi hai gettato nella disperazione più nera e assoluta, traditrice infedele, serpente, basilisco... coccodrillo! Ma ora vendetta... vendetta!». Così dicendo sollevò in aria il pugnale finto, che aveva raccolto da terra, ma Giacinta, che si era alzata e aveva gettato il suo lavoro sul tavolo da cucito, lo prese per il braccio dicendo: «Non fare lo stupido, mio buon Giglio! Da piuttosto alla vecchia Beatrice il tuo strumento di morte perché ne faccia stuzzicadenti, e mettiti a tavola con me; poiché in fin dei conti l'ospite che aspettavo sei proprio tu». Giglio allora, calmatosi e fattosi la pazienza in persona, si lasciò condurre a tavola e quanto a servirsi, non fece davvero complimenti.
Giacinta continuò a raccontare tranquilla e contenta della fortuna che l'attendeva, assicurando però ripetutamente a Giglio che non sarebbe mai caduta preda di un orgoglio eccessivo, e che mai e poi mai avrebbe dimenticato il viso di Giglio, e che anzi, se egli si fosse fatto vedere da lontano, si sarebbe senz'altro ricordata di lui e gli avrebbe fatto pervenire qualche ducato, in modo che non gli venissero mai a mancare calze color rosmarino e guanti profumati. Giglio dal canto suo, cui dopo un paio di bicchieri di vino era tornata in mente la meravigliosa fiaba della principessa Brambilla, fece ogni amichevole assicurazione che egli apprezzava moltissimo le cordiali disposizioni d'animo di Giacinta; ma per quanto riguardava l'orgoglio e i ducati, non avrebbe saputo che farne né dell'uno né degli altri, in quanto anch'egli si trovava in procinto di saltare a piedi pari nella condizione di principe. Raccontò allora che la più nobile e ricca principessa del mondo lo aveva già scelto come cavaliere, e che sperava ancor prima della conclusione del carnevale di poter dare l'addio per sempre alla misera vita che aveva condotto fino ad allora, divenendo lo sposo della sua principesca dama. Giacinta parve rallegrarsi molto della fortuna di Giglio, e tutti e due si misero a chiacchierare piacevolmente del tempo a venire, che sarebbe stato pieno di gioia e di ricchezza. «Vorrei solo», disse Giglio alla fine, «che i regni che governeremo in futuro fossero molto vicini tra loro, in modo da poter intrattenere rapporti di buon vicinato; ma se non mi sbaglio, il regno della mia adorata principessa si trova al di là dell'India, subito a sinistra dopo la Persia...». «Che peccato», replicò Giacinta «anch'io dovrò andare tanto lontano; poiché infatti il regno del mio sposo principesco deve trovarsi vicinissimo a Bergamo. Ma in futuro si potrà certo far in modo di diventare e restare buoni vicini». E alla fine tutti e due, Giacinta e Giglio, furono d'accordo sul fatto che i loro regni futuri avrebbero dovuto assolutamente essere trasferiti dalle parti di Frascati... «Buona notte, cara principessa!», disse Giglio. «Buon riposo, caro principe!», rispose Giacinta, e così, mentre calava la sera, si separarono in perfetta pace e amicizia.
CAPITOLO QUINTO
Come Giglio, in un momento di perfetta bassa marea dell'animo umano, prese una saggia risoluzione, si cacciò in tasca il borsellino fatato, gettando uno sguardo altero al più umile di tutti i sarti. - Palazzo Pistoia e le sue meraviglie. - Lezione dell'uomo saggio nel tulipano. - Re Salomone, il principe degli spiriti e la principessa Mistilis. - Come un vecchio mago si gettò sulle spalle una nera veste da camera, si ficcò in testa un berretto di zibellino e con la barba tutta spettinata, si mise a far profezie in cattivi versi. - Sfortunato destino di un pappagallo. - Come mai il benigno lettore in questo capitolo non viene a sapere che altro fosse avvenuto durante il ballo di Giglio con la bella sconosciuta.
Chiunque sia dotato di un minimo di fantasia, come sta scritto in qualsiasi libro contenente un po' di saggezza pratica, dovrebbe essere affetto da una sorta di follia, che vada e venga come l'alta e la bassa marea. Il momento della prima, quando le onde incalzano sempre più alte e forti, è il calar della sera: le ore del mattino invece, subito dopo il risveglio, al momento del primo caffè, sono il punto più alto della seconda. Peraltro, quello stesso libro fornisce anche il ragionevole consiglio di utilizzare questo momento, che è quello della più straordinaria e chiara lucidità, per gli affari più importanti dell'esistenza. Solo al mattino, infatti, si dovrebbe sposarsi, leggere recensioni severe contro i propri libri, far testamento, bastonare il servitore e così via.
In questa bella fase di bassa marea, nella quale l'animo umano si rallegra della siccità più completa, avvenne che Giglio Fava si spaventò della propria follia, senza sapere neppure lui come mai ciò non gli era capitato prima, anche se gli erano passate davanti al naso mille occasioni di farlo... «Quel che è certo», così pensò nella lieta coscienza della piena ragione, «quel che è certo è che il vecchio Celionati è davvero mezzo matto, visto che in questa pazzia non solo si trova straordinariamente a suo agio, ma cerca anche in tutti i modi di costringervi altre persone del tutto ragionevoli. Ma altrettanto certo è il fatto che la più bella, la più ricca di tutte le principesse del mondo, la divina Brambilla, è entrata dentro Palazzo Pistoia, e... Oh, cielo e terra! Ma può questa speranza, con i suoi presagi, i suoi sogni, confermati persino dalla bocca di rosa della più attraente di tutte le maschere, indurmi in errore... e farmi credere che lei abbia davvero diretto su di me fortunato il dolce raggio d'amore dei suoi occhi divini?... Sconosciuta, velata, dietro la chiusa grata di un palco, mi ha guardato mentre recitavo la parte di un qualche principe, e il suo cuore è stato mio!... Può dunque ella mai avvicinarsi a me in modo diretto? Non ha forse bisogno, quell'essere nobilissimo, di intermediari, di confidenti, che intreccino quei fili che, alla fine, si annoderanno nei più dolci lacci?... Ma qualsiasi cosa sia avvenuta, non c'è dubbio che sia proprio Celionati colui che dovrà portarmi tra le braccia della principessa... Però, invece di percorrere perbenino la strada maestra, mi butta a testa in giù in un intero mare di pazzie e di imbrogli, vuole convincermi che devo cercare la principessa sul Corso imprigionato dentro una maschera assurda, mi racconta di prìncipi assiri, di maghi... basta!... basta con tutte queste sciocchezze, basta con il pazzo Celionati!... Che cosa mi trattiene dal mettermi bene in ghingheri, ed entrare direttamente dentro al Palazzo Pistoia, per gettarmi ai piedi della serenissima? Oh Dio, perché non l'ho fatto ieri, l'altroieri?...».
Ma Giglio si sentì davvero male quando, esaminando in tutta fretta il suo guardaroba più elegante, non poté fare a meno di ammettere che il berretto piumato assomigliava in tutto e per tutto a un pollastro spennacchiato, che il farsetto, già ritinto tre volte, aveva tutti i possibili riflessi dell'arcobaleno, che il mantello tradiva eccessivamente l'arte del sarto, il quale aveva tentato di frenare l'erosione del tempo mediante le più ardite cuciture, e che i ben noti pantaloni di seta blu e le calze rosa avevano assunto sfumature autunnali. Scoraggiato, mise mano al suo borsellino, che aveva creduto quasi vuoto e che invece trovò meravigliosamente ricolmo d'oro... «Divina Brambilla», esclamò tutto entusiasmato, «divina Brambilla, sì, mi ricordo, mi ricordo della tua bella immagine di sogno!».
Ci si può ben immaginare che Giglio, con in tasca il borsellino, che sembrava essere una specie di borsa di Fortunatus, si mettesse a correre per tutte le botteghe di rigattieri e di sarti, allo scopo di procurarsi un abito così bello, quale mai fosse stato indossato prima da un principe della scena. Tutto quello che via via gli veniva mostrato però non era per lui abbastanza ricco, abbastanza splendido. Alla fine si mise in mente che avrebbe potuto stargli bene soltanto un vestito fatto dalla mano magistrale di Mastro Bescapi, e si recò immediatamente da lui. Quando Mastro Bescapi venne a sapere del desiderio di Giglio esclamò, radioso in volto: «Oh mio carissimo signor Giglio, in questo posso accontentarvi davvero», e condusse il cliente desideroso di comprare in un altro camerino. Ma Giglio non fu poco meravigliato nel trovarvi niente altro che tutti i costumi della commedia italiana, oltre alle maschere più assurde e grottesche. Credette allora di essere stato frainteso da Mastro Bescapi, e descrisse tutto concitato l'elegante e ricco abito con cui desiderava agghindarsi. «Ah, Dio mio!» esclamò Bescapi scoraggiato. «Ah, Dio mio! Che vi prende di nuovo? Mio carissimo Signor, spero proprio che certi attacchi...». «Signor sarto», lo interruppe Giglio impaziente, facendo tintinnare l'oro nel borsellino, «se volete vendermi un abito così come io lo desidero, allora va bene, altrimenti, lasciamo perdere». «Ma no, ma no», borbottò Mastro Bescapi, «non vi arrabbiate, signor Giglio! Ah, non sapete dunque quanto vi ho a benvolere, e se solo aveste un pizzico, solo un pizzico di giudizio!». «Come vi permettete, signor sarto?», esclamò Giglio infuriato. «Se sono un sarto», continuò allora Bescapi, «allora vorrei potervi misurare un vestito della taglia giusta, che vi starebbe proprio a puntino. Voi correte incontro alla vostra rovina, signor Giglio, e mi dispiace proprio di non poter riferire ciò che il saggio Celionati mi ha raccontato di voi, e del destino che vi aspetta». «Oh oh! il saggio signor Celionati, l'onesto signor ciarlatano che mi perseguita in tutti i modi possibili e immaginabili, che con l'imbroglio vuole sottrarmi la mia più gran fortuna poiché odia me e il mio talento, visto che si ribella alla serietà delle nature più elevate e vorrebbe prendere in giro tutto con le stupide mascherate di un divertimento senza cervello!... Mio buon Mastro Bescapi, sono al corrente di tutto, quel galantuomo dell'abate Chiari mi ha svelato tutti gli imbrogli. L'abate è l'uomo più straordinario, la natura più poetica che si possa trovare; ed è per me che ha creato il moro bianco, e nessuno sulla faccia della terra può recitare la parte del moro bianco come me». «Che dite?», esclamò Mastro Bescapi scoppiando a ridere, «che dite dunque? Il degno abate - che il cielo possa presto convocarlo per la riunione di tutte le nature superiori - avrebbe lavato un moro con i fiumi di lacrime che sa far scorrere, fino a farlo diventar bianco?». «Vi chiedo», disse Giglio, badando di tenere a freno la sua ira, «vi chiedo un'altra volta, Mastro Bescapi, se siete disposto o no a vendermi per i miei bei ducati sonanti e ballanti un vestito come lo voglio io». «Ma con piacere», replicò Bescapi tutto contento, «con vero piacere, mio carissimo signor Giglio!».
Così dicendo aprì una stanzetta nella quale stavano appesi i vestiti più ricchi e straordinari. A Giglio diede subito nell'occhio un abito completo che appariva davvero molto ricco, sebbene colpisse anche per la stranezza dei suoi variopinti colori. Mastro Bescapi era del parere che il vestito costasse troppo, che per Giglio fosse troppo caro. Ma quando Giglio si mostrò determinato ad acquistare l'abito e, tirato fuori il borsellino, sfidò il sarto a dirne il prezzo, per caro che fosse, allora Bescapi si mise a spiegare che non poteva assolutamente dar via quel vestito, dal momento che era destinato a un principe straniero, vale a dire al principe assiro Cornelio Chiapperi. «Come dite?», esclamò Giglio, pieno di ammirazione e tutto in estasi. «Come?... che dite?... Allora il vestito è stato fatto per me e per nessun altro. Fortunato Bescapi!... È proprio il principe Cornelio Chiapperi che vi sta davanti, e che ha trovato in casa vostra la sua più intima essenza, il proprio Io!».
Non appena Giglio ebbe pronunciato queste parole, Mastro Bescapi staccò l'abito dalla parete, chiamò uno dei suoi garzoni e gli ordinò di accompagnare il serenissimo principe con il paniere in cui aveva rapidamente posto il tutto.
«No!», esclamò Bescapi quando Giglio fece l'atto di pagare. «Conservate il vostro denaro, serenissimo principe!... Dovete certo aver fretta. Il vostro devotissimo servo avrà prima o poi il suo denaro; forse sarà proprio il moro bianco a saldare questo piccolo debito!... Che Dio vi protegga, mio illustrissimo principe!».
Giglio gettò uno sguardo altero al sarto, che indietreggiava facendo mille inchini aggraziati, si rimise in tasca la borsa di Fortunatus, e si allontanò da lì con il bell'abito principesco.
Ed esso gli stava così straordinariamente bene che Giglio, nella gioia più sfrenata, mise in mano al garzone che lo aveva aiutato a svestirsi un ducato tondo tondo. Il garzone lo pregò allora di dargli invece un paio di buoni paoli, perché aveva sentito dire che l'oro dei prìncipi delle scene non vale nulla, e che i loro ducati sono solo bottoni o biglie del pallottoliere. Ma Giglio buttò fuori della porta quel ragazzo superintelligente.
Dopo aver provato piuttosto a lungo davanti allo specchio le mosse più belle e aggraziate, dopo aver richiamato alla mente le frasi più esagerate di eroi malati d'amore, ed essersi convinto di essere assolutamente irresistibile, Giglio si diresse tutto rincuorato verso Palazzo Pistoia, mentre già incominciava a scendere il crepuscolo.
La porta socchiusa cedette alla pressione della sua mano, ed egli entrò in un ampio atrio circondato da colonne, nel quale regnava un silenzio mortale. Quando egli, meravigliato, si guardò intorno, dai più profondi recessi del suo animo si librarono oscure immagini del passato. Gli pareva quasi di essere già stato altre volte in quel luogo, ma poiché comunque nella sua anima non riusciva assolutamente a prender forma nulla di chiaro, e tutti i tentativi di fissare quelle immagini restavano privi di esito, fu preso da un'oppressione, da un'angoscia, che gli tolsero completamente il coraggio di proseguire la sua avventura.
Era già sul punto di abbandonare il palazzo, quando cadde quasi a terra per lo spavento vedendo venirgli incontro il suo Io, come avvolto nella nebbia. Ma quasi subito si rese conto che ciò che aveva scambiato per il suo doppio era in realtà la sua stessa immagine, riflessa da un'appannata parete a specchio. E in quello stesso momento gli parve anche che cento dolci vocine gli sussurrassero all'orecchio: «Oh, signor Giglio, come siete carino, come siete meraviglioso!». Giglio allora, davanti allo specchio, gonfiò il petto, sollevò il capo, si portò il braccio sinistro al fianco e, alzando il destro, esclamò con tono patetico: «Coraggio, Giglio, coraggio! La tua fortuna ormai è certa, sbrigati ad afferrarla!». Quindi cominciò a passeggiare in su e in giù, con passi sempre più sicuri, a schiarirsi la gola, a tossire; ma tutt'attorno il silenzio restava di tomba, e non si percepiva la presenza di nessun essere vivente. Allora si mise a tentare di aprire le porte che sembravano condurre in qualche sala: ma erano tutte chiuse a chiave.
Che restava da fare, se non salire l'ampia scalinata di marmo che si dipartiva elegante ai lati del grande atrio?
Giunto nel corridoio superiore, il cui decoro era in armonia con la semplice magnificenza del tutto, parve a Giglio di percepire in lontananza risuonare le note di uno strano, ignoto strumento... Circospetto, scivolò più avanti, e ben presto notò un raggio abbagliante che cadeva nel corridoio attraverso il buco della serratura della porta di fronte a lui. Ora riusciva anche a distinguere che ciò che aveva scambiato per il suono di uno strumento sconosciuto era in realtà la voce di un uomo che parlava, la quale risuonava però in modo davvero sorprendente, a tratti quasi simile a un cembalo oppure a un piffero dal suono basso e cupo. Non appena Giglio si trovò presso la porta, essa si aprì piano piano da sé. Giglio entrò, ma la profondissima sorpresa lo fece arrestare come impietrito...
Giglio si trovò in una vastissima sala, le cui pareti erano ricoperte di un marmo dai riflessi color porpora e dal cui soffitto a cupola pendeva una lampada con una luce così brillante da ricoprire tutto d'un oro incandescente. Sullo sfondo, ricchi drappi di stoffa dorata formavano un baldacchino, sotto al quale si trovava un trono anch'esso dorato ricoperto di variopinti tappeti, posto sopra cinque gradini. Su di esso sedeva quello stesso vecchietto dalla lunga barba bianca, abbigliato d'un lungo talare di stoffa argentata, che nel corteo della principessa Brambilla stava dentro il tulipano delle scienze rilucente d'oro. Proprio come allora, sul venerando capo portava un imbuto d'argento; come allora, sul suo naso era posato un immenso paio d'occhiali; come allora, egli leggeva - anche se ora a voce alta, ed era proprio quella voce che Giglio aveva percepito in lontananza - da un grosso libro, che stava aperto davanti a lui, poggiato sopra le spalle di un moro inginocchiato. Ai due lati stavano gli struzzi, come minacciose guardie del corpo e, non appena il vecchio terminava una pagina, a turno gliela voltavano col becco.
Tutt'attorno, in un compatto semicerchio, erano sedute più di cento dame, meravigliosamente belle come fate, vestite nel modo ricco e magnifico con cui notoriamente si vestono le fate. Tutte lavoravano alacremente al tombolo. Nel centro del semicerchio, dinanzi al vecchio, su di un piccolo altare di porfido, due strane bamboline dal capo incoronato stavano nella posizione di chi è profondamente addormentato.
Quando Giglio si fu in qualche modo riavuto dalla sorpresa, pensò di render nota la propria presenza. Ma aveva appena formulato l'idea di parlare, quando ricevette un poderoso pugno nella schiena. Con suo enorme spavento, solo in quel momento si accorse della schiera di mori, armati di lunghe lance e di corte spade, proprio al centro della quale si era venuto a trovare; essi lo fissavano con sguardi di fuoco e gli mostravano i loro denti d'avorio. Giglio si rese conto che qui la cosa migliore era esser pazienti...
Ciò che il vecchio stava leggendo ad alta voce alle dame suonava più o meno come segue:
«Il segno di fuoco dell'Acquario sta sopra di noi, il delfino nuota sulle onde spumeggianti verso oriente e schizza dalle narici cristallo puro nei flutti cupi!... È ormai tempo che io vi parli dei grandi misteri che si sono verificati, e di quel meraviglioso rompicapo la cui soluzione vi salverà dalla fatale rovina... Sulla cima della torre, il mago Ermodio stava a osservare il corso delle stelle. In quel momento, quattro vecchi avvolti in mantelli del colore delle foglie morte, dopo aver attraversato il bosco, si avvicinarono alla torre e, giunti che furono ai suoi piedi, levarono alti lamenti. "Ascoltaci!... Ascoltaci, o grande Ermodio!... Non essere sordo alle nostre preghiere, svegliati dal tuo sonno profondo!... Se soltanto avessimo la forza di tendere l'arco di re Ofioch, allora ti scoccheremmo una freccia dritta al cuore come fece lui, e così saresti costretto a venir giù e non potresti più continuare a startene lassù, come un pezzo di legno completamente insensibile!... Ma, o venerabile vegliardo, se proprio non vuoi svegliarti, abbiamo qui pronta una certa fionda per tirarti contro il petto delle belle pietrone, in modo che si risveglino almeno i sentimenti umani che vi sono imprigionati!... Svegliati, venerabile vegliardo!".
«Il mago Ermodio guardò giù, si sporse dal parapetto e parlò con una voce simile al sordo rimbombo del mare, all'urlo dell'uragano che si avvicina: "Voi, gente là sotto, non fate i somari! Non sto dormendo, e dunque non posso certo esser svegliato né da frecce né da pietre. Ma quasi quasi già so quel che volete da me, cari amici! Aspettate un attimo, scendo subito... Intanto, potete mettervi a cogliere le fragole, o a giocare a chiapparella tra le rocce erbose... io arrivo subito".
«Dopo che Ermodio fu sceso ed ebbe preso posto su una grossa pietra ricoperta da un morbido e variegato tappeto di muschio, quello che sembrava essere il più anziano dei quattro uomini, poiché la sua barba bianca gli scendeva fino alla cintura, prese a dire: "Grande Ermodio, tu certo sai già in anticipo e forse meglio di me tutto ciò che voglio dirti; ma proprio perché probabilmente vuoi renderti conto che anche io lo so, te lo dirò". "Parla!", replicò Ermodio, "parla, ragazzo! Ti ascolto volentieri; poiché infatti ciò che hai appena detto rivela che sei dotato di un intelletto perspicace, se non addirittura di una saggezza profonda, senza contare che ancora ti sa la bocca di latte". "Sapete bene", proseguì l'altro, "sapete bene, o grande mago, che un giorno, nel bel mezzo di un consiglio di stato in cui si decideva che ciascun vassallo avrebbe dovuto essere obbligato a fornire annualmente una certa quantità di spirito al magazzino centrale di tutto il divertimento del regno - che avrebbe poi provveduto a rifornire i poveri in caso di carestia o di siccità -, re Ofioch improvvisamente disse: 'Il momento in cui l'uomo cade, è quello in cui si innalza il suo vero Io'. Voi sapete che re Ofioch, non appena ebbe pronunciate queste parole, cadde davvero a terra e non si rialzò più perché era morto. Poiché avvenne che proprio nello stesso istante anche la regina Liris chiudesse gli occhi per non riaprirli mai più, allora il consiglio di stato, visto che alla coppia reale mancava qualsiasi discendenza, venne a trovarsi in non piccolo imbarazzo circa la successione al trono. L'astronomo di corte, uomo di grande buon senso, escogitò alla fine un espediente per poter mantenere il paese ancora per lunghi anni sotto il saggio governo del re Ofioch. Egli propose infatti di procedere come già era accaduto per un famoso principe degli spiriti (re Salomone) al quale, dopo che era già morto da lungo tempo, gli spiriti ancora ubbidivano. A seguito di tale proposta, venne chiamato a far parte del consiglio il falegname di corte; e costui fabbricò un grazioso sostegno di legno di faggio che venne infilato sotto al sedere di re Ofioch, dopo che il suo corpo, conservato mediante l'opportuna applicazione delle erbe e delle spezie più eccezionali, ebbe assunto una posa regale. Per mezzo di una corda segreta, il cui capo pendeva come battacchio di una campana nella sala delle riunioni del gran consiglio, il suo braccio veniva comandato in modo tale che egli sembrasse muovere lo scettro di qua o di là. Nessuno dubitava che re Ofioch fosse vivo e regnasse davvero. Ma qualcosa di molto strano accadde invece alla Fonte di Urdar. L'acqua dello stagno da essa formato restò limpida e chiara; eppure, tra tutti coloro che vi guardavano dentro, ve n'erano ora molti che, invece di trarre un eccezionale piacere dal vedervi rispecchiata tutta la natura e se stessi, erano presi dalla collera e dal disappunto in quanto, secondo loro, guardare le cose - e soprattutto il proprio Io - a testa in giù era contrario a qualsiasi dignità, a qualsiasi ragione umana, a qualsiasi saggezza a caro prezzo raggiunta. E sempre più numerosi divennero coloro i quali sostenevano che in fin dei conti i vapori del limpido stagno turbavano i sensi e trasformavano la conveniente e appropriata serietà in uno stato di follia. Pieni di rabbia, presero allora a gettare ogni sorta d'immondizie nel lago, cosicché esso perse la sua cristallina trasparenza e divenne sempre più torbido, finché alla fine fu simile a una sudicia palude. Tutto ciò, o saggio mago, ha portato molte disgrazie al paese; poiché la gente più distinta si prende a schiaffi, sostenendo che sia questa la vera ironia dei saggi. Ma la più grande sciagura è avvenuta proprio ieri, poiché al buon re Ofioch è accaduta la stessa cosa del principe degli spiriti. Senza che nessuno se ne accorgesse, un tarlo malvagio aveva roso il sostegno e così, all'improvviso e nel bel mezzo del suo governo, sua maestà è caduta giù davanti agli occhi di una gran folla che si pigiava nella sala del trono, cosicché oramai la sua dipartita non può più essere taciuta. Io stesso, grande mago, stavo tirando il cordone dello scettro che, nel momento in cui sua maestà ruzzolò giù, sfrappandosi mi sferzò la faccia in un modo tale che di tirar cordoni ne ho avuto abbastanza finché campo... Tu, o saggio Ermodio, hai sempre fedelmente provveduto alle sorti del paese del Giardino di Urdar; dimmi dunque cosa potremo fare ora, per far sì che un degno successore prenda le redini del governo, e il Lago di Urdar torni a essere limpido e trasparente?". Il mago Ermodio sprofondò in lunghe riflessioni, poi disse: "Attendete nove volte nove notti, poi dal Lago di Urdar fiorirà la regina del paese! Nel frattempo però governate il paese come meglio potete!". E allora avvenne che raggi di fuoco guizzarono al di sopra di quella palude, che una volta era stata la Fonte di Urdar. In realtà erano gli spiriti del fuoco che, con occhi fiammeggianti, vi guardavano dentro, mentre dalle profondità gli spiriti della terra salivano contorcendosi in superficie. Ma dal fondo divenuto ormai secco e arido spuntò e fiorì un fior di loto, nel cui calice giaceva una bella bambina assopita. Era la principessa Mistilis, e i quattro ministri che erano andati a consultarsi con il mago Ermodio la tolsero con ogni precauzione dalla sua bella culla, e la nominarono reggente del paese. Questi stessi quattro ministri assunsero la tutela della principessa, e cercarono di curare e di seguire la cara fanciulla quanto meglio poterono. Ma di nuovo caddero in profonda preoccupazione quando la principessa, divenuta ormai abbastanza grande da poter parlare come si deve, cominciò a esprimersi in una lingua che nessuno comprendeva. Dai quattro angoli della terra vennero convocati esperti per studiare la lingua della principessa, ma la triste e terribile sorte volle che, quanto più i filologi erano sapienti e saggi, tanto meno comprendevano i discorsi della fanciulla, i quali tuttavia suonavano perfettamente ragionevoli e comprensibili. Nel frattempo, il fior di loto aveva nuovamente chiuso il suo calice; ma tutt'attorno a esso il cristallo dell'acqua più pura zampillava in tante piccole sorgenti. Di ciò i ministri ebbero a rallegrarsi moltissimo, poiché credevano fermamente che al posto della palude sarebbe presto tornato a risplendere il bello specchio d'acqua della Fonte di Urdar. Riguardo alla lingua della principessa, i saggi ministri decisero di consultare il mago Ermodio, cosa che del resto avrebbero già dovuto fare da tempo... Penetrati che furono all'interno delle paurose tenebre del bosco misterioso, quando già le pietre della torre occhieggiavano attraverso il fitto fogliame, s'imbatterono in un vecchio che sedeva su di una roccia leggendo pensieroso un grosso libro: essi non poterono fare a meno di riconoscere in lui il mago Ermodio. Per via del freddo serale, Ermodio si era gettato sulle spalle una nera veste da camera e si era messo in testa un berretto di zibellino, che non gli stava certo male, ma che gli conferiva un aspetto strano e persino lugubre. Ai ministri sembrò pure che la barba di Ermodio fosse tutta in disordine: essa infatti somigliava a un irsuto cespuglio. Dopo che i ministri ebbero umilmente esposto i loro desideri, Ermodio si levò, li fulminò con uno sguardo così terribile da farli quasi cadere all'istante in ginocchio, e poi esplose in una tale risata che risuonò minacciosa per tutto il bosco, spaventando gli animali, che si misero a scappar via tra gli alberi con grande strepito, mentre gli uccelli sfrecciarono fuori da quel fittume tra strida di un terrore mortale! I ministri, che non avevano mai visto né conferito con il mago Ermodio in circostanze in cui il suo umore fosse così inselvatichito, si sentirono mancare la terra sotto i piedi; ma intanto attendevano in reverente silenzio cosa avrebbe fatto il grande mago. Il mago si risedette sulla grossa pietra, aprì il libro e lesse con voce solenne:
Nera una pietra v'è nell'aula oscura,
Ove del sonno preda i real sposi,
La pallida e muta morte sul volto,
L'eco sonora dell'incanto attesero!
Sotto tal pietra, al fondo, sta sepolto
Ciò che è eletto alla gioia della vita
Per Mistilis. Nato da gemme e fiori,
Il più bel dono irradierà per lei.
Il variopinto uccello è preso in rete,
Tessuta da fatata esile mano.
La cecità scompare, si dileguano
Le nebbie, il nemico da sé s'uccide!
Per meglio udir, l'orecchio ora tendete!
Per meglio veder, gli occhiali mettetevi,
Se validi ministri esser volete!
Se restate asini, non v'è salvezza!
«E su questa parola, il mago richiuse il libro con una tale violenza che nel bosco risuonò una specie di forte tuono, e tutti i ministri caddero seduti per terra. Ma quando si furono ripresi, il mago era sparito. Allora tutti insieme concordarono che c'è molto da soffrire per il bene della patria; poiché altrimenti sarebbe stato davvero insopportabile che quel rozzo tipaccio d'un astronomo e negromante per due volte nello stesso giorno avesse chiamato asini i più eminenti sostegni dello stato. D'altro canto, ebbero essi stessi a stupirsi della saggezza con la quale avevano risolto l'enigma del mago. Giunti che furono nel Giardino di Urdar, si recarono immediatamente nella sala in cui il re Ofioch e la regina Liris avevano trascorso dormendo tredici volte tredici lune, sollevarono la nera pietra che era stata collocata al centro del pavimento e, sprofondato nella terra, trovarono un piccolo cofanetto del più prezioso avorio meravigliosamente intagliato. Essi lo consegnarono nelle mani della principessa Mistilis, la quale subito spinse una molla in modo che all'istante il coperchio si sollevò ed ella poté estrarre il piccolo e graziosissimo completo da tombolo che si trovava nel cofanetto. Aveva però appena preso in mano il completo da tombolo che scoppiò in una fragorosa risata di gioia, e quindi si mise a parlare in modo del tutto comprensibile: "Nonnina me lo aveva messo nella culla; ma voi birbanti mi avete rubato questo tesoro, e non me lo avreste mai e poi mai restituito, se non aveste fatto parecchi capitomboli nel bosco!". E subito la principessa si mise a lavorare alacremente al tombolo. I ministri, in visibilio, già si disponevano a far tutti insieme salti di gioia, quando la principessa all'improvviso restò come impietrita, e poi prese a restringersi sempre più, finché non divenne una minuscola e graziosissima bambola di porcellana. Se prima la gioia dei ministri era stata grande, tanto maggiore fu ora la loro disperazione. Essi piangevano e singhiozzavano talmente che si sentivano in tutto il palazzo, finché uno di loro, sprofondato in meditazione, improvvisamente si arrestò, si asciugò le lacrime con le due falde del mantello, e disse: "Ministri... colleghi... compagni... Quasi quasi credo che il grande mago abbia ragione, e che noi siamo... ma sì, lasciamo perdere che cosa siamo!... Ma l'enigma è dunque risolto? E l'uccello variopinto è dunque stato fatto prigioniero?... Ecco, la trina a tombolo è la rete con cui dev'essere catturato". Per ordine dei ministri vennero così riunite nel palazzo le più belle dame del regno, vere fate per grazia e bellezza e abbigliate con magnifici abiti, per mettersi a lavorare alacremente al tombolo... Ma a che serviva? L'uccello meraviglioso non si faceva vedere; la principessa Mistilis restava una bambolina di porcellana, le zampillanti sorgenti della Fonte di Urdar si asciugavano sempre più, e tutti i vassalli del reame erano caduti nel più amaro sconforto. Avvenne però allora che i quattro ministri, prossimi alla disperazione, si sedettero presso la palude, che era stata un tempo la bella e limpida superficie del Lago di Urdar, e qui scoppiarono in alti lamenti, supplicando il mago Ermodio con le più commoventi preghiere di aver pietà di loro e del misero paese di Urdar. Un profondo sospiro salì dalla profondità, il fior di loto aprì il suo calice e da esso saltò fuori il mago Ermodio che, tutto infuriato, così parlò: "Sciagurati!... Ciechi!... Mastro ero io colui che vi ha parlato nel bosco: era il malvagio demone Tifone, che vi ha incantato con le sue perfide magie nere, e ha evocato l'empio mistero dello scrigno col tombolo!... E tuttavia, per sua stessa disdetta, ha detto molte più verità di quante avrebbe voluto. Le delicate mani di quelle dame tanto simili a fate lavorino pure a tombolo, e venga pur catturato il variopinto uccello, ma ascoltate ora il vero indovinello, la cui soluzione scioglierà anche l'incantesimo della principessa"».
Il vecchio aveva letto fino a questo punto quando si arrestò, si alzò dal trono e, rivolgendosi alle bamboline che stavano in piedi sull'altare di porfido al centro del cerchio, così disse:
«Ottimi, eccellentissimi sposi reali, caro re Ofioch, onoratissima Liris, non rifiutate più di seguirci in pellegrinaggio nel comodo abito da viaggio che vi ho dato!... Io, il vostro amico Ruffiamonte, esaudirò ciò che ho promesso!».
Poi Ruffiamonte guardò tutt'attorno nel cerchio delle dame, e disse: «È oramai gran tempo che mettiate da parte il fuso, e pronunciate la misteriosa formula magica del grande mago Ermodio, proprio come l'ha pronunciata lui dal calice del meraviglioso fior di loto».
E mentre Ruffiamonte con una bacchetta d'argento scandiva il ritmo con colpi poderosi che risuonavano sulle pagine del libro aperto, così parlarono in coro le dame, dopo aver abbandonato i loro scranni e aver formato uno stretto cerchio attorno al mago:
Dov'è il paese dei cieli blu assolati
Che gioia della terra di fiori infiamma?
Dov'è la città in cui frastuono allegro
Nel bel tempo da sé serietà libera?
Dove giostrano gaie le figure
Di fantasia in un mondo in uovo avvolto?
Dove sol vale il poter dell'incantesimo?
Chi è quell'Io che, aprendosi il petto, vita
Dall'Io dar può al Non-Io, e senza dolore
Conceder può delizie senza fine?
Il paese, la città, il mondo, I'Io, tutto
È or trovato, lo scruta con chiarezza
L'Io ardimentoso che dal mondo è nato,
E se, sconvolto da follia dei sensi,
Con tormenti lo coglie invidia pallida,
Pur l'intimo spirto verità sgorga
Allora il regno apre l'ago mirabile
Del maestro e con scherzo folle concede
Dignità di sovrano a chi - gran cosa -
La real coppia dal sogno desterà.
Viva il lontano bel paese di Urdar!
Limpida, chiara splende la sua fonte,
Strappate son le catene diaboliche,
Sorgon dal profondo mille delizie.
Per l'entusiasmo si gonfia ogni petto?
Ogni tormento per la gioia si placa.
Ma che brilla là nel folto del bosco?
Ah, quale giubilo lungi risuona!
La regina arriva!... Andiamole incontro!
L'Io ella ha trovato! Ermodio s'è placato!
A questo punto, gli struzzi e i mori levarono alto un grido confuso, nel quale si mischiarono anche una quantità di altri pigolii e cinguettii di strani uccelli. Ma più forte di tutti gridava Giglio che, risvegliatosi dal suo stupore, aveva d'un tratto ripreso il controllo di sé e ora aveva la sensazione di trovarsi sulla scena di un qualche spettacolo burlesco: «Per tutti santi! Che succede qui? Fatela finita ora con tutte queste assurde pazzie! Siate ragionevoli, e ditemi soltanto dove posso trovare l'eccellentissima principessa, la splendida Brambilla! Io sono Giglio Fava, il più celebre attore al mondo, che la principessa Brambilla ama e vuole elevare ad alti onori... Ascoltatemi dunque! Dame, mori, struzzi, non lasciatevi incantare da tutte queste sciocchezze! Io la so molto più lunga di quel vecchio lassù; poiché io sono niente di meno che il moro bianco!».
Ma quando, alla fine, le dame si accorsero di Fava, scoppiarono in un'acutissima risata e si lanciarono su di lui. Giglio stesso non avrebbe saputo dire come mai all'improvviso si fosse impadronita di lui una terribile paura, però cercava con tutte le forze di sottrarsi alle dame. Ma ciò non gli sarebbe certo riuscito se non avesse avuto la felice idea di allargare il suo mantello e, come fosse provvisto di ali, di volare su fin nella cupola della sala. Allora le dame si misero a gettargli dei grandi panni, facendolo sbattere di qua e di là, finché alla fine, esausto, ricadde a terra. A quel punto, le dame gli gettarono sulla testa una rete di merletto, mentre gli struzzi portavano un'enorme gabbia d'oro, nella quale Giglio venne rinchiuso senz'alcuna pietà. In quell'attimo stesso, si spense la lanterna, e tutto scomparve come per il tocco di una bacchetta magica.
Poiché la gabbia si trovava in prossimità di una grande finestra spalancata, Giglio poteva guardar giù nella strada, che però, dal momento che tutta la gente era ormai già entrata nei teatri o nelle osterie, era del tutto deserta e inanimata cosicché il povero Giglio, schiacciato dentro l'angusto abitacolo, si ritrovò in sconsolata solitudine. «È questa, dunque», prese a lamentarsi, «è questa la felicità sognata? È questo ciò che accade per via del dolce, meraviglioso mistero celato in Palazzo Pistoia?... Io li ho visti, i mori, le dame, il vecchietto del tulipano, gli struzzi, li ho visti come si sono tutti infilati attraverso la stretta porta; mancavano solo i muli e i paggi adorni di piume!... Ma Brambilla non era tra loro..., no, non è qui, la splendida immagine dei miei appassionati desideri, la fiamma ardente del mio amore!... Oh, Brambilla!... Brambilla!... E in questo infame carcere dovrò miseramente perire, senza mai più poter recitare il moro bianco!... Oh! Oh!... Oh!».
«Chi è lassù, che si lamenta tanto?», si sentì dire dalla strada. Giglio riconobbe immediatamente la voce del vecchio ciarlatano, e una luce di speranza si accese nel suo petto angosciato.
«Celionati», disse Giglio tutto agitato, «caro signor Celionati, siete dunque voi colui che io scorgo al chiar di luna?... Io sono qui rinchiuso in gabbia, in una condizione disperata. Mi hanno rinchiuso qui dentro come un uccello!... Oh Dio! Signor Celionati, voi siete un uomo virtuoso, che non dimentica il prossimo; ai vostri ordini obbediscono forze straordinarie, dunque aiutatemi, ah, aiutatemi a uscire da questa situazione penosa e maledetta!... Oh, libertà, dorata libertà, chi ti apprezza più di colui che langue in gabbia, anche se in una gabbia d'oro?». Celionati scoppiò in una fragorosa risata, ma poi disse: «Vedete, Giglio, tutto questo lo dovete alla vostra dannata stoltezza, alle vostre assurde fissazioni!... Cosa vi è saltato in mente di entrar dentro Palazzo Pistoia con una mascherata di così dubbio gusto? Come potete infilarvi in mezzo a una riunione alla quale non siete stato invitato?». «Come?», esclamò Giglio, «il più bello di tutti gli abiti, il solo con cui avrei potuto degnamente mostrarmi all'adorata principessa voi lo chiamate una mascherata di dubbio gusto?» «Proprio», replicò Celionati, «e infatti proprio il vostro bel vestito è responsabile del modo in cui siete stato trattato». «Ma che, son forse diventato un uccello?», gridò Giglio, pieno di rancore e di collera. «D'altra parte», continuò Celionati, «le dame vi hanno preso proprio per un uccello, anzi proprio per uno di quelli del cui possesso sono avide, vale a dire per un pappagallo!». «Oh Dio!», esclamò Giglio completamente fuori di sé. «Io, Giglio Fava, il celebre eroe tragico, il moro bianco!... Io, scambiato per un pappagallo!». «Ma ora, signor Giglio», gridò Celionati, «abbiate pazienza e - se ci riuscite - dormite, più tranquillo che potete! Chissà cosa vi porterà di buono il nuovo giorno!». «Abbiate pietà di me, signor Celionati, liberatemi da questo maledetto carcere! E in Palazzo Pistoia non rimetterò mai più piede!». «A dire il vero», replicò il ciarlatano, «a dire il vero, non vi siete davvero meritato che io mi occupi ancora di voi, poiché avete disprezzato tutti i miei buoni consigli per gettarvi nelle braccia del mio nemico mortale, l'abate Chiari, il quale, finalmente è ora che lo sappiate, vi ha spinto in questa sciagura con i suoi versi da strapazzo, pieni di menzogne e d'inganni. Tuttavia... in realtà voi siete un bravo ragazzo, e io uno stupido dal cuore tenero, e l'ho dimostrato più volte; perciò voglio salvarvi. Come ricompensa, spero bene che domani comprerete da me un paio di occhiali nuovi e un esemplare del dente assiro». «Vi comprerò tutto quel che volete; solo, liberatemi, liberatemi subito! Sono già mezzo soffocato!». Così diceva Giglio, e intanto il ciarlatano era salito fino a lui su di una scala invisibile e aveva aperto un grosso sportello della gabbia: attraverso quell'apertura il povero pappagallo tentava di infilarsi con grande fatica.
Ma proprio in quel momento, nel palazzo si levò un baccano d'inferno di mille voci che stridevano e strillavano tutte insieme. «Per tutti gli spiriti!», gridò Celionati. «Si sono accorti della vostra fuga, fate in modo di venir fuori di lì!». Con la forza della disperazione, Giglio riuscì a farcela, e senza più pensare a nulla saltò in strada; poi riprese il controllo, anche perché non s'era fatto neppure un graffio, e come indiavolato corse via da lì.
«Sì», esclamò completamente fuori di sé una volta che, giunto nella sua stanzetta, guardò l'assurdo abito con cui aveva combattuto il suo stesso Io, «sì, questo pazzo demonio che ora giace lì privo del corpo, quello è il mio Io, e questi abiti principeschi li ha rubati a un pappagallo quel nero diavolo per appiccicarmeli addosso, in modo che quelle belle dame, per un tragico errore, scambiassero me per un uccello!... Sto dicendo sciocchezze, lo so; ma è giusto che sia così, visto che anch'io sono impazzito a vedere che l'Io non ha più corpo... Via, via, alza i tacchi, alza i tacchi, mio caro, bellissimo Io!»... e così dicendo, si strappò di dosso inferocito i begli abiti, si rinfilò la mascherata assurda e scappò verso il Corso.
Ma si sentì invaso da tutte le gioie del paradiso quando una fanciulla dalle sembianze angeliche gli venne incontro, tamburello in mano, e lo invitò a ballare.
L'incisione che accompagna questo capitolo mostra proprio questa danza di Giglio con la bella sconosciuta; ma ciò che avvenne dopo, il benevolo lettore lo potrà apprendere nel capitolo successivo.
CAPITOLO SESTO
Come fu che uno, ballando, divenne principe, poi cadde svenuto tra le braccia di un ciarlatano e quindi, a cena, ebbe forti dubbi sulle capacità del suo cuoco. - Liquor anodynus e tanto rumore per nulla. - Duello cavalleresco di due amici immersi nell'amore e nella malinconia e sua tragica conclusione. - Svantaggi e sconvenienza dell'annusar tabacco. - Frammassoneria di una ragazza e un apparecchio per volare di recente invenzione. - Come la vecchia Beatrice inforcò una paio d'occhiali e poi se li levò.
LEI Gira, gira più forte, turbina ancora senza sosta, folle e allegra danza!... Ah, come tutto ci vola attorno, rapido come il baleno! Non rallentare, non fermarti!... Molteplici, variopinte figure scoppiettano come le scintille lampeggianti d'un fuoco d'artificio e poi scompaiono nella nera notte... Il piacere rincorre il piacere, senza riuscire ad afferrarlo, e proprio in questo consiste il piacere stesso. Non c'è nulla di più noioso che dover render conto d'ogni parola, restando con i piedi ben piantati per terra! E tuttavia non vorrei davvero essere un fiore; piuttosto preferirei essere un maggiolino dorato, che ti vola e ti ronza attorno al capo, tanto che dal frastuono non riesci più a percepire neanche il tuo stesso cervello, che è trascinato via dai turbini della gioia più sfrenata. Ora, fattosi troppo pesante, strappa i fili e precipita nell'abisso, ora, invece, divenuto troppo leggero, se ne vola via nel nebbioso circolo celeste. Mentre si balla, non si può conservare un raziocinio davvero raziocinante; perciò, almeno fin tanto che durano le nostre piroette, i nostri passi, preferiamo metterlo da parte del tutto... E perciò, mio elegante e svelto cavaliere, non voglio render conto di nulla neppure a te!... Vedi come, girandoti attorno, io ti sfuggo proprio nel momento in cui hai creduto di avermi afferrato e di tenermi stretta!... E anche ora!... E ora ancora!...
LUI E invece no!... No, t'ho mancato!... Ma dipende solo dal fatto che, ballando, si pensa solo a trovare e a mantenere il giusto equilibrio... Per questo è necessario che ciascun ballerino tenga in mano qualcosa, che funga da asta dell'equilibrista; e, a questo scopo, voglio sguainare la mia larga spada e farla roteare in aria... Ecco, così!... Che ne pensi di questi salti, di questa posizione, nella quale affido tutto il mio Io al baricentro collocato nella punta del mio piede sinistro?... Tu definisci tutto ciò una leggerezza assurda; ma proprio in questo sta invece quel raziocinio, che tu non tieni in alcuna considerazione, senza contare però che, se se ne è privi, non si comprende nulla, neppure l'equilibrio, che invece per alcune cose è tanto necessario!... Ma come?... Circondata come sei, e come sono anch'io, da nastri variopinti, oscillando sulle punte dei piedi e agitando in alto il tuo tamburello, tu pretenderesti che io rinunciassi a ogni raziocinio, a ogni equilibrio?... Devo forse gettarti una falda del mio mantello, cosicché tu, accecata, inciampandovi mi cada tra le braccia?... Ma no, no davvero!... Non appena io ti avessi afferrata, tu non ci saresti più, scompariresti nel nulla! Chi sei tu dunque, essere misterioso che, nato dal fuoco e dall'aria, appartieni alla terra e tuttavia, seducente, mi fissi dal profondo delle acque?... Certo non potrai sfuggirmi. Eppure... ora vuoi scendere a terra, e io mi illudo di tenerti stretta, ma ecco che tu ti libri di nuovo nell'aria. In realtà sei tu forse quel potente spirito elementare, che accende la vita e la fa vivere? Sei tu forse la malinconia, il desiderio appassionato, l'estasi, la gioia celestiale dell'essere?... Ma sempre gli stessi passi... le stesse piroette! E tuttavia, o bellissima, la tua danza è eternamente nuova, e questa è certo la cosa più straordinaria in te...
IL TAMBURELLO Quando tu, ballerino, mi senti confusamente battere, tintinnare e suonare, puoi forse pensare che io voglia darti a intendere qualcosa con ogni sorta di sciocchi e banali pettegolezzi, oppure che io sia un oggetto balordo e incapace di cogliere il tono e il ritmo della tua melodia, mentre invece sono proprio io colui che ti fa mantenere il tono e il ritmo. E dunque, obbediscimi... obbediscimi... obbediscimi!
LA SPADA Tu, ballerina, credi che io non possa servirti a nulla, dal momento che sono di legno, sorda e roca, senza tono né ritmo. Ma sappi invece che sono solo le mie oscillazioni a dare alla tua danza il tono e il ritmo... Io sono spada e cetra, e posso ferire l'aria col canto e col suono, con fendenti e con affondi... E dunque, obbediscimi... obbediscimi... obbediscimi!
LEI Come aumenta sempre più la sintonia della nostra danza!... E che passi, che salti!... Sempre più arditi... sempre più arditi, eppure ci riescono così bene, proprio perché ci intendiamo sempre meglio sul nostro ballo!
LUI Ah! come ci circondano mille scintillanti cerchi di fuoco! Quale gioia!... Grandioso fuoco di artificio, non dovrai spegnerti mai più; infatti, la tua materia è eterna come il tempo stesso... Eppure... ferma... ferma... io brucio... io cado nel fuoco...
TAMBURELLO E SPADA Tenetevi forte, tenetevi forte a noi, ballerini!
LEI E LUI Ohimè... vertigini... turbini... vortici... afferrateci... portateci giù!
Questa, parola per parola, fu la fantastica danza che Giglio, nel modo più aggraziato, ballò con la bellissima - la quale certo non poteva essere che la principessa Brambilla stessa - finché poco mancò che non perdesse i sensi nell'ebbrezza di una gioia estatica. Ma ciò non avvenne; piuttosto, proprio mentre il tamburello e la spada ammonivano ripetutamente di tenersi forte a loro, parve a Giglio di cadere nelle braccia della bella. Ma anche questo non avvenne; colui invece cui finì tra le braccia non era davvero la principessa, bensì il vecchio Celionati .
«Non so proprio», fece Celionati, «non so proprio, eccellentissimo principe (poiché infatti, nonostante la vostra stravagante mascherata, vi ho riconosciuto alla prima occhiata), come vi venga in mente di farvi imbrogliare tanto grossolanamente, visto che normalmente siete un signore intelligente e scaltro. Per fortuna mi trovavo proprio qui per accogliervi nelle mie braccia, nel momento in cui quella donna di malaffare era sul punto di rapirvi, approfittando di un vostro capogiro».
«Vi ringrazio», replicò Giglio, «vi ringrazio di cuore per la vostra buona disposizione, carissimo signor Celionati, ma ciò che andate dicendo di un grossolano imbroglio non lo capisco proprio, e mi dispiace solo che quel fatale capogiro mi abbia impedito di terminare la mia danza con la più straordinaria, la più bella di tutte le principesse, con colei che mi avrebbe fatto completamente felice».
«Ma che dite», continuò Celionati, «che dite?... Davvero credete che fosse veramente la principessa Brambilla a danzare con voi?... Ebbene, no!... Proprio in questo consiste il bieco imbroglio, cioè nel fatto che la principessa Brambilla si è scambiata con una persona di basso ceto, per potersi intanto dedicare indisturbata a un'altra faccenda amorosa». «Com'è possibile», gridò Giglio, «com'è possibile che io sia stato ingannato così?».
«Riflettete», continuò Celionati, «riflettete sul fatto che, se la vostra ballerina fosse stata davvero la principessa Brambilla, e se aveste concluso felicemente la vostra danza, in quell'istante stesso sarebbe dovuto apparire il gran mago Ermodio, per condurre voi e la vostra nobile sposa nel vostro regno».
«Questo è vero», replicò Giglio, «ma ditemi allora, com'è accaduto tutto questo, con chi ho ballato veramente?».
«Saprete tutto», disse Celionati, «dovete saperlo. Comunque, se vi sta bene, vi accompagnerò nel vostro palazzo e lì, signor principe, potremo parlare più tranquillamente».
«Siate tanto gentile», disse allora Giglio, «da accompagnarmici! In verità, devo ammettere che la danza con la presunta principessa mi ha preso a tal punto che io mi aggiro trasognato, e al momento non saprei dire dove, qui a Roma, si trovi il mio palazzo». «Venite pure con me, graziosissimo signore!», esclamò Celionati, prendendo Giglio per un braccio e allontanandosi da lì.
Si andò dritto filato verso Palazzo Pistoia. Quando già si trovava sulla scalinata di marmo dinanzi al portale, Giglio squadrò il palazzo da sotto in su, dicendo a Celionati: «Se dite che questo è davvero il mio palazzo, della qual cosa certo non oso dubitare, allora mi sono capitati tra capo e collo ospiti ben stravaganti, che lassù, in quelle bellissime sale, fanno una baraonda spaventosa e si danno un sacco di arie, come se la casa appartenesse a loro e non a me. Certe dame impudenti, con costumi dell'altro mondo, scambiano persone perbene e ragionevoli - e, che i santi mi proteggano, credo che persino a me stesso, il padrone di casa, sia successo questo - per strani uccelli, che devono catturare con reti che l'arte delle fate ha tessuto con mani delicate, e ciò causa grande scompiglio e fastidi. Mi pare quasi di esser stato chiuso qui dentro in un'infame gabbia; per questo, non ci torno tanto volentieri. Se fosse possibile, caro Celionati, far in modo che, per oggi, il mio palazzo fosse da qualche altra parte, ne sarei davvero ben felice».
«Il vostro palazzo, nobile signore», replicò Celionati, «non può davvero trovarsi in alcun altro luogo che qui, e sarebbe davvero contrario a tutte le apparenze che voi prendeste alloggio in casa altrui. Potete soltanto pensare, o mio principe, che tutto ciò che noi o altri facciamo qui non corrisponde alla verità, ma è solo un capriccio completamente inventato, e da tutta quella gente matta che si aggira lassù non riceverete il benché minimo incomodo. Entriamo pure dentro senza preoccupazioni!».
«Ma ditemi un po'», esclamò Giglio, trattenendo Celionati che stava per aprire la porta, «ma ditemi un po', non è dunque entrata qui dentro la principessa Brambilla con il negromante Ruffiamonte, e un lungo seguito di dame, paggi, struzzi e asini?».
«Certamente», replicò Celionati. «Ma questo non vi deve impedire di entrarvi, anche se in punta di piedi, poiché il palazzo appartiene a voi non meno che alla principessa. Ma molto presto vi ci troverete proprio come a casa vostra».
Così dicendo, Celionati aprì la porta del palazzo, spingendo Giglio avanti. Nell'anticamera era tutto buio e regnava un silenzio di tomba; eppure, quando Celionati bussò leggermente alla porta, apparve subito un piccolo graziosissimo Pulcinella, con due candele accese in mano.
«Se non mi sbaglio», disse Giglio al piccolo, «se non mi sbaglio, ho già avuto l'onore di vedervi, caro signore, sul tetto della carrozza della principessa Brambilla». «E così, infatti» replicò il piccolo, «allora ero al servizio della principessa, e in un certo qual modo vi sono ancora, anche se di preferenza sono ormai diventato il servitore perpetuo del vostro grazioso Io, carissimo principe!».
Pulcinella fece luce ai due nuovi arrivati, introducendoli in una splendida sala; quindi si ritirò, facendo però notare che sarebbe subito saltato fuori ovunque e in qualsiasi momento il principe lo avesse comandato, semplicemente spingendo una molla; poiché infatti, senza contare che qui al piano dabbasso era lui l'unico scherzo infilato in una livrea, egli era in grado, grazie alla sua sfacciataggine e sveltezza, di sostituire tutta intera la servitù.
«Ah!», esclamò Giglio, guardandosi attorno nella ricca sala magnificamente addobbata. «Ah! Solo ora mi rendo conto di essere davvero nel mio palazzo, nella mia camera principesca. Il mio impresario la fece decorare, ma poi restò in debito e al pittore, quando gli sollecitò il pagamento, diede un ceffone tale che il macchinista aggredì l'impresario con la fiaccola di una Furia!... Sì!... mi trovo nella mia regale dimora!... Ma, carissimo signor Celionati, voi volevate sottrarmi a un tremendo imbroglio che avrei subìto nella danza. Parlate, vi prego, parlate! Ma prima accomodiamoci!».
Dopo che entrambi, Giglio e Celionati, si furono seduti sui morbidi divani, il secondo prese a dire: «Sappiate, mio principe, che quella certa persona che vi è stata messa vicino al posto della principessa, altri non è che una graziosa modista, di nome Giacinta Soardi!».
«È mai possibile?», esclamò Giglio. «Mi pare proprio che questa ragazza abbia per fidanzato quel miserabile attore povero in canna, quel Giglio Fava». «Appunto», replicò Celionati. «E tuttavia, riuscite a credere che la principessa Brambilla correva per mari e per monti proprio dietro a questo miserabile attore povero in canna, a questo principe delle scene, e che soltanto per questo vi ha messo di fronte la sartina, in modo che, forse, per un assurdo e folle malinteso, voi vi innamoriate di lei, e così la rubiate a quell'eroe del teatro?».
«Che idea!», disse Giglio. «Che idea diabolica!... Ma credetemi, Celionati, si tratta solo di un malvagio e diabolico incantesimo, che confonde tutto e scambia ogni cosa in modo folle; ma quest'incantesimo, io lo distruggerò con la mia spada, che impugnerò con mano valente, annientando quel miserabile che osa essere amato dalla mia principessa».
«Fatelo», replicò Celionati con una risata beffarda, «fatelo, carissimo principe! Anche a me sta molto a cuore che quell'idiota mi venga tolto dai piedi prima possibile».
Allora Giglio ripensò a Pulcinella e ai servigi che aveva offerto. Pigiò così su una certa molla nascosta; Pulcinella saltò subito fuori e poiché, come aveva promesso, era in grado di sostituire tutta una svariata serie di servitori, e fungeva contemporaneamente da cuoco, cantiniere, cameriere e coppiere, fu anche in grado di preparare in pochi secondi un pasto davvero eccellente.
Dopo aver mangiato a crepapelle, Giglio osservò che, per quanto riguardava i cibi e le bevande, ci si accorgeva fin troppo che era stata una sola persona a preparare, portare a tavola e servire: tutto infatti aveva lo stesso, identico sapore. Celionati disse che forse proprio per questo la principessa Brambilla all'epoca doveva averlo licenziato dal suo servizio, visto che lui, nella sua precipitosa presunzione, voleva sempre occuparsi di tutto da solo, cosa su cui spesso veniva in lite con Arlecchino, il quale appunto pretendeva di far lo stesso...
Nel capriccio originale, davvero straordinario, che il narratore ha per modello, qui si trova una lacuna. Per parlare da un punto di vista musicale, quel che manca qui è il passaggio da una tonalità all'altra, cosicché il nuovo accordo privo dell'opportuna preparazione, stacca di netto. Sì, si potrebbe proprio dire che il capriccio s'interrompe con una dissonanza irrisolta. Infatti, si dice che il principe (e non si può intendere nessun altro se non Giglio Fava, che minaccia di morte Giglio Fava stesso) venne allora preso da uno spaventoso mal di pancia, da ascriversi senza dubbio alle pietanze preparate da Pulcinella, ma poi venne curato da Celionati con il liquor anodynus e quindi si addormentò, al che si scatenò un enorme pandemonio... Ma non c'è modo di venire a sapere né che cosa sia questo pandemonio, né in qual modo il principe alias Giglio Fava, e Celionati siano usciti da Palazzo Pistoia.
Il racconto seguita all'incirca come segue:
Non appena cominciò a scendere la sera, sul Corso fece la sua apparizione una maschera che attirò l'attenzione generale, per via della sua originalità e bizzarria. Sulla testa portava un cappuccio strambo, ornato di due lunghe penne di gallo, sul viso una maschera con il naso a forma di proboscide d'elefante, su cui aveva poggiato un grosso paio d'occhiali, poi un corsetto con grandi bottoni, il tutto però accompagnato da un elegante paio di calzoni di seta celeste con lacci color amaranto, calze rosa, scarpe bianche con lacci anch'essi amaranto, e una bella spada appuntita al fianco.
Il benevolo lettore conosce questa maschera fin dal primo capitolo, e dunque sa bene che essa non può nascondere altri che Giglio Fava. Ma essa aveva appena fatto un paio di volte il Corso, quando fece la sua comparsa uno straordinario Capitan Pantalone Brighella, proprio quello che già più volte si è presentato in questo capriccio, il quale si gettò sulla nostra maschera con occhi fiammeggianti d'ira, gridando: «Alla fine t'incontro, pazzo d'un eroe di cartapesta!... miserabile moro bianco!... Ma ora non mi scapperai più!... Sguaina la tua spada, codardo, difenditi, o io ti trafiggerò da parte a parte!».
Così dicendo, l'ardito Capitan Pantalone si mise ad agitare in aria la sua spada di legno; ma Giglio, a questa improvvisa aggressione, non si scompose minimamente, anzi si mise a parlare tutto tranquillo e sereno: «Chi è mai questo rozzo screanzato che vuole sfidarmi a duello proprio qui, senza aver la minima idea di quali siano i veri costumi cavallereschi? Sentite, amico mio, se voi davvero mi riconoscete come il moro bianco, allora dovete anche sapere che sono un eroe e un cavaliere, e che solo la vera maniera cortese mi impone di circolare con calzoni celesti, calze rosa e scarpe bianche. Infatti, questo è il costume da ballo in uso presso Re Artù. Però al mio fianco scintilla anche un'ottima spada, e io mi opporrò a voi cavallerescamente, se anche voi lo farete, e se sarete uomo d'onore e non soltanto un pagliaccio!».
«Perdonate», disse la maschera, «perdonatemi, o moro bianco, se anche solo per un attimo ho perso di vista quanto è da me dovuto all'eroe, al cavaliere! Ma quant'è vero che mi scorre nelle vene vero sangue principesco, vi mostrerò che ho letto libri di cavalleria straordinari, e non certo con minor profitto di voi».
Così dicendo, quel principesco Capitan Pantalone mosse alcuni passi indietro, sguainò la spada contro Giglio in posizione di guardia e, con l'espressione della più profonda benevolenza, disse: «Volete compiacervi?». Giglio, salutando graziosamente il suo avversario, trasse la spada dal fodero, e il duello incominciò. Ben presto si vide che entrambi, Capitan Pantalone e Giglio, si comprendevano benissimo in una simile impresa cavalleresca. Mentre i piedi sinistri restavano ben piantati a terra, i piedi destri ora avanzavano battendo il suolo per audaci affondi, ora si ritraevano in posizione di difesa. Le lame si intrecciavano luccicando, i colpi si susseguivano veloci come saette. Dopo un primo assalto focoso e minaccioso, i due duellanti dovettero riposarsi. Si guardarono, e l'impeto del duello accese in loro un amore tale che essi caddero l'uno nelle braccia dell'altro, piangendo. Ma poi la lotta riprese, con violenza e abilità raddoppiate. Ma proprio nel momento in cui Giglio stava per schivare un colpo ben calcolato del suo avversario, questo gli piovve proprio sul fiocco della gamba sinistra del pantalone, che cadde a terra come esiliato. «Fermo!», gridò Capitan Pantalone. La ferita venne esaminata e venne trovata insignificante. Un paio di spille bastarono a riattaccare il fiocco. «Ora voglio», disse Capitan Pantalone, «impugnare la spada nella mano sinistra, perché la pesantezza del legno mi ha stancato la destra. Ma tu puoi continuare a tenere la tua spada, che è tanto più leggera, nella mano destra». «Dio me ne scampi e liberi», replicò allora Giglio, «che io ti faccia un torto simile! Io pure terrò la spada nella mano sinistra; anzi, è persino più utile, perché così ti colpirò più facilmente». «Vieni sul mio petto, buono e nobile compagno», esclamò Capitan Pantalone. I duellanti si abbracciarono di nuovo, e piansero e singhiozzarono a più non posso per la commozione destata in loro dalla grandezza e magnanimità del loro stesso duello, poi si attaccarono ancora fieramente. «Fermo!», fu ora Giglio a gridare, notando che il suo colpo era finito sulla tesa del cappello dell'avversario. Questi, all'inizio, non volle saperne di ferite di sorta, ma poiché la tesa gli era caduta sul naso, dovette infine rassegnarsi ad accettare le generose profferte d'aiuto di Giglio. La ferita era irrilevante; il cappello, dopo che Giglio lo ebbe rimesso a posto, restava pur sempre un nobile feltro. I due contendenti si guardarono allora con accresciuto amore, poiché ciascuno di loro aveva riconosciuto la gloria e il valore dell'altro. Si abbracciarono, piansero, e poi di nuovo arse la fiamma della rinnovata lotta. Giglio fece una finta, la spada dell'avversario fu sul suo petto, ed egli cadde inanimato a terra.
Nonostante la tragica fine del duello, la folla scoppiò in fragorose risate, alle quali risuonò tutto il Corso e che accompagnarono l'uscita di scena del cadavere di Giglio; intanto, Capitan Pantalone rinfoderava con freddezza il suo spadone di legno nel fodero, e s'incamminava a passi alteri giù per il Corso...
«Sì», disse la vecchia Beatrice, «sì, è deciso, quel vecchio maledetto ciarlatano lo mandero a quel paese, se solo si farà vedere di nuovo da queste parti, a confondere la testa alla mia dolce, cara bambina. E poi, in fin dei conti, anche Mastro Bescapi è in combutta con le sue albagìe». La vecchia Beatrice poteva in un certo qual senso anche aver ragione; infatti, da quando Celionati si era preso a cuore di render visita alla bella sartina Giacinta Soardi, tutta l'anima di costei pareva come trasformata. Ella era infatti catturata in una sorta di sogno perpetuo, e a tratti diceva cose talmente bizzarre e confuse che la vecchia cominciava a preoccuparsi che stesse perdendo la ragione. L'idea centrale di Giacinta, attorno alla quale girava tutto il resto, era - come il benevolo lettore già può aver sospettato fin dal quarto capitolo - che il ricco e magnifico principe Cornelio Chiapperi fosse innamorato di lei e volesse sposarla. Beatrice era invece del parere che Celionati, Dio solo sapeva perché, avesse l'intenzione di prendere Giacinta un po' in giro; poiché, se fosse stata vera la storia dell'amore del principe, allora non si capiva proprio perché questi non fosse già da tempo andato a trovarla a casa sua, visto che di solito i principi non sono affatto così sciocchi in tali faccende. E poi, anche il paio di ducati che Celionati aveva dato loro, non erano assolutamente degni della generosità di un principe. In fin dei conti - pensava Beatrice - non esisteva proprio nessun principe Cornelio Chiapperi; e se anche ce ne fosse stato davvero uno, il vecchio Celionati in persona - lei lo sapeva bene - aveva annunciato al popolo dal suo banco davanti alla Chiesa di San Carlo che il principe assiro Cornelio Chiapperi, dopo essersi fatto cavare il dente del giudizio, era scomparso, e che la sua sposa, la principessa Brambilla, lo stava cercando.
«Vedete dunque», esclamò Giacinta con gli occhi che le brillavano, «vedete dunque? Ora avete la chiave di tutti questi segreti, e conoscete la ragione per cui il nobile e buon principe si nasconde con tanta cura. Poiché egli arde d'amore per me, teme la principessa Brambilla e le sue intenzioni, e tuttavia non riesce a prendere la decisione di lasciare Roma. Soltanto camuffato nelle mascherate più bizzarre osa farsi vedere sul Corso, e del resto è proprio lì che mi ha manifestato le prove più indubitabili del suo tenerissimo amore. Ma ben presto per il caro principe e per me brillerà in tutta la sua chiara luce la stella d'oro della felicità... Vi ricordate ancora di un azzimato attore che mi faceva sempre la corte, un certo Giglio Fava?».
La vecchia rispose che non ci voleva una grande memoria per ricordarselo, visto che il povero Giglio, che per lei era comunque da preferirsi a un maleducato d'un principe, solo l'altroieri era stato a trovarla, e aveva gustato di buon appetito il buon pranzetto che gli aveva preparato.
«Dunque», continuò Giacinta, «dunque, vecchia, credereste mai che la principessa Brambilla corre dietro a questo povero diavolo?... Questo è ciò che mi ha assicurato Celionati. Ma così come il principe ancora esita a presentarsi pubblicamente come mio fidanzato, anche la principessa continua ad avere ogni sorta di timori a rinunciare al suo precedente amore, e ad elevare al trono l'attore Giglio Fava. Ma nel momento stesso in cui la principessa tenderà la mano a Giglio Fava, il principe sarà felicissimo di ricevere la mia».
«Giacinta!», esclamò la vecchia, «che sciocchezze! che idee balorde!».
«Comunque», replicò Giacinta, «comunque quello che dite voi, cioè che il principe ha evitato sino ad ora di render visita all'innamorata nella sua stanzetta, è completamente falso.
Non credereste mai di quante graziose maniere si serve il mio principe per riuscire a incontrarmi senz'essere scorto. Infatti dovete proprio sapere che il mio principe, accanto alle tante altre lodevoli qualità e conoscenze che possiede, è anche un grande stregone. E non voglio neanche ripensare al fatto che una volta, di notte, mi fece visita, così piccolo, così carino, che avrei voluto mangiarmelo. Ma spesso egli appare all'improvviso proprio qui nel mezzo della nostra piccola stanza, anche quando ci sei tu, e dipende da te sola il fatto di non vedere né il principe né tutte le meraviglie che in quel momento si dischiudono. Che la nostra piccola stanzetta si trasformi allora in una grande e magnifica sala con pareti di marmo, tappeti intessuti d'oro, divani di damasco, tavoli e sedie di avorio e d'ebano, tuttavia, non è così bello come quando le mura scompaiono del tutto, e io passeggio con il mio innamorato, mano nella mano, nel più meraviglioso giardino che si possa immaginare. E che tu, vecchia, non riesca a percepire i celestiali profumi che spirano in questo paradiso non mi meraviglia affatto, visto che hai l'orribile abitudine di riempirti il naso di tabacco, e che neanche in presenza del principe riesci a fare a meno di tirar fuori la tua tabacchiera. Ma almeno potresti toglierti il fazzoletto dalla testa per ascoltare la musica di questo giardino, che incanta tutti i sensi e dinanzi alla quale sparisce qualsiasi dolore terreno, persino il mal di denti. Non puoi comunque trovare in alcun modo indecoroso che io permetta al principe di baciarmi tutt'e due le spalle; poiché infatti vedi bene come all'istante mi crescano le più belle, le più variopinte, le più splendenti ali di farfalla, e come io me ne voli via su, su nel cielo... Ah!... Questa è la vera gioia, quando con il mio principe veleggio così nell'azzurro del cielo... Tutto ciò che di bello esiste nel cielo e sulla terra, le ricchezze, i tesori, che essendo nascosti nel grembo della creazione si possono solo indovinare, si spalancano in quel momento dinanzi ai miei occhi estatici, e tutto... tutto è mio! E tu, vecchia, oseresti affermare che il principe sarebbe avaro, e che nonostante il suo amore per me, mi lascerebbe in miseria? Ma forse vuoi soltanto dire che io sono ricca solo quando il principe è presente; eppure, neanche questo è vero. Guarda un po', anche ora è stato sufficiente che io parlassi del principe e della sua magnificenza perché la nostra stanzetta si adornasse in modo così bello; guarda queste tende di seta, questi tappeti, questi specchi, ma più di tutto quello stupendo armadio, il cui esterno è ben degno del suo ricco contenuto! Basta infatti che tu apra appena una delle sue ante, perché ti cadano in grembo rotoli d'oro. E che ne dici di queste eleganti dame di corte, delle cameriere, dei paggi che il principe mi ha messo al servizio, prima che tutta un'intera scintillante corte circondi il mio trono?».
Così dicendo, Giacinta si mise dinanzi all'armadio cui il benevolo lettore ha già dato un'occhiata nel primo capitolo, e nel quale erano appesi gli abiti bellissimi, ma anche piuttosto singolari, che Giacinta aveva guarnito su ordinazione di Bescapi; con essi ella iniziò ora un colloquio a bassa voce.
La vecchia, scuotendo il capo, osservò ciò che Giacinta faceva, poi disse: «Che Dio vi aiuti, Giacinta! Però mi sembra proprio che siate prigioniera di una vera follia, e credo che chiamerò il curato per esorcizzare il diavolo che vi tormenta... Ma io ne sono sicura, è tutta colpa di quel ciarlatano che vi ha messo in testa il principe, e di quello stupido sarto che vi ha ordinato i più strani costumi... Ma non voglio perder tempo a brontolare!... Torna in te, mia cara bambina, mia cara Giacintinetta, torna in te, e sii brava come sempre!».
Giacinta si sedette silenziosa sulla sedia, appoggiò la testolina sulla mano, e sopra pensiero si mise a guardare nel vuoto!
«E se», continuò la vecchia, «se il nostro bravo Giglio abbandonasse le sue stravaganze... Ma, già!... Giglio!... Ehi!... Mentre ti guardo così, Giacintina, mi torna in mente ciò che una volta ci ha letto da un libriccino... Aspetta... aspetta... aspetta... ti va proprio a pennello». Dal fondo di un cesto pieno di nastri, merletti, pezze di seta e altro materiale da ricamo, la vecchia tirò fuori un piccolo libretto ben rilegato, si mise gli occhiali sul naso, si accovacciò davanti a Giacinta e cominciò a leggere:
«"Fu presso la solitaria riva muscosa di un ruscello nel bosco, oppure sotto un profumato pergolato di gelsomino?... No... Ora mi ricordo, fu in una piccola e accogliente stanzetta, attraversata dai raggi del tramonto, che la vidi la prima volta. Ella sedeva su di una poltroncina, la testa appoggiata alla mano destra, in modo che i neri riccioli arruffati le scendevano avanti tra le bianche dita. La sinistra riposava in grembo e giocherellava con un nastro di seta che le si era sciolto dalla vita snella e sottile che prima cingeva. I movimenti di questa mano erano involontariamente accompagnati dal piedino, la cui punta si affacciava tra le pieghe dell'ampia veste e dondolava piano piano. Devo ammettere che da tutta la sua figura spirava tanta grazia, tanto fascino celestiale, che il cuore mi sobbalzò in petto per un indicibile rapimento. Avrei desiderato possedere in quel momento l'anello di Gige: infatti, non avrei voluto che mi vedesse poiché temevo che, come un miraggio, ella sarebbe svanita nell'aria non appena i miei sguardi l'avessero toccata!... Un dolce sorriso beato le faceva splendere bocca e guance, mentre leggeri sospiri si insinuavano attraverso le sue labbra di rubino, e mi colpivano come incandescenti frecce d'amore. Ebbi un soprassalto: infatti avevo creduto di esclamare il suo nome ad alta voce, nell'improvviso spasimo di un'intima voluttà!... Ma lei non si era accorta di me, non mi aveva visto... Osai così guardarla negli occhi, che parevano fissi su di me, e nel riflesso di quel meraviglioso specchio mi si aprì allora lo stupendo giardino incantato nel quale quell'immagine angelica era persa. Rilucenti castelli in aria aprivano i loro portali e da essi usciva una folla lieta e multicolore, che giubilando recava alla bella i doni più ricchi e meravigliosi. Ma questi doni erano in realtà tutte le speranze, tutti i desideri più vivi che, nati nel profondo del suo animo, le agitavano ora il petto. Simili a onde di gigli, i merletti sopra i seni abbaglianti si sollevavano sempre più forte, e un luminoso colorito le ardeva sulle guance. Poiché solo allora si risvegliò il mistero della musica e nel cielo si espressero i più alti sentimenti... Potete credermi, al riflesso di quello specchio meraviglioso fui io stesso trasportato veramente nel mezzo di quel giardino incantato..."».
«Tutto ciò», disse la vecchia, chiudendo il libro e sfilandosi gli occhiali, «tutto ciò è davvero bello e ben detto; ma, santo cielo, che espressioni esagerate, per poi in realtà non dire niente di più del fatto che non esiste al mondo niente di più grazioso e attraente, per uomini di buon senso e di buon gusto, di una bella ragazza che se ne sta soprappensiero a far castelli in aria! E questo, come ho detto prima, ti calza a pennello, mia cara Giacintina, e tutto quello che mi sei andata raccontando del principe e delle sue meraviglie non è nulla di più che il sogno cui ti sei lasciata andare».
«E va bene», replicò Giacinta, alzandosi dalla sedia e battendo le mani come un bambino contento, «se anche così fosse, non assomiglierei forse proprio perciò a quella graziosa immagine incantata della quale avete appena letto?... Sappiate dunque che, mentre pensavate di leggere il libro di Giglio, non erano altro che le parole del principe a scorrervi sulle labbra, senza che voi nemmeno ve ne avvedeste!».
CAPITOLO SETTIMO
Come al «Caffè Greco» un giovane gentile si vide attribuire azioni riprovevoli, un impresario provò seri rimorsi e un figurino d'attore morì recitando una tragedia dell'abate Chiari. - Dualismo cronico e il doppio principe che pensava di traverso. - Come qualcuno, per un male agli occhi, vide a rovescio, poi perse la sua terra e non andò a passeggio. - Bisticcio, zuffa e separazione.
Certo il nostro benevolo lettore non potrà lamentarsi che, in questa storia, l'autore lo affatichi imponendogli lunghi percorsi in qua e in là. Al contrario, tutto si trova ben circoscritto entro una breve distanza, che si può misurare in poche centinaia di passi: il Corso, Palazzo Pistoia, il «Caffè Greco» e così via, e, senza contare il piccolo salto in direzione del paese del Giardino di Urdar, si resta sempre in questa stessa cerchia ristretta e rapida da percorrere. Così, facendo solo pochi passi, il benevolo lettore si verrà di nuovo a trovare al «Caffè Greco» dove, quattro capitoli fa, il ciarlatano Celionati ha raccontato ai giovani tedeschi la straordinaria e meravigliosa storia del re Ofioch e della regina Liris.
Dunque!... Nel «Caffè Greco» sedeva solo soletto un bel giovane elegantemente vestito, che sembrava immerso in profonde meditazioni; tanto che parve risvegliarsi dal sogno solo dopo che due uomini, entrati nel frattempo, lo ebbero chiamato due o tre volte di seguito: «Signore... signore... gentilissimo signore!»; allora, con maniere davvero civilissime e affabili, chiese in cosa potesse render servigio a lor signori...
L'abate Chiari - dobbiamo infatti rivelare che i due uomini altri non erano che l'abate Chiari in persona, il celebre autore dell'ancor più celebre Moro bianco, e quell'impresario che aveva messo la commedia al posto della tragedia - l'abate Chiari prese subito a dire: «Mio carissimo signor Giglio, come avviene dunque che non vi fate più vedere in giro, tanto che bisogna perder tempo a cercarvi per tutta Roma? Qui, davanti a voi, vedete un peccatore pentito, che la forza, il potere delle mie parole hanno convertito, e che ora vuole riparare tutti i torti che vi ha fatto e risarcirvi con generosità di tutti i danni!». «Sì», esclamò l'impresario prendendo la parola, «sì, signor Giglio, riconosco in pieno la mia stupidità, il mio accecamento... Come è potuto mai accadere che io disconoscessi il vostro genio, che potessi dubitare anche solo per un attimo che voi foste l'unico sostegno del mio teatro!... Tornate da me, per ricevere ancora sulle scene l'ammirazione e l'uragano di applausi del mondo intero!».
«Non so davvero», replicò l'elegante giovane, guardando pieno di meraviglia entrambi, l'abate Chiari e l'impresario, «non so davvero, miei signori, cosa desideriate veramente da me... Mi chiamate con un nome a me ignoto, e mi parlate di cose a me del tutto sconosciute... vi comportate come se mi conosceste, senza tener conto del fatto che io non mi ricordo davvero di avervi mai visto in vita mia!».
«È giusto», esclamò l'impresario, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, «è giusto, Giglio, che tu mi tratti così duramente, e che tu faccia finta di non conoscermi affatto; perché sono stato proprio un asino a cacciarti via dalla scena. Tuttavia... Giglio! Non essere implacabile, ragazzo mio! Qua la mano!».
«Signor Giglio», continuò l'impresario, «sarete voi stesso a fissare il vostro compenso; e poi, sarete voi, in assoluta libertà, a scegliervi il costume per il moro bianco, e non starò davvero a lesinare un paio di braccia di galloni intrecciati o un pacchetto di lustrini».
«Ma io vi dico», esclamò allora il giovane, «che per me tutto quello che andate blaterando è e rimane un enigma indecifrabile».
«Ah», gridò l'impresario pieno di collera, «ah, vi capisco, signor Giglio Fava, vi capisco perfettamente, vi capisco perfettamente; ora so tutto... Quel maledetto demonio di... preferisco non pronunciare il suo nome, per non bagnarmi le labbra di veleno... lui vi ha preso nella sua rete, vi tiene stretto nelle sue grinfie... siete prigioniero... siete prigioniero... Ma, ah, ah, ah,... sarà tardi quando ve ne pentirete, quando quel farabutto, quel miserabile d'un sarto, spinto dalla scatenata follia di una ridicola presunzione, quando con lui...».
«Vi prego», disse il giovane, interrompendo l'impresario furibondo, «vi prego, caro signore, non vi scaldate, restate calmo! Ora comprendo tutto il malinteso. Non è forse vero che mi avete scambiato per un attore di nome Giglio Fava il quale, come sono venuto a sapere, deve aver un tempo brillato a Roma come eccellente attore, sebbene fosse davvero un buono a nulla?».
Tutti e due, l'abate e l'impresario, fissarono il giovane quasi fosse un fantasma.
«Probabilmente», continuò il giovane, «probabilmente, miei signori, siete stati assenti da Roma e vi fate ritorno solo in quest'istante; perché altrimenti mi meraviglierei proprio che non foste già al corrente del fatto di cui parla tutta Roma. Mi dispiacerebbe davvero d'essere io il primo da cui veniste a sapere che quell'attore, Giglio Fava, che state cercando e che sembra starvi tanto a cuore, è stato colpito a morte proprio ieri in un duello su Via del Corso... Io stesso ho dovuto convincermi della sua morte».
«Oh, questa è bella», esclamò l'abate, «questa è bella davvero, questa è la più bella e la più grandiosa di tutte!... Era dunque il celebre attore Giglio Fava, quello che ieri una maschera pazza e grottesca ha colpito a morte, mandandolo disteso a gambe all'aria? Davvero, signor mio, dovete essere straniero a Roma e ben poco avvezzo ai nostri scherzi di carnevale, perché altrimenti sapreste bene che la gente, quando fu in procinto di sollevare e portar via il presunto cadavere, si trovò tra le mani solo un bel pupazzo di cartapesta, al che la folla scoppiò in una smisurata risata».
«Mi è ignoto», continuò il giovane, «mi è ignoto in quale misura l'attore tragico Giglio Fava non fosse davvero fatto di carne e ossa, bensì di cartapesta; quel che è certo, però, è che all'autopsia tutto il suo interno risultò riempito di manoscritti delle tragedie di un certo abate Chiari, e che i medici hanno attribuito l'effetto letale del colpo inferto a Giglio Fava dal suo avversario solo alla spaventosa ipersaturazione, nonché al completo logoramento di tutti i princìpi digestivi dovuto all'ingestione di tali nutrimenti, del tutto privi di succhi e di sostanza».
A queste parole del giovane, tutti i presenti scoppiarono in una sonora risata.
Durante questo strano colloquio, il «Caffè Greco» si era silenziosamente riempito dei clienti abituali, che erano soprattutto i giovani tedeschi: essi formarono un cerchio attorno ai tre dialoganti.
Se all'inizio, però, si era adirato l'impresario, ora invece fu l'abate a esprimere con molta più virulenza tutta la sua rabbia interiore. «Ah!», gridò, «ah, Giglio Fava! L'avete dunque fatto apposta! È a voi che devo tutto quello scandalo sul Corso!... Aspettate... La mia vendetta dovrà pur raggiungervi... schiacciarvi. . .».
Ma poiché, a quel punto, l'offeso poeta esplose in una sequela di bassi insulti e fece quasi l'atto di gettarsi sul giovane elegante assieme all'impresario, gli artisti tedeschi li afferrarono entrambi, gettandoli piuttosto brutalmente fuori dalla porta, cosicché essi volarono come saette proprio davanti a Celionati, che proprio in quel momento stava entrando e che gridò loro dietro un bel «Buon viaggio!».
Non appena il giovane elegante ebbe scorto il ciarlatano, gli si avvicinò rapido, lo prese per mano, lo condusse in un angolo appartato della stanza e prese a dirgli: «Se foste arrivato prima, mio carissimo signor Celionati, mi avreste liberato da due esseri fastidiosi che mi imputavano tutta una serie di azioni indegne, avendomi scambiato per l'attore Giglio Fava, che io stesso - ma sì, voi già lo sapete! - ieri, in uno sciagurato momento di follia, ho colpito a morte in Via del Corso... Ma ditemi, dunque, sono davvero così uguale a quel Fava, che mi si può scambiare per lui?».
«Non v'è dubbio», replicò il ciarlatano rispondendo educatamente, anzi persino umilmente al saluto, «non v'è dubbio, illustrissimo signore, che voi, nei vostri bei lineamenti, assomigliate davvero molto a quell'attore, e quindi è stato davvero opportuno che vi siate tolto dai piedi quel vostro doppio, cosa che siete riuscito a fare molto abilmente. Per quanto riguarda invece quello sciocco d'un abate Chiari con quell'impresario, contate pure su di me, carissimo principe! Saprò fare in modo di tenervi lontani tutti i fastidi che potrebbero bloccare la vostra guarigione. Non c'è niente di più facile che seminar zizzania tra un poeta tragico e un direttore di teatro, in modo che si attacchino orribilmente l'un l'altro e, in una lotta feroce, si dilanino vicendevolmente, come quei due leoni dei quali sul luogo della lotta non venne rinvenuto altro che le due code, spaventosa testimonianza dell'avvenuto omicidio... Non prendetevi troppo a cuore la vostra somiglianza con l'attore di cartapesta! Perché intanto ho l'impressione che quei giovani laggiù, quelli che vi hanno liberato dai vostri persecutori, sono convinti che voi non siate altri che Giglio Fava in persona».
«Oh!», mormorò il giovane elegante. «Oh, mio carissimo signor Celionati, per l'amor di Dio, non rivelate la mia identità! Certo sapete per quali ragioni devo rimanere nascosto fino alla mia completa guarigione».
«State tranquillo», replicò il ciarlatano, «state tranquillo, principe, pur senza tradirvi, saprò dire di voi quanto è necessario per conquistare l'interesse e l'amicizia di quei giovani, ma in modo tale che a essi non possa venir in mente di chiedere quale siano il vostro nome e la vostra condizione. Ma per ora fate finta di non prestarvi alcuna attenzione! Mettetevi a guardar fuori dalla finestra o a leggere i giornali, e così potrete unirvi al nostro discorso più tardi. Ma affinché quel che dirò non vi turbi, io parlerò in quella lingua che meglio è adatta a descrivere voi e la vostra malattia, e che per il momento non comprendete».
Così, come d'abitudine, il signor Celionati prese posto in mezzo ai giovani tedeschi, i quali tra grandi risate ancora raccontavano di come avessero scaraventato fuori su due piedi l'impresario e l'abate, proprio nel momento in cui stavano per dare addosso al giovane elegante. Parecchi di loro chiesero allora al vecchio se colui che stava affacciato alla finestra non fosse veramente il celebre attore Giglio Fava; ma quando egli negò, e anzi spiegò che si trattava di un giovane straniero di nobili origini, il pittore Franz Reinhold (il benevolo lettore l'ha già visto e ascoltato nel terzo capitolo) obiettò che non riusciva proprio a capire come si potesse trovare una qualsiasi somiglianza tra quello straniero e l'attore Giglio Fava. Certo, si doveva ammettere che la bocca, il naso, la fronte, gli occhi, la figura dei due potevano somigliarsi nella loro forma esteriore, ma l'espressione spirituale del volto - la quale per prima determina la somiglianza e che i ritrattisti, o per meglio dire i copiatori di volti, non riescono mai a cogliere, non producendo dunque mai immagini davvero somiglianti - proprio quest'espressione era tra i due così sideralmente differente che egli, da parte sua, non avrebbe assolutamente potuto scambiare lo straniero per Giglio. Quest'ultimo infatti aveva un viso inespressivo, mentre nel volto dello straniero c'era qualcosa di davvero insolito, il cui significato però egli stesso non riusciva a cogliere.
I giovani chiesero poi al vecchio ciarlatano di raccontar loro qualcosa di simile alla meravigliosa storia del re Ofioch e della regina Liris, che era piaciuta loro tantissimo, o piuttosto di continuare con la seconda parte di quella stessa storia, che egli doveva senza dubbio aver sentito dal suo amico, il mago Ruffiamonte alias Ermodio in Palazzo Pistoia.
«Cosa?», sbottò il ciarlatano, «che seconda parte?... che seconda parte? L'altro giorno mi sono forse arrestato a un certo punto, schiarendomi la gola, e ho forse detto inchinandomi: "Il seguito alla prossima volta"? E per di più, il mio amico, il negromante Ruffiamonte, il seguito di quella storia l'ha già letto in Palazzo Pistoia. È colpa vostra, e non certo mia, se vi siete persi quella riunione alla quale, come va di moda ora, assistevano anche alcune dame avide di sapere; e se io dovessi ora ripetere tutto quanto un'altra volta, ciò procurerebbe una noia spaventosa a una persona che non ci abbandona mai e che era pure presente a quella riunione, e dunque sa già tutto. Intendo proprio dire il lettore del capriccio intitolato La principessa Brambilla, una storia nella quale compariamo anche noi come attori... Ma basta, dunque, con il re Ofioch e la regina Liris, con la principessa Mistilis e l'uccello variopinto! Ora è di me, di me, che voglio parlare, se a voi, giovanotti scapestrati, ciò può andar bene!».
«E perché scapestrati?», chiese Reinhold. «Perché», rispose Mastro Celionati, sempre in tedesco, «perché voi mi considerate come uno che sta lì apposta a raccontarvi di tanto in tanto delle storie che suonano spassose solo per via dell'allegria che è contenuta in loro stesse e che vi fanno passare bene il tempo che avete deciso di dedicare ad ascoltarle. E invece io vi dico che quando l'autore mi ha inventato, si aspettava per me cose del tutto diverse, e se ora vedesse con quale indifferenza a volte mi guardate, potrebbe ben credere che gli sono proprio riuscito male... Ma ora basta, tanto nessuno di voi mi tributa quell'attenzione e quel rispetto che io invece mi merito a pieno titolo, per via della profondità del mio sapere. Così, ad esempio, avete tutti la misera opinione che, per quanto riguarda la scienza medica, io sia privo di serie basi e venda i miei rimedi fatti in casa come una panacea universale, valida sempre e comunque per qualsiasi malattia. Ma è ormai tempo che vi parli chiaro. Da molto molto lontano, vale a dire da un paese così distante che Peter Schlemihl, nonostante i suoi stivali delle sette leghe, dovrebbe camminare un anno intero per raggiungerlo, è giunto qui un giovane uomo molto illustre, proprio allo scopo di affidarsi alla mia efficacissima scienza medica, visto che soffre di una malattia che può a giusto titolo essere considerata la più strana, ma anche la più pericolosa che esista, e la cui guarigione dipende appunto da un arcano, il cui possesso presuppone una iniziazione magica. Questo giovane infatti è stato colpito da "dualismo cronico"».
«Come?», esclamarono tutti, torcendosi dalle risa, «come? Che dite mai, Mastro Celionati, dualismo cronico?... Non è davvero inaudito?». «Mi rendo conto», disse Reinhold, «che ci volete scodellare di nuovo qualche storia assurda e stramba, per prenderci in giro come al solito».
«Ehi», replicò il ciarlatano, «ehi, ragazzo mio, proprio tu non dovresti farmi una simile accusa, perché con te ho fatto sempre sul serio; e poiché tu, ne sono convinto, hai compreso per il verso giusto la storia del re Ofioch, e ti sei anche specchiato nelle limpide acque della Fonte di Urdar, dunque... Tuttavia, prima che continui a parlare, dovete sapere, signori, che il malato del quale ho intrapreso la cura è proprio quel giovane che se ne sta affacciato alla finestra, e che voi avete scambiato per l'attore Giglio Fava».
Pieni di curiosità, tutti volsero gli occhi verso lo straniero, e furono concordi che nei tratti del suo volto, del resto pieni di intelligenza, v'era tuttavia qualcosa di incerto, di confuso, che poteva far pensare a una pericolosa malattia, anzi in ultima analisi persino a una occulta follia. «Credo», disse Reinhold, «credo che voi, Celionati, col vostro dualismo cronico non intendiate in fondo nient'altro che quella strana follia per via della quale l'Io si scinde in due, cosicché non è più possibile mantenere intatta l'identità».
«Niente male», replicò il ciarlatano, «niente male, figlio mio! Anche se hai sbagliato, comunque! Infatti, se dovessi davvero farvi un rendiconto della bizzarra malattia del mio paziente, avrei quasi paura di non riuscire a spiegarvela in modo chiaro e comprensibile, evitando di usare termini scientifici, soprattutto visto che non siete medici... Ma proviamoci comunque! Lascerò che la cosa venga come vuole, ma prima di tutto voglio farvi notare che l'autore che ci ha creato e al quale dobbiamo tornar utili se davvero vogliamo esistere, non ha prescritto un tempo preciso per la nostra esistenza e per le nostre azioni. Mi è dunque molto comodo il poter presupporre, senza incorrere per ciò in alcun anacronismo, che a voi tutti, dagli scritti di un certo scrittore tedesco pieno d'ingegno, sia giunta la notizia del doppio principe ereditario. Una principessa si trovava (per parlare nuovamente per bocca di uno scrittore tedesco di pari ingegno) in uno stato ben diverso da quello del suo paese, vale a dire in stato interessante. Il popolo aspettava, e sperava in un principino; ma la principessa superò del doppio questa sua aspettativa, mettendo al mondo ben due deliziosi maschietti i quali, pur essendo gemelli, dovevano tuttavia esser considerati un solo individuo, in quanto erano attaccati insieme per la parte posteriore. Sebbene il poeta di corte sostenesse che la natura non avesse trovato in un solo corpo lo spazio sufficiente per ospitare tutte le virtù che il futuro erede al trono avrebbe dovuto portare in sé, e nonostante che i ministri cercassero di consolare il principe, che era un poco turbato per la doppia benedizione ricevuta, dicendogli che quattro mani avrebbero retto più vigorosamente di due lo scettro e la spada, e soprattutto che tutta la musica del governo suonata à quatre mains avrebbe avuto effetti più pieni e più grandiosi... ebbene, nonostante tutto ciò... persisteva un insieme di circostanze tale da giustificare certe legittime preoccupazioni. Tanto per cominciare, la più grande difficoltà venne incontrata nell'escogitare un modello pratico e al tempo stesso elegante per un certo vasetto, e ciò fece prevedere quale serio problema avrebbe in futuro rappresentato trovare la forma più adatta per il trono; parimenti, una commissione composta di filosofi e sarti solo dopo trecentosessantacinque sedute fu in grado di produrre la forma più comoda e contemporaneamente più aggraziata di doppi pantaloni; ma ciò che apparve davvero la cosa peggiore fu la totale diversità di carattere che veniva sempre più manifestandosi nei due. Se un principe era triste, allora l'altro era allegro; se uno voleva star seduto, allora l'altro voleva correre, insomma... le loro inclinazioni non combaciavano mai. E poi non si poteva mai dire con certezza di quale umore sarebbe stato l'uno e di quale l'altro; poiché infatti, nell'opposto gioco di uno scambio continuo, ciascuna natura sembrava trasferirsi nell'altra, e ciò doveva proprio derivare dal fatto che, oltre alla comune crescita fisica, c'era stata evidentemente anche una comune crescita spirituale, e proprio questo determinava la più grande scissione... Essi infatti pensavano di traverso, sicché nessuno dei due sapeva mai se ciò che aveva pensato lo aveva pensato davvero lui oppure il suo gemello; e se questo non è un vero e proprio caos, allora il caos non esiste. Pensate dunque che una persona abbia in corpo una specie di doppio principe che pensa di traverso, come materia peccans, e capirete subito qual è la malattia di cui sto parlando, i cui effetti si manifestano sostanzialmente nel fatto che il malato non comprende se stesso...».
Frattanto il giovane, senz'essere notato, si era avvicinato alla compagnia, e poiché tutti fissavano muti il ciarlatano, quasi attendessero un seguito, egli, dopo essersi educatamente inchinato, prese a dire: «Non so se lor signori hanno piacere che io mi unisca alla loro compagnia. Di solito sono ben accetto ovunque, quando sono in buona salute e di buon umore; ma certamente Mastro Celionati avrà raccontato cose così strane della mia malattia, che forse voi non desiderate d'esser infastiditi proprio da me».
Reinhold assicurò a nome di tutti che il nuovo ospite era davvero il benvenuto, e il giovane prese così posto in mezzo a loro.
Il ciarlatano si allontanò, non prima però di aver insistentemente raccomandato al giovane di attenersi alla dieta prescritta.
E come spesso avviene, avvenne anche qui che si iniziò subito a parlare di colui che aveva appena lasciato la stanza, e soprattutto a interrogare il giovane circa il suo bizzarro medico. Il giovane garantì che Mastro Celionati aveva alle spalle un'ottima formazione medica, che aveva seguito i corsi delle università di Halle e di Jena con grande profitto, e che ci si poteva fidare completamente di lui. E comunque, anche a parte tutto ciò, la sua opinione era che egli fosse un uomo bravo e simpatico, con il solo grossissimo difetto di scivolare continuamente nell'allegoria, cosa che invero gli nuoceva molto. Era fuor di dubbio che anche della malattia di cui aveva intrapreso la cura egli avesse parlato in termini piuttosto bizzarri. Reinhold spiegò allora che, secondo l'espressione del ciarlatano, egli, il giovane, aveva in corpo un doppio principe ereditario.
«Vedete», disse allora il giovane, sorridendo con grazia, «vedete, signori? Si tratta nuovamente di una pura e semplice allegoria, anche se Mastro Celionati conosce benissimo la mia malattia e sa perfettamente che io soffro semplicemente di un male agli occhi, dovuto al fatto che mi hanno fatto portare gli occhiali troppo presto, quand'ero bambino. Qualcosa dev'essersi allora rovinato nella mia pupilla; perché nella maggior parte dei casi io vedo tutto a rovescio, e così avviene anche che le cose più serie e gravi mi appaiono incredibilmente spassose, e viceversa le più spassose, serie e gravi. Questo però mi procura una spaventosa angoscia e tali capogiri che fatico a reggermi in piedi. E Mastro Celionati è convinto che, per quanto riguarda la mia guarigione, io debba frequentemente fare intenso moto; ma, santo cielo!, come devo fare?».
«Veramente», esclamò qualcuno, «egregio signore, poiché sembrate ben saldo sulle vostre gambe, non saprei proprio...», ma proprio in quel momento entrò nella sala una persona che è già nota al benevolo lettore, il celebre Mastro sarto Bescapi.
Bescapi si diresse verso il giovane, si inchinò profondamente e disse: «Mio graziosissimo principe!». «Graziosissimo principe?», esclamarono allora tutti insieme, fissando il giovane con la massima meraviglia. Ma costui rispose calmissimo: «Il mio segreto, purtroppo, è stato tradito dal caso! Ebbene sì, miei signori, sono davvero un principe, e per di più un principe infelice, perché tento invano di impadronirmi della mia eredità, un regno splendido e potente. Se ho detto prima che mi è impossibile fare molto moto, ciò dipende dal fatto che a me mancano completamente terra e spazio. E dunque, proprio perché sono chiuso all'interno di una superficie piccolissima, tutte le figure ai miei occhi si confondono, mi girano e mi rotolano davanti, cosicché non pervengo mai alla chiarezza; e questa è una cosa molto brutta giacché io, secondo la mia natura più propria e profonda, posso esistere solo nella chiarezza. Tuttavia, grazie alle cure del mio medico e di questo ministro, il più degno di tutti i mei degni ministri, e attraverso il felice matrimonio con la più bella delle principesse, credo proprio che guarirò e diverrò grande e potente, come già da lungo tempo avrei dovuto essere. E sin d'ora, carissimi signori, vi invito solennemente a farmi visita nei miei Stati, nella mia capitale. Vedrete che starete come a casa vostra, e che non vorrete più lasciarmi, perché soltanto presso di me riuscirete a condurre una vera vita d'artisti. Non crediate, carissimi signori, che mi dia delle arie, o che sia un vanesio spaccone! Lasciate solo che io sia di nuovo un principe sano, che riconosce i suoi sudditi anche se questi si mettono a testa in giù, e allora sperimenterete ciò che saprò fare per tutti voi. Io tengo fede alla parola data, quant'è vero che sono il principe assiro Cornelio Chiapperi!... Per il momento, tacerò ancora il mio vero nome e quello della mia patria; conoscerete entrambi a tempo debito... Ora però devo sedere a consiglio con questo mio illustre ministro riguardo ad alcuni importanti affari di stato, poi argomentare a proposito della pazzia, e quindi passeggiando nel cortile andare a vedere se dal letto caldo sia germogliato qualche buon motto di spirito». Così dicendo, il giovane prese sottobraccio il sarto ed entrambi si ritirarono.
«Che ne dite», disse Reinhold, «che ne dite, gente, di tutta questa storia? A me dà quasi l'impressione che il variopinto carosello di maschere di uno scherzo folle e favoloso ci faccia girare attorno sempre più veloce ogni sorta di figure, in modo tale che esse si confondano tutte e non si riescano più a distinguere. E allora, prendiamo anche noi le maschere e andiamocene sul Corso! Penso che quel pazzo di Capitan Pantalone sopravvissuto ieri a quel violento duello, oggi si farà di nuovo vedere e ne farà di tutti i colori!».
Reinhold aveva ragione. Capitan Pantalone se ne andava su e giù per il Corso, pieno di gravità e ancora risplendente di gloria per la sua vittoria del giorno prima, senza però far nulla di strano com'era suo solito, per quanto la sua smisurata serietà gli conferisse un aspetto ancor più comico di quello che aveva normalmente... Il benevolo lettore, che forse lo aveva indovinato già da solo, sa però ormai con certezza chi si nasconde sotto questa maschera. Nessun altro, infatti, che il principe Cornelio Chiapperi, il fortunato fidanzato della principessa Brambilla... E la principessa Brambilla, già, proprio lei doveva essere quella bella dama che, la maschera di cera sul volto, passeggiava maestosamente sul Corso, in abiti ricchissimi e sfarzosi. La dama pareva seguire Capitan Pantalone; infatti, gli girava attorno abilmente, tanto che egli sembrava non poterle sfuggire, e tuttavia riusciva alla fine a scappar fuori e a continuare la sua passeggiata con aria grave. Ma alla fine, proprio mentre era sul punto di sgattaiolare avanti con passo svelto, la dama lo afferrò per un braccio, dicendogli con voce dolce e amabile: «Sì, siete voi, mio principe! Il vostro incedere e i vostri abiti, così degni della vostra condizione (mai, del resto, ne avete portati di più belli), vi hanno tradito!... Oh, ditemi, perché mi sfuggite?... Non riconoscete più in me la vostra stessa vita, le vostre speranze?». «Io non so davvero, replicò capitan Pantalone, «non so davvero chi siate, bella dama! O, piuttosto, non oso indovinare, poiché spesso incorro in terribili errori. Davanti ai miei occhi, principesse si trasformano in modiste, attori in pupazzi di cartapesta, e dunque ho deciso di non sottopormi ad altre illusioni e fantasticherie e di distruggerle senza pietà ogniqualvolta le incontro».
«E allora», esclamò la dama piena di collera, «allora cominciate da voi stesso! Perché voi stesso, mio degnissimo signore, non siete proprio nient'altro che un'illusione!... Eppure no», continuò la dama, con tono dolce e tenero, «eppure no, mio caro Cornelio, tu sai bene qual è la principessa che ti ama, che ti ha seguito fino a qui da un paese lontano per cercarti, per essere tua!... E non hai tu forse giurato d'esser sempre il mio cavaliere?... Parla dunque, mio amato!».
La dama aveva di nuovo afferrato il braccio di Pantalone; ma egli la tenne lontana con il suo cappello appuntito, sguainando la larga spada e dicendo: «Guardate qua!... E caduto il segnale cavalleresco, a terra giacciono le penne di gallo del mio elmo; ho smesso di render servigi alle dame, perché esse sanno rendermi solo ingratitudine e infedeltà!». «Che andate dicendo?», gridò la dama infuriata. «Siete forse impazzito?». «Illuminatemi», continuò Capitan Pantalone, «illuminatemi pure con il diamante splendente che portate in fronte! Sventolatemi pure dinanzi la penna che avete strappato al variopinto uccello... Io resisterò a qualsiasi magia, perché sono e resto convinto che il vecchio col berretto di zibellino aveva ragione sul fatto che il mio ministro sia un asino e che la principessa Brambilla vada correndo dietro a un miserabile saltimbanco». «Oh, oh!», esclamò allora la dama, ancor più inferocita di prima, «oh, oh, visto che osate parlarmi con questo tono e che vi piace di atteggiarvi a bel principe triste, vi dirò che quell'attore, che voi definite miserabile e che purtroppo al momento è andato in pezzi, anche se io posso sempre farlo ricucire quando voglio, ai miei occhi è molto più degno di voi. Ma andatevene dunque dalla vostra modistina, dalla piccola Giacinta Soardi, poiché è a lei che ho sentito dire che correte dietro, ed elevatela fin sul vostro trono, che è ancora da piazzare da qualche parte, visto che per il momento non avete neppure un pezzettino di terra!... Che Dio vi protegga, per ora!...».
Così dicendo, la dama si allontanò da lì a passi rapidi, mentre Capitan Pantalone le gridava dietro con voce stridula: «Boriosa... infedele! È così dunque che ricompensi il mio amore profondo?... Ma io so come consolarmi!...».
CAPITOLO OTTAVO
Come il principe Cornelio Chiapperi non riuscì a consolarsi, baciò la pantofola di velluto della principessa Brambilla, ma poi entrambi vennero imprigionati nel merletto. - Nuove meraviglie del Palazzo Pistoia. - Come due negromanti attraversarono il Lago di Urdar a cavallo degli struzzi e poi presero posto nel fior di loto. - La regina Mistilis. - Come ricompaiono personaggi ben noti e il capriccio intitolato La principessa Brambilla trova un lieto fine.
Pareva frattanto che il nostro amico Capitan Pantalone, o piuttosto il principe assiro Cornelio Chiapperi (poiché il benevolo lettore ormai sa bene che quella maschera grottesca e strana altri non nascondeva che l'onorevolissimo principe in persona), ebbene sì!... sembrava proprio che non sarebbe riuscito mai a consolarsi. Il giorno seguente, infatti, se ne andava per il Corso lamentandosi ad alta voce d'aver perduto la più bella di tutte le principesse e che, se non l'avesse più ritrovata, in preda alla disperazione si sarebbe trafitto il cuore con la sua spada di legno. Ma poiché questi lamenti erano accompagnati dal gioco dei gesti più comici che si potessero vedere, in men che non si dica si vide circondato da maschere di tutti i generi che si divertivano alle sue spalle. «Dov'è?», esclamava lui con voce piangente, «dov'è finita la mia amata sposa, la dolce vita mia!... È dunque per questo che mi son fatto strappar via il mio bel dente del giudizio da Mastro Celionati? È per questo che ho attraversato i quattro angoli della terra alla ricerca di me stesso? Ebbene, sì!... È per questo che, dopo essermi alla fine ritrovato veramente, dovrò comunque trascinare una vita miseranda, privo d'amore e di gioia, e privo anche delle terre che mi spettano di diritto? Gente!... Se qualcuno di voi sa dove si nasconde la principessa, che apra la bocca e me lo dica subito, senza farmi lamentare ancora per nulla, oppure che corra dalla più bella e le annunci che il più fido dei suoi cavalieri, il più bello degli sposi si tormenta per la profonda nostalgia, per il cocente desiderio, e che nelle fiamme della sua pena d'amore potrebbe andar distrutta, come una seconda Troia, Roma intera, se lei non correrà qui al più presto a spegnere questa vampa con gli umidi raggi lunari dei suoi occhi celestiali!». I presenti scoppiarono in una fragorosa risata, ma una voce acuta si era messa intanto a gridare: «Pazzo d'un principe, pensate davvero che la principessa Brambilla debba venirvi incontro?... Avete dimenticato Palazzo Pistoia?». «Oh, oh», replicò il principe, «tacete, pappagallo saccente! Accontentatevi d'esser riuscito a scappare dalla gabbia!... Gente, guardatemi bene e ditemi se non sono io il vero uccello dai mille colori che dev'esser catturato nella rete di merletto?». La folla scoppiò nuovamente a ridere; ma d'un tratto Capitan Pantalone, quasi fosse completamente fuori di sé, si gettò in ginocchio; poiché infatti dinanzi a lui era apparsa proprio lei, la più bella, piena di splendore, di grazia, di dolcezza, vestita di quegli stessi abiti nei quali egli l'aveva scorta la prima volta sul Corso, soltanto che al posto del cappellino portava ora sulla fronte uno stupendo e abbagliante diadema, dal quale si innalzavano piume colorate. «Sono tuo», esclamò il principe in estasi, «ti appartengo interamente! Guarda le piume che porto sul cimiero! Esse sono la bandiera bianca che ho innalzato, poiché io mi arrendo ai tuoi voleri, o essere divino!». «È così che doveva accadere», replicò la principessa; «arrenderti dovevi a me, che sono una potente sovrana, poiché altrimenti saresti rimasto un principe miserabile e privo di regno. Ora dunque giurami eterna fedeltà, su questo simbolo del mio illimitato potere!».
Così dicendo, la principessa mostrò una piccola, graziosissima pantofola di velluto, e la porse al principe il quale la baciò tre volte, non senza aver prima solennemente giurato alla principessa fedeltà eterna e imperitura, quant'è vero che aveva cara la vita. Non appena ciò fu accaduto, risuonò un acuto e penetrante: «Brambure bil bal... Alamonsa kikiburva sonton!...» e la coppia fu circondata da quelle dame avvolte in ricchi talari che, come il benigno lettore certo ricorderà, nel primo capitolo erano entrate in Palazzo Pistoia, e dietro a esse stavano i dodici mori sfarzosamente abbigliati, i quali tuttavia, invece delle lunghe lance, tenevano in mano grandi piume di pavone meravigliosamente splendenti e le agitavano qua e là nell'aria. Le dame gettarono allora sulla coppia veli di merletto, che facendosi sempre più numerosi e pesanti, alla fine la nascosero in una profonda oscurità.
Quando però, nel forte clangore di corni, timpani e piccoli tamburi, la nebbia del merletto si dissipò, la coppia si ritrovò all'interno di Palazzo Pistoia, e in particolare in quella stessa sala in cui si era introdotto, solo pochi giorni prima, quell'impertinente dell'attore Giglio Fava.
Ma la sala appariva ora più bella, molto più bella di allora. Infatti, invece di un solo lampadario a illuminare la sala ne pendevano dal soffitto un centinaio, cosicché tutto pareva proprio ardere e brillare di fuoco; le colonne di marmo che sostenevano la cupola erano avvolte da ricche ghirlande di fiori; lo strano pergolato che formava il soffitto, non si capiva se fossero ora uccelli dalle piume variopinte, ora graziosi amorini, ora invece meravigliose figure animali a fluttuarvi dentro e ad animarlo, mentre dalle pieghe dei drappeggi dorati del baldacchino del trono spuntavano splendenti ora qua ora là volti amichevoli e ridenti di bellissime fanciulle. Come allora ma in abbigliamento ancor più fastoso, le dame stavano tutt'attorno, ma non lavoravano a tombolo, bensì ora prendevano da vasi d'oro bellissimi fíori e li spargevano per la sala, ora agitavano incensieri, dai quali si sprigionava un delizioso profumo. Sul trono, teneramente abbracciati, stavano il negromante Ruffiamonte e il principe Bastianello da Pistoia. Che costui altri non fosse che il ciarlatano Celionati non c'è quasi bisogno di dirlo. Alle spalle della coppia principesca, vale a dire dietro al principe Cornelio Chiapperi e alla principessa Brambilla, stava un omino dal variopinto mantello che teneva in mano un bel cofanetto d'avorio con il coperchio aperto, nel quale non si trovava altro che un piccolo, scintillante ago da cucito, che egli fissava con un sereno sorriso.
Il negromante Ruffiamonte e il principe Bastianello da Pistoia si sciolsero infine dal loro abbraccio, continuando per un po' a stringersi le mani. Ma poi, con voce ferma, il principe gridò agli struzzi: «Orsù, brava gente! portate un po' qui il grande libro, cosicché il mio amico, il venerabile Ruffiamonte, possa leggervi ciò che ancora resta da leggere!». Gli struzzi, a grandi balzi, si allontanarono da lì e andarono a prendere il grande libro, posandolo poi sulle spalle di un moro inginocchiato, e quindi aprendolo.
Il mago, che nonostante la sua lunga barba bianca, aveva un aspetto incredibilmente carino e giovanile, avanzò, si schiarì la gola, e lesse i seguenti versi:
Oh Italia!... paese di cieli assolati
Che gioia della terra di fiori infiamma!
Oh bella Roma, ove frastuono allegro
A carneval da sé serietà libera!
Di fantasia giostrano le figure
Gaie su scena come in uovo avvolta;
Qui sol regna il grazioso incantesimo.
Il genio può, aprendosi il petto, vita
Dall'Io dar al Non-Io, in alta gioia
Il dolore dell'essere cangiando.
Il paese, la città, il mondo, l'Io-tutto
È or trovato. Nel ciel limpido e chiaro
Si conosce la coppia, in fede avvinta,
L'illumina la verità profonda.
Non più li coglie la pallida invidia
O turba i sensi la follia dei saggi;
Aperto ha il regno allor l'ago mirabile
Del maestro. Uno scherzo folle concede
Dignità di sovrano al Genio, e osa
Alla vita dal suo sogno destarlo.
Udite! Già si libran dolci i suoni,
E tutto tace, sol per ascoltarli;
L'arco del ciel smagliante azzurro illumina,
Fonti e boschi bisbigliano, sussurrano.
Di mille delizie incantata terra,
Schiuditi in brama, muta brama in brama,
Quando si specchia alla fonte dell'amore!
Le acque si gonfian... Nei flutti gettatevi!
Lottate con ardor! Sarete a riva,
E un'estasi fiammeggerà d'attorno!
Il mago richiuse il libro; ma in quello stesso istante un vapore infuocato prese a uscire dall'imbuto d'argento che portava sulla testa, riempiendo via via sempre più l'intera sala. E tra armoniosi rintocchi di campane, tra suoni di arpe e tube, tutto cominciò a muoversi e a fondersi insieme. La cupola si sollevò, trasformandosi in un lieto arcobaleno, le colonne divennero alti palmizi, la stoffa dorata cadde a terra e subito fu un variopinto e luminoso tappeto di fiori, e il grande specchio di cristallo si sciolse in un lago limpido e splendente. Il vapore infuocato uscito fuori dall'imbuto del mago si era ormai dissolto e fresche aure balsamiche spiravano attraverso un immenso giardino incantato, pieno dei più straordinari cespugli, alberi e fiori. La musica risuonava più forte, un lieto giubilo riempiva l'aria, mentre mille voci cantavano:
Viva il lontano bel paese di Urdar!
Limpida, chiara splende la sua fonte,
Strappate son le catene diaboliche!
All'improvviso tutto tacque, la musica, il giubilo, il canto; in un profondo silenzio, il mago Ruffiamonte e il principe Bastianello da Pistoia saltarono in groppa ai due struzzi e nuotarono fino al fior di loto che, come una lucente isola, emergeva nel mezzo del lago. Essi si arrampicarono fin dentro il calice di questo fior di loto, e coloro che, fra tutti quelli che si erano radunati attorno al lago, avevano buona vista, notarono molto chiaramente che i negromanti tiravano fuori da un cofanetto una piccola, graziosissima bambola di porcellana e la depositavano dentro al calice del fiore.
Avvenne allora che la coppia di innamorati, cioè il principe Cornelio Chiapperi e la principessa Brambilla, svegliatisi dal sopore nel quale erano caduti, senza volere guardarono dentro il limpido lago, sulla cui riva si trovavano. E fu proprio nel momento in cui si scorsero nel lago che si riconobbero, si guardarono e scoppiarono in una risata che, per il suo suono meraviglioso, poteva essere paragonata soltanto a quella del re Ofioch e della regina Liris, finché, al culmine dell'estasi, non caddero l'uno nelle braccia dell'altra.
E non appena la coppia incominciò a ridere, allora, o meraviglia indicibile!, dal calice del fior di loto si levò una divina immagine femminile, e divenne sempre più alta, finché il capo non toccò il cielo, mentre si vedeva che i suoi piedi erano ben appoggiati nella profondità del lago. Nella rilucente corona sulla sua testa sedevano il mago e il principe, guardando giù verso la folla che, fuori di sé dalla gioia ed ebbra di entusiasmo, giubilava e gridava: «Lunga vita alla nostra grande regina Mistilis!», mentre tutt'attorno con meravigliosi accordi risuonava la musica del giardino incantato.
E di nuovo mille voci presero a cantare:
Sorgon dal profondo liete delizie
E rilucendo volan verso i cieli.
Mirate la regina ritrovata!
Dolci sogni inghirlandano il suo capo,
Sotto il suo passo s'apron ricchi scrigni.
Il vero esser, nel germe della vita
Compresero, si riconobber - risero!
La mezzanotte era ormai passata, la gente sciamava dai teatri. Allora la vecchia Beatrice chiuse la finestra dov'era affacciata, e disse: «Ormai è tempo che prepari tutto; perché tra poco torneranno i padroni, e magari porteranno con sé anche il buon Mastro Bescapi». Come quella volta che Giglio aveva dovuto portarle fin su il paniere riempito di leccornie, anche quella sera la vecchia aveva acquistato tutto per una cena squisita. Ma, a differenza di allora, non doveva ormai più penare in quel buchetto angusto che avrebbe dovuto essere una cucina, né nelle misere stanzette del signor Pasquale. Ora invece aveva a disposizione un comodo focolare e un locale ampio e luminoso, mentre i padroni potevano muoversi a loro piacimento in tre o quattro stanze non troppo grandi, ma ammobiliate con bei tavoli e sedie e con tutto il resto, e nell'insieme davvero piuttosto piacevoli.
Mentre apriva una tovaglia di fine lino sopra il tavolo, che aveva spinto nel mezzo della stanza, la vecchia borbottava tra sé e sé: «Beh, è stata davvero una gran cosa che il signor Bescapi non solo ci abbia ceduto questa bella casa, ma ci abbia anche così generosamente fornito di tutto il necessario. Ora la miseria ci ha davvero lasciati per sempre!».
La porta venne aperta ed entrò Giglio Fava con la sua Giacinta.
«Fatti abbracciare», disse Giglio, «fatti abbracciare, mia dolce, mia cara sposina! Lascia che io ti dica con tutto il cuore che solo dal momento in cui mi sono unito a te la più limpida e fantastica gioia ha animato la mia vita... Ogni volta che ti vedo recitare la parte di Smeraldina, o altre parti che danno vita al vero divertimento, o quando io ti sto a fianco nei panni di Brighella o di Truffaldino o di qualche altro personaggio fantastico e umoristico, nell'animo mio si apre tutto un mondo fatto della più audace e spirituale ironia, che infiamma la mia recitazione... E tuttavia dimmi, amor mio, quale spirito straordinario si è impadronito oggi di te?... Mai finora avevi saputo scoccare dal profondo del tuo animo lampi del più aggraziato umorismo femminile; né mai prima eri stata più amabile che in questo stato d'animo, tanto audace e fantasioso».
«Lo stesso», replicò Giacinta, posando un leggero bacio sulle labbra di Giglio, «lo stesso potrei dire di te, mio amato Giglio! Anche tu oggi sei stato più grandioso che mai, e forse non ti sei neppur reso conto che, tra le risate incessanti e soddisfatte degli spettatori, abbiamo continuato per una buona mezz'ora a improvvisare la nostra scena madre... Ma dunque non ti ricordi più che giorno è oggi? E non indovini in quali ore fatali ci ha colto questo straordinario entusiamo? Non ti ricordi più che proprio oggi è un anno dal giorno in cui abbiamo guardato nella Fonte di Urdar e ci siamo riconosciuti?».
«Giacinta», esclamò Giglio con lieta sorpresa, «Giacinta, di che parli?... C'è qualcosa di simile a un sogno nel mio ricordo, il Giardino di Urdar... il Lago di Urdar!... Ma no!... non è stato un sogno... ci siamo riconosciuti!... Oh, mia carissima principessa!».
«Oh, mio amato principe!». E qui nuovamente si abbracciarono, e risero forte ed esclamarono: «Là è la Persia... là l'India... ma qui Bergamo... qui Frascati... i nostri regni confinano... anzi, no, si tratta di un solo e unico regno, nel quale regniamo noi, una potente coppia di prìncipi, è proprio il regno bello e straordinario del paese di Urdar... Ah, che gioia!».
Così dicendo, si misero a esprimere il loro gaudio correndo e saltando tutt'attorno nella stanza, e poi caddero di nuovo l'una nelle braccia dell'altro, baciandosi e ridendo.
«E dunque», borbottava frattanto la vecchia Beatrice, «guardate un po' se non sembrano ragazzini scatenati?... Già un anno che son sposati, ed eccoli qui a stuzzicarsi, a sbaciucchiarsi e rincorrersi e... santo Dio!... quasi quasi mi rovesciano la tavola apparecchiata!... Oh oh, signor Giglio, non mi ficcate l'orlo del cappotto nel tegame... signora Giacinta, abbiate pietà della porcellana e lasciate perdere!».
Ma quei due non fecero per nulla attenzione alla vecchia, e continuarono col loro scherzo. Alla fine, Giacinta prese Giglio per il braccio, lo guardò negli occhi, e disse: «Ma dimmi, caro Giglio, lo hai dunque riconosciuto l'ometto alle nostre spalle, col mantello variopinto e la scatolina d'avorio?».
«E perché no?», replicò Giglio, «perché no, dunque? Era proprio il buon signor Bescapi con il suo ago creativo, il nostro fedele impresario attuale, che per primo ci ha portato sulla scena in quella forma esteriore che meglio si addice alla nostra intima natura. E chi avrebbe mai potuto pensare che questo vecchio ciarlatano pazzo...».
«Già», lo interruppe Giacinta, «già, quel vecchio Celionati col suo mantello stracciato e il cappello bucato...».
«Che costui fosse davvero il vecchio, favoloso principe Bastianello da Pistoia?». Così disse l'uomo imponente che, vestito di abiti sontuosi, era appena entrato nella stanza.
«Ah!», esclamò Giacinta, mentre gli occhi le brillavano di felicità, «ah! onorevolissimo signore, siete dunque voi?... Come siamo felici, io e il mio Giglio, che ci abbiate fatto visita nella nostra casetta!... Non rifiutateci ora di fermarvi a cenare con noi, e così potrete raccontarci come stiano davvero le cose con la regina Mistilis, il paese di Urdar e il vostro amico, il mago Ermodio o Ruffiamonte; infatti, ancora non riesco a capacitarmi di tutta questa storia».
«Non servono», rispose il principe di Pistoia con un sorriso dolce, «non servono, mia cara e dolce bambina, altre spiegazioni; quel che conta è che tu abbia compreso te stessa e quel bel tipo sfrontato cui pare aver molto giovato d'esser diventato tuo marito... Vedi, mèmore di quand'ero ciarlatano, potrei facilmente dar la stura a una grande quantità di parole, al tempo stesso misteriose e piene di vanagloria; potrei dire che tu sei la fantasia, le cui ali sono essenziali all'umorismo per sollevarsi in volo, ma che senza il corpo dell'umorismo tu non saresti che un paio d'ali che, in balìa dei venti, svolazzerebbero nell'aere senza scopo. Ma non voglio farlo, soprattutto per la buona ragione che in tal modo cadrei nell'allegorico, vale a dire in un errore che già il principe Cornelio Chiapperi a ragione rimproverò un giorno al vecchio Celionati al "Caffè Greco". Voglio soltanto dire che esiste davvero un cattivo dèmone, che indossa berretti di zibellino e neri mantelli e che, spacciandosi per il gran mago Ermodio, non solo riesce a stregare la brava gente qualsiasi, ma anche regine come Mistilis. Ed è stato davvero malvagio da parte sua vincolare la liberazione della principessa a un prodigio, che egli credeva impossibile. Vale a dire che in quel piccolo mondo chiamato teatro si sarebbe dovuta trovare una coppia che non soltanto fosse interiormente animata da vera fantasia, da vero umorismo, ma che fosse anche in grado di riconoscere oggettivamente e come in uno specchio questo stato d'animo, e di trasportarlo intatto nella vita esteriore, in modo tale che esso, simile a un potente incantesimo, agisse anche nel grande mondo, all'interno del quale è racchiuso quel piccolo mondo. Così se volete si potrebbe dire che, almeno in un certo qual modo, il teatro rappresenta la Fonte di Urdar, nella quale la gente può guardar dentro... Ma con voi, miei cari figlioli, ero proprio sicuro di riuscire a portare a termine il disincantamento, e lo scrissi subito al mio amico, il mago Ermodio. Egli arrivò così poco dopo a Roma, scese nel mio palazzo, e voi sapete bene tutta la pena che ci siamo presa per voi, ma se Mastro Callot non si fosse messo in mezzo a togliervi di dosso, caro Giglio, i vostri panni d'eroe...».
«Già». Così il principe fu interrotto dal signor Bescapi, entrato dietro a lui nella stanza. «Proprio così, gentilissimo signore, i vostri variopinti panni d'eroe... E, oltre a questa cara coppia, ricordatevi anche un po' di me, e di come ho fatto la mia parte in questa grande impresa!».
«Non c'è alcun dubbio», replicò il principe, «ma poiché voi eravate già da voi stesso un uomo meraviglioso e intendo dire un sarto che desiderava persone fantastiche cui far indossare i fantastici abiti che era capace di creare, io mi sono servito del vostro aiuto, e alla fine vi ho trasformato in impresario di quello straordinario teatro nel quale regnano l'ironia e il vero umorismo».
«Da sempre», rispose il signor Bescapi, ridendo allegramente, «da sempre mi è parso d'essere uno che ha cura che tutto non vada subito a finir male, e intendo la forma e lo stile, fin dal taglio della stoffa!».
«Ben detto», esclamò il principe di Pistoia, «ben detto, Mastro Bescapi!».
Mentre dunque il principe di Pistoia, Giglio e Bescapi parlavano del più e del meno, Giacinta si dava da fare a decorare la stanza e la tavola di fiori, che la vecchia Beatrice era dovuta andare a procurare in fretta e furia. Dopo aver acceso le candele e quando tutto ebbe un aspetto lieto e festoso, ella fece sedere il principe nella poltrona che aveva ricoperto di ricchi drappi e tappeti, tanto da farla somigliare a un trono.
«Qualcuno», disse il principe prima di sedersi, «qualcuno, che noi tutti dobbiamo temere moltissimo, perché senza dubbio esercita una severa critica contro di noi e forse contesta persino la nostra stessa esistenza, potrebbe forse dire che io sono venuto qui nel bel mezzo della notte senz'altra ragione che lui, cioè per raccontargli ancora cosa avevate voi a che fare col disincantamento della regina Mistilis, la quale in fin dei conti altri non è che la principessa Brambilla. Quel qualcuno ha torto; perché io vi dico invece che sono venuto e verrò qui sempre nell'ora fatale del vostro riconoscimento, per confortarmi insieme con voi al pensiero che dobbiamo considerare ricchi e felici noi stessi e tutti coloro ai quali è riuscito di guardare la vita, se stessi e tutto il loro essere nel meraviglioso specchio solare del lago di Urdar e di riconoscervisi».
Qui, all'improvviso, s'inaridisce la fonte dalla quale, o benigno lettore, l'autore di queste pagine ha attinto la propria ispirazione. Solo un'oscura leggenda narra che sia al principe di Pistoia sia all'impresario Bescapi i maccheroni e il vino di Siracusa dei giovani sposini siano molto piaciuti. E si può anche immaginare che sia quella stessa sera, come pure in seguito, ancora parecchie cose straordinarie siano accadute alla fortunata coppia di attori, visto che erano entrati in così stretto contatto con la regina Mistilis e con il grande negromante.
Mastro Callot però sarebbe davvero il solo a poter fornire qualche altra notizia in proposito.