LISIDE
Sommario

 Ippotale persuade Socrate a seguirlo nella nuova palestra. Motteggi di Ctesippo sull'amore di Ippotale per Liside (I 203a-205a). Continuano i motteggi, cui partecipa anche Socrate preparando tuttavia il tema della discussione. Ippotale chiede consiglio a Socrate circa ciò che bisogna dire per riuscire nella grazie del fanciullo amato (II 205a-206c). Socrate entra nella palestra perché desidera parlare con Liside, che tra tutti spicca per bellezza. Inizio della discussione con Menesseno alla presenza di Liside (III 206c-207c). Menesseno si allontana e Socrate continua a discutere con Liside: se la felicità consiste nell'essere padroni di se stessi e fare ciò che si desidera, perché i genitori, che pure amano i figli e vogliono che siano felici, non li lasciano fare ciò che vogliono? (IV 207d-208e). E' perché non li ritengono sufficientemente assennati e sapienti (V 208e-210a). La scienza e la competenza come condizione dell'amicizia (VI 210a-d). Torna Menesseno e la discussione riprende con lui (VII 210e-211c). Socrate desidera, più di ogni altra cosa, un amico: questo sarà il tema della discussione (VIII 211c-212a). Amico è colui che ama o colui che è amato? Difficoltà che nascono rispetto a tutte le risposte possibili: che amici siano entrambi, o nessuno dei due, o colui che ama, o colui che è amato (IX 212a-213d). Discussione con Liside: può essere accettata la definizione per cui il simile è amico del simile? O almeno che il buono è amico del buono? (X 213d-214e). Nessuno è utile a chi è simile a lui, e quindi non gli è neppure amico. Il buono basta a se stesso e quindi, non avendo bisogno di altri, non può nutrire amicizia (XI 214c-215c). Impossibilità di sostenere che l'amicizia sussista tra i contrari (XII 215c-216b). Si potrà dire allora che l'amicizia sussiste solo nel caso di colui che non è né buono né cattivo nei confronti di chi è buono? (XIII 216c-217a). Distinzione di due sensi in cui il bene e il male possono essere "presenti" in qualcuno. Il filosofo come intermedio tra coloro che sanno e coloro che ignorano: proprio per questo egli ama il sapere (XIV 217a-218c). Esame critico del risultato fin qui raggiunto: chi non è né buono né cattivo è amico di ciò che è buono a causa di ciò che è cattivo, in vista di ciò che è buono. Esempio del medico e del malato (XV 218c-219b). La distinzione di fine e mezzo nell'amicizia obbliga a postulare un fine ultimo; ed è verso il fine, non il mezzo, che sussiste propriamente l'amicizia (XVI 219b-220b). Difficoltà che nascono dal considerare il male come la causa onde ciò che non è buono né cattivo è amico di ciò che è buono. Identificazione dell'amicizia con l'amore di ciò che in un altro è "affine" (XVII 220b-222b). I diversi sensi del termine "affine" riconducono ad una o all'altra delle precedenti definizioni abbandonate. Conclusione negativa (XVIII 222b-223b).

TESTO

  [203a] I. SOCR. Me ne venivo dall’Accademia dritto al Liceo lungo la strada esterna che passa sotto le mura. Giunto all’altezza della postierla ove c’è la fontana di Panopo m’imbattei in Ippotale figlio di Ieronimo e in Ctesippo del demo di Paianeo con un gruppo di fanciulli che stavano in crocchio con loro. E appena Ippotale mi [b] scorse, come io gli venivo incontro: - O Socrate!, disse, dove vai? Da dove vieni? - Dall’Accademia, risposi, e vado al Liceo. - Via, vieni da noi, esclamò, cambia strada! Lo merita proprio. - E dov’è che andate?, risposi. E con chi? - Là, mi disse, indicandomi di faccia al nuovo recinto ed una porta aperta. E’ là che passiamo la giornata. Ci andiamo noi e molti altri bei [204a] fanciulli. - E che c’è là? E qual è il passatempo? - Una palestra, rispose, aperta da poco. Vi passiamo gran tempo in chiacchiere, alle quali ci piacerebbe che ci prendessi parte. - Bravi!, dissi io. Chi è il maestro? - Un tuo amico, rispose, ed ammiratore, Micco. - Per Giove!, esclamai. Non è certo uno sciocco, ma un sofista capace. - Ci vuoi seguire, allora, riprese, per vedere quelli che [b] ci sono? - Prima mi piacerebbe sentire le condizioni, e chi è il bello. - Ognuno, disse, ha le sue preferenze, o Socrate. - Ma per te, Ippotale, chi è? Questo mi devi dire. A questa domanda arrossì ed io seguitai: - Figlio di Ieronimo, Ippotale, non dirmi più se ami o no perché vedo che non soltanto sei innamorato, ma sei già anche avanti nell’amore. Ché, se in tutto il resto sono [c] mediocre ed inutile, in questo ho come un dono divino di poter riconoscere a prima vista chi ama e chi è amato. A queste parole avvampò ancora di più. Allora Ctesippo gli disse: - E’ gentile che tu arrossisca, Ippotale, e che tu indugi a dire quel nome a Socrate, ma basta che Socrate ti stia teco un momentino che sarà steso a terra a forza di sentirlo tante volte nominato. Quanto a noi, per esempio, [d] Socrate, ci ha storditi riempiendoci le orecchie di Liside. Se poi beve, figurati! ne facciamo una tal indigestione che quando ci svegliamo al mattino ci pare di sentire ancora quel nome. E quando ne conversa è sì spaventoso, ma non è tutto, perché il guaio arriva quando comincia a tempestarci di versi e di prose; ma il peggio è che egli canta al suo amore con voce estasiata che ci tocca ascoltare standocene lì pazienti. Adesso che gliene chiedi, arros-[e] sisce. - Dev’essere ben giovane, questo Liside, dissi, perché sentendone il nome non mi pare di conoscerlo. - Sì, il suo nome lo si ode di rado; ancora lo chiamano col nome del padre perché è persona molto nota. Già lo so che non ti deve essere sfuggita la sua bellezza, ché questa sola basta a farlo notare. - Ebbene, dissi. Di chi è figlio? - E’ il figlio maggiore di Democrate, del demo d’Aissone, mi rispose. - E sia, Ippotale, esclamai. Che amore nobile e generoso, in ogni aspetto, hai trovato! E ora, via, fammi sentire ciò che [205a] declami a costoro, perch’io veda se conosci ciò che un amante deve dire del suo amore davanti a lui stesso e davanti agli altri. - O che prendi sul serio, Socrate, quello che dice lui? - Forse non è neppur vero che ami il fanciullo di cui parla? - No, no, rispose, Ippotale, ma non è vero che faccio versi e prosa per lui. - Non è normale, saltò su Ctesippo, vaneggia e delira.

II. Io allora ripresi: - O Ippotale, non voglio sentire [b] né i versi né i canti che hai potuto fare per il tuo amore, ma dimmi il pensiero affinché veda come ti comporti con lui. - Questo Ctesippo te lo dirà subito, rispose, perché lo sa a meraviglia e se ne deve ricordare, se, come dice, è restato intronato dai miei discorsi. - Per gli dèi, sì, esclamò Ctesippo, lo so benissimo. Perché è anche ridicolissimo, Socrate. Essere innamorati e non aver occhi che per il fanciullo e però non sapergli dire nulla che lo tocchi personalmente, niente di ciò che potrebbe dire anche un [c] bambino, non è ridicolo? Tutto quanto canta la città su Democrate e Liside - suo nonno - e su tutti i loro avi, la loro ricchezza, le loro scuderie, le vittorie Pitiche, Istmiche e Nemee, con quadrighe e cavalli da corsa, tutto questo mette in versi e in prosa, insieme ad altre anticaglie più preistoriche ancora. Ecco che ieri ci raccontava in un poema l’ospitalità ricevuta da Eracle, spiegando cioè che uno degli antenati di Liside, per via ch’era parente di Eracle, [d] l’aveva ospitato in casa, lui stesso nato da Giove e da una figlia del fondatore del demo... In breve, le favole che contano le nonne... e molte altre dello stesso genere, o Socrate. Ecco le cose che recita e canta obbligando anche noi ad ascoltarlo. Al che io dissi: - Sei davvero divertente, Ippotale! Prima ancora d’aver vinto, ti componi e ti canti l’encomio! - Ma non è a me, Socrate, che rivolgo i versi e il canto. - Lo credi, risposi. - Come sarebbe a dire? - Per nessuno come per te sono composti questi canti, perché se catturi un fan-[e] ciullo simile, le tue prose e i tuoi canti faranno onore a te e saranno un vero encomio da trionfatore, dato il valore della tua conquista; ma se ti scappa, quanto più le tue composizioni sono state elogiative per il fanciullo, tanto più apparirai ridicolo, restato a mani vuote di un simile [206a] bene. E l’esperto delle cose d’amore, mio caro, non loda l’amato prima d’averlo catturato temendo il futuro, come ne salterà fuori. In più, i belli, se li lodi e li vanti, montano in superbia ed orgoglio. Non lo credi? - Sì, rispose. - Così, più diventano orgogliosi, più saranno difficili da catturare. - E’ probabile. - Che razza di cacciatore ti sembrerebbe quello che spaventasse la selvaggina e ne rendesse così più difficile la caccia? - Uno [b] sciocco, direi. - E non è una grande goffaggine comporre prose e canti per inselvatichire invece di addomesticare? O no? - Mi pare. - Sta attento, quindi, Ippotale, di non diventare, per colpa della tua poesia, lo zimbello di tutti questi! Invero se un uomo dalla sua poesia traesse solo danno, credo, non vorresti ammettere che è un buon poeta, dal momento che nuoce a se stesso. - No, per Giove, rispose. Sarebbe assurdo. Ma proprio [c] per questo mi rivolgo a te, Socrate: se hai dell’altro, indicami che cosa bisogna dire e fare per entrare nelle grazie dell’amato.

III. - Non è facile dirlo, risposi. Ma se tu volessi farmici parlare, forse potrei mostrarti i discorsi da tenersi in luogo di quelle poesie e di quei canti che a sentir costoro tu gli dedichi. - Non è punto difficile, esclamò. Se tu vuoi entrare con Ctesippo e sederti a discutere, credo che anche lui ti si avvicinerà; perché è innamorato delle discussioni, [d] o Socrate, e in più è la festa di Ermes per cui sono tutti riuniti insieme i giovinetti e i fanciulli. Si avvicinerà dunque, se no, se proprio non s’avvicinasse da solo, basterà che Ctesippo lo chiami perché lui ha intimità con Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, che è, fra i suoi amici, il più caro. - Così faremo, conclusi, e preso con me Ctesippo mi avviai verso la palestra: gli altri erano dietro [e] di noi. Entrati, trovammo che i ragazzi avevano finito il sacrificio, e, terminata o quasi la cerimonia, giocavano agli astragali, tutti vestiti da festa. I più giocavano fuori nel cortile, ma altri a pari e dispari in un angolo dello spogliatoio con moltissime assi che prendevano da dei cestelli. Altri poi facevano cerchio e osservavano. Fra questi era anche Liside in piedi in mezzo ai fanciulli e ai giovanotti, [207a] incoronato; spiccava su tutti per quell’aspetto degno non solo della sua fama di bello ma anche di eccellente e nobile giovane. Dal canto nostro ci ritirammo a sedere di fronte - il posto era tranquillo - e cominciammo a chiacchierare. Ora Liside si voltava e ci guardava spesso, mostrando chiaramente il desiderio di raggiungerci. Ma intanto era imbarazzato e esitava a venire da solo, finché dal cortile, [b] dove era in giochi, giunse Menesseno, che, come scorse me e Ctesippo, venne a sedersi accanto a noi. Come Liside lo vide, lo seguì, e gli sedette accanto. Allora arrivarono gli altri; però Ippotale, vedendo che parecchi si erano posti attorno a noi, si mise coperto dietro di loro con l’idea che Liside non l’avrebbe veduto, temendo che la sua presenza lo infastidisse. Così se ne stette lì ad ascoltare. Ed io rivolto lo sguardo a Menesseno. - O figlio di Demofonte, gli dissi, [c] chi di voi due è più grande? - Ne discutiamo, rispose. - Allora c’è baruffa anche su chi è più nobile!, ripresi. - Naturalmente. - E anche su chi è più bello? Entrambi risero. - Certo, ripresi, non vi domanderò chi è il più ricco, perché voi siete amici. No? - Sì, risposero. - E dunque i beni degli amici sono comuni, si dice, cosicché su questo punto non c’è alcuna differenza fra voi, se è vero ciò che si dice dell’amicizia. - Furono d’accordo.

[d] IV. Cominciai, dopo questo, a chiedere chi fosse più giusto e più saggio, ma intanto giunse uno a far alzare Menesseno dicendo che il maestro lo voleva: credo che fosse occupato in un rito. Così Menesseno se ne andò ed io chiesi a Liside: - Di’ un po’ Liside, tuo padre e tua madre ti amano molto? - Certo, rispose. - Dunque essi vorrebbero che tu fossi il più felice possibile? - Evi-[e] dentemente! - E tu pensi che sia felice un uomo schiavo e tale che non gli sia lecito fare nulla delle cose che desidera? - Per Giove, proprio no, disse. - Dunque, se tuo padre e tua madre ti amano e ti vogliono felice, risulta evidente che essi faranno di tutto perché tu sia felice. - Naturalmente, rispose. - Forse ti lasciano fare quello che vuoi senza mai riprenderti né impedirti di fare le cose che desideri? - No, per Giove, Socrate, mi proibiscono sì, e un mucchio di cose. - Che mi dici?, [208a] ripresi. Ti vogliono felice e ti impediscono di fare ciò che vuoi? E poi dimmi: se tu desiderassi montare su uno dei carri di tuo padre ed afferrassi le redini per correre in gara, te lo permetterebbero o no? - Per Giove, no che non me lo permetterebbero. - A chi lo permetterebbero invece? - All’auriga, salariato di mio padre. - Che dici? A un salariato piuttosto che a te permettono di fare ciò che vuole con i cavalli e in più lo pagano per questo? [b] - Che c’è di strano?, chiese. - Ma il paio di mule, credo, te lo lascerebbero guidare e, se tu volessi tirare la frusta e battere, lo permetterebbero, no? - Come?, disse, permetterebbero? - Come, continuai, nessuno può batterle?- Sì, rispose, il mulattiere. - Schiavo o libero? - Schiavo, rispose. - Così uno schiavo lo considerano a quanto pare, più di te, loro figlio, e gli affidano le loro cose più che a te, e gli lasciano fare ciò [c] che vuole, mentre a te lo proibiscono. E dimmi ancora: ti lasciano padrone di te stesso o neppure questo ti concedono? - E come me lo concedono?, disse. - Allora hai qualcuno che ti comanda? - Eccolo, il pedagogo. - Uno schiavo, forse? - Che c’è di male! E’ uno dei nostri. - Che strano!, ripresi, essere libero e obbedire a uno schiavo. E in che ti comanda il tuo pedagogo? - Mi accompagna a scuola, disse. - Forse che anche qui non ti comandano i maestri? - Sicuro! - Allora è una folla di padroni e di gente che ti comanda, che [d] tuo padre ha voluto metterti attorno. Però forse quando arrivi a casa da tua madre, questa, per vederti felice con lei, ti lascia fare ciò che vuoi attorno alla lana o al telaio quando tesse? Perché lei non t’impedirà certo di toccare la spatola o la spola o altro arnese del suo lavoro. E Liside ridendo: [e] - Per Giove, disse, Socrate, non solo me lo impedisce, ma me le darebbe anche, se ci mettessi le mani. - Ercole! risposi. Hai fatto qualcosa di male a tuo padre o a tua madre? - Per Giove, no.

 V.- Ma per quale ragione sono così terribili nell’impedirti che tu sia felice e che tu faccia ciò che ti piace? E perché ti tengono tutto il giorno sempre sotto gli ordini di qualcuno, di modo che, per dirla in una parola, non puoi far nulla di ciò che desideri? Così tutto fa pensare che non approfitti in nulla di tutti codesti beni, e chiunque ne può disporre meglio di te, e neppure ti servi della tua persona [209a] così nobile com’è, ma anche questa è altri che la governa e la cura. Quanto a te, Liside, non comandi su nessuno, né fai nulla di ciò che ti piace. - Ma perché non ne ho ancora l’età, Socrate. - Non è questa la ragione, o figlio di Democrate - perché almeno in ciò che sto per dirti, credo, tuo padre e tua madre si affidano a te e non aspettano che tu abbia l’età. Se vogliono farsi leggere o scrivere qualcosa, è a te, suppongo, che ne danno l’incarico, primo [b] in tutta la casa, non è vero? - Sì. - Qui finalmente puoi fare quello che vuoi, cominciare da una lettera o da un’altra; e così se leggi. E quando, suppongo, prendi la lira, né il padre o la madre t’impediscono di tendere o allentare la corda che vuoi, e di pizzicarla o di toccarla con il plettro. O te lo impediscono? - No, certo. - E quale sarà mai la ragione, Liside, se in questo caso non ti fanno ostacolo, mentre negli altri che dicevamo poco [c] fa ti impongono la loro volontà? - E’, penso, che queste cose le so, ma le altre no. - Bene, ragazzo mio, risposi. Dunque non è l’età che tuo padre aspetta per affidarti tutto quanto, perché il giorno in cui riterrà che tu sia più abile di lui ti si rimetterà nelle tue mani, lui e i suoi beni. - Lo credo. - Bene, ripresi. Il tuo vicino non [d] si comporterà con te come tuo padre? Non pensi che ti offrirà di amministrare i suoi affari quando ti reputerà più abile di se stesso nella conduzione degli affari o pensi che vi provvederà egli stesso? - L’affiderà a me, credo. - E gli Ateniesi pensi che rifiuteranno di affidarti i loro affari quando sentiranno che sei abbastanza abile? - No certo. - Per Giove, dissi, che farà dunque il Gran Re di Persia? Dovendo cuocere della carne, permetterà forse al suo figlio maggiore, il quale erediterà il dominio sull’Asia, di mettere nel brodo tutto ciò che vuole o non si affiderà [e] piuttosto a noi se giunti da lui gli avremo dimostrato che siamo più esperti di suo figlio nell’arte di cucinare? - A noi, è chiaro, disse. - Anzi, al figlio non permetterebbe di mettere nel brodo neppure un pezzettino, a noi, invece, se anche volessimo gettarvi il sale a manciate, lo permetterebbe. - E come no? - E se poi suo figlio fosse malato agli occhi, forse gli permetterebbe di toccarseli, sapendolo inesperto di medicina o glielo im-[210a] pedirebbe? - Lo impedirebbe. - Se invece pensasse che noi ci intendiamo di medicina e se volessimo aprirgli gli occhi e spalmarli di cenere, non si opporrebbe, credo, pensando che noi siamo competenti. - E’ vero quello che dici. - Non è forse vero che anche in tutte le altre circostanze si affiderebbe a noi piuttosto che a se stesso e al figlio? In tutte quelle in cui giudicasse proprio noi più competenti di loro. E’ proprio così, Socrate, disse.

VI. - Questa è dunque la situazione, dissi, mio caro [b] Liside ; nelle cose in cui siamo esperti tutti si affideranno a noi, Greci, stranieri, uomini e donne e noi potremo fare qui quello che vogliamo; nessuno penserà ad ostacolarci ma qui saremo liberi e guideremo gli altri, e questi saranno i nostri beni e da essi trarremo i nostri [c] guadagni; per quelle cose, invece per le quali non avremo capacità di giudizio nessuno si affiderà a noi né ci permetterà di fare ciò che ci pare e piace, ma tutti si opporranno con tutte le loro forze, non solo gli estranei, ma anche nostro padre, nostra madre e chiunque altro vi sia più intimo di loro; noi, infine, dovremo dipendere da altri per le cose di cui non c’intendiamo e queste ci saranno estranee, e quindi nessun vantaggio ne potremo trarre. Sei d’accordo? - Son d’accordo. - Saremo dunque cari a qualcuno e qualcuno ci sarà amico se non gli saremo utili in qualche modo? - Indubbiamente no, disse. - Allora né tuo padre ti ama per adesso né un altro amerà altri in quanto si è [d] inutili. - Evidentemente, disse. - Allora, mio caro, se diventerai sapiente, tutti vorranno la tua amicizia e la tua familiarità in quanto sarai utile e buono; altrimenti nessuno, neppure tuo padre ti sarà amico, neppure tua madre né i tuoi parenti. E’ dunque possibile, mio caro Liside, insuperbirsi per le cose di cui non si è ancora competenti? - E come si potrebbe?, disse. - Se tu hai bisogno di un maestro, vuol dire che non sei ancora competente in qualcosa - E’ verissimo. - Non puoi dunque nutrire alti pensieri, se sei ancora sprovvisto di pensiero. - Mio dio, Socrate, mi pare proprio di no.

[e] VII. Dopo aver ascoltato la risposta di Liside, mi volsi verso Ippotale e per poco non feci una sciocchezza; mi era venuto in mente, infatti, di dirgli: vedi Ippotale, così bisogna parlare al giovinetto amato, abbassandone e temperandone l’orgoglio, e non come fai tu che lo rendi superbo e lo corrompi. Vedendo però Ippotale inquieto e turbato per i discorsi che avevo fatto, mi ricordai che egli desiderava ascoltare, sì, la nostra conversazione, ma non essere veduto da Liside; allora mi ripresi e mi astenni dal [211a] parlargli. A questo punto Menesseno tornò indietro e si sedette vicino a Liside, da dove appunto si era alzato. Allora Liside con fare del tutto fanciullesco e amichevole, parlando un poco rivolto a me, senza che Menesseno se ne accorgesse disse: - Socrate, di’ anche a Menesseno quello che hai detto a me. E io: - Questo discorso glielo farai invece tu, mio caro Liside, eri così attento! [b] - Attentissimo, certo. Cerca allora, gli dissi, di ricordare il più possibile, per riferirgli bene ogni punto; ma se qualcosa ti sfuggisse, me la chiederai di nuovo alla prima occasione quando m’incontrerai. - Ebbene, lo farò, e in modo perfetto, sappilo bene, Socrate. Ma tu, di’ a lui qualcos’altro, così ascolterò anch’io, fino a che non sia ora di tornare a casa. - Ebbene, dissi, ti obbedirò, visto che quasi me l’imponi; però bada bene di venirmi in aiuto, se Menesseno si mette a confutarmi; non sai forse che è un parlatore abilissimo nella disputa? - Fortissimo, per Giove, rispose, è per questo che voglio che tu discuta con [c] lui. - Per diventare uno zimbello? - No, per Giove, ma così gli darai una lezione. - E come? dissi, non è facile; il nostro uomo è irresistibile ed è discepolo di Ctesippo. Eccolo qui anche lui, non lo vedi? Ecco Ctesippo! - Non ti occupare di nessuno, Socrate, disse; ma via, incomincia a parlargli. - E allora conversiamo.

VIII. Mentre parlavamo così tra noi, si intromise Ctesippo. - Perché, disse, banchettate soltanto tra voi due [d] e non ci fate partecipare alla vostra conversazione? - Orsù, esclamai, partecipate pure. Liside non conosce l’argomento di cui io parlo, ma, secondo lui, Menesseno lo conosce e mi invita ad interrogarlo. - E allora, perché, disse, non l’interroghi? - Incomincio subito. E tu, Menesseno, rispondi alle mie domande. Fin da quando ero fanciullo ho un desiderio; capita che uno desideri una cosa, [e] un altro un’altra. Chi desidera avere un cavallo, chi dei cani, chi le ricchezze, chi gli onori: io, invece, sono indifferente a tutti questi beni. Il mio più gran desiderio è invece avere amici. Preferirei un buon amico alla più bella quaglia o al più bel gallo del mondo, per Giove, anche ad un cavallo o a un cane, che dico? sì, per il cane, lo preferirei a tutto l’oro di Dario, anzi a Dario stesso: tanto sono [212a] amante dell’amicizia! Vedendo te e Liside sono pieno d’ammirazione e vi stimo felici perché pur essendo giovani siete capaci di raggiungere così facilmente e presto questo bene prezioso; tu ti sei conquistato l’amicizia pronta e grande di Liside e tu, Liside, quella di Menesseno; io invece sono così lontano da questo felice possesso che non so neppure in che modo uno diventi amico di un altro; anzi, è proprio questo ciò che voglio sapere da voi, che avete questa esperienza.

IX. Dimmi, dunque: quando uno ama un altro, chi di-[b] venta amico di chi? Chi ama amico di chi è amato? O l’amato amico di chi ama? Oppure non vi è nessuna differenza? - Nessuna differenza, disse, a mio parere. - Come puoi dirlo?, replicai. Due sono reciprocamente amici anche se solo uno di essi ama l’altro? - Così mi sembra, disse. - Ma come? Non è possibile invece che chi ama non sia ricambiato da chi è l’oggetto del suo amore? - Certo. - E allora? non è possibile che chi ama sia addirittura odiato? Anche gli innamorati pensano talvolta che così accada loro nei confronti dei giovanotti [c] amati; infatti essi pur amando moltissimo pensano di non essere ricambiati e addirittura di essere odiati; o questo non ti sembra vero? - E’ verissimo, disse. - Allora, ripresi, in una circostanza così, l’uno ama l’altro e l’altro è amato?- Sì. - Chi dunque è amico dell’altro? Chi ama, anche se non è ricambiato, anche se è odiato, oppure chi è amato? O forse in un caso simile nessuno dei due è amico dell’altro, se non si amano reciprocamente? - Mi [d] pare che sia così, piuttosto. - Allora siamo giunti ad un’affermazione diversa da quella precedente. Infatti prima avevamo detto che se uno dei due ama l’altro, entrambi allora sono amici, ora invece diciamo che se due non si amano a vicenda, nessuno dei due è amico dell’altro. - E’ probabile che sia così, disse. - Allora non esiste amore se questo non è ricambiato. - Non pare. - Dunque non sono amici dei cavalli quelli che dai cavalli non sono ricambiati, né amici delle quaglie, dei cani, del vino, della ginnastica e della sapienza se la sapienza a sua volta non li riama. Questi amano tutte queste cose che però [e] non sono loro amiche o forse s’inganna il poeta che disse:

       Beato chi ha fanciulli amici ed i cavalli dall’unicaunghia ed i cani da preda e l’ospite lontano?- Non mi pare che s’inganni, disse. - Allora ti pare che dica la verità? - Sì. - Ma allora, Menesseno, la persona o la cosa amata è amico, come pare, di chi l’ama anche se non ama ma anzi odia, come accade anche fra i bambini piccoli: alcuni non sono ancora capaci di amare, altri sono capaci di odiare, quando sono puniti dal padre o [213a] dalla madre, eppure, anche quando odiano i genitori in quella circostanza, sono invece sempre a loro carissimi. - Mi sembra proprio che tu abbia ragione, disse. - In base a questo ragionamento l’amico è non chi ama, ma chi è amato. - Già. - Nemico è allora chi è odiato, non chi odia. - Pare. - Allora molti sono amati dai nemici e odiati dagli amici, e alcuni sono amici dei loro nemici, altri sono nemici dei loro amici, se è vero che l’a-[b] mico è chi è amato e non chi ama. Pertanto, mio carissimo, è assurdo, per non dire impossibile, che in un amico va sia un nemico e viceversa. - Mi pare che tu abbia ragione, Socrate, disse.- Se questo è dunque impossibile, allora dovremo dire piuttosto che chi ama è amico dell’amato. - Pare. - E viceversa, chi odia è ne-[c] mico dell’odiato. - Per forza. - Allora dovremo per forza arrivare alla stessa conclusione di prima, che cioè spesso uno è amico di chi non lo ama, spesso anche di un nemico, quando ama chi non lo ama o ama chi lo odia; spesso uno è nemico di chi non gli è nemico o anzi gli è amico, quando odia chi non lo odia o addirittura odia chi lo ama. - Sembra proprio, disse. - Che diremo dunque, dissi, se amico non è né chi ama, né chi è amato, né queste due categorie insieme? dovremo ben dire che oltre questi vi sono altre persone amiche tra di loro?- No, per Giove, disse, Socrate, davvero non so rispondere.- Forse, dubitai, abbiamo impostato male la ricerca, Menesseno? - Forse, rispose Liside. Non ap-[d] pena ebbe pronunciate queste parole, arrossì; mi parve che si fosse lasciato sfuggire involontariamente quelle parole, proprio perché aveva seguito con grande attenzione ciò che si andava dicendo: si vedeva bene che era tutto preso, anche mentre stavamo parlando.

X. Io dunque volendo concedere una tregua a Menesseno, compiaciuto per l’ansia di sapere di Liside, voltomi [e] a questo, cominciai a dire: - Mio caro Liside, tu hai proprio ragione: se avessimo impostato bene la questione, non saremmo giunti a un punto morto. Ma per questa via non dobbiamo più proseguire (la ricerca, infatti, mi sembra come una strada difficile) e andiamo piuttosto per quel [214a] cammino che avevamo intrapreso, e cioè dietro le orme dei poeti; essi infatti sono per noi come padri di sapienza e guide. Quando esprimono la loro opinione sugli amici, dicono cose elevate; anzi dicono che la divinità in persona li rende amici, avvicinandoli uno all’altro. Dicono all’incirca così, come mi sembra: "sempre il dio mena il simile [b] al suo simile", e glielo fa conoscere; non ti sei mai imbattutto in questi versi? - Sì, rispose. - E non ti è capitato di leggere gli scritti dei più grandi filosofi, che affermano la stessa cosa, che il simile è sempre amico del suo simile? Questi filosofi sono quelli che hanno parlato nei loro scritti sia della natura che del tutto. - E’ vero, disse. - Non dicono dunque bene? chiesi. - Forse, rispose. - Forse, ripresi, hanno ragione per metà, forse del tutto, ma noi non lo comprendiamo. Ci sembra infatti che il cattivo quanto più si avvicina e frequenta un cattivo, [c] tanto più nemico diventerà a costui. Egli è ingiusto; non è possibile allora che offensori ed offesi siano amici. Non è vero? - Sì, disse. - In questo senso metà di quel verso non sarebbe vero, se i cattivi sono simili tra loro. - E’ vero. - Ma a me sembra che quei gran saggi intendano dire che solo i buoni sono simili e amici tra loro; i cattivi invece, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti ed incerti; e ciò che è dissimile [d] e diverso da se stesso difficilmente può essere simile o amico di qualcun altro, non ti sembra? - Sì, rispose. - Questo, a mio parere, vogliono significare, mio caro amico, quelli che dicono che il simile è amico del suo simile, che cioè solo il buono è amico del buono, mentre il cattivo non ha vera amicizia né per il buono né per il cattivo. Sei d’accordo? Egli annuì. - Sappiamo dunque chi [e] sono gli amici; il ragionamento ci ha dimostrato che sono amici quelli che sono buoni. - Mi pare proprio, disse.

XI. - Pare anche a me, ripresi. Eppure c’è qualcosa che non va, in questo ragionamento; orsù, Liside, per Zeus, vediamo che cosa ancora m’insospettisce. Il simile in quanto tale è amico del suo simile; ma l’uno è utile all’altro? E piuttosto vediamo la questione in questi termini: una qualunque cosa simile che vantaggio reca ad un qualunque suo simile o che danno, che questo non abbia già in sé? O [215a] che danno potrebbe ricevere che non riceva già da se stesso? Le cose simili, come possono amarsi tra loro, se non hanno nessuna capacità di aiutarsi a vicenda? E’ possibile questo? - Non è possibile. - Chi non è amato, come può essere amico? - In nessun modo. - Allora, il simile non è amico del suo simile? Il buono, in quanto tale, potrebbe essere amico del buono e non in quanto gli è simile? - Forse. - E allora? Non è forse vero che il buono, proprio perché è buono, è sufficiente a se stesso?- Sì. - Chi è autosufficiente, perché [b] tale, non ha bisogno di niente. - Verissimo. - Chi non ha bisogno di niente, non desidera niente. - Indubbiamente. - Chi non desidera non ama neppure. - No, certo. - Chi non ama non è amico di nessuno. - Evidentemente. - Allora, dunque, come potranno i buoni essere amici dei buoni, essi che da lontano non si desiderano reciprocamente (infatti, sono autosufficienti anche se separati) e quando sono vicini non sono utili l’uno all’altro? Com’è possibile che persone siffatte si diano reciproca importanza? - E’ impossibile, infatti. - Non [c] possono essere amici quelli che non si danno reciproca importanza. - E’ vero.

XII. - Considera, Liside, dove siamo andati a finire. Non siamo del tutto per così dire fuori strada? - E come? - Una volta sentii uno che affermava, proprio ora me ne ricordo, che il simile è del tutto ostile al suo simile e i buoni ai buoni; e citava Esiodo come testimonio, dicendo cioè: [d] "... il vasaio odia il vasaio, l’aedo odia l’aedo e il mendico il mendico". Per il resto diceva che inevitabilmente le cose più simili sono piene di invidia, ostilità e odio reciproco, le più dissimili invece sono piene di amicizia. Infatti il povero è necessariamente amico del ricco, il debole del forte, per l’aiuto che può riceverne, il malato del medico; [e] ed infine, tutti quelli che non sanno sono necessariamente legati d’amicizia e d’amore a chi sa. E poi proseguiva nel suo ragionamento con sempre maggior eloquenza, dicendo che il simile è tanto lontano dall’essere amico del suo simile, che anzi è vero il contrario; quanto maggiore è la dissimiglianza, tanto maggiore è l’amicizia. Ciascuno desidera il suo contrario, non il suo simile; l’asciutto è amico dell’umido, il freddo del caldo, l’amaro del dolce, l’acuto dell’ottuso, il vuoto del pieno, il pieno del vuoto, e così via. Il dissimile è nutrimento per il suo dissimile, il simile nessun vantaggio trae dal suo simile. Ed invero, [216a] mio caro, mentre diceva queste cose pareva anche arguto; parlava bene. A voi come sembra che parli? - Bene, rispose Menesseno, almeno a sentire così. - Allora diremo che il contrario è molto amico del suo contrario? - Senz’altro. - E sia, ripresi, ma non è strano, Me-[b] nesseno? Subito quei sapientoni, gli antilogici, con molto zelo ci assaliranno, chiedendoci se l’odio non è forse la cosa più dissimile all’amore. E noi che cosa risponderemo? Non saremo costretti ad ammettere che hanno ragione? - Per forza. - Allora, diranno forse, il nemico è amico dell’amico o viceversa? - Impossibile. - Il giusto è amico dell’ingiusto, o il saggio dello stolto, o il buono del cattivo? - Non mi sembra possibile. - Eppure, dissi, se l’amicizia esiste in base alla dissimiglianza anche queste cose dovrebbero essere amiche. - E’ vero. - Allora né il simile è amico del suo simile, né il contrario del suo contrario. - E’ così.

[c] XIII. - Esaminiamo piuttosto anche quest’altro punto; forse in realtà il concetto di amico non è quanto finora abbiamo esaminato. Vediamo se ciò che non è né buono né cattivo può diventare amico del buono. - Come dici? domandò. - Per Giove, dissi, non lo so, ma davvero provo le vertigini per questa difficoltà logica; secondo l’antico proverbio sembra che l’amico sia il bello. Il bello è simile a qualcosa di dolce, di levigato, di lucido [d] e forse anche per questo facilmente sdrucciola e ci sfugge, proprio perché è così. Dico infatti che il buono è bello. Non credi? - Sì. - Dico allora, quasi divinando, che amico del bello e del buono è ciò che non è né bello né buono; su che fondamento io tragga questa divinazione, ascolta. Mi sembra che in certo qual modo vi siano tre generi: ciò che è buono, ciò che è cattivo e ciò che non è né buono né cattivo. Che te ne pare? - Pare anche a me, disse. - E inoltre, né il buono è amico del buono, né il cattivo del cattivo, né il buono del cattivo, [e] come abbiamo già dimostrato; resta allora che se qualcosa è amica di un’altra, ciò che non è buono né cattivo è amico del buono o del suo simile. Del cattivo, infatti, nulla può essere amico. - E’ vero. - Neppure il simile del suo simile, l’abbiamo detto poco fa. Non è vero? - Sì. - Allora ciò che non è né buono né cattivo non sarà amico di ciò che gli è simile. - Non pare. - Allora ne consegue che ciò che non è né buono né cattivo, [217a] è amico soltanto del buono. - Sembra evidente.

XIV. - Non vi sembra dunque, miei cari amici, che ciò che ho detto ci possa guidare verso una buona conclusione? Per esempio, consideriamo un corpo sano; non ha alcun bisogno dell’arte medica né di aiuto; si trova infatti in condizioni di autosufficienza; così nessuno, quando è in buona salute, è amico del medico, proprio per questa sua salute. Non è vero? - Verissimo. - Invece il malato, credo, lo è, proprio per la sua malattia. - E [b] come no? - La malattia è dunque un male; l’arte medica è l’utile e il bene. - Sì. - Il corpo, in quanto corpo, non è né bene né male. - Giusto. - Il corpo è costretto dalla malattia ad amare ed essere amico dell’arte medica. - Mi sembra. - Ciò che non è né buono né cattivo diventa amico del buono per la presenza di un male. - Pare. - Questo avverrà, è chiaro, prima che egli stesso diventi cattivo per effetto del male che ha in sé. Infatti una volta divenuto cattivo, non può più desi-[c] derare ed essere amico del buono; abbiamo già concluso in precedenza che il cattivo non può essere amico del buono. - Non può infatti. - Fate attenzione a ciò che dico: alcune cose sono proprio come ciò che è presente in esse, altre no. Per esempio, uno spalma un colore su qualcosa: diremo che ciò che è spalmato è presente all’oggetto. - D’accordo. - Ma allora, l’oggetto è così com’è, in quanto al colore, come ciò che vi si trova sopra? - Non [d] capisco, disse. - Fa attenzione, ripresi. Se qualcuno con la biacca tingesse i tuoi capelli che sono biondi, essi allora apparirebbero o sarebbero bianchi? - Apparirebbero, rispose. - E tuttavia sarebbe presente ad essi la bianchezza. - Sì. - Però non sarebbero affatto bianchi, ma pur essendo presente ad essi la bianchezza, essi non sarebbero né bianchi né neri. - E’ vero. - Quando invece, miei cari amici, la vecchiaia dà loro questo medesimo colore, allora diventano come ciò che in essi è presente, bianchi per la presenza del bianco. - E come [e] no? - Questo ora io domando: l’oggetto in cui è presente una qualità è identico a questa qualità, o lo sarà solo se tale qualità è presente in un certo determinato modo, altrimenti no? - Mi sembra vera la seconda ipotesi. - Allora ciò che non è né buono né cattivo, quando un male è presente, talvolta non è ancora cattivo, talaltra invece è già cattivo. - Certo. - Dunque, se non è cattivo quando il male è presente, questa stessa presenza fa sì che desideri il bene; quando invece tale presenza lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell’amicizia per il bene. In-[218a] fatti non è più né buono né cattivo, ma è cattivo; il male non è amico del bene, come s’è detto. - Indubbiamente. - Per questi motivi potremmo dire che anche quelli che sono già sapienti non sono più amici della sapienza, siano essi dèi o uomini; non sono amici della sapienza neppure quelli che sono così ignoranti da essere cattivi; chi è cattivo e ignorante non è amico del sapere. Restano quelli che pur possedendo questo male, l’ignoranza, non sono da questo resi ottusi e incolti, ma ancora ritengono di non sapere ciò che non sanno. Perciò sono amanti del sapere [b] quelli che in certo qual modo non sono né buoni né cattivi; quelli che sono cattivi non amano la sapienza e neppure i buoni. Difatti nei discorsi che facemmo prima avevamo convenuto che né il contrario è amico del suo contrario, né il simile del suo simile. Non vi ricordate? - Perfettamente, risposero. - Ora, dissi, Liside e Menesseno, abbiamo trovato in modo definitivo ciò che è amico e ciò che non lo è. Affermiamo questo, che vale tanto per lo spirito che per il corpo e per qualsiasi altro campo, che ciò che non è né cattivo né buono è amico del bene per [c] la presenza del male. I due giovani furono completamente d’accordo.

XV. E naturalmente anch’io mi rallegravo moltissimo, come un cacciatore che ha raggiunto felicemente la sua preda. Ma poi, non so come, mi venne un dubbio assurdo, che non fosse vero quanto avevamo convenuto ; e subito tutto rammaricato dissi : - Ahimè, Liside e Menesseno, mi pare che ci siamo arricchiti solo in sogno. - Perché [d] mai? chiese Menesseno. - Temo, dissi, che circa il concetto di amicizia, ci siamo imbattuti in ragionamenti fallaci come in un gruppo di venditori di fumo. - E come? chiese. - Vediamo, dissi. Chi è amico, è amico di qualcuno, o no? - Per forza, disse. - Lo è a causa di qualcosa o per qualche scopo oppure no? - Per qualcosa e con qualche scopo. - Se uno è amico di qualcosa, la cosa per cui è amico gli è amica, oppure non [e] gli è né amica né nemica? - Non ti seguo, disse. - Capisco, dissi; ma così forse mi seguirai e anch’io, credo, saprò meglio ciò che dico. Il malato, abbiamo detto or ora, è amico del medico. Non è vero? - Sì. - E’ dunque amico del medico a causa della malattia e perché ha come fine la salute? - Sì. - La malattia è un male? - E come no? - E che cos’è la salute? dissi. Un bene, un male o nessuno dei due? - Un bene, disse. [219a] - Dicevamo dunque che il corpo, che non è per sé né buono né cattivo, a causa della malattia, e cioè del male, è amico dell’arte medica; quest’ultima è un bene. Tenendo presente come scopo la salute, l’arte medica si acquista l’amicizia e la salute è un bene. Non è vero? - Sì. - La salute è capace di amicizia o no? - Capace. - E la malattia è un male. - Indubbiamente. - E allora ciò che non è né buono né cattivo a causa di ciò che è male e nemico diventa amico del bene, in vista del bene [b] e dell’amicizia. - Così pare. - E allora l’amico è amico in vista dell’amicizia o a causa del nemico. - Sembra.

XVI. - E sia, dissi. Visto che siamo arrivati a questa conclusione, miei cari amici, badiamo a non ingannarci. Accettiamo pure che l’amico sia amico dell’amico e che il simile diventi amico del suo simile, mentre avevamo detto che questo è impossibile. Ma almeno badiamo che quanto detto non ci tragga in inganno. L’arte medica, dicevamo, è [c] amica in vista della salute. - Sì. - Dunque la salute è amica? - Indubbiamente. - Se è amica lo è in vista di qualcosa. - Sì. - Di qualcosa di amico, secondo la conclusione di prima. - Indubbiamente. - E allora anche questo qualcosa sarà amico a sua volta in vista di una cosa ancora amica. - Sì. - E’ dunque necessario che o noi ci stanchiamo ad andare avanti in questo modo o giungiamo ad un principio primo che non si riporterà ad un altro amico, ma giungerà a ciò che è l’amico primo, a causa del quale diciamo che tutte le altre cose [d] sono antiche tra loro. - Per forza. - Questo è appunto ciò che volevo dire: badiamo che non ci traggano in inganno tutte quelle cose che diciamo essere amiche a causa di questo primo amico; esse sono sue immagini, mentre è lui soltanto, il primo, che in realtà è amico. Riflettiamo a questo: quando uno stima molto qualcosa, come per esempio un padre che preferisce a tutte le altre cose suo figlio, costui, proprio perché ama suo figlio sopra ogni cosa, non ama forse anche altre cose? Così, per esempio, [e] se si accorgesse che il figlio ha bevuto la cicuta non amerebbe forse il vino se lo ritenesse un buon contravveleno? - Certo, disse. - E allora anche il recipiente in cui è il vino. - Indubbiamente. - Ma egli non ama certo una tazza di argilla, né tre coppe di vino più di suo figlio! Oppure la cosa sta press’a poco in questi termini: tutta la premura del padre non è rivolta verso quelle cose che sono preparate in vista del figlio, ma è rivolta al figlio, [220a] in vista del quale tutte quelle cose sono preparate. Spesso noi affermiamo di amare l’oro e l’argento; in verità dovremmo dire che noi amiamo ciò che verosimilmente si acquista con l’oro e l’argento. Non dovremmo dire forse così? - Certo. - Non è forse lo stesso il discorso sul concetto di amico! Per tutte quelle cose che ci sono amiche in modo relativo, evidentemente noi usiamo un [b] termine improprio: in realtà mi sembra che sia vero amico ciò a cui fanno capo tutte le cosiddette cose amiche. - Sembra davvero, disse. - Dunque, ciò che è il vero amico, lo è in senso assoluto. - Sì.

XVII. - Questo dunque è stato chiarito, che il primo amico è amico in assoluto. Ma questo amico si identifica col bene? - A me sembra di sì. - E non è forse vero che il bene è amato a causa del male ? Le cose allora stanno così: delle tre categorie di cose, di cui poco fa ab-[c] biamo parlato, e cioè le buone, le cattive e quelle né buone né cattive, se consideriamo la prima e la terza, se il male cioè scompare senza più attaccarsi né al corpo né all’anima né alle altre cose che affermiamo non essere per se stesse né buone né cattive, allora il bene non ci sarà più utile ma anzi ci sarà divenuto inutile? Se infatti nulla più ci danneggia, non abbiamo nessun bisogno di alcun [d] aiuto; così risulta evidente che noi apprezzavamo ed amavamo il bene a causa del male considerando il bene come una medicina del male, e il male come una malattia; se non vi è la malattia, non vi è nessun bisogno della medicina. Dunque il bene per sua natura è amato da noi a causa del male, noi che siamo a metà tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha alcuna utilità. - Sembra, disse, che le cose vadano così. - Orbene, quel primo amico in cui hanno termine tutte le altre cose amiche, quelle che noi diciamo amiche a causa di un altro amico, non [e] somiglia loro affatto. Queste infatti sono chiamate amiche in grazia dell’amico in assoluto, ma questo ha evidentemente una natura del tutto opposta; infatti pare che sia amico a causa del nemico; se il nemico scompare, non ci resta più amico, come sembra. - Sembra evidente, disse, almeno per quello che hai detto ora. - Ma per Giove, dissi, se il male scompare, non resterà tuttavia la fame, la sete, e altri bisogni di questo genere? Oppure la [221a] fame ci sarà, se ci saranno gli uomini e gli altri esseri viventi, ma non sarà dannosa? E la sete e gli altri bisogni resteranno ma non saranno cattivi, perché il male è scomparso? Forse che il desiderio, qualunque esso sia, resterà o non resterà? Chi può dirlo? Ma questo almeno sappiamo, che anche ora la fame può darci danno o anche vantaggio. Non è vero? - Verissimo. - Allora è possibile che [b] chi ha sete o tutti gli altri desideri di questo tipo, a volte può averne un vantaggio, a volte un danno, a volte né l’uno né l’altro. - Verissimo. - Se il male scompare, quelli che non sono mali perché mai dovrebbero scomparire anch’essi? - Già. - Resteranno quei desideri che non sono né buoni né cattivi, anche se il male scomparirà. - Sì. - E’ dunque possibile che colui che desidera e brama qualcosa non le sia amico? - Non [c] mi pare. - E allora, sembra che, anche se i mali scompaiono, restino talune cose amiche. - Sì. - Ma se è vero che il male è la causa dell’amicizia, una cosa non potrebbe essere amica di un’altra, una volta scomparso il male. Scomparsa la causa sarebbe impossibile che sopravvivesse l’effetto. - Dici bene. - Avevamo però convenuto che l’amico ama qualche cosa e per qualche motivo; e pensavamo che ciò che non è né buono né cattivo ama il bene a causa del male. Non è vero? - E’ vero. - E [d] adesso, invece, come sembra, pare che ci sia una causa ben diversa dell’amare e dell’essere amati. - Pare. - Non è forse vero che in realtà, come dicevamo, il desiderio è causa dell’amicizia e chi desidera è amico di ciò che desidera e nel momento in cui desidera? Ciò che prima dicevamo essere amico, non è forse una vana chiacchierata, come un lungo e inconcludente poema? - Sembra, rispose. - Ma tuttavia, ripresi, chi desidera, vuole ciò [e] di cui è mancante. Non è vero? - Sì. - Ciò che è mancante è amico di chi lo desidera? - Mi sembra di sì. - E’ mancante ciò di cui si è privati. - E come no? - E allora, come sembra, l’amore, l’amicizia e il desiderio si riferiscono a ciò che è proprio e affine, miei cari. Essi furono d’accordo. - Voi dunque se siete amici, siete di natura affine. - Del tutto affini, risposero. - E se, dissi, uno desidera un altro, miei [222a] cari fanciulli, o l’ama, non potrebbe desiderarlo né amarlo né essergli amico se non fosse affine all’amato o nell’animo o in qualche caratteristica del suo spirito o nei costumi o nell’aspetto. - Indubbiamente, rispose Menesseno. Liside invece taceva. - E sia, dissi. Dobbiamo dunque convenire che ciò che è affine per sua natura deve amare il suo affine. - Sembra, disse. - E’ necessario allora che l’amante sincero e non simulato venga ri-[b] cambiato dal suo giovinetto amato. A questo punto Liside e Menesseno annuirono distrattamente mentre Ippotale si faceva di tutti i colori per il piacere.

XVIII. E io dissi volendo concludere la questione: - Se ciò che è affine è diverso in qualche cosa da ciò che è simile, potremo dire, a mio parere, che cosa è l’amicizia, miei cari Liside e Menesseno; se invece il simile è identico all’affine, allora non sarà facile non tener conto di quanto dicevamo prima, che cioè il simile è inutile al suo simile proprio per [c] la loro simiglianza; è assurdo naturalmente dire che l’inutile è amico. Volete dunque, dissi, visto che siamo come ubriachi per questo discorso, volete convenire con me che l’affine è in qualche cosa diverso dal simile? - D’accordo. - Considereremo dunque il bene affine a ogni cosa e il male estraneo a tutto? Oppure il male affine al male, il bene al bene e ciò che non è né bene né male af-[d] fine a ciò che non è né bene né male? Dissero entrambi che ritenevano giusta questa seconda ipotesi. - Allora, dissi, miei cari fanciulli siamo tornati di nuovo a quell’assunto che prima avevamo respinto, che cioè l’ingiusto sarà amico dell’ingiusto, il cattivo del cattivo, non meno che il buono del buono. - Sembra, disse. - E allora? Se diremo che il bene e l’affine si identificano non diremo altro se non che il buono soltanto è amico del buono? - Indubbiamente. - Eppure avevamo pensato che anche questa affermazione è inesatta. Non ve lo ricordate?- Ricordiamo. - E come dunque potremo arrivare a una conclusione? Non è chiaro forse che [e] non vi arriveremo mai? Vi prego dunque, come fanno gli avvocati in tribunale, di ricapitolare tutto quello che abbiamo detto. Se amico non è né l’amato, né l’amante, né il simile né il dissimile, né il buono né l’affine né tutti quegli altri che abbiamo passato in rassegna - sono tanti che non li ricordo più - allora non so più che cosa dire. [223a] Dopo aver detto questo avevo in mente già di invitare alla discussione qualche altro meno giovane; ma allora, come i cattivi demoni, i pedagoghi di Menesseno e di Liside si avvicinarono con i loro fratelli, li invitarono e poi ordinarono loro di tornare a casa; si era fatto tardi. Dapprima noi e quanti ci stavano intorno cercammo di cacciarli via, ma poi, visto che non si occupavano affatto di noi, ma nel loro barbaro linguaggio si sdegnavano e non smettevano di chiamarli e pareva che avessero alzato un [b] po’ troppo il gomito per le feste di Ermes e che per questo fossero difficili a trattarsi, vinti, sciogliemmo la compagnia. Io però mentre stavano per andarsene: - Ecco, dissi, miei cari Liside e Menesseno, ora siamo diventati ridicoli, io che pur sono un uomo vecchio e voi. Questi infatti andandosene diranno che noi crediamo di essere amici - anch’io mi pongo tra voi - ma tuttavia non siamo stati capaci di trovare quale sia la definizione di amico.