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Il mondo Stregato

Nuova edizione (online)

Introduzione alla lettura

Il Mondo stregato è un'antologia commentata delle opere di Karl Marx. Si tratta di un libro maturato nel corso degli anni. Ho cominciato a leggere Marx e a prendere appunti quando avevo venti anni e ho continuato a leggerlo e a riflettere sui testi fino ad oggi. Il libro è stato scritto nel 1993 ed è stato pubblicato da Armando nel 1995. Purtroppo il testo a stampa, che per fortuna è andato al macero, oltre che mutilo, era una brutta copia dell'originale. Visionato il testo, la direttrice editoriale mi suggerì di "tagliarlo" in maniera da renderlo più agibile per le scuole superiori. Non avendo né tempo né voglia di fare una cosa del genere, autorizzai la direttrice stessa a provvedere ai tagli per mio conto. Il suo lavoro risultò impietoso e, per alcuni aspetti, del tutto arbitrario. Il nuovo testo fu sottoposto al mio giudizio in fretta e furia, data la necessità di stamparlo. Riuscii appena a reintegrare alcune parti divenute incomprensibili in seguito alla revisione editoriale. Non ebbi neppure modo di visionare e correggere le bozze.

Il parto editoriale risultò molto infedele rispetto all'originale: ancora suggestivo per alcuni aspetti, richiedeva già, per essere compreso, una cultura marxista. Alcuni amici che lo lessero rimasero di fatto entusiasti, ma ciò non fece altro che confermare il mio giudizio. Si trattava infatti di marxisti critici di antica data che, nel testo, avevano riconosciuto alcune loro intuizioni che non erano mai riusciti ad esprimere. Chiesi e ottenni dall'editore la liberatoria dal vincolo contrattuale e mi proposi non solo di pubblicare l'originale ma di arricchirlo e di integrarlo con una serie di appendici che avrebbero dovuto trasformarlo in un'introduzione a Marx e al pensiero marxista a tutto tondo. Cooptai nell'impresa di scrivere le appendici un mio amico, che ritenevo (e ritengo) un conoscitore della letteratura marxista più esperto di me.

Purtroppo, per circostanze che ometto, il progetto non si è a tutt'oggi realizzato. Ho deciso dunque di mettere in rete il corpo originale del libro, vale a dire l'antologia commentata e la sintesi del pensiero di Marx.

Le appendici sono allo stato provvisorio. Cercherņ, se possibile, di arricchirle e integrarle con ulteriori articoli sulla storia del marxismo

Il Mondo stregato

Antologia commentata delle opere di Marx (con appendici critiche e lessico marxiano)

Indice

Parte prima

Introduzione. Tornare a Marx?

1. Genesi del pensiero

2. Antropologia

3. L'attività trasformativa

4. Coscienza e realtà

5. La concezione della storia

6. La Rivoluzione borghese

7. Valori e limiti del capitalismo

8. L'alienazione

9. Umanesimo comunista

10. Il progetto politico comunista

11. L’eredità di Marx

Sintesi del pensiero di Marx


Appendici (provvisorie)


Bibliografia

Introduzione. Tornare a Marx?

Nel I968, in occasione del 150° anniversario della nascita di Marx, sotto gli auspici dell’Unesco, si svolse a Parigi un simposio che mirava a valutare l’incidenza del pensiero marxista sulla filosofia e sulle scienze umane e sociali contemporanee. I saggi scritti per l’occasione dai partecipanti (tra i quali Erich Fromm, Jürgen Habermas, Eric J. Hobsbawm, Adam Schaff, Th. W. Adorno, Agnès Heller, Herbert Marcuse) e pubblicati in due volumi da Mondadori attestavano, da prospettive diverse, la vitalità di una rivoluzione epistemologica che appariva ancora densa di suggestioni e di possibili sviluppi. Anche gli interventi di studiosi non marxisti, critici ma non pregiudizialmente ostili a Marx, riconoscevano unanimemente il significato irreversibile di tale rivoluzione, al di là della quale la riflessione sulle vicende umane non avrebbe mai più potuto prescindere dal principio per cui, nel bene e nel male, l'uomo fa la sua storia.

La vitalità del marxismo era però riconoscibile in massima parte nel pensiero di intellettuali che operavano al di qua della cortina di ferro, nel contesto delle democrazie occidentali o dei paesi del Terzo Mondo. I contributi degli studiosi provenienti dai paesi del ‘socialismo realizzato’, soprattutto sovietici, rivelavano, nonostante spunti di indubbio interesse, un’adesione uniforme ad un’ortodossia ufficiale che dava ad essi un carattere fastidiosamente apologetico. Nonostante si fosse alle soglie della contestazione giovanile e operaia che avrebbe dato al marxismo, nel corso degli anni ’70, una rilevante diffusione nei paesi occidentali e una sorta di egemonia culturale contrastata, ma senza grande successo immediato, dagli intellettuali liberali, la lettura degli atti del convegno poneva dunque di fronte ad una contraddizione evidente. Il pensiero di Marx risultava vivo nel contesto delle democrazie occidentali, cristallizzato e dogmatico nel contesto dei paesi del ‘socialismo realizzato’.

A distanza di poco più di vent’anni, in seguito all’ abbattimento del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la cultura liberale, che ha riconquistato a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso l’egemonia, ha dichiarato la morte del pensiero di Marx e del suo progetto politico, il comunismo. Per i liberali, il duro verdetto della storia ha posto fine ad un inganno ideologico che, imposto con la dittatura nei paesi comunisti, avrebbe irretito, dall’800 ai giorni nostri, una nutrita schiera di pensatori occidentali marxiani (Lukács, Korsch, Bloch, Mondolfo, Gramsci, Lefèbvre, Merlau-Ponty, Sartre, Althusser, Fromm, Adorno, Marcuse, Habermas, ecc.) la cui statura filosofica e la cui opposizione critica all’ortodossia sovietica non possono essere negate. Pur non misconoscendo il valore del loro pensiero, quel verdetto suona come una campana a morte che lo destina alla rimozione o all’interesse meramente specialistico.

Nel giro di soli due decenni, dunque, la contraddizione tra pensiero marxista e "socialismo realizzato", già del tutto evidente negli atti del convegno parigino, è giunta alle estreme conseguenze. La dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenuta quasi repentinamente sull’onda di una protesta popolare provocata dal tenore di vita mediocre, dall’oppressione di un regime burocratico e poliziesco e da una disaffezione ideologica e politica che non intravedeva più alcun orizzonte di riscatto, ha fornito alla critica liberale la possibilità di denunciare l’esperienza sovietica come conseguenza della teoria marxista, e di archiviare questa come una nefasta ideologia che, in nome della giustizia sociale, promuove l’oppressione e la miseria. Una serie di circostanze economiche, culturali, sociali, la più importante delle quali è l'uso propagandistico dei mass-media, ha finito col radicare il verdetto della critica liberale nell'immaginario collettivo, giungendo paradossalmente a reificare la storia come un tribunale inappellabile. In conseguenza di questo, il comunismo ha perduto progressivamente il potere di fascinazione esercitato nel corso di tutto il XX° secolo sugli intellettuali, le masse popolari e il mondo giovanile.

Di fronte ad un cambiamento così radicale di mentalità, che sottolinea quasi drammaticamente la dipendenza delle coscienze contemporanee non dallo stato di cose esistente bensì dalla lettura che se ne dà, suggerita in gran parte dai mass-media, dietro i quali si muovono interessi e forze sociali intese a mantenere lo status quo, occorre necessariamente porsi alcune domande: è ragionevole seppellire la tradizione del cosiddetto marxismo occidentale, la cui pretesa costante è stata la fedeltà allo spirito di Marx, il tentativo di dare al suo pensiero un significato metodologico, di usarlo, in altri termini, per decifrare il senso del divenire storico e dell'avventura mondana dell'uomo? E' credibile che una vasta schiera di pensatori, il cui valore filosofico è inconfutabile, sia rimasta vittima di un inganno ideologico cercando di sviluppare, ciascuno per conto proprio e in una prospettiva diversa dagli altri, un metodo di pensiero demistificante e liberatorio? E' lecito ignorare le critiche radicali che molti di tali pensatori hanno rivolto allo stalinismo, rifiutando di riconoscere in esso l’espressione autentica del marxismo? Ha senso, infine, assegnare al verdetto della storia, sui tempi brevi, un significato definitivo, laddove è noto che quel verdetto esprime solo il giudizio dei vincitori?

Le risposte non possono essere che provvisorie. Pochi dubbi sussistono riguardo al fatto che la catastrofe dell’Unione Sovietica e dei paesi ai quali essa ha imposto il suo modello sia stata utilizzata per regolare i conti con un pensiero che, rivelando le contraddizioni insanabili del capitalismo, ne ha anticipato la necessità di un superamento. Tale necessità va ormai considerata etica e politica e non vincolata, come Marx è stato indotto a pensare, a presunte leggi dello sviluppo storico. Ciò non toglie che essa continua ad apparire indubbia anche nell’attuale fase di sviluppo rigoglioso del capitalismo, se è vero che esso, nonostante l'incremento della ricchezza complessiva, non sembra, sia all’interno dei paesi capitalistici sia a livello planetario, avere la capacità di rimediare lo scarto tra chi ha troppo e chi ha troppo poco. Le promesse, ritualmente ripetute dai politici, di agire nella prospettiva di una sua graduale riduzione urtano contro la logica dei capitali finanziari che, nell’epoca della globalizzazione, sono suscettibili ad ogni riduzione del profitto, e, col loro potere di investimento e di disinvestimento, condizionano pesantemente i governi. Se si dà un'illusione che rinasce costantemente dalle sue ceneri, quest'illusione è l'aspirazione umana alla libertà e alla giustizia, alla fine del dominio dell'uomo sull'uomo in tutte le sue forme. Nell'orizzonte attuale quell'illusione, nonostante il verdetto della storia, continua ad identificarsi con il pensiero di Marx.

Tra le poche voci che si sono opposte alla sua frettolosa liquidazione quella di J. Derrida è stata la più caustica. Il filosofo francese ha pubblicato, nel 1994, un saggio dichiaratamente controcorrente (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano) nel quale afferma la necessità di un ritorno al pensiero di Marx. Non si tratta solo - egli sostiene - di riabilitare la grandezza di un filosofo che ha radicalmente modificato la visione che l'uomo ha di sé e della sua storia, vincolandola al fine ultimo della realizzazione individuale e sociale delle potenzialità umane. Atto doveroso di onestà nei confronti di un'impresa intellettuale che dà alle vicende umane un senso pieno, rigorosamente laico e, nel contempo, etico, il ritorno al pensiero di Marx si pone oggi, infatti, per Derrida, nei termini di una necessità teorica e pratica. Lo stato attuale delle cose nel mondo, secondo il filosofo francese, è disperato sia da un punto di vista antropologico che economico, sociale e culturale. I problemi su scala planetaria che egli assume come sintomatici di tale stato - dalla fame all'inquinamento, dallo sviluppo dell'industria bellica all'indebitamento del Terzo Mondo, dalla concorrenza sempre più aspra sui mercati alla criminalità organizzata, dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali all'avvio dell'industrializzazione in paesi del terzo mondo che, tentando di inserirsi nel sistema del mercato mondiale, sperimentano la brutalità del capitalismo esordiente - sono eterogenei, ma il loro costante aggravarsi in misura direttamente proporzionale allo sviluppo del sistema capitalistico confermerebbe una correlazione causale poco o punto equivocabile.

Le pretese di tale sistema di funzionare come una panacea dei mali che esso in larga misura ha prodotto e produce, sarebbero infondate, poiché l'astratta elevatezza dei principi liberal-democratici ai quali fa riferimento è imprescindibile dal duro nocciolo dell'economia capitalistica, e cioè da un modello di sviluppo che, adottato a livello planetario, precipiterebbe il mondo in una catastrofe - ecologica, antropologica e sociale - senza scampo; e, continuando a crescere solo nei paesi industrializzati, rischia di scavare un solco incolmabile tra i privilegiati e i dannati della terra, destinati a subirne le conseguenze negative. Tale stato di cose assegna una funzione salvifica al pensiero di Marx, che lo ha previsto (fallendo nell'elevare a legge la pauperizzazione crescente della classe operaia, ma non nell'intuire le terribili conseguenze socio-economiche e culturali di una mondializzazione del capitalismo).

Nelle sue valenze critiche, atte a spiegare come, pur perseguendo fini di razionalità economica (avulsi dal riferimento all'uomo come fine) il capitalismo - né più né meno come un cancro - sprigiona energie produttive e distruttive che si autonomizzano dal controllo umano; e perché esso, nella sua logica intrinseca, non comporta una capacità autoregolativa adeguata a scongiurare una catastrofe e tende sistematicamente ad entrare in conflitto con i poteri dello Stato, laddove essi tentano di tutelare gli interessi collettivi, quel pensiero si pone come unico e insostituibile rimedio alla prospettiva, in via di realizzazione, di un dominio planetario del capitale. Ciò, a patto che non sia adottato dogmaticamente, vale a dire tradotto e ischeletrito in formule passe-partout. Si tratta, in breve, di tornare a Marx, allo "spirito" di Marx alla luce del fallimento del "socialismo reale", che ha posto in luce il punto debole del pensiero marxiano, esasperato dall'ortodossia: la complessità del rapporto tra coscienza umana, storia e realtà sociale, espressa da un conservatorismo culturale, e di conseguenza politico, maggioritario in ogni società.

Per Derrida, che in ciò riprende l’interpretazione dei nuovi storici francesi, l’opera di Marx è infatti, anzitutto, uno strumento per pensare la storia, nella sua totalità e nella sua attualità. Pensare la storia in termini marxisti, pensarla dunque appassionatamente sino a patirla, riconoscere in essa un interminabile travaglio di parto il cui esito non fatalistico - l'appropriazione da parte dell'uomo delle condizioni oggettive della sua esistenza -, appare nondimeno necessario per scongiurare il pericolo di un'irreversibile perdita di controllo sulle stesse, è non solo il presupposto dell'agire rivoluzionario, bensì la motivazione che lo pone in essere e lo finalizza. Quanto più il mondo, per effetto dei mezzi di comunicazione, si rimpicciolisce, e appare nella sua totalità come un insieme di insolubili contraddizioni, culminate nell'avvento del capitalismo - che pretende di porsi come stadio finale dello sviluppo delle forze produttive e della civiltà -, tanto più questa necessità si impone di fatto, nonostante il compito del cambiamento appaia immane. In nome di questa analisi, Derrida giunge ad una conclusione radicale che non pochi marxisti contemporanei in crisi esiterebbero a sottoscrivere: "Sarà sempre un errore non leggere e rileggere e discutere Marx... Sarà sempre un errore, un venir meno alla responsabilità teorica, filosofica, politica. Da quando la macchina per far dogmi e gli apparecchi ideologici "marxisti" (Stato, partito, cellule, sindacati e altri luoghi di produzione dottrinale) sono in via di estinzione, non abbiamo più scuse, più alibi, per distoglierci da questa responsabilità. Non ci sarà altrimenti avvenire. Non senza Marx, nessun avvenire senza Marx. Senza la memoria e l'eredità di Marx."

Se ne condivida o meno il tessuto argomentativo, il saggio di Derrida pone due problemi che non possono essere elusi.

A quale Marx, anzitutto, tornare? L'opera marxiana è una nebulosa nella quale filosofia, storia, economia, politica, sociologia, psicologia s’intrecciano indissolubilmente. Essa, dunque, si offre a letture molteplici, nessuna delle quali può pretendere d’essere esauriente. Se si prescinde dall'impostazione dogmatica, il ritorno a Marx richiede almeno un'opzione di fondo tra le possibili letture cui quel pensiero si offre. Più di ogni altro autore nel campo della filosofia e delle scienze umane, per l'impegno di ricerca profuso su di un fronte troppo ampio, Marx rischia costantemente di essere equivocato.

Una lettura diretta dei testi può facilmente indurre a privilegiare l'impianto logico che Marx ha voluto dare al suo sistema per elevarlo al rango di modello scientifico - compresa la definizione di "leggi" economiche, e le previsioni deterministiche che da esse discendono - anziché le intuizioni "visionarie" che lo sottendono. In nome della necessità di una filosofia mirante ad incidere praticamente sullo stato di cose esistente, Marx ha assoggettato la sua genialità, esuberante e di conseguenza dispersiva, ad una disciplina rigorosa, rinunciando progressivamente alla suggestione delle intuizioni - ciascuna delle quali avrebbe potuto dar luogo ad uno sviluppo autonomo - e impegnandosi sempre di più su di un terreno - quello della critica economica - estraneo ai suoi interessi originari. Accusato di economicismo, Marx, di fatto, non ha mai amato l'economia in senso proprio, come scienza: l'ha sempre e solo affrontata sub specie storica (e filosofica...), individuando in essa il nodo gordiano da sciogliere - teoricamente e praticamente - per finalizzare lo sviluppo delle forze produttive alla realizzazione di un mondo di individui liberi dal bisogno, consapevoli della loro radicale socialità e, al tempo stesso, impegnati a sviluppare al massimo grado le proprie potenzialità individuali. Di questa disaffezione si danno prove molteplici. In una lettera all'amico Engels, il materiale vastissimo raccolto per la stesura de Il Capitale viene definito tout-court "merda". In altre, la previsione di poter portare a termine rapidamente questa stesura e di potersi, finalmente, dedicare a studi e lavori diversi risuona come giubilatoria. La previsione risulterà essere infondata. Marx è un perfezionista: pur insofferente delle costrizioni filosofiche cui lo obbliga l'elaborazione della critica economica, egli si impone di portarla a compimento. Lavorerà, di fatto, sui manoscritti de Il Capitale, senza giungere alla stesura definitiva del secondo e del terzo libro, cui provvederà Engels impegnando gli ultimi vent'anni della sua vita a ordinare il materiale abbondantissimo lasciato spesso allo stato d’abbozzo.

Non è azzardato pensare che le ricorrenti interruzioni, talora di durata molto lunga, cui Marx incorre nel corso degli anni, dacché si vota allo studio e alla critica dell'economia borghese, contrassegnate il più spesso da una sintomatologia francamente psicosomatica, attestino, oltre al peso di un regime economico costantemente precario e la consapevolezza dolorosa di aver coinvolto la famiglia in una scelta radicale di vita, un rigetto nei confronti di una disciplina di pensiero troppo coartante. Se Marx non cede, e, superate le crisi, riprende l'immane lavoro, è perché egli lo sente e lo vive come un dovere nei confronti degli oppressi - la classe operaia - che, pur vivendo sulla pelle l’esperienza dello sfruttamento, difettano di armi critiche per capire il senso dello stato di cose esistente. Non è per caso, infatti, che le crisi sopravvengono allorché le prospettive di una rivoluzione sociale si allontanano, e la ricerca torna a fluire allorché quelle sembrano mature.

Senza forzature, si può definire l'esperienza di Marx un dramma intellettuale per due aspetti. Sotto il profilo teorico, perché egli insegue la quadratura del cerchio in rapporto ad un oggetto - la storia umana - esorbitante e, per non disperdersi, concentra progressivamente il suo pensiero sull’economia, che non ama e sa essere una scienza sui generis. Sotto il profilo emozionale, poiché in lui, vita natural durante, la necessità assoluta di promuovere una prassi rivolta al cambiamento radicale dello stato di cose esistente convive con l’acuta consapevolezza delle capacità del sistema capitalistico di camuffare la sua logica disumanizzante sotto il velo ideologico di leggi economiche oggettive e di valori (la libertà individuale, l’uguaglianza, la proprietà privata) atti a catturare tenacemente le coscienze umane.

L’urgenza etica della rivoluzione, che Marx non riconoscerà mai come tale, mirando a dimostrare che essa è scritta nella dialettica storica, è un collo di bottiglia del pensiero marxiano, che consente di spiegare sia alcuni irrigidimenti teorici sia alcune contraddizioni il cui peso è difficile minimizzare.

Gli irrigidimenti concernono essenzialmente la teoria sociologica. Ponendo la produzione materiale a fondamento dell'organizzazione sociale, Marx opera una scelta ideologica antitetica all'idealismo. Una scelta consapevole, fondamentalmente giusta e confermata dagli sviluppi storici ulteriori, che pongono sempre più in luce il peso crescente dei fenomeni economici nell'organizzazione delle società. Si tratta però di una scelta che, proprio per il suo carattere antitetico, lascia aperto il problema di definire i nessi tra la base economica - l’infrastruttura - e l'edificio sociale - la sovrastruttura - che su di essa si eleva, per pervenire ad una teoria integrata della realtà sociale. Tale integrazione è resa necessaria dal fatto che, nella storia, la stessa base economica (nel linguaggio di Marx, lo stesso modo di produzione), pure entro limiti ben definiti, che da quella dipendono, dà luogo allo sviluppo di formazioni sociali diverse per molti aspetti. Ciò attesta che, tra i livelli sovrastrutturali, alcuni - come l'ordinamento giuridico e quello politico - rivelano più chiaramente la dipendenza dalla base economica rispetto ad altri - come la scienza, l'arte, la filosofia - che intrattengono con essa rapporti più complessi, e sembrano dotati anche di una relativa autonomia. Ogni formazione sociale, ogni società pertanto, per essere spiegata nella sua totalità, richiede un immane lavoro di ricerca sui nessi, le articolazioni e le influenze reciproche tra le sue diverse componenti. Questo Marx non lo ignora, come risulta in più punti della sua opera e come è testimoniato dagli interventi di Engels a riguardo, postumi alla scomparsa dell'amico. Ma la necessità tattica di mantenere la teoria materialistica della storia immune dal morbo idealistico, irrigidisce Marx nell'affermazione del primato assoluto dell'economia e lo distoglie dal dare alla teoria stessa, anche solo in riferimento alla società borghese, un’articolazione integrata con gli altri aspetti che partecipano a strutturare un sistema sociale specifico (progetto - peraltro - presente nei suoi appunti). Da ciò la critica, ripetuta in tutte le salse, di economicismo, che, a ragion veduta, vale piuttosto per gli eredi ortodossi e non, per esempio, per i marxisti occidentali - da Gramsci a Habermas -, la cui fedeltà allo spirito di Marx è fuori dubbio. L’irrigidimento materialistico è in realtà problematico per un altro aspetto. Esso induce Marx a porre tra parentesi il fatto che, se ogni struttura sociale è omologabile ad un edificio, con le sue fondamenta - l’infrastruttura - e i suoi piani - la sovrastruttura -, i soggetti storici, gli individui vivono nel corpo dell’edificio, ignorando le fondamenta. Di conseguenza, quanto più l’edificio è storicamente stratificato, socialmente articolato e culturalmente complesso, tanto più le coscienze sono irretite dall’interagire solo con ciò che di esso è visibile. La storicità del mondo prodotto dall'uomo, nella quale riposa, con le sue contraddizioni oggettivate, il senso dell'avventura umana, esiste solo per le coscienze che si affrancano dai loro limiti intrinseci: il realismo, per cui il mondo storico appare dato come i fenomeni naturali; la contingenza esistenziale, che determina l'integrazione sociale sul registro dell'adattamento allo stato di cose esistente; e il bisogno ideologico, che determina la condivisione del sistema di valori culturale dominante e la visione del mondo che da esso discende.

Le contraddizioni sono una conseguenza dell’ irrigidimento ideologico cui si è fatto cenno. Esse vertono essenzialmente sullo statuto della coscienza umana in rapporto alla realtà e, in senso lato, sul ruolo e sul peso della soggettività nella storia. Marx non ha dubbio riguardo al fatto che la coscienza è un prodotto sociale, e cioè che, pur affondando le sue radici nell'organizzazione biologica propria dell'essere umano, si organizza e funziona solo in virtù dell'interazione col mondo storico-culturale. Non esiste, insomma, una coscienza pura, bensì solo una coscienza storica, determinata dalla vita sociale, vale a dire da tutto ciò che gli individui associati e cooperanti producono per sopravvivere e adattarsi all’ambiente: dalla cultura, dunque, considerata nella sua totalità (beni di consumo, tecniche, linguaggio, istituzioni sociali, valori culturali, ideologie o visioni del mondo) che è la seconda natura umana.

La storia è, peraltro, un processo cumulativo: i suoi prodotti si trasmettono di generazione in generazione, e si accrescono per l’apporto che ogni generazione fornisce al patrimonio culturale. In conseguenza di ciò, ogni coscienza individuale viene ad essere determinata dal contesto storico cui appartiene. Ma la storia, proprio perché cumulativa, non è trasparente: i processi reali che, a partire dalla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ne hanno determinato il corso, giacciono al di là delle apparenze dell’organizzazione sociale. Sono queste però a catturare immediatamente le coscienze che giungono a partecipare alla vita sociale, inducendole o ad accettare la realtà esistente, col suo carico di ingiustizie e di contraddizioni, come se essa fosse nell’ordine naturale delle cose, o ad opporsi ad essa sulla base di istanze che sono prevalentemente partecipative. Per affrancare le coscienze dal potere stregante del mondo così come appare, e come viene fatto apparire dalle ideologie, occorre, per Marx, un cambiamento radicale delle condizioni oggettive di vita. Questo però non può avvenire che per effetto di una lotta portata avanti da coscienze riformate, vale a dire capaci di interpretare la realtà storica come espressione di processi invisibili. Il problema del cambiamento radicale dell’ordine di cose esistente si configura, dunque, come un circolo vizioso.

Marx ne è pienamente consapevole, ma, ricusando sprezzantemente la teoria dell'autocoscienza dei giovani hegeliani, il cui limite sta nell’élitarismo, nel proporre una liberazione accessibile solo al ceto intellettuale, deve trovare un’altra soluzione. Qual’è, infine, la forza motrice della liberazione della coscienza sociale dalle apparenze? Marx non ha dubbi: la dialettica storica, il cui movimento genera periodicamente un conflitto tra i rapporti sociali determinati dalla produzione, l’ordine reale del mondo - ingiusto -, e l’intuizione di un mondo giusto, fatto a misura d’uomo, già possibile per via dello sviluppo delle forze produttive, vale a dire della ricchezza prodotta dall’umanità nel corso del suo cammino. Il problema è che quest’intuizione, per diventare efficace, postula che l’uomo prenda coscienza definitivamente delle potenzialità, dei bisogni e dei fini intrinseci alla sua natura. La storia pone le premesse per questo riconoscimento, ma non può determinarlo. Rifiutando di attribuire alla storia, sia pure interpretata dialetticamente, una sorta di determinismo fatalistico, Marx deve di necessità individuare un agente sociale - la classe operaia - il cui livello di coscienza, dovuto alle condizioni di vita disumane, è maturo per farsi carico dell’impresa di cambiare il corso della storia. Alla luce degli ulteriori sviluppi storici, questa valutazione, appare ingenua, poiché non tiene conto dello scarto tra l'esperienza vissuta dello sfruttamento e della degradazione umana, che promuove aneliti di giustizia, e la comprensione, in termini non solo economici, bensì filosofici e storici, dello stato di cose esistente.

E’ paradossale che Marx, impegnando tutta la sua vita nella demistificazione dell’ideologia capitalistica, e imbattendosi di continuo in ostacoli che solo una capacità critica raffinatissima, e nutrita di una cultura sterminata, gli ha consentito di sormontare, abbia potuto pensare che la sua impresa potesse funzionare come poco più di una scorciatoia di un tragitto comunque difficile da percorrere per le coscienze umane. Il problema è che egli crede a tal punto nella potenza liberatoria del senso di giustizia di coloro che l’ingiustizia la sperimentano sulla pelle, da ignorare che le loro necessità immediate si traducono, con rare eccezioni, in rivendicazioni, per altro comprensibili, di ascesa sociale entro il sistema, e che il miraggio dello status borghese, imprescindibile dall'acquisizione di una mentalità individualistica, può risultare agevolmente vincente sulla coscienza di classe.

Il viraggio dal pensiero giovanile, suggestivamente ricco di spunti filosofici, a quello maturo, quasi del tutto dedicato alla stesura delle opere di critica economica e all'attività militante, senza comportare alcuna cesura, risente di questi irrigidimenti e di queste contraddizioni. A seconda del significato che si dà ad essi, sono possibili almeno due letture dell'opera marxiana: una lettura filosofica, che privilegia la concezione della natura umana, o, meglio, della doppia natura (quella biologica prodotta dall'evoluzione darwiniana e quella culturale prodotta dalla storia) e fonda su di essa il progetto di un mondo fatto a misura d'uomo, la cui realizzazione pratica non può prescindere dalla duplice necessità di cambiare le circostanze oggettive e di produrre un nuovo modo di porsi soggettivo degli uomini in rapporto alla realtà storica; e una lettura economica, che, ponendo tra parentesi - come poco pertinenti - i presupposti antropologici, privilegia l'analisi dei modi di produzione e delle formazioni economico-sociali che si sono succeduti nel corso della storia al fine di confermarne il significato dialettico - in termini di lotta di classi - e di ricavare da questo la necessità di un superamento dell'ordine di cose esistente, del sistema capitalistico.

Non si tratta di opzioni arbitrarie, poiché entrambe trovano riscontro nell’opera di Marx. Ma, a mio avviso, privilegiare la teoria antropologica e la teoria della storia marxiane consente di dare alla critica dell'economia il suo giusto significato di un work-in-progress aperto al divenire storico, e, pertanto, immunizzato dal rischio di essere vanificato dagli irrigidimenti ideologici e dalle contraddizioni cui si è fatto cenno. Tornare a Marx non può significare, oggi, che dialettizzare tali opzioni, riconciliare il pensiero giovanile - contrassegnato dall'antropologia filosofica - e quello maturo - sotteso dall'intento di dimostrare la necessità di un superamento del capitalismo - nel nome di una scienza della storia che consenta agli uomini nel contempo di capire il senso della loro avventura terrena e di trasformare l'esistente in un mondo fatto a misura d'uomo. Non si dovrebbe mai ignorare che l'interesse primario di Marx non è rivolto a proporre un nuovo modello economico, bensì ad invalidare una logica - quella dell'interesse particolare (peraltro malinteso) in opposizione all'interesse generale - che, raggiungendo la sua definizione più radicale nella forma dell'egoismo borghese, impedisce allo sviluppo delle forze produttive di essere controllate dai produttori e di essere poste al servizio della produzione dell'uomo ricco, vale a dire di un individuo pienamente dispiegato nelle sue potenzialità, e pertanto universale.

Il secondo problema posto dal saggio di Derrida è - per così dire – d’ordine pratico. Si tratta, infatti, di capire come, in una realtà sociale e culturale profondamente mutata rispetto all'epoca di Marx, sia possibile conoscerne il pensiero, studiarlo, appropriarsene metodologicamente - come strumento interpretativo - e usarlo applicandolo all'attualità (senza mai trascurare la storia totale nel cui divenire esso si inscrive). Il problema concerne, per ovvi motivi, soprattutto i giovani, ai quali occorre attribuire una domanda di senso della realtà che, negli adulti, si tramuta sempre più spesso in una rassegnata o, peggio ancora, partecipe accettazione dell'ordine di cose esistente.

Non sorprende che l'appello di Derrida, rivolto, per l'occasione stessa che lo ha generato, agli esperti, agli uomini di cultura, a coloro che detengono il potere, sia caduto praticamente nel vuoto. Signum contradictionis, il pensiero di Marx - più spesso orecchiato che approfondito anche a livello di ceti intellettuali - determina, consapevolmente o inconsapevolmente, una presa di posizione ideologica netta e definitiva. Si è con Marx o contro di Marx, senza mezze misure; e i ripensamenti avvengono ormai più frequentemente nella direzione dell'abiura (animata troppo spesso, paradossalmente, dal livore di chi, avendo aderito intellettualisticamente al marxismo, assume il ruolo di vittima di un inganno). Il fenomeno è sconcertante: essere non-marxisti è un diritto non assoggettabile a giudizio alcuno allorché esso venga esercitato nel nome di un sistema di valori - per esempio fondati su di una fede religiosa - adeguato a spiegare la storia nella sua totalità; diventare ex-marxisti è un non senso, poiché significa non esserlo mai stati. Se si prescinde, infatti, dalla trascendenza, non si dà altro senso della storia che quello marxiano. Gli ideologi liberali - Popper in testa - negano che la storia, in sé e per sé, abbia un senso, e sostengono che sono gli uomini a darglielo, estrapolando più o meno arbitrariamente dall’infinità varietà dei fatti storici alcuni dati che ad essi appaiono significativi. Con ciò rivelano il loro razionalismo e l’incomprensione del pensiero di Marx. In quanto prodotta nei suoi presupposti dall’evoluzione naturale e nel suo svolgimento dalla cultura, vale a dire dal lavoro degli uomini associati, la storia non può non avere un senso. E' evidente, infatti, che, se essa significa qualcosa per chi la produce, ed è dunque oggetto di molteplici interpretazioni, non può non significare qualcosa anche riguardo a chi la produce.

Per tornare a Marx, è importante dunque il problema dell'accesso al pensiero e al metodo marxiano, del conoscere per giudicare. Se vale per qualcuno, l'appello di Derrida - s'è detto - concerne i giovani. Ma è proprio a livello giovanile che quel problema si pone come pressoché insormontabile. L'opera di Marx è smisuratamente vasta; eterogenea nel suo costante intreccio interdisciplinare; complessa e stratificata quanto può esserlo una ricerca il cui carattere "sperimentale" e il cui oggetto - la ricostruzione nell'intera storia umana di un senso atto a consentire alla coscienza sociale di appropriarsene e di governarla - schiudono di continuo orizzonti nuovi di riflessione, suggestivi quanto vertiginosi. Per essere letta e meditata, quell'opera postula un bagaglio di conoscenze che trascendono di gran lunga la cultura media giovanile. I Manoscritti economico-filosofici postulano una conoscenza approfondita di Hegel. Il Manifesto, nella sua appassionata stringatezza, è un'opera di propaganda, anche nel senso migliore della parola: un invito all'azione, la cui lucida passionalità, seppure non sacrifica la riflessione, può facilmente apparire, oggi, senza referente storico. Il Capitale e i Grundrisse rappresentano miniere nelle quali è difficile inoltrarsi senza rimanere turbati dalla complessità delle argomentazioni - proposte in termini di rigorosa logica dialettica - e dalla sovrabbondanza degli esempi inattuali, delle analisi minuziose di dettagli, dei rimandi ad autori ormai poco noti e delle polemiche frequenti e non di rado ormai incomprensibili.

Alla luce delle difficoltà esposte, alle quali, più ancora che alla propaganda antimarxista, va ricondotto il rischio che il pensiero di Marx giunga ad essere rimosso dal patrimonio culturale comune, la proposta di un'Antologia commentata mira a colmare una lacuna che incide non poco nella formazione critica delle coscienze giovanili. Il criterio antologico e l'organizzazione dell'antologia per nuclei tematici non sono nuovi. La scelta dei nuclei tematici si è basata sul principio di privilegiare i presupposti filosofici inerenti la natura umana, il dispiegamento delle potenzialità sue proprie nel corso dello sviluppo storico, la produzione della cultura materiale e spirituale, e le varie forme di alienazione in conseguenza delle quali l'umanità è stata espropriata dal fruire della ricchezza da essa prodotta. Da questi presupposti – a mio avviso - riesce illuminata l'analisi cui Marx sottopone il modo di produzione capitalistico e la civiltà borghese; analisi che, al di là del problema della genesi storica di tale civiltà, che appare esauriente, va considerata essenzialmente come un work-in-progress, un' applicazione sul campo della teoria, che Marx porta avanti per quarant'anni e affida alle generazioni future. La griglia tematica - ovviamente opinabile - serve non solo ad illuminare la coerenza di una riflessione che non riconosce alcuna cesura tra produzione giovanile e produzione matura - tra le quali si dà solo una differenza di metodo -, bensì a documentare il rilievo assoluto svolto, nella costruzione del sistema marxiano, dall'antropologia filosofica, e cioè da una concezione della natura umana il cui carattere radicalmente rivoluzionario non trova ancora oggi alcun modello con cui confrontarsi. Non da ultimo perché, essendo stata equivocata costantemente come utopistica o massificante, i critici liberali non sono riusciti ad opporre ad essa che la sacralità dell'individuo (e per di più coscienzialista, come se, nonché Marx, non fossero esistiti Nietzsche, Freud, la scuola di Francoforte e lo strutturalismo).

L'attualità di Marx - è un luogo comune recepito nella scelta dei brani antologici e nel commento - non sta nelle soluzioni che egli ha fornito ai problemi che ha affrontato, bensì nell'ottica - naturalistica e umanistica - in cui quei problemi sono stati posti. La storia umana, se si considera la qualità della vita di tutti i membri della specie che si sono finora succeduti nel corso delle generazioni, è un'immane tragedia. La felicità di pochi è stata pagata al prezzo del dolore, del sacrificio e del non senso dell'esperienza dei più. Cionondimeno, quella tragedia ha prodotto un patrimonio culturale - di beni materiali, di tecniche, d’istituzioni, di pensiero, di arte - che ha profondamente trasformato il pianeta. Il problema posto da Marx, in ultima analisi, è se questo scarto paradossale debba perpetuarsi all'infinito o non possa avere fine: in breve, se l'oggettivazione delle straordinarie potenzialità proprie del genere umano comporti di necessità la miseria - economica, sociale e psicologica - dei più su scala planetaria, o non possa essere riappropriata e fruita da tutta l'umanità che l'ha prodotta nel corso della sua travagliata evoluzione. Il problema, che si pone immediatamente in termini di giustizia, è, su un piano più ampio, il senso stesso della storia umana in un'ottica mondana.

Sia la scelta dei brani che il taglio dei commenti richiedono qualche precisazione. L'antologizzazione del pensiero di Marx - nresa ardua dalla vastità dell'opera - non può prescindere da una tradizione - quella appunto del marxismo occidentale - che, in virtù di un prezioso lavoro di distillazione, ha fornito coordinate di scelta non sormontabili. Nella presente antologia, non si troverà, dunque, alcunchè di nuovo. Anzi, si troverà meno di quanto quella tradizione giudica essenziale, e meno di quanto in genere si ritiene necessario affinché un'antologia funzioni, rispetto all'opera, come un baedeker. E’ un vezzo degli antologisti ritenenere che il loro lavoro debba necessariamente promuovere un accesso diretto all’opera in questione. Il curatore, ovviamente, non ne è immune, per quanto ritiene improbabile che un giovane oggi si dedichi alla lettura sistematica di Marx.; né necessario, poiché lo "spirito" di Marx è sostanzialmente aforistico. Le intuizioni più profonde, le intuizioni "visionarie", che danno al suo pensiero il timbro della genialità, sono infatti scritte sotto forma di aforismi, la cui densità lacera e illumina un tessuto discorsivo spesso troppo incline ad identificare l'argomentazione logica con la metodologia scientifica. Appropriarsi di quelle intuizioni, riflettere su di esse, approfondirle è importante più di una conoscenza scolastica (alla quale, comunque, ritenendola un’abitudine difficile da estirpare, è dedicata una sintesi alla fine del libro che, volendo, può esser letta preliminarmente...).

Quanto ai commenti, il curatore ovviamente si assume ogni responsabilità. E ciò sia per quanto riguarda la lettura indiziaria dei testi, avallata dal fatto che spesso le implicazioni di Marx danno alle asserzioni esplicite una sottigliezza che le immunizza dal dogmatismo, sia per quanto concerne il rilievo accordato allo statuto e al ruolo della coscienza umana (e dell'inconscio...) nel pensiero marxiano. Ormai è chiaro che il radicamento delle tradizioni e delle ideologie, sia politiche che religiose, e la cattura che esse esercitano, a livello di storia sociale e di soggettività individuale, è molto più profondo e insidioso di quanto Marx potesse immaginare. Ed è questo tema - dell’inconscio sociale e dello statuto delle coscienze in rapporto alla realtà sociostorica, del modo in cui gli individui vedono il mondo e si rapportano ad esso - che, in prospettiva, tenendo conto del fallimento del "socialismo rale" e dell'evoluzione delle scienze umane e sociali, sembra porsi come un nodo gordiano dell'evoluzione storica e del destino del marxismo. Se il socialismo reale è fallito, lo si deve ad una serie oltremodo complessa di variabili storiche e culturali: non da ultimo, ad un approccio ingenuo e rozzo nel contempo al problema del cambiamento delle coscienze. La difficoltà di riformarle, rendendole attivamente partecipi ad una rivoluzione epocale, è stata risolta brutalmente, assoggettando le soggettività individuali a principi dogmatici. Che ciò sia avvenuto, è un fatto inconfutabile; che sia avvenuto in ossequio allo spirito del marxismo, e che ne abbia dunque rivelata la sua matrice più profonda - la tendenza a considerare gli individui come mezzi - è un'interpretazione aberrante. Rimediare alla quale postula un ritorno a Marx, alla sua passione per l'uomo; e il chiedersi infine perché l'uomo stenti ad essere degno di una grandezza che, come è attestato dal mondo ch'egli ha prodotto nel corso dello sviluppo storico, è intrinseca al suo essere.


Cap. II Genealogia del pensiero


"Ogni scienza sarebbe superflua se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero". Scritta, en passant, nel libro terzo de Il Capitale, secondo una modalità di procedere propria di Marx, che teorizza spesso per aforismi, la frase sintetizza superbamente l'epistemologia marxiana. Ad una prima lettura, il suo significato può apparire ovvio. La distinzione tra apparenze e essenze, diversamente formulata, è una categoria costante del pensiero filosofico dai suoi esordi. Recepita dalle scienze naturali, a partire dalla rivoluzione copernicana, questa distinzione, in virtù dello sviluppo del metodo sperimentale, ha dato luogo alla ricerca di nessi causali, formulabili simbolicamente sotto forma di leggi. Perché, dunque, espressa da Marx, essa dovrebbe sorprendere ? Per due motivi.

In primo luogo, poiché Marx intende per scienza qualunque sapere critico giunga a spiegare ciò che appare a partire da livelli di realtà invisibili, ma dinamici. In quanto produttori di forme o fenomeni, che appaiono alla superficie della realtà, tali livelli devono essere dotati di una qualche organizzazione o struttura; in quanto dinamici, la loro struttura deve far capo a "forze" in opposizione, dalla cui composizione deriva per l’appunto la fenomenologia che appare alla coscienza. Applicata alla realtà nella sua totalità, questa concezione sormonta d'emblée lo scarto tra scienze naturali e scienze umane e sociali. La diversità della metodologia, che, nel caso delle une, comporta la sperimentazione, e, nel caso delle seconde, la esclude in senso proprio, nulla toglie al fatto che entrambe perseguono un medesimo obbiettivo: la spiegazione delle forme apparenti a partire dalle essenze, altrettanto reali, ma mai immediatamente visibili. Per questo aspetto, Marx si può ritenere un precursore della teoria dei sistemi, e in particolare del modello messo a punto da R. Thom, noto come teoria delle catastrofi, la cui capacità di coniugare il punto di vista strutturale e quello dinamico, fondandosi su di una formulazione rigorosamente matematica, ripropone la validità attuale della dialettica.

In secondo luogo, poiché l'ambito fenomenologico cui Marx fa riferimento - la realtà storica che, in ogni società è espressa immediatamente dal modo in cui essa provvede ai suoi bisogni, e che le consente di sussistere e di riprodursi - non è mai stato considerato, sino alla sua epoca, come oggetto scientifico. Si tratta di un oggetto peraltro particolare, Mentre le scienze naturali riconoscono infatti come cultori degli specialisti, la storia è tale che tutti gli uomini sono a pieno titolo addetti ai lavori, non solo in quanto ne partecipano e la producono essi stessi, bensì poiché - lo sappiano o meno - la interpretano, danno ad essa un senso dal quale discende il senso della loro stessa esperienza e del loro porsi nella realtà. Se i fenomeni naturali sono ingannevoli, al punto che l’umanità ha impiegato diversi secoli a sormontare l’inganno percettivo del movimento solare intorno alla terra, i fenomeni storico-sociali non lo sono di meno.

Ogni uomo giunge a partecipare ad un mondo la cui organizzazione - economica, politica, sociale, culturale - gli si pone di fronte come un tutto in una qualche misura coerente e funzionale . Il senso comune, non può sormontare questa apparenza, che viene assunta di conseguenza come un dato naturale, poco o punto modificabile. Ma le interpretazioni elitarie della storia - quelle dei filosofi - non rappresentano un gran progresso. Esse infatti, prescindendo dalla finalità primaria di ogni società umana - sussistere e perpetuarsi - che postula un’organizzazione produttiva e, di conseguenza, un rapporto determinato con la natura e tra gli individui associati, tendono a privilegiare principi astratti quali la ragione o lo spirito. Secondo Marx, le essenze della storia, vale a dire i nessi causali in virtù dei quali essa ha uno sviluppo, non sono principi logici bensì prodotti storici, riconducibili all’attività umana sociale e ai rapporti interpersonali che, nel corso del tempo, sono venuti a determinarsi. La fenomenologia sociale, che porta a pensare che lo stato di cose esistente nel mondo corrisponde ad un dato naturale, inganna le coscienze proprio perché essa copre, maschera e rimuove i processi storici che l’hanno prodotta e la sottendono. Si pone il problema di capire come sia possibile, per la coscienze, dissolvere il velo catturante delle apparenze, e cogliere la dinamica che dà ad esse forma, al fine di promuovere la riappropriazione da parte dell’uomo sulla sua storia e sul suo destino. E, anzitutto, come ciò sia stato possibile per Marx, la cui estrazione sociale medio-borghese e la cui formazione culturale accademica non lasciava presagire quello scioglimento. Il problema, in primis, è la genesi del pensiero di Marx, del suo modo di pensare la storia: di una rivoluzione epistemologica imprevedibile, che si conserverà fedele a se stessa nel corso di un'intera esistenza.

Vale la pena tener conto, anzitutto, del modo in cui la ricostruisce Marx stesso. Nella celebre prefazione a "Per la critica dell'economia politica", egli scrive:

"La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della "Rheinische Zeitung", fui posto per la prima volta davanti all'obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali... In un'epoca in cui la buona volontà di "andare avanti" era di molto superiore alla competenza, si era potuta avvertire nella "Rheinische Zeitung" una eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese. Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo... confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi... Il primo lavoro per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel... La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, serguendo l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di "società civile"; e che l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica... Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura politica e giuridica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza."

Il viraggio ideologico, dalla neutralità perplessa del giovane studioso alla presa di posizione netta e definitiva, avviene rapidamente. Marx, nel 1843, ha 25 anni. L'anno successivo, con la stesura dei "Manoscritti economico-filosofici", il suo pensiero già appare delineato in forma di sistema: nei presupposti di fondo - l'umanismo -, nell'oggetto - la storia naturale dell'uomo -, e nello scopo teorico-pratico - la realizzazione divenuta effettiva per l'uomo del suo essere come essere sociale e universale, il comunismo. Cos'è accaduto in così breve volgere di tempo? La condizione sociale di Marx è cambiata. Emigrato a Parigi con la moglie, e consapevole di aver già compromesso con la sua attività pubblicistica ogni prospettiva di carriera accademica, Marx comincia a sperimentare una precarietà economica che, nonostante il periodico e generoso aiuto di Engels, il sodalizio con il quale si stabilisce nel 1844, lo accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni. Frequenta, in Francia e in Belgio, i circoli operai socialisti e prende coscienza del paradosso intrinseco al sistema economico borghese, quello per cui "con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini." Studia approfonditamente, oltre alla letteratura socialista e alle opere degli economisti classici, Feuerbach e Hegel, scoprendo in questi il riferimento al lavoro come essenza, autoproduzione dell'uomo, e in quegli il riferimento al rapporto sociale, al rapporto dell'uomo con l'uomo come principio fondamentale della storia. Tutto ciò incide profondamente nel precipitare una presa di coscienza liberatoria dalle apparenze, le cui premesse però si sono poste casualmente.

Gli interessi materiali di cui Marx è stato costretto a occuparsi nel 1842, con l'imbarazzo proprio del giovane studioso ancora impregnato di astratti principi giuridici, concernevano una legge della Dieta Renana che, privatizzando dei terreni boschivi ai quali, sino allora, per antica consuetudine, avevano avuto libero accesso i contadini per raccogliere legna secca, caduta dagli alberi, sanciva tale consuetudine come furto, comminando una pena esemplare del tutto sproporzionata. Un episodio storicamente minuscolo, che, però, in Marx, predisposto a leggere nel particolare l'universale, ha l'effetto della mela di Newton. Non tanto perché il potere legislativo si rivela subordinato agli interessi particolari di una classe sociale, e, in nome di questi, lede i diritti - consuetudinari - di un'altra classe. Né per il fatto che la legge, con la sua assurda severità, mira a sancire la sacralità della proprietà privata, e cioè dell’interesse egoistico, più che a ribadire il primato del diritto sulla convivenza civile. Né, infine, perché essa, incidendo ulteriormente su di un regime di vita - quello dei piccoli contadini - già al limite della sussistenza, pone le premesse di una necessaria criminalità o di una fuga verso le città. L'incidenza dell'episodio - storicamente minuscolo - è dovuto al fatto che Marx coglie in esso una logica che associa allo sviluppo economico la separazione dell'uomo dall'uomo, sotto forma di indifferenza di una classe nei confronti dei destini di un'altra, e la separazione dell'uomo - in questo caso il contadino - dalla natura. Di fatto, per quanto concerne l'espropriazione di un bene comune, e di necessità, per quanto concerne il prevedibile abbandono dell'attività agricola, e la trasformazione del contadino inurbato in un lavoratore libero, ma senza più capacità autonoma di produrre beni; libero dunque solo di vendere la sua capacità lavorativa a chi dispone dei mezzi di produzione. La lettura dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, alla quale Marx si dedica per risolvere i dubbi sopravvenuti circa l'oggetto del diritto - la tutela degli interessi generali -, non fa altro che precipitare queste intuizioni.

L'economia borghese - è la conclusione cui perviene Marx - ricava la sua efficienza dall'indifferenza sociale, dal venir meno di un legame comunitario che viene sostituito dalla libertà formale degli individui, dalla separazione dell'uomo dall'uomo, e dei lavoratori dagli strumenti di produzione. Il carattere astratto di una civiltà che fonda il suo primato sui principi della libertà e dell'uguaglianza tra i cittadini corrisponde di fatto, a livello reale e sociale, all'arbitrio e al privilegio degli uni che limita la libertà degli altri e ne diminuisce il potere. In conseguenza di ciò, l'uomo viene ad essere separato dalla sua stessa natura sociale: chiuso, per un verso, nella logica dell'interesse privato, e oppresso, per un altro, da una condizione di bisogno che definisce come sua massima aspirazione la sussistenza. Disumanizzato, dunque, a tutti i livelli della scala sociale, anche se con conseguenze molto diverse. Queste conclusioni, che rappresentano le fondamenta su cui si costruirà la teoria marxiana, non avrebbero senso - o avrebbero un senso meramente umanitaristico - se esse non implicassero l'attribuzione alla natura umana di un corredo di bisogni sociali, rappresentato in ogni individuo e incentrato sulla tendenza all'appropriazione e alla trasformazione comunitaria della natura.

Al di là dell'onestà intellettuale e di un'indubbia genialità, il cambiamento radicale nella visione del mondo di Marx è riconducibile ad un'illuminazione, ad una di quelle intuizioni che sopravvengono di rado nel corso della storia del pensiero e catturano totalmente. E' accaduto a Marx ciò che, appena pochi anni prima era accaduto a Darwin, e che, pochi anni dopo, accadrà a Freud: vedere, sotto la superficie delle apparenze,"essenze" invisibili atte a dare a quelle un senso compiuto, a spiegarle. Le apparenze storiche, che sono al centro dell'attenzione di Marx, naturalizzano una progressiva separazione dell'uomo dall'uomo nel nome dei diritti individuali, della proprietà privata. Ma le essenze, le cause che promuovono questa naturalizzazione sono da ricondurre, per Marx, ad una concezione dell'uomo, intrinseca e funzionale all’economia borghese, che, riconoscendo all'individuo il diritto di agire entro i limiti della legge il suo egoismo, lo estranea di fatto dalla sua originaria natura sociale, fa sì che egli si ponga, come cittadino, in una relazione di indifferenza e di opposizione competitiva rispetto alla comunità, e, da ultimo, costringe gli altri a subire l'arbitrio dell'egoismo, a perdere potere sulle condizione oggettive della propria esistenza. Il tema della separazione dell'uomo dall'uomo, dalla sua natura sociale e dalla natura, come prodotto di uno sviluppo storico che, ciononostante, fonda la possibilità di una piena integrazione dell'individuo nella società e della società con l'ambiente naturale e culturale, decifrato da Marx a partire dall’analisi di un banale evento legislativo, giungerà ad essere la matrice strutturale costante del suo pensiero. Il cui merito, nel quale altri vede un limite, è stato quello, comune ai grandi pensatori, di prendere sul serio l'intuizione originaria e di dedicare ad essa, al suo svolgimento, l'intera esistenza. Non si coglie la portata dell'impresa se si trascura l'oggetto della ricerca: il senso del divenire storico in un'ottica che, recusando sia una trascendenza divina che l'immanenza idealistica, non può avere altro riferimento che l'uomo. Un oggetto, dunque, totalizzante, incommensurabile a quello biologico di Darwin, e a quello psicologico di Freud.

La testimonianza di Marx, benché importante, non è però esaustiva. La scoperta che la sovrastruttura ideologica, con la ricchezza universale dei suoi principi astratti, maschera un gioco di interessi di classe che mirano a naturalizzare e a giustificare il potere, il dominio e il privilegio di pochi come se esso rappresentasse il bene comune, non promuoverebbe un salto di qualità epistemologico senza il riferimento a presupposti antropologici che rendono quel dominio non solo illecito bensì contrastante con i fini propri della natura umana. Marx sa che la storia, analizzata sotto il profilo del rapporto dell'uomo con l'uomo, è una disperante successione di violenze, di arbitri e di sfruttamento. Pur non ignorando le rivoluzioni, da quella legata all'avvento del Cristianesimo a quella coincidente con la presa di potere della borghesia, che alla disumanità della storia hanno opposto principi egualitari di carattere universale, egli non si inganna riguardo al fatto che tali principi hanno piuttosto rimosso che non risolto il problema del dominio dell'uomo sull'uomo e della miseria dei più. Ma se lo sviluppo storico viene analizzato sotto il profilo della produzione della cultura - materiale e spirituale -, la tragicità di quello sviluppo pone di fronte ad un patrimonio la cui straordinaria ricchezza, oggettivata, sembra denotare, al di là di un'indubbia capacità adattiva, una innegabile grandezza, e un corredo di bisogni che trascende l'utilitarismo in nome della creatività. Nonchè univoche, le apparenze della storia sono, dunque, a tal punto contraddittorie da postulare un'interpretazione.

La lettura dei "Manoscritti" rivela che, al di là della scoperta della produzione materiale come base dell'organizzazione sociale e del ruolo mascherante della sovrastruttura ideologica, l'illuminazione toccata a Marx concerne anzitutto la natura umana. E’ un aspetto - questo - sul quale occorre soffermarsi preliminarmente, poiché l’ortodossia marxiana, irretita dal riferimento alla seconda natura prodotta dall’uomo nel corso del suo sviluppo storico, ha finito con l’enfatizzare la cultura fino al punto di giungere a negare, in nome di un determinismo ambientale radicale, l’importanza dell’organizzazione biologica dell’uomo. E’ evidente che ciò è avvenuto per contrastare l’antropologia borghese, i cui presupposti di fondo - l’asocialità e l’egoismo propri dell’uomo come essere naturale - sembrano trovare una puntuale conferma nella storia passata e attuale. Ed è altresì evidente che, partendo da una concezione antropologica che attribuisce alla natura umana una vocazione sociale e universale, la storia, così come si è svolta sinora, sembra rappresentare nel complesso una misteriosa deviazione nella quale solo una fede dialettica può individuare le premesse di un inevitabile mutamento di rotta. Cionondimeno, se l’opera di Marx viene letta prescindendo dai presupposti antropologici, che ne costituiscono la trama profonda, essa si riduce ad un geniale delirio utopistico.

L’illuminazione di Marx verte sul fatto che l’uomo ha una tendenza naturale all’unione con l’altro uomo, con se stesso e con la natura; che è, insomma, predisposto alla socialità, all’autoconsapevolezza e al riconoscimento d’essere egli stesso parte della natura. Tale predisposizione fa parte della sua organizzazione biologica, e rappresenta il drive da cui muove la cooperazione sociale, vale a dire la produzione della cultura materiale e spirituale, della vita reale e della storia - la seconda natura umana. La quale rivela l’uomo a se stesso, e cioè mette in luce la ricchezza delle potenzialità e dei bisogni presenti nella sua natura biologica. L’autorivelazione dell’uomo a se stesso è una delle chiavi più importanti del pensiero di Marx. Nulla si rivela se non è già dato in potenza. Ma la predisposizione dell’uomo alla socialità, al libero e pieno sviluppo dell’individualità, all’umanizzazione della natura, in quanto potenzialità specie-specifiche, ma non immediatamente trasparenti alla coscienza, spiegano il lungo tragitto che l’umanità deve compiere per giungere alla consapevolezza piena della propria vocazione universale e del proprio destino mondano, come pure le deviazioni storiche. Le potenzialità proprie della natura umana sono deterministiche solo nel senso che esse comportano un obbiettivo ultimo - un mondo fatto a misura d’uomo - al quale l’umanità, prodotta dall’evoluzione naturale ma sprovveduta - per così dire - di un libretto di istruzioni, si approssima per tentativi e errori. Marx non ha mai considerato la possibilità che il tragitto storico della specie umana esitasse in una catastrofe, perché nei conflitti che hanno segnato la storia umana egli ha sempre colto l’espressione di un anelito di giustizia costitutivo esso stesso della natura umana, e dunque inestinguibile.

Negate e affermate al tempo stesso dalla storia, che perciò non può essere compresa che dialetticamente, le potenzialità della natura umana sono il leit-motiv del pensiero di Marx. Il quale non le intravvede solo laddove esse sono state sempre riconosciute - nei prodotti del pensiero, nella letteratura, nell'arte, nella scienza -, bensì nell'attività umana più quotidiana e universale: il lavoro. E ciò avviene, non per caso, proprio nel periodo in cui l'avvio dell'industrializzazione, trasformando masse di contadini e di artigiani in appendici delle macchine, rende quell'attività penosa e insopportabile. Da cosa Marx ricava il significato filosofico e storico dell'attività lavorativa? Dall'intuizione che l'avvento dell'industrializzazione rappresenta il momento culminante di un tragitto, coinvolgente tutta la specie umana, nato dalla lavorazione della pietra, e che esso rivela, in rapporto alla natura umana, alla società e all'integrazione della specie umana nel mondo, più di quanto fosse dato di capire nelle epoche precedenti. Per Marx, l'industrializzazione, pur prodotta dalla civiltà borghese, ha, con le precedenti fasi dello sviluppo storico, un rapporto significativo di continuità ben più profondo dell'apparente discontinuità che essa introduce. Tale continuità trascende la sopravvivenza adattiva, cui pure il lavoro provvede, e pone in luce una passione trasformativa incoercibile e creativa, nella quale Marx legge la "vocazione" della specie umana. Una vocazione mondana il cui oggetto immediato è la natura, ma una natura nell'interazione con la quale - adattandola alle sue esigenze - l'uomo scopre se stesso, la sua ricchezza, il suo bisogno di autorealizzazione.

Materialista, Marx sembra cogliere più attentamente degli idealisti e degli spiritualisti il senso dell'agire umano nel mondo, l'intimo rapporto che intercorre tra produzione materiale e produzione spirituale; il rapporto che non induce a sorprendersi del fatto che le prime tracce della civiltà umana siano utensili e rappresentazioni pittoriche. Nell'adattare il mondo a sé, l'uomo - è un motivo ricorrente nell'opera di Marx - non mira solo a sussistere, bensì a godere di esistere, e di esistere come ente universale: ha dunque bisogno di cibo non meno che di alimenti spirituali. La trasformazione del mondo dovuta al lavoro umano è anche autotrasformazione e rivelazione dell'uomo a se stesso, dell'uomo ricco di bisogni e pertanto bisognoso di una totalità di manifestazioni umane.

L'illuminazione di Marx concerne dunque l'essenza propria del genere umano che si è espressa nel corso dello sviluppo storico attraverso un'attività trasformativa che ha prodotto un patrimonio culturale - di tecniche, di istituzioni, di tradizioni, di arte, di scienza, di letteratura - che, per essere colto nella sua grandezza, va valutato nella sua totalità. E' questa illuminazione che dà un significato rivoluzionario alla civiltà borghese e al capitalismo il cui avvento ha impresso alla storia un'accelerazione omologabile solo alla rivoluzione neolitica. Gli ideologi borghesi, che sottolineano la razionalità introdotta dal capitalismo nella produzione, sono incapaci di comprendere che, vedendo in esso la manifestazione la più potente della passione trasformativa umana, Marx ne tesse un elogio più profondo, cogliendone il nesso di continuità con la storia umana laddove quelli vedono solo una discontinuità. La storia, dunque, come autorivelazione dell'uomo a se stesso attraverso la produzione di un mondo culturale che, soddisfacendo i bisogni che motivano quella produzione, ne mette in luce altri, sempre più ricchi e articolati, è la conseguenza dell'illuminazione marxiana riguardo la natura umana. Alla luce di questa concezione della doppia natura umana - quella biologica e quella culturale -, il dominio dell'uomo sull'uomo, che segna lo sviluppo storico, non si configura solo come lesivo della dignità umana, bensì tale da costringere una parte consistente dell'umanità ad un'esistenza infraumana, il cui obbiettivo univoco - e incerto - è la sopravvivenza. Per questo aspetto, la storia viene definita da Marx come preistoria: come lunga stagione che pone i presupposti di un completo dispiegamento delle potenzialità naturali nei singoli individui. Il capitalismo, al quale va il merito di aver portato al massimo grado di sviluppo le forze produttive sociali, non può, secondo Marx, trascendere la preistoria poiché esso, che pure riconosce formalmente i diritti individuali, non ha alcun interesse per gli individui concreti, per gli esseri in carne e ossa, né per l'umanità nella sua totalità.

Da ciò discende il fatto che in Marx l'elogio del capitalismo si associa ad una critica stringente che approda alla necessità del suo tramonto, del suo superamento dialettico nel nome dell'uomo come radice di tutte le cose. Superamento dialettico, quindi rivoluzionario, nella misura in cui esso postula che la classe dominante - parte dell'umanità - venga sostituita dalla totalità dell'umanità divenuta autocosciente e padrona del proprio destino. Il rozzo comunismo, il comunismo distributivo, atto ad appagare l'invidia dei non abbienti e a trasformarli in proprietari privati, non c'entra affatto. Marx lo ha validamente criticato, non fosse altro che per il fatto che solo la ricchezza materiale può essere distribuita. La ricchezza sociale - materiale e spirituale - , quella che realizza l'uomo ricco, l'uomo universale va appropriata, fatta propria, partecipata: soggettivata, poiché in sé e per sé si pone come oggetto, e cioè usata e fruita. Il consumo dei beni materiali, benché importante, assume un significato umano solo come momento di tale fruizione. La distinzione tra ricchezza materiale e ricchezza sociale è tra le più acute tra quelle operate da Marx, per quanto tra le meno recepite dagli avversari e persino dagli eredi. In parte, ciò è dipeso dal fatto che essa, concettualmente sempre presente a Marx, non ha impedito un uso lessicale talvolta equivoco.

La ricchezza materiale è propria delle merci, di tutto ciò che può essere trasformato in merce e, da ultimo, del denaro, la merce universale. La ricchezza sociale, che comprende ovviamente anche le merci, posto che il mercato divenga espressione dello scambio sociale e non dello scambio tra cose, è la totalità dei beni culturali prodotti dalla specie umana nel corso del suo sviluppo storico; la totalità dei beni - materiali e spirituali - nei quali si è espressa la passione trasformativa propria dell'uomo. Se la distribuzione della ricchezza materiale, considerata all'interno di un sistema sociale e all'interno del sistema mondiale, è ampiamente disomogena e pertanto ingiusta se si considera che essa rappresenta il prodotto di tutto lo sviluppo storico, la distribuzione e la fruizione della ricchezza sociale riproduce ed esaspera quell'ingiustizia, rendendola immodificabile e intollerabile. Ricca di bisogni, di bisogni umani di ogni genere, e produttrice di una straordinaria ricchezza atta a soddisfarli, l'umanità, infatti, versa in una condizione di universale miseria: miseria materiale - povertà e penuria - per un verso, e miseria spirituale - egoismo e indifferenza - per un altro. L'enigma della storia umana sta in questo paradosso, che postula di essere spiegato e risolto. L'attività teorica e pratica alla quale Marx dedica la sua vita è totalmente rivolta a questo fine.

La spiegazione implica, ovviamente, che la storia abbia un senso, e cioè che nel suo sviluppo siano riconoscibili fini intrinseci alla natura umana. Erede di Hegel, Marx non nutre dubbi a riguardo, anche se ne recusa lo spiritualismo. La storia è un prodotto dell'uomo, che, a sua volta, è da essa prodotto. Il suo senso va dunque ricavato dalla fenomenologia storico-sociale, e, in particolare, dalle antitesi che si sono espresse nel suo corso. E, posta la duplice realtà dell'essere umano - ente sociale e, nel contempo, dotato di identità individuale - quale antitesi è più rilevante di quella per cui questi due aspetti, imprescindibili e reciproci, si sono fenomenizzati sempre opponendosi e confliggendo come fossero incompatibili? Quanto più si torna dietro nella storia, tanto più l'individuo tende a dissolversi in una trama di rapporti sociali comunitari, siano pure essi riferiti semplicemente al gruppo di appartenenza, che lo vincolano inesorabilmente, sulla base di relazioni interpersonali, ai suoi doveri; quanto più ci si avvicina alla contemporaneità tanto più i legami comunitari, i rapporti di dipendenza interpersonale si allentano fino al punto che l'individuo borghese, infatuato della sua realtà differenziata, monadica, si oppone ad essi, rivendica i suoi diritti privati e li esercita per curare i propri interessi in una condizione di indifferenza e di competitività sociale. Limitato originariamente dalla dimensione del gruppo, al di là dei cui confini il simile è l'estraneo, con il quale si danno solo rari scambi, il legame sociale, con l'avvento della borghesia, si universalizza formalmente in virtù dell'attribuzione a tutti gli uomini dei diritti dell'uguaglianza e della libertà. Ma a questa universalizzazione, che comporta la possibilità di scambi in tutte le direzioni tra esseri uguali e liberi, corrisponde l'indifferenza sociale, tal che quella possibilità si realizza nella sua pienezza solo per quanto concerne le merci e il denaro.

In queste antitesi, che, nel corso della storia, hanno riconosciuto varianti ma mai mediazioni, Marx legge il senso della storia, o - per usare le sue parole - della preistoria umana. Poiché, tenendo conto di quanto di inerente la natura umana esse hanno fenomenizzato, è quasi ovvio, da un punto di vista dialettico, che l'avvio della autentica storia umana, destinata a portare a compimento la umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell'uomo, non possa coincidere che con l'integrazione tra una socialità estesa al genere umano, e riconosciuta da tutti i membri come orizzonte ultimo della loro esperienza, e un'individualità sviluppata al massimo grado in virtù della fruizione della ricchezza sociale. E' alla luce di questa intuizione, logicamente, dialetticamente necessaria, che Marx porta avanti la critica alla civiltà e all'ideologia borghese, la quale pretende di rappresentare il culmine, non trascendibile, dell'evoluzione storica, e, con ciò, rischia di mutilare l'uomo della ricchezza dei suoi bisogni. E lo fa assumendo l'economia borghese come matrice di quell'ideologia, nell'intento di dimostrare che essa contiene in sé le ragioni del suo superamento, avendo messo in movimento forze produttive che non potranno essere contenute nei rapporti di produzione che essa determina.

Il superamento della civiltà borghese e la fine della preistoria umana, che ha accumulato una straordinaria ricchezza sociale dalla cui fruizione i più sono rimasti esclusi, si pongono dunque, nell'analisi di Marx, come eventi storici destinati a realizzarsi fatalmente in nome della legge del divenire dialettico. Non è per caso che egli parla di un travaglio di parto ormai avviato, e pertanto irreversibile. Donde muove allora la necessità di un'azione rivoluzionaria violenta che lo porti a compimento? La risposta non è semplice. Marx la fornisce in riferimento al fatto che la storia, essendo un prodotto dell'uomo, non può cambiare che in conseguenza di un agire organizzato e intenzionato a mutare radicalmente l'ordinamento sociale; di un agire, dunque, inesorabilmente incentrato sul conflitto tra classi sociali. La violenza rivoluzionaria si pone come necessità dolorosa in rapporto al fine di abbreviare quel travaglio. Ma è pur vero che Marx stesso pone alla base di quell'agire non solo motivazioni di giustizia che l'ordinamento borghese produce naturalmente nella classe espropriata, nei proletari - motivazioni che, in sé e per sé, potrebbero esaurirsi nella rivendicazione invidiosa di un'equa distribuzione della ricchezza materiale, e cioè in una rivendicazione di possesso -, bensì una presa di coscienza che, a partire dallo stato di cose esistente, investe tutta la storia umana ed esita in una nuova visione della natura umana, della socialità, del rapporto tra uomo e natura, e, infine, del destino mondano della specie.

Tra teoria e prassi rivoluzionaria il rapporto è e non può essere che reciproco e dialettico: senza un agire intenzionato a cambiare la realtà, la teoria si limita ad interpretare il mondo, rimanendo sterile; ma, senza uno sforzo collettivo e costante di riflessione e di analisi, che liberi la coscienza sociale dal permanente ricatto delle apparenze, l'agire non può che imboccare i canali rivendicativi del comunismo rozzo, del comunismo distributivo. Integrare teoria e prassi postula tempi lenti. L’impazienza rivoluzionaria di Marx - l’impazienza che lo spinge a fornire al proletariato le armi della critica perché esse promuovano la critica delle armi - si spiega solo facendo riferimento a un sentimento di giustizia vendicativo. E' una necessità etica, che fa capo alle infinite vittime che la storia ha prodotto, produce, e continuerà a produrre persistendo lo stato di cose esistente, a rendere urgente e irrimandabile un cambiamento radicale. La violenza propugnata da Marx, da questo punto di vista, corrisponde né più né meno alla rabbia del dio biblico, del dio di giustizia, che per lui è l’umanità stessa oppressa, ferita e umiliata secolarmente. Posta quella necessità, nulla vieta di pensare che essa, oggi, possa realizzarsi con metodi radicali ma non necessariamente violenti. Ridurre i sacrifici umani inutili attraverso i quali è evoluta e continua a evolvere la storia continua ad avere un carattere di urgenza, se l'uomo è assunto come fine e non come mezzo. Ma, in un'ottica mondana, nulla potrà mai ripagare le infinite vittime della storia. Il mondo nuovo, fatto a misura d'uomo, non potrà affrancarsi dalla memoria della tragica sperimentazione che ha posto le basi del suo sorgere.


Cap. III Antropologia

Antologia

"L'uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche - e questo è solo un altro modo di esprimere la stessa cosa - in quanto egli si comporta con se stesso come col genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come con un ente universale e però libero. La vita del genere, tanto dell'uomo che delle bestie, consiste sotto l'aspetto fisico anzitutto in questo: che l'uomo (come la bestia) vive della natura inorganica, e quanto più universalmente ne vive l'uomo della bestia, tanto più universale è l'ambito della natura inorganica di cui egli vive...

L'universalità dell'uomo si manifesta praticamente proprio nell'universalità per cui l'intera natura è fatta suo corpo inorganico, 1) in quanto questa è un immediato alimento, [2)] in quanto essa è la materia, l'oggetto e lo strumento dell'attività vitale dell'uomo. La natura è il corpo inorganico dell'uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell'uomo è congiunta con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, chè l'uomo è una parte della natura" (MEF, pp. 198-199).

"... la vita produttiva è la vita generica. E’ la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo" (MEF, pag. 199).

" L'animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L'uomo fa della sua attività vitale stessa l'oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c'è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L'attività vitale consapevole distingue l'uomo direttamente dall'attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività...

La pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della vita inorganica è la conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni... Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l'uomo si realizza quindi come un ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua, dell'uomo e sua realtà. L'oggetto del lavoro è quindi l'oggettivazione della vita generica dell'uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui" (MEF, pp. 199 sgg.).

"... come la società stessa produce l'uomo in quanto uomo, così essa è prodotta da lui. L'attività e lo spirito come sono sociali per il loro contenuto, lo sono anche per il loro modo d'origine: attività sociale e spirito sociale. L'umanità della natura c'è solo per l'uomo sociale: giacchè solo qui la natura esiste per l'uomo come legame con l'uomo, come esserci dell'uomo per l'altro e dell'altro per lui; e solo in quanto elemento vitale della realtà umana essa è fondamento dell'umana esistenza. Solo così l'esistenza naturale dell'uomo è per lui la sua esistenza umana, e la natura per lui si è umanizzata. Dunque la società è la compiuta consustanziazione dell'uomo con la natura, la vera risurrezione della natura, il realizzato naturalismo dell'uomo e il realizzato umanismo della natura" (MEF, pag. 227).

"L'attività sociale e lo spirito sociale non esistono affatto soltanto nella forma di una diretta attività comune e di un diretto spirito comune: sebbene l’attività comune e lo spirito comune, cioè l’attività e lo spirito che si manifestano e confermano direttamente nella reale società con altri uomini, abbiano luogo ovunque quella diretta espressione della socialità è fondata nell’essenza del suo contenuto e conforme alla sua natura. Ma anche quando io sono attivo scientificamente etc. - un’attività che io medesimo posso realizzare in comunanza diretta con altri - io sono sociale perché attivo come uomo. Non soltanto il materiale della mia attività - lo stesso linguaggio con cui il pensatore opera - mi è dato come prodotto sociale, ma la mia propria esistenza è attività sociale, e però ciò che io faccio da me lo faccio da me per la società e con la coscienza di me come ente sociale...

E’ da evitare innanzi tutto di fissare ancora la "società" come un’astrazione di fronte all’individuo.L'individuo è ente sociale. La sua manifestazione di vita - anche se non appare nella forma diretta di una manifestazione di vita comune, compiuta a un tempo con altri - è quindi una manifestazione e un'affermazione di vita sociale. La vita individuale e la vita generica dell'uomo non sono distinte, per quanto - e necessariamente - il modo di esistenza della vita individuale sia un modo più particolare o più generale di vita generica, e la vita generica una più particolare o più generale vita individuale. Come coscienza generica l’uomo conferma la sua reale vita sociale e ripete soltanto la sua reale esistenza nel pensiero...

L'uomo, per quanto sia un individuo particolare - e propriamente la sua particolarità lo faccia individuo e reale ente comune individuale - è parimenti la totalità, l'ideale totalità, è l'esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé, tanto che egli, in realtà, esiste sia in quanto intuizione e spirito reale dell'esistenza sociale, sia quanto totalità di umane manifestazioni di vita" ( MEF, pp. 227 -228).

"Il rapporto dell'uomo alla donna è il più naturale rapporto dell'uomo all'uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell'uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana natura gli è divenuta naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell'uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l'altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l'uomo, e fino a che punto l'uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità" (MEF, pag. 225).

"L'uomo si isola solo attraverso il processo storico. In origine egli si presenta come un essere generico, tribale, come un animale gregario... Lo scambio stesso è un mezzo fondamentale di questo isolamento. Esso rende superfluo il gregarismo e lo dissolve. Ciò avviene non appena come essere isolato egli si riferisce ormai solo a se stesso, ma i mezzi per porsi come isolato sono diventati il suo rendersi universale e comune" (GRD, pag. 476).

"... l'appropriazione sensibile dell'esistenza e vita umana, dell'uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l'uomo, non è da prendersi soltanto nel senso dell'immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell'avere. L'uomo si immedesima, in una guisa onnilaterale, nel suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l'udire, l'odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l'intuire, il sentire, il volere, l'amare, l'agire, in breve ognuno degli organi della sua individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni, sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel lor comportamento verso l'oggetto, appropriazione di questo medesimo. L'appropriazione dell'umana realtà, il comportamento umano verso l'oggetto, è la verifica dell'umana realtà; è umano agire e umano patire, chè il patire umanamente inteso è autofruizione dell'uomo" (MEF, pag. 229).

"... quando ovunque, nella società, la realtà oggettiva diventa per l’uomo realtà delle forze essenziali dell’uomo, realtà umana, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti gli diventano la oggettivazione di lui stesso, oggetti suoi, e cioè egli stesso diventa oggetto. Come essi diventino suoi, ciò dipende dalla natura dell’oggetto e dalla natura della corrispondente forza essenziale, ché precisamente la determinatezza di questo rapporto costituisce il particolare, reale, modo dell’affermazione... Non solo col pensiero, ma bensì con tutti i sensi, l’uomo si afferma quindi nel mondo oggettivo...

E’ soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacchè non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l’amore etc.), in ua parola la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo...

Dunque, si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’ente umano e naturale" (MEF, pp. 230-231).

"...se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come rapporto umano, tu puoi scambiare amore solo contro amore, fiducia solo contro fiducia etcetera. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un'influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini. Ogni tuo rapporto con gli uomini - e con la natura - dev'essere un'espressione determinata, corrispondente all'oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale" (MEF, pag. 256).

" L'uomo è immediatamente ente naturale. Come ente naturale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d'altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti da lui indipendenti, e tuttavia questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e alla conferma delle sue forze essenziali. Che l'uomo sia un ente corporeo, dotato di forze naturali, vivente, reale, sensibile, oggettivo, significa ch'egli ha come oggetto della sua esistenza, della sua manifestazione vitale, degli oggetti reali, sensibili, o che può esprimere la sua vita soltanto in oggetti reali, sensibili. Esser oggettivi, naturali, sensibili, e avere altresì un oggetto, una natura, un interesse fuori di sé, oppure essere noi stessi oggetto, natura, interesse di terzi, è l'identica cosa. La fame è un bisogno naturale, le occorre dunque una natura, un oggetto, al di fuori, per soffisfarsi, per calmarsi. La fame è il bisogno oggettivo che ha un corpo di un oggetto esistente fuori di esso, indispensabile alla sua integrazione e all’espressione del suo essere...

Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura non è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura. Un ente che non abbia un oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. un ente che non sia esso stesso oggetto per un terzo non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo...

Ma un ente non oggettivo è un ente irreale, non sensibile, soltanto pensato, cioè soltanto immaginato, cioè un ente dell'astrazione. Esser sensibile, cioè reale, è esser oggetto di senso, esser oggetto sensibile, dunque avere oggetti sensibili fuori di sé, avere degli oggetti della propria sensibilità. Esser sensibile è esser passivo. L'uomo in quanto è un ente oggettivo è dunque un ente patiens, e poiché è un ente che avverte il suo patire esso è un ente appassionato. La passione è la sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto. Ma l'uomo non è soltanto ente naturale, bensì è ente naturale umano: cioè ente che esiste a se stesso, perciò ente generico, e come tale deve attuarsi e confermarsi tanto nel suo essere che nel suo sapere. Dunque, né gli oggetti umani sono gli oggetti naturali quali si presentano immediatamente, né la sensibilità umana quale è immediatamente ed è oggettivamente, è umana sensibilità, umana oggettività. Né la natura obiettiva, né la natura subiettiva, è immediatamente presente come adeguata all'ente umano. E come tutto ciò ch'è naturale deve nascere, così anche l'uomo ha il suo atto di nascita, la storia, ch'è tuttavia da lui consaputa, e però, in quanto atto di nascita con coscienza, è atto di nascita che supera se stesso" (MEF, pp. 267-269).

Commento

Essere naturale e sociale, oggettivo in quanto bisognoso di un perpetuo scambio con l'esterno, attivo poiché dotato della capacità di trasformare la natura e di godere dei suoi prodotti, storico in virtù del fatto che la cultura si accumula e si trasmette come un patrimonio costantemente in crescita, appassionato, infine, in quanto animato da una tensione il cui obbiettivo - remoto - sembra il massimo dispiegamento delle potenzialità generiche nelle diverse individualità: l'uomo di Marx, definito da queste caratteristiche, è l'uomo in divenire, l'uomo che cerca se stesso attraverso le vicissitudini della storia - ambigue, contraddittorie e, per molti aspetti, fuorvianti; l'essere nato nel corso dell'evoluzione naturale come un azzardo il cui destino non è scritto da nessuna parte, poiché è esso stesso a doverlo realizzare nell'orizzonte mondano; l'essere mancante per eccellenza, poiché la sua pienezza, data solo in potenza, si realizza gradualmente nel corso dello sviluppo storico e, quanto più si realizza, tanto più appare oggettivamente straordinaria. Se si prescinde dal modo in cui Marx concepisce l'uomo - un modo visionario che sembra lacerare l'opacità della storia e proiettarsi nel cono d'ombra della sua virtualità -, pressoché nulla si può comprendere del suo pensiero, del vigore, del rigore, dello sdegno e delle certezze che lo animano.

Prometeico, romantico, faustiano: comunque lo si definisca, in positivo o in negativo, il modello antropologico di Marx rimane, tra tutti quelli prodotti nel corso della storia, il più complesso e capace di integrare i dati delle scienze naturali e delle scienze umane e sociali. Un modello visionario, se si tiene conto dello stato dell'arte di tali scienze all'epoca in cui esso è stato elaborato. Un modello filosofico, ma che, a posteriori, sembra configurare una delle intuizioni concettuali che spesso precedono lo sviluppo delle scienze che le confermano. Ancora oggi la sterilità del dibattito tra determinismo genetico e determinismo culturale attesta che l'antropologia marxiana non è stata compresa nel suo nocciolo duro: l'attribuzione all'uomo di una doppia natura, l'una prodotta dall'evoluzione biologica, l'altra dall'evoluzione culturale. Tale attribuzione non eguaglia i due aspetti: in Marx, è l'evoluzione culturale a rivelare e attualizzare potenzialità biologiche che, altrimenti, rimarrebbero inespresse. Il drive biologico si pone ovviamente come un fattore necessario; ma è quello culturale a renderlo sufficiente all'autorivelazione dell'uomo a se stesso. Il modello marxiano, assegnando alla storia - prodotta dall'uomo - la funzione di porre i presupposti, attraverso lo sviluppo delle forze produttive e la conservazione/trasmissione del patrimonio culturale, per la realizzazione dell'uomo universale, dell'uomo giunto alla piena e radicale consapevolezza del suo essere individuo sociale, consente di dare un senso al travaglio di una sperimentazione secolare che, altrimenti, riuscirebbe disperante. Un senso univocamente, necessariamente mondano: ché solo la casualità evolutiva può spiegare le straordinarie, e tragiche difficoltà adattive incontrate dall'uomo nell'organizzazione della sue esperienza sociale (di gran lunga superiori a quelle incontrate nell'adattamento ambientale).

Il materialismo di Marx, indubbio perché mai sfiorato da ripensamenti, è di un genere del tutto particolare. Non solo perché esso, anticipando intuitivamente tematiche che le scienze naturali contemporanee hanno chiaramente delineate, attribuisce alla materia una "tendenza" verso forme di organizzazione sempre più complesse che la affranca dal carattere bruto che volgarmente le è attribuito, bensì anche per il fatto che la comparsa evolutiva dell'uomo segna un evento epocale nell'ottica materialistica. Forma la più elevata di organizzazione della materia, che giunge a dotarsi di pensiero, l'uomo, per soddisfare i suoi bisogni, deve oggettivare le sue capacità nella trasformazione della materia: si rivela a se stesso, nella ricchezza del suo essere, che originariamente gli è dato solo in potenza, in virtù di questa trasformazione, che peraltro umanizza la natura, dà ad essa delle forme cui di per sé non sarebbe potuta pervenire. Quanto più l'uomo si oggettiva nel mondo attraverso la storia, tanto più scopre di appartenere ad essa, e di poter godere delle sue oggettivazioni. Nulla è più estraneo al pensiero di Marx dell’attribuzione all’uomo di un bisogno meramente conservativo, di sopravvivenza. L’umanizzazione della natura è una necessità adattiva, ma lo sviluppo delle forze produttive umane, sia materiali che spirituali, attestano che l’uomo è sollecitato da un bisogno di felicità e di pienezza che si può realizzare solo attraverso la socialità e la fruizione degli oggetti prodotti nel corso dello sviluppo storico.

E' questo il senso di un materialismo radicale che si esprime nell’ aforisma per cui "la passione è la sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto". Il termine passione condensa due diversi concetti: la passività e il pathos. L'uomo è un essere passivo in quanto, come ogni altro animale, insufficiente e bisognoso. Passivo, dunque, nel senso di essere animato da bisogni i cui oggetti sono immediatamente esterni. La fame, come l'amore, postula qualcosa che la soddisfi: ma ciò che la soddisfa è inesorabilmente fuori del soggetto che pure l'avverte con estrema intensità. Già per questo solo aspetto, che coinvolge la totalità dell'esperienza soggettiva, essere passivo e patire, sentire la mancanza di ciò di cui si ha bisogno, risultano intimamente correlati e sanciscono un’ontologia per la quale la relazione con l’oggetto è costitutive dell’essere umano. Ma la passione non è solo percezione di una carenza, bensì pathos. Il pathos implica che l'oggetto di cui si ha bisogno, per essere soddisfacente, deve avere caratteristiche qualitative adeguate alle esigenze umane. Un animale, in preda alla fame, ricerca e divora qualunque elemento della natura che abbia valore calorico. L'oggetto del bisogno dell'animale non umano è l'alimento fisiologico; che esso sia reperibile, per esempio, nei secchi dell'immondizia, non pone all'animale alcuna difficoltà. Le esigenze umane sono, ovviamente, anche fisiologiche: in condizioni particolari di carestia, anche l'uomo può razzolare nei secchi dell'immondizia. Ma, qualora ciò si renda necessario, egli si sente ridotto ad una condizione di vita infraumana. La fame umana non ha dunque come suo oggetto solo l'alimento in quanto calorico, bensì un cibo adattato alle esigenze umane: anche i popoli più primitivi, che vivono di caccia e di raccolta, hanno una loro cultura culinaria e rituali che presiedono alla consumazione sociale, condivisa del cibo. La gratificazione alimentare umana, nella sua pienezza, si realizza solo in virtù di circostanze del tutto gratuite sotto il profilo strettamente fisiologico: e sono tali circostanze a qualificare il bisogno alimentare umano come passione, nel senso che l'oggetto della soddisfazione del bisogno - in ciò che esso ha di autenticamente umano, e che lo differenzia rispetto al bisogno di qualunque altro animale - non solo è esterno, ma, nella misura in cui è dato immediatamente, è minimamente soddisfacente. E' rappresentato in natura da oggetti reali - prede, semi, frutta - che vanno però trasformati a misura dei bisogni umani. Ciò che è vero per l’istinto primario della fame, lo è a maggior ragione per tutti gli altri istinti. La sessualità stessa umana riconosce la sua ragion d’essere in una esigenza comunitaria.

Per questo aspetto, il corredo istintuale umano in Marx si identifica con un corredo di bisogni, di esigenze assolute che fanno riferimento ad una condizione carenziale ma che sono intenzionate dalla passione, dal tendere verso una modalità di soddisfazione specificamente umana, culturale. Gli oggetti adeguati a tale soddisfazione, proprio perché culturali, vanno però prodotti dall’uomo. In questo processo trasformativo, nel quale l'uomo riversa le sue energie attive, la sua forza, si dà l'intuizione che l'esterno, la natura, oltre ad oggetti reali, contenga anche oggetti potenziali, e cioè potenzialità che possono essere attualizzate dall'uomo e rese adeguate alla soddisfazione dei suoi bisogni. Questa intuizione si traduce in passione attiva, e cioè in un'attività mirante a trasformare la natura per adattarla a misura d'uomo. L'oggetto ultimo della passione è dunque l'umanizzazione della natura: il giungere a sfruttarne tutte le potenzialità che essa contiene ai fini umani. Una sfida, in ultima analisi, dato che quelle potenzialità vanno scoperte, assoggettate a tecniche trasformative e infine fruite. Una sfida nel corso della quale, complementarmente all'umanizzazione della natura, l'uomo si naturalizza: scopre che l'orizzonte mondano è pienamente adeguato a soddisfare i suoi bisogni, e si integra in esso. L'umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell'uomo rappresentano infine l'oggetto della passione umana. Essere appassionato, l'uomo, per la sua stessa struttura, ha bisogno di oggettivare le sue potenzialità trasformative, di riconoscersi attraverso le oggettivazioni e infine di appagarsi nella fruizione delle stesse.

Il materialismo di Marx non va riferito, ovviamente, solo ai bisogni primari, pure essenziali, di mangiare, vestirsi, avere un riparo, ecc. Il modo stesso, qualitativo, in cui i bisogni primari devono essere soddisfatti per rispondere alla passione umana, è indicativa del fatto che l'uomo è un essere ricco di bisogni. Tale ricchezza, riconducibile alla natura umana e cioè alla struttura mentale propria della specie umana, investe la totalità dei rapporti che l'uomo intrattiene con il mondo e con la sua stessa natura. Pressoché continuo, in Marx, è il riferimento a quella ricchezza in termini di bisogni materiali e di bisogni spirituali: una distinzione che, ovviamente, concerne solo la diversità degli oggetti cui tende la passione umana, le diverse modalità di produzione e di fruizione. Distinzione che, infine, implica come fattore comune ai bisogni la necessità che essi si realizzino per mezzo della cultura.

L'uomo di cui parla Marx non è evidentemente il singolo uomo, bensì l'essere generico, l'umanità tutta con il corredo delle sue potenzialità, l'umanità la cui storia rappresenta il dispiegamento dell'essere generico nelle singole individualità, ciascuna delle quali lo contiene nella sua totalità. La passione umana, in quanto attributo proprio del genere umano, potendosi realizzare solo in virtù della cultura, postula l'organizzazione sociale. E' la socialità, generatrice dell'uomo e della cultura, che promuove la percezione dei bisogni e l'attività orientata a soddisfarli. Se questo è vero, quella passione ha come oggetto l'umanizzazione di un mondo a beneficio di tutti i membri della comunità, nei limiti definiti dallo sviluppo delle forze produttive. Epressione della vita sociale, l'umanizzazione della natura non può escludere alcun membro dalla produzione e dalla fruizione. L'oggettivazione delle potenzialità proprie del genere umano, nella misura in cui produce ricchezza - materiale e spirituale -, rappresenta un patrimonio a cui ogni individuo ha diritto a partecipare. Tale diritto, inalienabile in nome del riconoscimento dei bisogni umani, riconosce come limite solo la capacità individuale di fruizione: implica, dunque, non già solo il consumo bensì l’educazione al godimento. La differenziazione tra gli individui, che Marx non ha mai negato, si pone solo nei termini della capacità individuale di fruire della ricchezza prodotta dall'attività umana, posto che essa sia resa disponibile al soggetto. Ma ciò significa che ogni individuo ha diritto di appropriarsi di ciò di cui ha bisogno? Non già di appropriarsene espropriando qualcun'altro, bensì di partecipare e di condividere la ricchezza sociale.

La naturalizzazione dell'uomo e l'umanizzazione della natura, in quanto processi complementari che si realizzano solo socialmente, definiscono, come oggetto ultimo della passione umana, lo scambio sociale, la relazione dell'uomo con l'uomo o, meglio, con la totalità dell'umanità cui egli appartiene: passata, presente e futura. La fame di socialità, il bisogno di essere riconosciuto dall'altro nella misura del proprio valore e di riconoscerlo, è il bisogno radicale a cui Marx attribuisce il potere, posto che esso sia riconosciuto e vissuto come tale, di sormontare ogni altra avidità: di debellare, da ultimo, l'egoismo, che egli ritiene un prodotto storico, in nome di una partecipazione consapevole e reciproca alla vita del genere.

L'egoismo, per Marx, è imprescindibile infatti da una concezione dell'individuo causa sui, che rimuove la consapevolezza del suo essere generico. Non solo né tanto sul piano biologico, laddove è evidente che l'uso che l'individuo fa delle sue risorse genetiche dipende comunque, quali che siano i suoi meriti, dal corredo assegnato dal caso; quanto sul piano culturale, laddove lo sviluppo dell'individuo è imprescindibile dalle opportunità ambientali che gli vengono messe a disposizione. Opportunità offerte immediatamente dal gruppo cui egli appartiene, ma che, in sé e per sé, sono il retaggio della produzione culturale di tutte le generazioni precedenti. Con ciò, l'individualità non viene affatto cancellata. Essa è la forma differenziata che, in virtù anche dell'attività del singolo soggetto, vengono ad assumere le variabili molteplici che concorrono a definirla. Ciò che è importante, nell'ottica di Marx, è che la coscienza individuale non si affranchi mai dalla consapevolezza di quelle variabili, che lo riconducono a sentirsi partecipe di una totalità, e a godere del suo sviluppo differenziato come espressione significativa di questa totalità.

L'uomo ricco, l'uomo totale di Marx non è, però, l'espressione di una presa di coscienza. O, meglio, è anche questo, ma nel momento in cui si danno le condizioni oggettive per cui quella presa di coscienza, riferita al carattere universale dell'esperienza individuale, possa avvenire. Sia le condizioni oggettive che quelle soggettive vanno prodotte storicamente. Le potenzialità della natura umana, che appartengono al corpo dell'uomo, e le potenzialità della natura inorganica, che sono esterne ad esso, per quanto incorporabili e da incorporare, non solo non sono trasparenti - nel senso che si rivelano nel corso della storia -, ma sono caratterizzate da uno scarto originario drammatico. Tant'è che per un periodo sterminatamente lungo, che occupa tutta la preistoria, le prime si sono espresse più sul piano della vita sociale, comunitaria, che su quello della produzione, della trasformazione della natura. Nell'ottica dell'evoluzionismo, che assume la comparsa della specie umana come frutto del caso, e azzardo evolutivo, ciò non sorprende.

Pochi pensatori come Marx hanno però intuito che l'atto di nascita di quella specie, storico in quanto vincolato alla nascita della cultura, e dunque di un prodotto sociale trasmissibile, segna un travaglio il cui esito dialettico - logico se il divenire ha un senso, benché non fatalistico - si pone, dovrebbe porsi nei termini di un'integrazione compiuta delle potenzialità umane attraverso la natura e delle potenzialità naturali attraverso l'uomo. Materialistica, l'antropologia di Marx sacralizza tale integrazione su di un registro che è filosofico e scientifico, etico ed estetico, politico e epico.


Cap. IV La passione trasformativa

Antologia

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"I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può estrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione...

Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura...

Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione." (LIT, pag. 17)

" ... il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura: contrapponendo se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il gioco delle loro forze al proprio potere...

Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso appartenga esclusivamente all'uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con le sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggior architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera.

Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo...

I momenti semplici del processo lavorativo sono la attività conforme allo scopo, ossia il lavoro stesso, l’oggetto del lavoro e i mezzi di lavoro...

Il mezzo di lavoro è una cosa o un complesso di cose che il lavoratore inserisce fra sé e l’oggetto del lavoro, che gli servono da conduttore della propria attività su quell’oggetto...

Le reliquie dei mezzi di lavoro hanno, per il giudizio su formazioni sociali scomparse, la stessa importanza che ha la struttura delle reliquie osee per conoscere l’organizzazione di generi animali estinti. Non è quel che vien fatto, ma come vien fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavorativa umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro...

nel processo lavorativo, l'attività dell'uomo opera, attraverso il mezzo di lavoro, un cambiamento dell'oggetto di lavoro che fin da principio era posto come scopo. Il processo si estingue nel prodotto. Il suo prodotto è un valore d'uso, materiale naturale appropriato a bisogni umani mediante cambiamento di forma. Il lavoro s'è oggettivato, e l'oggetto è lavorato. Quel che, dal lato del lavoratore, s'era presentato nella forma di moto, ora si presenta, dal lato del prodotto, come proprietà ferma, nella forma dell'essere." (ICP, I*, pp. 215- 219 )

"Come attività conforme allo scopo di adattare l'elemento naturale in una forma o nell'altra, il lavoro è condizione naturale dell'esistenza umana, è una condizione del ricambio organico tra uomo e natura." (ICP, I*, pag. 972)

"Lavorerai con il sudore della tua fronte! fu la maledizione che Geova fece pesare sulle spalle di Adamo. E così, come maledizione, A. Smith concepisce il lavoro: il "riposo" figura come lo stato adeguato, che si identifica con la "libertà" e la "felicità": L'idea che "nel suo stato normale di salute, forza, attività, abilità e destrezza" l'individuo provi anche il bisogno di una normale quantità di lavoro, e di eliminare il riposo, sembra non sfiorare nemmeno la mente di Adam Smith. Certo, la misura del lavoro stesso si presenta come data dall'esterno, dal fine da raggiungere e dagli ostacoli che il lavoro deve superare per pervenirvi. Adam Smith non sospetta neppure che tale superamento di ostacoli sia in sé attuazione della libertà - e che inoltre gli scopi esterni vengano sfrondati dalla parvenza della pura necessità naturale esterna e siano posti come fini che soltanto l'individuo stesso pone - ossia come autorealizzazione, materializzazione del soggetto, e perciò come libertà reale la cui azione è appunto il lavoro. A dire il vero egli ha ragione quando afferma che nelle forme storiche del lavoro come lavoro schiavistico, servile e salariato, il lavoro si presenta sempre come repulsivo, sempre come lavoro coercitivo esterno rispetto al quale il non-lavoro si presenta come "libertà e felicità". Ciò vale doppiamente: vale per questo lavoro antitetico e, in connessione con ciò, per il lavoro che non si è ancora creato le condizioni soggettive e oggettive... affinché il lavoro sia lavoro attraente, autorealizzazione dell'individuo, il che non significa affatto che esso sia un puro spasso, un puro divertimento. Un lavoro realmente libero, ad esempio il comporre, è al tempo stesso dannatamente serio e comporta uno sforzo intensissimo. Il lavoro di produzione materiale può assumere questo carattere solo nel caso in cui 1) è posto il suo carattere sociale, 2) ha carattere scientifico e al tempo stesso è lavoro generale, sforzo dell'uomo non come forza naturale addestrata in modo determinato, ma come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma puramente narturale, originaria, bensì come attività che regola tutte le forze della natura." ( GRD, 1, pp. 609 sgg.)

"... il regno della libertà comincia soltanto laddove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità." ( ICP, III*****, pag. 1102-1103)

"Meno è il tempo che occorre alla società per produrre grano, bestiame, ecc., e tanto più tempo essa guadagna per altra produzione, materiale o spirituale. Come per il singolo individuo, anche per la società, l'universalità del suo sviluppo, del suo godimento e della sua attività dipende dal risparmio di tempo." ( GRD, 1, pag. 106)

"Supponiamo d’aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l’altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, e avrei quindi goduto, nel corso dell’attività, una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l’oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come oggettuale, sensibilmente visibile e quindi come una potenza elevata al di sopra di ogni incertezza. 2) nel tuo godimento o uso del mio prodotto io avrei immediatamente il godimento consistente tanto nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, e dunque d’aver oggettualizzato l’essenza umana e quindi aver procurato un oggetto atto a soddisfare il bisogno di un altro essere umano. 3) D’essere stato per te l’intermediario fra te e il genere, e dunque di venire inteso e sentito da te stesso come un’integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore. 4) D’aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque d’aver confermato e realizzato immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune e umana. Le nostre produzioni sarebbero come tanti specchi, dai quali la nostra essenza rilucerebbe se stessa." (LSE, pp. 51-52)

Commento

L'opzione materialistica di Marx si basa sulla concezione dell'uomo come essere naturale i cui bisogni, anche solo quelli primari, eccedono immediatamente la disponibilità dei beni prodotti spontaneamente dalla natura. Per questo aspetto, l'uomo è l'unico animale non dotato di capacità istintive di adattamento all'ambiente. Un azzardo evolutivo, in ultima analisi. A posteriori, questo dato tende ad essere minimizzato in nome del sorprendente adattamento realizzatosi nel giro di alcune migliaia di anni. Ma, se si considerano gli squilibri - economici, sociali e ecologici - che esso ha prodotto, e che comportano ancora la possibilità che la specie umana si estingua, è difficile negare che la sfida evolutiva è ancora in atto. La radice del problema è nei modi in cui storicamente tale sfida è stata affrontata. Ed è sotto questo profilo che l'opzione radicalmente materialistica di Marx assume il suo pieno significato. L'uomo è un essere naturalmente imperfetto, poiché dotato di un bagaglio istintuale molto meno ricco e efficiente in rapporto alle altre specie animali. A tale imperfezione corrispondono però delle potenzialità, che si attivano solo in virtù della socialità, le quali determinano una tensione progettuale - che è altro rispetto a quella istintuale - verso l'adattamento. Tale tensione riconosce nella natura inorganica, nell'ambiente esterno il punto su cui far leva, e si realizza nella produzione di beni la cui sostanza è materiale ma la cui forma, significativa per l'uomo, è culturale. L'insistenza di Marx sul carattere oggettuale, sensibile di tali beni può facilmente indurre a pensare che egli faccia esclusivo riferimento a beni materiali. Ma l'oggettivazione, nel linguaggio marxiano, coincide con il processo di produzione nella misura in cui il prodotto, per avere valore d'uso, nonchè di scambio, deve essere distinto e distinguibile rispetto al soggetto. Se esso è tale, risulta evidente che deve avere un supporto materiale. Non è certo per caso che, dovendo fare un esempio di produzione libera ma faticosa, Marx fa riferimento al lavoro intellettuale...

Il successo adattivo dell'uomo viene ricondotto di solito alle sue capacità culturali. Il fatto è innegabile, ma pone il problema di definire tale capacità e le sue modalità di realizzazione. Le risposte di Marx sono inequivocabili. La capacità culturale è un attributo dell'essere umano in quanto ente sociale dotato di una particolare organizzazione fisica, e si esprime nell'intuizione che la natura contiene in potenza gli oggetti adeguati a soddisfare i suoi bisogni. Tale intuizione si realizza attraverso un'attività lavorativa che dà forma a tali oggetti, e, dunque, umanizza la natura. Posto in questi termini, il pensiero di Marx non sembra avere una particolare originalità. Ma, non appena si sormonta l'apparente ovvietà dei presupposti da cui esso muove, si rimane sorpresi dalla loro densità e dalle conseguenze radicali che essi comportano.

Per Marx, il lavoro è, nella sua essenza, un'attività sociale antropogenetica. In virtù di essa, infatti, la specie umana si dà un'organizzazione che la distingue dalle altre specie, le consente di produrre gli oggetti di cui ha bisogno per sussistere, di rivelarsi a se stessa nella ricchezza dei suoi bisogni, e di riprodursi socialmente, trasmettendo di generazione in generazione il sapere prodotto. Attività sociale, dunque, non solo perché l'attività lavorativa di un singolo individuo isolato è un non senso, poiché essa, per avere caratteristiche umane, postula una cultura, e dunque una socializzazione; quanto per il fatto che non si dà, in nessuno stadio della storia, una condizione tale per cui la sussistenza possa prescindere dalla riproduzione sociale, e cioè dal mettere a disposizione delle nuove generazioni risorse materiali e spirituali. Se si considera il fatto che Marx ritiene la cultura stessa, in tutti i suoi aspetti - a partire dal linguaggio -, un prodotto sociale, un patrimonio comune che può essere appropriato da tutti ma che, in sé e per sé, non riconosce proprietari, non si stenta a capire quanto la sua concezione del lavoro sia totalizzante e innovativa. Totalizzante poiché essa dà alla storia il senso di un divenire fondato sull'accumulo di lavoro morto - il patrimonio di saperi e di poteri trasformativi, nonchè di beni trasmessi, e dunque non consumati - che il lavoro vivo utilizza, valorizza e accresce. Innovativa, poiché, pur assegnando al lavoro il significato di un'oggettivazione delle potenzialità umane che non può prescindere dalla natura, e quindi definendosi su di un piano materialistico, fa riferimento a tutti gli oggetti di cui l'uomo ha bisogno, e non opera alcuna distinzione tra beni materiali e spirituali. L'utensile e il linguaggio sono entrambi prodotti del lavoro sociale. E, forse, tener conto della natura inequivocabilmente sociale dei prodotti "immateriali", può servire a prendere atto più facilmente della medesima natura di quelli materiali.

Attività sociale e comunitaria per eccellenza, il lavoro vivo di un singolo individuo ha senso solo se esso viene ricondotto all'essere espressione del lavoro morto accumulato dalle generazioni precedenti e all'essere rivolto a sviluppare la ricchezza sociale: sviluppo da cui discende la sussistenza dell'individuo e della comunità, la fruizione di quella ricchezza e la riproduzione sociale, la trasmissione della stessa alle generazioni future. E' evidente che Marx fa riferimento all'essenza del lavoro inteso come attività che, oggettivandosi nella trasformazione della natura, trasforma l'uomo stesso, gli rivela i suoi bisogni e lo sollecita nella direzione dell'umanizzazione. Ma quell'essenza, la cui piena realizzazione postula un adeguato sviluppo delle forze produttive, e dunque un processo storico, non è un'astrazione, essendosi espressa in embrione nelle forme originarie di organizzazione della vita sociale. Nelle comunità primitive il lavoro in effetti si pone come attività sociale il cui fine ultimo è il bene comune, e che pertanto non comporta alcun riferimento all'interesse privato. Marx non ha, però, alcuna nostalgia roussauiana, poiché quelle comunità sono limitate in conseguenza di un modesto sviluppo delle forze produttive e del loro relativo isolamento. L'individualità sociale che in esse si realizza è pertanto un'individualità monca, tribale, non universale. Cionondimeno, il significato eminentemente sociale del lavoro primitivo non può essere ignorato. Si tratta di capire, dunque, come e perché, nel corso dello sviluppo storico, e in misura direttamente proporzionale al dispiegarsi delle forze produttive e all'accumulo di un patrimonio di ricchezza sociale sempre più rilevante, quel significato si sia perduto. Da questo punto di vista, infatti, la rivalutazione del lavoro avvenuta ad opera della borghesia appare parziale e disfunzionale al fine ultimo dell'attività trasformativa umana: la produzione di un'individualità sociale pienamente sviluppata.

Nella prospettiva borghese, di fatto, il lavoro è un'attività sociale solo nel senso che essa, realizzandosi in un prodotto, postula uno scambio con qualcuno che ne abbia bisogno. Ma, propriamente parlando, il carattere sociale del lavoro è nello scambio dei prodotti, non già nel riconoscimento dei produttori come agenti reciproci della soddisfazione dei bisogni; nello scambio di cose, non tra persone che realizzano se stesse per mezzo dell'attività sociale. Il fine del lavoro, inoltre, è l'interesse privato, il profitto. In regime di concorrenza, la cura, da parte di tutti i produttori, dell'interesse privato realizza l'aumento complessivo della ricchezza materiale, e quindi un effetto benefico per tutta la società. Ma, quello stesso regime, fondandosi su di una competizione che estranea gli uomini, inducendo la percezione dell'altro come rivale, e dunque nemico, produce un allentamento dei vincoli comunitari che infine dà al lavoro il significato di uno strumento essenziale nella lotta per sopravvivere. O, per alcuni, nella lotta per vivere sempre meglio in una condizione di indifferenza sociale. La concezione borghese del lavoro, incentrata sulla cura degli interessi privati, esita naturalmente - ideologicamente quand'anche non praticamente - nel darwinismo sociale. Essa è dunque antitetica rispetto alla concezione di Marx, sia perché intende per lavoro solo un'attività produttiva di denaro, sia perché muove e si esaurisce nell'egoismo privato sia, infine, perché postula la scissione del legame di appartenenza comunitaria in conseguenza della quale quel legame si pone solo come legale e economico. Riconoscendo nel sistema borghese l'espressione più matura e evidente di un processo di alienazione che ha segnato la storia umana, muovendo da una condizione originaria che comportava il lavoro come appropriazione comunitaria, si tratta di capire il senso di questa mutazione socio-culturale. E' evidente che Marx fa riferimento ad una catastrofe originaria, il cui sviluppo storico ha assunto un carattere di necessità sino ad arrivare, attraverso una serie di rivoluzioni produttive, al modo di produzione borghese che, le cui contraddizioni chiariscono, a posteriori, il significato di quello sviluppo e pongono i presupposti di una rivoluzione definitiva - quella comunista - destinata a porlo al servizio dell’uomo. Dal punto di vista dialettico, il divenire della storia non è un processo lineare. Marx riprende da Hegel l'idea che, nel corso di quel divenire, si diano necessariamente fasi nel corso delle quali la verità si realizza attraverso la negazione, in forma capovolta e ingannevole. Ma ciò che Hegel attribuiva allo sviluppo dello Spirito, Marx l'attribuisce allo sviluppo delle potenzialità proprie della natura umana, all'interazione tra la specie umana e l'ambiente. Ciò rende indubbiamente più difficoltoso spiegare la catastrofe originaria che ha originato la storia sotto forma di lotte di classe e l'ha segnata sino all'avvento della civiltà borghese. Individuando nella storia, governata dalla necessità della produzione di beni, un processo caratterizzato dalla tendenza della classe dominante ad assicurare a se stessa diritti di proprietà sui beni e sui mezzi di produzione maggiori rispetto agli altri membri della comunità, che vengono dunque espropriati dalla possibilità di partecipare alla condivisione della ricchezza materiale e sociale, è evidente che Marx, il quale rifiuta di attribuire alla natura umana un orientamento primario egoistico, ha in mente qualche altra spiegazione che, però, non esplicita. Non si va lontano dal vero ipotizzando che egli abbia riconosciuto nell'indifferenza sociale propria della cultura borghese lo sviluppo estremo, divenuto finalmente chiaro, di una mutazione culturale avvenuta alle origini della storia: mutazione coincidente con l'allentamento del vincolo comunitario che, presso i primitivi e nelle epoche preistoriche, sancisce la comune appartenenza ad una totalità che trascende le parti - gli individui - che la compongono e comporta di conseguenza un principio di condivisione egualitaria dei beni che ha valore di legge. Anche presso i primitivi si dà una gerarchia sociale, ma essa, a differenza delle gerarchie che si istituiscono in epoca storica, comporta ruoli e responsabilità diverse, non un maggior diritto per qualcuno, sia pure esso il capo, sui beni disponibili. La catastrofe originaria andrebbe dunque individuata nel definirsi di tecniche lavorative che hanno prodotto un surplus di beni, e pertanto una quota di beni accumulabili, la divisione sociale del lavoro e di conseguenza del potere, e un bisogno di manodopera che ha promosso lo sfruttamento dell’uomo. La mutazione culturale, di conseguenza, sarebbe riconducibile all’istituirsi delle classi sociali, al venir meno, nella classe dominante, del legame di identificazione con gli altri membri della comunità - o con membri di altre comunità - come simili. L'effetto storicamente riconoscibile di questa mutazione è l'istituzione della schiavitù, e cioè la riduzione da parte di alcuni uomini di altri uomini a cose e, nel contempo, a strumenti di produzione. La storia dell'umanità sotto forma di storia di lotta di classe non sarebbe altro che lo svolgimento nel corso del tempo degli effetti di quella catastrofe, che giunge infine alla definizione dell'operaio come essere libero epperò costretto a scambiare la sua forza-lavoro come merce.

Ciò posto, riesce evidente il ruolo che il lavoro ha svolto nel corso dello sviluppo storico. Esso si è sempre realizzato sul registro dell'alienazione, e cioè di una produzione di beni che, dati gli ordinamenti sociali, ha finito con il sancire costantemente le disuguaglianze sociali e la naturalezza delle stesse. E ciò su due piani concenenti rispettivamente la distribuzione dei beni materiali e la fruizione della ricchezza sociale, comprensiva di tutti i beni materiali e spirituali prodotti dall'umanità. L'ingiustizia distributiva ha consentito alle classi dominanti di godere di privilegi pagati al prezzo della sofferenza di altri esseri umani; l'ingiustizia fruitiva ha mantenuto le classi subordinate in una condizione infraumana, nella cui valutazione è difficile ignorare l'incidenza di un potere di consumo sempre ai limiti dell'indigenza e di un potere di uso dei beni "spirituali" praticamente inesistente. La produzione di un'infinita ricchezza sociale dovuta al lavoro di tutta l'umanità nel corso del suo sviluppo storico, e portata al massimo grado dalla civiltà borghese, non si è pertanto tradotta in ricchezza antropologica, intendendo con ciò l'autoproduzione dell'uomo ricco e pertanto pienamente sviluppato nella sua libera individualità e nel suo riconoscimento di essere generico, sociale. Riabilitato dalla borghesia come espressione tra le più elevate della dignità umana, il lavoro deve essere dunque, secondo Marx, riabilitato nel suo carattere intrinsecamente sociale (e non estrinsecamente, come produttore di valori di scambio). Ma ciò postula che esso sia disalienato e in un duplice senso: non più vissuto dagli uni come mero strumento di guadagno e dagli altri come penosa necessità per sopravvivere; che si ponga infine, in quanto attività sociale, come gratificante: vuoi, per quanto concerne alcuni lavori, in rapporto all'autogratificazione che si ricava dall'eseguirli, vuoi, per quanto riguarda altri, in rapporto alla loro utilità sociale (che, ovviamente, rappresenta un aspetto proprio anche dei primi).

Oltre al carattere sociale dell'attività lavorativa, Marx insiste nel sottolineare che il lavoro produttivo, in quanto orientato a economizzare il tempo, non esaurisce il bisogno di agire proprio della natura umana. Il lavoro borghese, in quanto mirante al guadagno, tende, in sé e per sé, ad assumere un significato totalizzante, e cioè a indurre l'investimento di tutto il tempo disponibile come tempo economicamente produttivo. Marx ritiene viceversa che il lavoro, inteso come attività sociale e umanizzante, debba mirare a produrre tempo libero in misura sempre maggiore. Non meno del tempo dedicato al lavoro, il tempo libero è produttivo se esso viene investito in attività che valorizzano l'uomo, universalizzandolo: nella cura degli affetti, nella partecipazione ad attività collettive, nella coltivazione degli interessi, nella pratica culturale aperta alla letteratura, alla filosofia, alla storia, alle arti, alle scienze. Dall'uso del tempo lavorativo e del tempo libero nasce l'uomo ricco, la cui ricchezza è nel bisogno di umane e varie manifestazioni di vita.

Se si tiene conto del fatto che per Marx la finalità ultima del lavoro è, per l'appunto, la produzione dell'uomo ricco, alcune contraddizioni che sono state rilevate nel suo pensiero sono apparenti. Talora Marx sembra associare al lavoro produttivo in sé e per sé un carattere, se non addirittura penoso, costrittivo, e assegnare un valore umanizzante unicamente ad attività extralavorative. Questa confusione discende dall'assumere come metro di giudizio le categorie scisse del dovere e del piacere come si sono definite nell'ideologia borghese. Il lavoro economicamente produttivo è per Marx un'ovvia necessità, indispensabile alla riproduzione sociale e alla crescita della ricchezza materiale. In quanto necessità, esso si pone come costrizione naturale. Ma se il dovere lavorativo viene assolto come attività sociale, e se le condizioni di lavoro sono a misura d'uomo, e cioè valorizzano le sue attitudini, la costrizione non esclude affatto che il lavoro sia gratificante. Il tempo libero dedicato ai piaceri, d'altro canto, nella misura in cui consente la coltivazione delle potenzialità individuali, e dunque produce l'uomo ricco, va considerato, in termini marxiani, non solo un diritto (il cui riconoscimento deve rendere disponibili sia quel tempo che gli strumenti per usarlo), bensì un dovere: il dovere che ogni uomo ha di essere degno, al massimo grado possibile, della sua avventura mondana.

Da tutto ciò, discende la definizione marxiana del lavoro come un bisogno. Un bisogno costrittivo, nel senso che esso è determinato dallo scarto tra la debole attrezzatura istintuale umana e le sue esigenze, ma, nel contempo, un bisogno espressivo di una delle modalità in cui si esprime la libertà umana. Nulla è più estraneo a Marx del riferimento alla libertà in termini di inerzia, passività e pigrizia. Essere liberi implica il che fare della propria libertà. Come usarla a fini sociali e a fini individuali. Tali fini, nell'antropologia marxiana, non sono antitetici, poiché la ricchezza sociale, prodotta dal lavoro umano, è il patrimonio attingendo al quale e valorizzandolo il singolo individuo può pervenire alla piena realizzazione del suo essere. E' ovvio, infine, che, definendo il lavoro come un bisogno intrinseco alla natura umana, come un bisogno umanizzante nel quale dovere e piacere sono indistinguibili, Marx implica che una buona organizzazione sociale riconosca tale bisogno come un diritto. Ciò implica che ogni individuo, venendo a appartenere alla società, sia posto in grado di oggettivare al massimo grado le sue potenzialità produttive e creative, e di ricavare da tale oggettivazione sia una gratificazione personale - nei termini del sentimento di autorealizzazione - sia una gratificazione sociale, sotto forma di riconoscimento reciproco dell'utilità del prodotto. Ma la realizzazione di questo fine, in conseguenza del quale il lavoro individuale sarebbe espressione immediata dell'essenza umana generica, postula il superamento della divisione sociale del lavoro, e, anzitutto, della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Tale divisione, infatti, è all'origine della differenziazione delle società storiche in classi.


Cap. V Coscienza e realta'

Antologia

"La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi" (18B, pag. 7).

"La totalità quale essa appare nel cervello come totalità di idee, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nell'unico modo che gli è possibile" (GRD, 1, pp. 25 sgg.).

"La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita...

Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano,si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo rele della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma iseologica, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia...

Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la loro coscienza " (LIT, pag. 13).

"Le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza" (ICP, I, pag. 609).

"La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunchè di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la "pura" teoria, teologia, filosofia, morale, ecc" (LIT, pp. 21-22).

"La critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione" (LQE, pag.52).

"Noi mostriamo semplicemente al mondo il perché delle sue lotte, e la coscienza è una cosa che esso deve far propria, anche se non vuole. La riforma della coscienza consiste solo nel far sì che il mondo si renda conto della sua stessa coscienza, nel risvegliarlo dal sogno che esso sogna su se stesso, nello spiegargli le sue proprie azioni. Il nostro motto dev'essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo dei dogmi, ma dell'analisi della coscienza mistica e religiosa o politica. Si mostrerà allora che il mondo possiede già da tempo il sogno di una cosa, della quale gli basta possedere la coscienza per possederla veramente. Sarà allora manifesto che non si tratta di tirare un grosso tratto di unione fra il passato e il futuro, ma solo di portare a compimento i pensieri del passato. Diverrà chiaro infine che l'umanità non dà inizio ad un nuovo lavoro, ma porta a termine coscientemente quello vecchio" (Werke, vol. 1, pag. 345).

Commento

Una critica ricorrente rivolta a Marx concerne lo scarso interesse manifestato nei confronti degli aspetti psicologici dell'esperienza umana. Il sociologismo e l'economicismo deterministico di Marx, che ridurrebbe gli esseri umani a variabili dipendenti del sistema produttivo, ignorando il peso della personalità e della soggettività (conscia e inconscia), sarebbero addirittura le cause fondamentali del fallimento delle esperienze del socialismo reale.

Fortemente influenzata nel corso del '900 dallo sviluppo delle scienze psicologiche, e della psicoanalisi in particolare, tale critica difetta alquanto di profondità. Una lettura anche superficiale delle opere di Marx lascia trasparire, al di sotto dell'analisi dei fenomeni economici e storici, una trama complessa di passioni, di motivazioni e di convinzioni. La lotta di classe, che segna la storia umana, pur essendo incentrata sul conflitto per il possesso dei mezzi di produzione, che determina la distribuzione dei prodotti, materiali e ‘spirituali’, e la loro fruizione, è di fatto riconducibile all’opposizione irriducibile tra due visioni del mondo: l’una, modellata dalla realtà storica, che, riconoscendo il diritto dei più forti come espressione del loro valore personale e della loro libertà individuale, approda inesorabilmente al darwinismo sociale, vale a dire a considerare insignificante l’esperienza degli altri, dei perdenti; l’altra, determinata dall’oppressione e dalla disumanità, che, opponendo alla libertà individuale la giustizia, rivendica la pari dignità (non l’eguaglianza) di tutti gli esseri umani e alimenta, in nome di questo valore, il ‘sogno’ di un mondo fatto a misura d’uomo. E' vero che, in Marx, queste visioni del mondo sono determinate dal modo di produzione proprio di ogni sistema sociale in cui si realizzano, e che, pertanto, si pongono come forme del sentire, del pensare e dell'agire riconoscibili solo nella loro generalità: forme, dunque, della coscienza sociale che non implicano le sfumature e le varianti che le specificano come vissuti all'interno delle singole esperienze soggettive. Ma, intanto, dare rilievo alla forma sociostorica o ai contenuti soggettivi dell'esperienza individuale rappresenta un'opzione di fondo nell'interpretazione del modo di essere e di porsi dell'uomo nel mondo, e, in secondo luogo, tale opzione dipende dallo scopo che viene perseguito. Marx è un filosofo, uno storico e un'economista impegnato a cercare una chiave interpretativa che dia senso all'intera vicenda terrena della specie umana - un senso che consenta a questa di appropriarsene e di porla sotto controllo -, non uno psicologo. Nella misura in cui quella ricerca non può prescindere dall'uomo reale, concreto, in carne e ossa, e cioè dall'individuo che sente, pensa e agisce nel mondo, essa non abbisogna d'altro che di una psicologia storica, vale a dire di una psicologia che ponga tra parentesi quanto, nella singola esperienza, si dà di unico e irripetibile, e privilegi quanto si dà di comune ad altre esperienze. Minimizzare, ritenere riduttivo questo approccio o, addirittura, invalidarlo come incapace di spiegare la soggettività nella sua unicità e irripetibilità, implica, per un verso, riferirsi all'individuo come espressione di un'autoproduzione e assegnare alle circostanze ambientali un significato relativo; per un altro, negare il fatto che - visti da lontano, e cioè nel loro modo di essere e di porsi nel mondo - gli uomini di una determinata epoca appaiono, in riferimento alla loro collocazione nella gerarchia sociale e al loro comportamento, sorprendentemente simili o, meglio, assimilati dai sistemi di valori culturali dominanti (il cui dominio si riverbera anche nei sistemi di valori antitetici...).

Contrapporre, nello studio dei fatti umani, il sociologismo e lo psicologismo è sterile poiché l'uomo è, in senso letterale, un prodotto sociale che si autoproduce, e cioè differenzia una sua identità unica e irripetibile a partire dall'acquisizione di un'identità culturale, resa possibile dalla sua appartenenza ad un determinato contesto socio-storico. Ma il fatto che l'autoproduzione è subordinata alla socializzazione significa che una psicologia storica può arricchirsi di strumenti estensibili alla soggettività individuale, mentre una psicologia individuale o microsociale rimane inesorabilmente sul piano della comprensione dei vissuti e delle interazioni: in breve, non può pervenire alla loro spiegazione.

La lettura dell’opera di Marx pone di fronte ad un tema costante: lo scarto tra la fenomenologia sociale e il significato dei fenomeni, che va ricostruito storicamente, prescindendo dalle idee astratte che giustificano le apparenze della realtà senza spiegarla e facendo riferimento ai processi reali che l’hanno prodotta. Ma tale scarto esiste solo per la coscienza sociale e individuale, che è irretita dalle apparenze.

Posto ciò, non si stenta a capire che la psicologia storica di Marx, piuttosto che arretrata, precorre i tempi. Essa implica infatti una serie complessa di presupposti e di ipotesi che, nel loro complesso, configurano una teoria della mente umana che, a posteriori, e cioè tenendo conto dello sviluppo delle scienze umane e sociali, appare sorprendente. Il fatto che Marx non l'abbia mai esplicitata non impedisce di ricostruirla e di valutarla. Sinteticamente, essa può essere ricondotta alle seguenti ipotesi:

1) la natura umana (la prima natura, quella biologica) - identificabile con gli aspetti strutturali e le potenzialità funzionali proprie del cervello - è dotata di un corredo di bisogni la cui realizzazione comporta due referenti oggettivi: un contesto sociale e un ambiente naturale. La socializzazione, alla quale la natura umana è predisposta, rappresenta la condizione preliminare dello sviluppo dell'individuo e della sua assunzione di caratteristiche specificamente umane: la coscienza, il linguaggio e il sentimento di appartenenza. L'appartenenza ad un contesto sociostorico specifico media il suo porsi attivamente in rapporto alla natura secondo il modo di produzione proprio di quel contesto finalizzato alla sussistenza e alla riproduzione sociale, e secondo i valori culturali che ne assicurano la riproduzione;

2) costante per quanto riguarda i bisogni primari di sussistenza, il corredo della natura umana si fenomenizza, nella sua ricchezza, nel corso del processo storico in misura direttamente proporzionale allo sviluppo delle forze produttive che umanizzano l'ambiente e naturalizzano l'uomo. Eccezion fatta per i bisogni primari, la natura umana, dunque, si dispiega storicamente, e ciò implica una grande dipendenza dell'organizzazione della personalità dal contesto ambientale. Il modo di sentire, di pensare e di agire di ogni individuo è, nel suo complesso, determinato storicamente, nel senso che esso comporta una percezione di sé, del mondo sociale e del senso stesso dell'esistenza più o meno particolare o universale a secondo della concreta esperienza vissuta nell'interazione con l'ambiente;

3) nel corso del processo storico - processo di rivelazione dell'uomo a se stesso come ente naturale e sociale universale -, il patrimonio accumulato dall'attività trasformativa umana, la ricchezza sociale - rappresentata da tecniche produttive, istituzioni sociali, tradizioni e valori culturali, espressioni artistiche, filosofiche, scientifiche, ecc. -, si pone di fronte alla coscienza individuale e collettiva attraverso la mediazione di ideologie, prodotte dai ceti dominanti, che mirano a naturalizzare l'ordine di cose esistente, ad impedire di coglierne il significato storico - relativo e transeunte -, e quindi ad epropriare i ceti subordinati dalla fruizione di quella ricchezza. In quanto normalizzanti, e cioè stabilizzanti l'ordine di cose storicamente esistente e atte a spiegarlo, le ideologie schiavizzano la coscienza umana alle apparenze, la falsificano e la presentificano, tentando di estinguere il suo potere critico, il suo bisogno, oltre che di credere, di sapere e di fruire delle sue potenzialità;

4) predisposta alla cattura delle apparenze, all'alienazione del suo potere critico, in conseguenza del suo stesso strutturarsi attraverso la socializzazione e cioè nell'interazione con agenti sociali che rappresentano il mondo sociostorico cui appartengono e ne trasmettono i codici normativi, ideologici, la coscienza umana nondimeno nutre, nel suo intimo, nelle radici stesse del suo essere, nel suo corredo, un "sogno" inestinguibile: un sogno che si identifica con l'intuizione del carattere relativo, mortificante, transeunte dell'ordine di cose esistente, e, nel contempo, con un'insopprimibile aspirazione all'universalità, al pieno dispiegamento delle proprie potenzialità sul piano della socialità e del rapporto con la natura e la cultura.

L'ascendenza hegeliana di queste ipotesi e il carattere filosofico delle stesse nel loro complesso ha indotto gli studiosi - marxisti e non-marxisti - a dare scarso rilievo a quanto di epistemologicamente nuovo esse contengono in rapporto alla scienza della mente. La prima ipotesi concerne la natura umana, della quale si è già parlato. Qui, occorre rilevare che essa implica un rapporto dinamico tra gli aspetti strutturali - biologici - e gli aspetti funzionali - psicosociologici e culturali. E' evidente infatti che Marx ritiene che il corredo dei bisogni umani, con la sua straordinaria ricchezza, rappresenti un attributo proprio della specie umana. Ma il dispiegamento, e dunque l'oggettivazione, il riconoscimento e l'uso di quei bisogni, non avviene, per quanto concerne l'individuo, che attraverso un processo di socializzazione, e, per quanto concerne la specie, attraverso lo sviluppo storico, che postula forme di adattamento specifico all'ambiente naturale e culturale. Il carattere fisso del corredo e la varietà dell'ambiente nell'interazione con il quale esso si fenomenizza spiegano a sufficienza la straordinaria varietà delle culture umane, ciascuna delle quali lo valorizza in un modo parziale. E' questa varietà che, nel suo complesso, rappresenta la ricchezza sociale prodotta dall'umanità, il patrimonio oggettivo nel quale si riflette la ricchezza propria della natura umana, e che, alla fine, nell'ottica di Marx, darà luogo, sormontata l'alienazione, all'uomo autocosciente: consapevole della sua appartenenza alla natura e alla storia - la seconda natura - e del suo carattere universale. La ricchezza dei bisogni umani, identificabile con potenzialità funzionali proprie della mente umana, postula, dunque, di necessità, un lungo processo storico per dispiegarsi compiutamente e, infine, per essere riconosciuta e fruita dai singoli individui, posto che si diano condizioni socio-economiche adeguate alla valorizzazione dell'uomo. La teoria dei bisogni, che Marx non elabora mai compiutamente, ma alla quale egli si riferisce costantemente, non è di poco conto. Essa implica infatti un insieme di motivazioni che sottendono e promuovono i comportamenti umani le quali hanno un significato adattivo, ma in un'accezione complessa. L'uomo deve adattare a sé la natura, trasformandola in modo tale che essa sia adeguata ad assicurare la sopravvivenza. Ma, intanto, Marx fa riferimento al fatto che tale adattamento, anche in rapporto ai bisogni primari di cibo e di riproduzione, ha un carattere qualitativo, specificamente umano, comportando la soddisfazione di esigenze che nulla hanno a che vedere con la componente fisiologica degli stessi. In secondo luogo, l'uomo deve adattarsi alla sua stessa natura, di cui non è o è solo parzialmente consapevole. La storia è per l'appunto un processo dialettico nel corso del quale l'uomo si rivela a se stesso, in virtù del suo essere sociale e dell'attività produttiva. La natura umana, rappresentata nella sua genericità, in ciò che essa ha di specifico, in ogni membro della specie umana, non comporta la nascita dell'individuo se non in conseguenza di un processo di socializzazione che lo dota di una cultura - il fondamento dell'autoconsapevolezza - e assegna ad esso più ruoli sociali. La traduzione del corredo naturale, proprio di ogni individuo, in un ente differenziato, che si riconosce appartenente ad un sistema sociale e ad una tradizione culturale e si definisce in rapporto ad esse, avviene socialmente.

Ovviamente, Marx nulla dice riguardo all'antropogenesi e alla nascita della cultura umana. Egli sta ai fatti: la specie umana è riconoscibile come tale dal momento in cui fa uso del linguaggio e di tecniche produttive - la caccia, la pesca, la raccolta - che le consentono di perpetuarsi e di riprodursi. Sia l'uso del linguaggio che la produzione sono imprescindibili dalla socialità. Esse inoltre postulano una capacità di rappresentazione simbolica della realtà. Tale capacità, dunque, propria della mente umana, si realizza solo in conseguenza della socialità. Questo rappresenta uno dei nodi gordiani del pensiero di Marx. Il definirsi della coscienza, intendendo con ciò l'essere consapevole e dunque dotato di strumenti culturali, nella misura in cui avviene in virtù di un'esperienza sociale che trasmette le oggettivazioni culturali delle passate generazioni - e cioè linguaggio, tradizioni, tecniche lavorative, valori, ecc. - pone di fronte ad un mondo mediato da un'organizzazione e da una visione del mondo determinate storicamente. Lo stesso processo di socializzazione che promuove la consapevolezza - e determina l'assunzione di un'identità culturale - è alienante per due aspetti. In primo luogo, poiché la visione del mondo trasmessa e acquisita si pone come una visione oggettiva del mondo, come una descrizione di ciò che esso di fatto è. Per questo aspetto, la coscienza umana è e non può essere che ideologica: efficiente ma chiusa in una visione del mondo naturalizzata. In secondo luogo, non essendo mai conoscibili pienamente, da parte del gruppo attuale e a maggior ragione dell'individuo, i processi storici in virtù dei quali si è prodotta l'organizzazione sociale e la cultura ad essa propria, ed essendo poco note le potenzialità proprie della natura umana, quell'organizzazione e quella cultura vengono colti non solo come naturali, ma giungono ad essere attribuiti ad agenti causali che trascendono l'uomo. Che questa alienazione concerna gli spiriti, gli dei, i rappresentati terreni da essi investiti, il nascere ricchi o poveri, o, infine, le leggi oggettive dell'economia, non fa differenza. In ogni epoca storica, compresa la preistoria, la coscienza umana ha pagato alla necessità della socializzazione il prezzo dell'alienazione. Il suo stesso processo di formazione, attraverso la appartenenza e la partecipazione ad un determinato contesto socio-storico, comporta il fatto che essa è sempre e comunque falsa coscienza: coscienza confusa, capovolta del mondo cui giunge ad appartenere e incapace di ricostruire i momenti storici attraverso cui quel mondo ha assunto l'organizzazione socio-economica e culturale che ha. La teoria della falsa coscienza, e cioè del funzionamento normale della coscienza umana in rapporto al suo prodursi sociale in un mondo alienato, è stata equivocata in nome del fatto che Marx, applicandola all'analisi della società borghese, ha dissacrato il mito della razionalità su cui essa si fonda, e in conseguenza del quale pretende di porsi come stadio ultimo dello sviluppo storico. Non sorprende pertanto che la cultura borghese, pur opponendo una qualche resistenza, sia pervenuta ad accettare la critica di Freud allo statuto della coscienza umana, ma abbia sempre recusato la teoria di Marx. Il problema è che Freud parte da presupposti antropologici che, in particolare per quanto rigurda l'egoismo e l'aggressività, si integrano con quella cultura , mentre Marx muove da presupposti antitetici. L'equivoco va risolto, per restituire alla teoria della falsa coscienza il suo giusto valore epistemologico.

Il limite della teoria, ampiamente rilevato, consiste nell'aver accentuato il carattere mistificante dell'ideologia rispetto alla realtà, minimizzando il significato cognitivo: in altri termini, il suo corrispondere ad un bisogno intrinseco alla mente umana di credere, di vedere il mondo in un modo almeno minimamente coerente. Seppure la critica si ritenga fondata - e per alcuni aspetti lo è -, rimane il fatto che Marx assume la falsa coscienza come condizione mentale propria dell'umanità in tutte le epoche della storia. Che la falsa coscienza si sia espressa nel corso dello sviluppo storico sotto forma mitologica, religiosa, politica e economica non modifica quell'assunto. Tanto più se si considera il fatto che la sostituzione di un'alienazione all'altra non comporta l'annullamento di questa, bensì una giustapposizione. Fin quando la coscienza sociale non si radicherà in una definitiva consapevolezza storica, e fin quando la coscienza individuale non sarà posta in condizione di pervenire ad un pieno sviluppo delle sue potenzialità, nulla esclude che quelle diverse forme di alienazione possano coesistere. Se c'è, nel pensiero marxiano, qualcosa di scandaloso, è identificabile in questo: nella ricostruzione di uno stato d'interminabile "ipnosi" della coscienza umana, che ha attraversato la storia, cambiando solo forma. Nel mantenersi di questo stato, le ideologie, le visioni del mondo prodotte dai ceti dominanti miranti a giustificare e naturalizzare l'ordine di cose esistente, è fuor di dubbio. Ma è impossibile sostenere che Marx abbia inteso la produzione ideologica come espressione di una univoca e consapevole tendenza, da parte di quei ceti e soprattutto dei rappresentanti intellettuali degli stessi, a ingannare le masse. Non già l'intenzione di ingannare, bensì la coscienza capovolta, preda delle apparenze è all'origine di quella produzione. Sarebbe azzardato concludere che Marx abbia avuto una qualche intuizione del ruolo dell'inconscio nell'organizzazione della coscienza sociale e individuale. Tale intuizione è però implicita in tutta la sua opera.

Lo stato normalmente ipnotico della coscienza umana, colto lucidamente da Marx, postula un'interpretazione. Se ne possono fornire almeno due. La prima fa riferimento allo scarto tra le potenzialità proprie della natura umana e le condizioni oggettive che si devono produrre perché quelle potenzialità siano appropriate e dispiegate sul piano della consapevolezza. Componibile solo nel corso dello sviluppo storico, via via che l'attività trasformativa umanizza la natura e pone le premesse della naturalizzazione dell'uomo, lo scarto determina inesorabilmente una proiezione immaginaria delle potenzialità eccedenti, non attualizzate. La coscienza aliena nei prodotti immaginari l'intuizione confusa di uno stato possibile del suo essere non immediatamente realizzabile. La seconda interpretazione fa capo al fatto che, gettata nel mondo dall'evoluzione naturale, con caratteristiche del tutto singolari, la specie umana, pur costretta ad una forma di adattamento che implica un'incessante attività trasformativa delle condizioni ambientali, ha bisogno di schermare la sua condizione precaria, il suo potere sempre relativo su quelle. Da ciò discenderebbe la produzione ideologica, che, naturalizzando l'ordine di cose esistente, tende ad eternizzarlo, a reificare un potere di controllo dell'uomo sulle condizioni della sue esistenza, che potrà realizzarsi solo accettando la sfida della storia. Una sfida che comporta la critica di quell'ordine, il riconoscimento della sua incompiutezza e l'accettazione di doverlo trascendere in nome delle potenzialità della natura umana ch'esso non riesce a soddisfare. La coscienza ipnotica, alienata si illude, insomma, di essersi già pienamente oggettivata - sia essa felice o infelice -, mentre di fatto alberga un sogno - di pieno dispiegamento consapevole e universale - delle potenzialità umane che la minaccia e la trascende. Al di sotto della coscienza, insomma, si dà un corredo di bisogni la cui pressione evolutiva è incoercibile, e può essere contenuta solo in virtù di uno schiacciamento nelle apparenze della realtà storica: in breve, in virtù di una mutilazione.

Nonostante il rilievo sociologico assegnato da Marx alla teoria della falsa coscienza - rilievo per cui egli fa riferimento costantemente alla coscienza sociale, alla coscienza di classe -, è difficile non cogliere le implicanze che la teoria comporta sul piano della psicologia individuale. Come l'anatomia della scimmia spiega l'anatomia dell'uomo, così - per Marx - l'anatomia della coscienza sociale spiega l'anatomia della coscienza individuale. Ciò significa, né più né meno, che l'ideologia, che a livello sociale rappresenta la sovrastruttura, a livello psicologico rappresenta l'infrastruttura: la base su cui si sviluppa e che dà forma all'esperienza soggettiva. Poiché questa base, identificabile con sistemi di valori culturali, non è mai pienamente rappresentata a livello cosciente, laddove se ne danno solo le derivazioni - i modi di sentire, di pensare e di agire che l'individuo ritiene prodotti in virtù della sua concreta esperienza, e che, invece, sono la conseguenza di una lettura dell'esperienza orientata da quei sistemi -, c'è da chiedersi ove essa risieda. Marx sembra non essersi mai posto questo problema che pure è implicito nella teoria della falsa coscienza. Non si stenta a capire, a posteriori, che la risposta porta al di là della coscienza. E, senza alcuna forzatura, si può arrivare a definire un modello strutturale marxiano della personalità, applicabile, con ovvi limiti, alla psicologia individuale. Tale modello comporterebbe come matrici strutturali inconsce dell'esperienza soggettiva i sistemi di valori trasmessi dall'ambiente e appropriati nel corso dell'esperienza evolutiva. Dato il carattere assoluto e naturalizzato di tali valori, il cui superamento critico presume un'attrezzatura culturale estremamente raffinata e potente, l'appropriazione individuale in fase evolutiva, pur non configurando un processo passivo di acquisizione, non comporta alcuna possibilità di elaborazione dei valori, eccezion fatta per l'intensità emozionale con cui essi vengono appropriati, diversa da soggetto a soggetto. Queste matrici infrastrutturali presiederebbero al dispiegamento delle potenzialità individuali in senso proprio, e cioè al definirsi di una ricca trama di contenuti esperienziali - di emozioni, di motivazioni, di pensieri, di schemi di comportamento - che nel loro complesso definiscono la soggettività individuale in senso proprio e la differenziano rispetto a tutte le altre. per quanto ricco e complesso, tale dispiegamento riconoscerebbe comunque come limite i sistemi di valori agenti a livello inconscio. La soggettività individuale, infine, dovendosi adattare alle condizioni della vita sociale, sarebbe costretta ad assumere una determinata forma sociale, ad apparire, sul piano delle manifestazioni coscienti, conforme ai ruoli ad essa assegnata: ad assimilarsi, in breve, ai codici normativi propri del gruppo cui appartiene, o, in una società dinamica, del gruppo cui giunge ad appartenere o con cui si identifica. Questo modello strutturale comporta, in sé e per sé, una tensione conflittuale riconducibile alla quota di bisogni e di ricche potenzialità, proprie della natura umana, che devono essere sacrificate in quanto eccedenti i sistemi di valori che impregnano la soggettività, e, ovviamente, la struttura sociale.

Onnipresente nell'opera di Marx, il problema della falsa coscienza conserva ancora oggi un fascino sottile e inquietante, soprattutto se tale condizione viene assunta, in ogni contesto, come lo stato normale della coscienza e, dunque, dell'esperienza soggettiva. Che Marx non abbia dedicato al problema una trattazione sistematica, non sorprende se si tiene conto del lavoro immane cui si è sottoposto per tentare - senza riuscirvi - di portare a termine Il Capitale. C'è da considerare inoltre la sua diffidenza nei confronti delle teorie dei giovani hegeliani di sinistra, che identificavano nell'autocoscienza uno strumento rivoluzionario destinato a cambiare la storia. La dipendenza dell'organizzazione della coscienza dalle tradizioni storiche e dalle circostanze oggettive è tale, per Marx, da rendere ridicole tali teorie. Cionondimeno, la sua convinzione che la storia avrebbe prodotto naturalmente una classe affrancata dalla falsa coscienza in conseguenza della sua stessa condizione di abiezione, è smentita dallo stesso impegno che egli ha posto, nel corso di tutta la sua vita, per fornire a quella classe le armi della critica.


Cap. VI La concezione della storia

Antologia

" Noi conosciamo soltanto una unica scienza: la scienza della storia. Considerata da due diversi lati, la storia può dividersi in storia della natura e in storia degli uomini. Entrambi i lati non si possono separare nel tempo: sin tanto che esisteranno gli uomini, la storia della natura e la storia degli uomini si condizioneranno a vicenda. La storia della natura, la cosiddetta scienza naturale, qui non ci riguarda; della storia degli uomini dovremo invece occuparci, perché l'ideologia quasi per intero si riduce ad una storpiata interpretazione di questa storia o ad una completa astrazione da essa." (LIT, pag. 44)

"La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata." (LIT, pag. 27)

"Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura..." (LIT, pag. 8)

"...il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, [è] che per poter "fare storia" gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa...

Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione per soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni...

Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto tra uomo e donna, fra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio è l'unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano nuovi rapporti sociali e l'aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni, un rapporto subordinato...

La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell'altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall'altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui... Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stato industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una "forza produttiva"...

Solo a questo punto, dopo aver già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l'uomo ha anche una "coscienza". Ma anche questa non esiste, fin dall'inizio, come "pura" coscienza. Fin dall'inizio lo "spirito" porta con sé la maledizione di essere "infetto" dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d'aria agitati, di suoni e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza... e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini...

La coscienza è dunque fin dall'inizio un prodotto sociale. Naturalmente, la coscienza è innanzitutto semplice coscienza dell'ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all'individuo che prende coscienza di sé; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge contro gli uomini come una potenza assolutamente estranea... e d'altra parte è coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, la coscienza iniziale del fatto che si vive in società...

Questa coscienza... tribale perviene ad uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro...

La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale... La divisione del lavoro... implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà... Con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione tra l'interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci." (LIT, pp. 18-22)

"La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi dela gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininiterrotta, ora latente, ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta... La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi di classe. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta." (MPC, pp. 54-55)

" La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile... questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita all'azione di capi e di Stati e trascura i rapporti reali." (LIT, pag. 26)

"La storia di tutta quanta la società che c’è stata fino ad oggi s’è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto differente a seconda delle differenti epoche. Lo sfruttamento di una parte della società per opera dell’altra è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch’esso abbia assunto. Quindi, non c’è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza..." (MPC, pp. 89-90)

"Questa concezione della storia si fonda... su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia,morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro)." (LIT, pp. 29-30)

"In tutte [le] forme in cui la proprietà fondiaria e l'agricoltura costituiscono la base dell'ordinamento economico, per cui il fine economico è la produzione di valori d'uso, la riproduzione dell'individuo nei rapporti determinati con la sua comunità... noi abbiamo [che] la sua relazione con le condizioni oggettive di lavoro è mediata dalla sua esistenza come membro della comunità; d'altro canto l'esistenza reale della comunità è determinata dalla forma determinata in cui egli è proprietario delle condizioni oggettive del lavoro. che questa proprietà mediata dal fatto di esistere nella comunità si presenti come proprietà comune, dove il singolo è solo possessore e non c'è proprietò privata della terra, - o che la proprietà si presenti nella duplice forma di proprietà statale e privata, l'una accanto all'altra, ma in modo che l'ultima sia posta dalla prima... o che infine la proprietà comunitaria si presenti come semplice integrazione della proprietà individuale, che costituisce la base, mentre la comunità non ha assolutamente alcuna esistenza di per sé salvo che nell'assemblea dei membri della comunità e nella loro unione per scopi comuni... dipendono in parte dalle disposizioni naturali della tribù stessa, in parte dalle condizioni economiche nelle quali ora essa effettivamente si pone, come proprietaria, in raporto alla terra... In tutte queste forme la riproduzione di rapporti presupposti - più o meno naturali o anche sorti storicamente, ma divenuti tradizionali - tra il singolo e la sua comunità... è il fondamento dello sviluppo, che perciò è sin dall'inizio uno sviluppo limitato... Presso gli antichi... la ricchezza non si presenta come scopo della produzione." (GRD, 1, pp. 462-463)

"Proprietà in origine non significa altro che il rapporto dell'uomo con le condizioni naturali della produzione come appartenenti a lui, come condizioni sue, presupposte insieme alla sua esistenza... Proprietà significa quindi appartenenza a una tribù (una comunità)... e, mediante il rapporto di questa comunità con il suolo, con la terra come suo corpo inorganico, significa un rapporto dell'individuo con il suolo, con la condizione primordiale esterna della produzione - poiché la terra è insieme materia prima, strumento e frutto - in quanto presupposti appartenenti alla sua individualità, modi di esistenza di questa." (GRD, 1, pp. 470-471)

"Non l'unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio con la natura, e di conseguenza la loro appropriazione della natura, bensì la separazione di queste condizioni inorganiche dell'esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che è posta compiutamente solo nel rapporto tra lavoro salariato e capitale, ha bisogno di una spiegazione ovvero è il risultato di un processo storico." (GRD, 1, pag. 468)

"...la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. esso appare "originario" solo perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente. La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella.... il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coecizione corporativa... Ma dall'altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali." (ICP, I, pag. 851)

" Quanto minore è la forza sociale posseduta dal mezzo di scambio, quanto più esso è legato alla natura del prodotto immediato del lavoro e ai bisogni immediati dei soggetti di scambio, tanto maggiore deve ancora essere la forza della comunità che lega gli individui gli uni agli altri, rapporto patriarcale, comunità antica, feudalesimo, corporazione... Ogni individuo possiede il potere sociale sotto forma di una cosa. Strappate questo potere sociale alla cosa e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale ( dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in misura ristretta e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio... La necessità di trasformare dapprima il prodotto o l'attività degli individui nella forma di valore di scambio, in denaro, il fatto che in questa forma materiale acquistano e attestano il loro potere sociale, dimostra due cose: 1) che gli individui producono ormai soltanto per la società e nella società; 2) che la loro produzione non è immediatamente sociale, non è il risultato dell'associazione che ripartisce al suo interno il lavoro. gli individui sono sussunti sotto la produzione sociale, la quale esiste come una fatalità esterna ad essi; ma la produzione sociale non è sussunta sotto gli individui e da essi trattata come loro patrimonio comune...

( E' stato detto e si può dire che la bellezza e la grandezza risiedono proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione spontanea, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. e questa connessione oggettiva è certo preferibile alla loro mancanza di connessione o a una connessione soltanto locale, fondata su rapporti naturali di consanguineità, o di signoria e servitù. E' altrettanto certo che gli individui non possono subordinare a sé le proprie connessioni sociali prima di averle create. ma è assurdo concepire quella connessione soltanto oggettiva come la connessione spontanea, inscindibile dalla natura dell'individualità (in antitesi al sapere e volere riflessi) e a essa immanente. Essa ne è il prodotto. E' un prodotto storico... L'estraneità e l'autonomia in cui la connessione esiste ancora rispetto agli individui, prova soltanto che essi sono ancora impegnati nella realizzazione delle condizioni della loro vita sociale, invece di averla iniziata a partire da tali condizioni. E' la connessione, spontanea, di individui all'interno di determinati e limitati rapporti di produzione. gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto relazioni proprie, comuni, sono anche assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l'universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diviene possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio; quest'ultima produce, per la prima volta, insieme all'universalità, l'estraneazione dell'individuo da sé e dagli altri, ma anche l'universalità e la versatilità delle sue relazioni e capacità. Negli stadi precedenti dello sviluppo, il singolo individuo appare più compiuto appunto perché non ha ancora elaborato la pienezza delle sue relazioni e non se l'è ancora posta di fronte come insieme di potenze e di rapporti sociali da lui indipendenti. E' ridicolo rimpiangere quella pienezza originaria, proprio com'è ridicolo pensare di dover permanere in questa condizione di totale svuotamento." (GRD, 1, pag.89-94)

"Se si considerano rapporti sociali che generano un sistema scarsamente sviluppato di scambio, di valori di scambio e di denaro, o ai quali corrisponde un grado non sviluppato degli stessi, è chiaro sin dal principio che gli individui, benché i loro rapporti appaiano più personali, entrano in relazione reciproca solo in quanto individui in una certa determinatezza, come signore feudale e vassallo, come proprietario fondiario e servo della gleba ecc... Nel rapporto di denaro, nel sistema di scambio sviluppato (e quest'apparenza seduce la democrazia) i vincoli di dipendenza personale, le differenze di sangue, di formazione ecc. sono effettivamente saltati, lacerati (i vincoli personali si presentano almeno tutti come rapporti personali); e gli individui sembrano indipendenti (questa indipendenza che è pura illusione e più correttamente andrebbe chiamata indifferenza), sembrano liberamente entrare in contatto reciproco e scambiare in questa libertà; si presentano però in questa luce solo a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza (e queste sono a loro volta indipendenti dagli individui e, pur essendo generate dalla società, appaiono quasi come condizioni naturali, incontrollabili dagli individui) nella quale questi individui entrano in contatto. La determinatezza che nel primo caso appare come una limitazione personale dell'individuo da parte di un altro, nel secondo si presenta sviluppata come una limitazione materiale dell'individuo da parte di rapporti da esso indipendenti e riposanti in se stessi. (Poiché il singolo individuo non può spogliarsi della sua determinatezza personale, ma può benissimo superare rapporti esterni e subordinarli a sé, nel secondo caso la sua libertà sembra maggiore. Un'analisi più precisa di quei rapporti esterni, di quelle condizioni, rivela però l'imposibbilità per gli individui di una classe ecc. di superarli in massa senza sopprimerli. Il singolo può casualmente avere ragione di essi; non può invece farlo la massa di coloro che ne sono dominati, giacchè il loro puro e senmplice sussistere esprime la suordinazione, e la subordinazione necessaria degli individui ai rapporti stessi). Questi rapporti esterni non sono affatto un'abolizione dei "rapporti di dipendenza", ma sono anzi soltanto la dissoluzione degli stessi in una forma generale; sono piuttosto l'elaborazione del fondamento generale dei rapporti di dipendenza personali. Anche qui gli individui entrano in relazione reciproca soltanto come individui determinati. Questi rapporti di dipendenza materiali, in antitesi con quelli personali... suscitano anche l'impressione che ora gli individui siano dominati da astrazioni, mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri. L'astrazione o idea non è però altro che l'espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio su di essi." (GRD, pp. 95-96)

"Una formazione sociale non perisce finchè non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere." (ICP, I*, pag. 958)

"La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e delle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese." (LIT, pag. 13)

"Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicchè ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe quella dominante, e dunque sono le idee del suo dominio." (LIT, pp. 35-36)

"Al di sopra delle differenti forme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di differenti impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita... L'individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l'educazione, si può immaginare che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività." ( 18B, pp. 46-47)

"C’è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale? Cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono sempre state solatnto le idee della classe dominante." (MPC, pag. 88)

"Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi..." ( 18B, pag. 7)

Commento

Il materialismo storico-dialettico: ecco una formula che, pur non essendo sostanzialmente errata, ha prodotto più danni che vantaggi alla comprensione del pensiero di Marx. Adottata pedissequamente, come spesso accade, essa si traduce in uno schema elementare che identifica nella produzione materiale la base - l'infrastruttura - dello sviluppo sociale; nella storia il dispiegamento delle forze produttive all'insegna della lotta di classe, mascherata dalle ideologie - le sovrastrutture - che naturalizzano il diritto dei pochi di appropriarsi della ricchezza prodotta dai più; nello sviluppo delle forze produttive il fattore dinamico che, entrando in conflitto periodicamente con i rapporti di produzione, con i rapporti tra le classi, determina una rivoluzione della struttura sociale; e, infine, nella soppressione della proprietà privata, del dominio e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la fine della preistoria e l'avvento del comunismo. Non si stenta a capire perché questo schema abbia potuto esercitare, da più di un secolo, un fascino permanente sugli oppressi per un verso e su molti intellettuali per un altro, bisognosi gli uni di sperare in un riscatto, gli altri di possedere una chiave esplicativa della storia. Nei suoi assunti di base e nella sua articolazione, tale schema può essere estrapolato di fatto dall'opera di Marx. Non si tratta dunque di una falsificazione, bensì di una semplificazione che toglie al pensiero marxiano il suo vigore dialettico, e lo trasforma da metodo di analisi della realtà storica, orientato a decifrare le dinamiche che la sottendono per porre i presupposti di un controllo da parte dell'uomo su di esse, in un prontuario di verità date definitivamente.

Come metodo, il materialismo storico-dialettico presuppone che : 1) la storia umana abbia in sé e per sé - vale a dire nelle condizioni oggettive che l'hanno avviata (la comparsa evolutiva sul pianeta di una specie dotata di scarse capacità di adattamento istintivo, ma di potenzialità emozionali e cognitive del tutto particolari) - le sue ragioni di essere; 2) riconosca uno sviluppo riconducibile all'oggettivazione di quelle potenzialità in una incessante produzione culturale che trasforma il mondo umanizzandolo; 2) tale sviluppo, per la sua stessa ricchezza e complessità, determini la stratificazione sociale in classi e l'alienazione nelle sue diverse forme, cioè l'accettazione da parte delle coscienze delle apparenze storiche e sociali come forme definitive, non trascendibili di quello sviluppo; 3) la decifrazione di quelle apparenze in termini dinamici e strutturali, in riferimento dunque a processi reali invisibili, posto che si si dia una tensione conflittuale estrema tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, possa liberare le coscienze dall'alienazione, e, attraverso la lotta contro lo stato di cose esistente, contrassegnato dal predominio dell'interesse privato su quello collettivo, stabilire infine il potere di controllo dell'uomo sulle condizioni oggettive della sua esistenza: renderlo in breve consapevole di se stesso, del suo destino mondano e della sua universalità.

Alla luce di questi presupposti, il materialismo storico-dialettico si pone come applicazione alla realtà storica di un metodo scientifico, il cui senso teorico è la spiegazione delle apparenze in nome delle essenze, e cioè dei processi reali, invisibili alle coscienze, che determinano, danno forma all'organizzazione sociale e il cui fine pratico è l'appropriazione da parte dell'umanità del controllo su quei processi. E’ evidente che questo metodo, implicando un ritardo costante delle coscienze sul fluire dei processi storici nei quali sono immerse, postula uno sforzo continuo di interpretazione, tanto più intenso quanto più il fronte della storia è contemporaneo. In questo sforzo, Marx si è impegnato in rapporto alla realtà storica di cui era partecipe, delegando ai successori il compito di un analogo impegno in rapporto ad una realtà mutata. La traduzione del metodo storico-dialettico in uno schema interpretativo buono a tutti gli usi, giustamente contestata da Popper, non è pertanto l’essenza del marxismo, bensì una volgarizzazione nefasta.

La demistificazione della storia operata da Marx è andata incontro a critiche molteplici. I suoi difetti sono stati, infatti, individuati: nell'importanza assoluta assegnata alla produzione economica nell'organizzazione della società - l'economicismo -; nella riduzione di tutti gli altri prodotti culturali - diritto, filosofia, religione, scienza, arte, letteratura, ecc. - a ideologie atte a mascherare la realtà sociale, e cioè a ingannare le coscienze; nell'assunzione della storia come un processo deterministico destinato fatalmente ad esitare nel comunismo. Senza essere infondata, nessuna di queste critiche può essere convalidata come del tutto vera. Qui come altrove il problema è la complessità del pensiero marxiano, che implica più di quanto esplichi, e si offre agli equivoci.

E' indubbio che Marx assume la produzione materiale come base o fondamento dell'organizzazione sociale: individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente - scrive nella Introduzione ai "Grundrisse" - il punto di avvio. La citazione è un esempio tipico del procedere implicito del pensiero di Marx. E' quasi con fastidio che egli accantona la concezione astratta dell'individuo borghese come ente naturale e isolato, e fa riferimento al fatto inconfutabile che l'individuo, dal momento in cui la specie umana ha acquisito le caratteristiche sue proprie, è un ente sociale, un ente la cui stessa esistenza presuppone una comunità di appartenenza. Il punto di avvio della riflessione sulla storia è, dunque, una comunità impegnata a sussistere e a riprodursi biologicamente e culturalmente: impegnata, insomma, ad agire sul mondo esterno per adattarlo ai propri bisogni. Il presupposto della produzione è un insieme di "individui sociali", di enti legati tra di loro da un vincolo naturale, personale, capaci di riconoscersi come tali - dotati dunque di un qualche grado di consapevolezza del loro essere sociale -, di percepire i loro bisogni comuni - e quindi di comunicare - e di riconoscere la natura come potenzialmente atta a soddisfarli (il che implica un'attitudine cognitiva). Fondata dunque su rapporti personali, la società umana, anche nelle sue espressioni più elementari, è un fatto di cultura, caratterizzato da due prodotti fondamentali: il linguaggio e i valori di uso, i beni ricavati dalla trasformazione della natura attraverso il lavoro comune e condivisi - consumati - socialmente. A questo livello, la distinzione tra la base infrastrutturale - la produzione economica - e l'edificio sovrastrutturale - la visione del mondo dei membri della comunità - è praticamente inesistente: i rapporti sociali, parentali sono immediatamente rapporti di produzione. Assumere questo come punto di avvio della storia della specie umana non significa, per Marx, evocare nostalgicamente una mitica età dell'oro, caratterizzata da un equilibrio comunitario e ecologico. Si tratta infatti di un equilibrio per difetto: difetto di sviluppo delle forze produttive e, quindi, degli individui stessi i cui orizzonti si esauriscono ai confini del gruppo di appartenenza. Ma il riferimento alle primitive esperienze comunitarie è comunque importante, poiché vale a sancire la naturalezza del legame sociale, del sentimento di appartenenza e il porsi della società nel suo complesso come unità produttiva: lo sfondo, in breve, a partire dal quale è mosso uno sviluppo storico che Marx ricostruisce nelle sue linee essenziali come animato da una univoca tensione conflittuale.

Lo sviluppo delle forze produttive, dovute all’ingegno umano e alla scoperta progressiva di bisogni sempre nuovi, postula, in un momento critico della storia, la divisione sociale del lavoro, la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e, con questa, la formazione delle classi sociali. Ma è questo stesso sviluppo, incessante per quanto non uniforme, che periodicamente viene a confliggere con i rapporti di produzione, che definiscono le classi sociali e, alla lunga, li dissolve, poiché essi lo limitano. Nell’incoercibilità dello sviluppo delle forze produttive, che accrescono di continuo il patrimonio della ricchezza sociale, Marx legge il senso della storia umana. A che serve questa ricchezza - materiale e spirituale - se non ad alimentare il sogno di un’universale felicità? Perché essa lacera tutti i rapporti di dipendenza personali - siano essi tribali, statali o feudali -, che la limitano localmente, se non per stabilire un sistema universale di scambio che consenta agli uomini di condividerla e di fruirne? La lotta tra le classi, che si definisce di epoca in epoca sullo sfondo del conflitto strutturale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, è in realtà lotta tra chi vuol contenere la ricchezza sociale nei confini dei privilegi, che la pongono a disposizione di pochi, e chi ne coglie l’autentico significato di strumento di realizzazione dei bisogni sociali dell’umanità tutta.

I modi di produzione che Marx individua nel corso dello sviluppo storico hanno interesse solo perché forniscono le prove delle diverse configurazioni sociali in cui quella tensione si è espressa storicamente senza risolversi. Le critiche frequentemente rivolte a Marx di ridurre la complessità e l'eterogeneità dei fenomeni storici entro schemi generici non sono del tutto infondate, ma trascurano il fatto inoppugnabile che egli ha colto e valorizzato: il conflitto, appunto, tra lo sviluppo delle forze produttive, l'appropriazione della natura, l'accumulo di una sempre più rilevante ricchezza sociale, e la struttura dei rapporti sociali che, anzichè potenziarsi e dar luogo a un dispiegamento sempre più completo delle individualità sociali, vengono posti paradossalmente in tensione, e lacerati, nella loro naturalezza, dal configurarsi di rapporti di produzione che determinano il dominio degli uni e la subordinazione degli altri. La complessità della storia è un dato reale se essa viene ricostruita sulla base degli infiniti eventi in cui si è espressa, ma non lo è meno il fatto che, a partire da un livello produttivo caratterizzato da un qualche grado di eccedenza dei beni prodotti rispetto ai bisogni comunitari, una parte maggioritaria dell'umanità, che pure partecipa attivamente alla produzione, ne viene espropriata: da fine diventa mezzo. L'enigma di una produzione sociale da cui la società, in una componente sempre rilevante, viene espropriata rappresenta il problema costantemente presente nell’opera di Marx. Il quale però, preoccupato di promuovere una soluzione pratica del problema stesso piuttosto che di teorizzarlo, tende a focalizzare il discorso sulla divisione sociale del lavoro, vale a dire sulla formazione delle classi sociali che avvia il processo di espropriazione dei lavoratori manuali. Per quanto importante, questo aspetto ne implica altri che possono essere estrapolati dall’opera di Marx. Lo scarto tra società ideale – una società equa vagheggiata più volte nel corso dei secoli – e società reale, percepito in tutte le epoche storiche nonostante l’organizzazione in classi, postula, per essere spiegata, il riferimento ad almeno tre altri fattori. Il primo è riconducibile al fatto che l'uomo, in quanto prodotto casuale dell'evoluzione, non ha una consapevolezza immediata di sé, della propria natura e del suo destino mondano. Non l'ha né può averla, dato che solo l'oggettivazione delle sue potenzialità nell'attività trasformativa del mondo, lo rivela a se stesso. Nel corso di questo processo di autorivelazione, il cui fondamento è lo sviluppo delle forze produttive, non è sorprendente pertanto che si realizzi l’espropriazione, vale a dire il rpivilegiare, da parte della classe dominante, l’avere all’essere sociale. Il secondo fattore è ascrivibile al fatto che il mondo prodotto socialmente dall'uomo, il mondo umanizzato della ricchezza sociale, nel quale l’umanità può cogliere, come in uno specchio, la propria grandezza e la propria universalità, non è mai stato percepito come tale, si è posto sempre di fronte alle coscienze come una potenza estranea, trascendente. Prodotta dall'uomo, ma non controllata socialmente e consapevolmente, la storia determina l'uomo: lo costringe ad operare scelte che sembrano avere un carattere di necessità. E' la naturalizzazione del processo storico, dunque, che porta l'uomo a vivere le apparenze dell'organizzazione sociale e culturale come essenze, e ad agire di conseguenza. Il terzo fattore è da ricondurre alla diaspora delle etnie, che, dando luogo a culture estremamente differenziate, isola le comunità, allenta la necessità degli scambi di imparentamento, inibisce il riconoscimento dell'estraneo come simile. L’universalità del processo storico è attentata anzitutto dal carattere locale e limitato delle diverse culture. Ciò determina storicamente la riduzione dell'estraneo, in quanto cosa, a schiavo. Questa lunga esperienza di estraneazione dell'uomo dall'uomo appartenente ad un'altra etnia pone i presupposti dell'estraneazione all'interno dell'etnia stessa. Dovuta per un verso all'accettazione delle dure leggi della realtà come oggettive, l'insensibilità dei "padroni" pone in luce anche la rimozione del sentimento di appartenenza. Questo aspetto, che riesce più comprensibile in riferimento a organizzazioni sociali antiche, laddove il padrone non ha quasi rapporto con i subordinati, riesce più evidente e sorprendente nella società borghese, società urbana per eccellenza che pone a contatto gli individui appartenenti a classi sociali diverse.

I tre fattori che Marx pone a fondamento della ricostruzione delle fasi dello sviluppo storico sono dunque la separazione dell'uomo dalla sua natura, la separazione dell'uomo dai suoi prodotti e la separazione dell'uomo dall'uomo. Il primo fattore è - per così dire - di ordine metastorico: attiene l'evoluzione naturale che ha dotato l'uomo di un corredo di potenzialità di cui egli può prendere atto solo via via che esse si oggettivano e umanizzano il mondo. Ma è evidente che esso risulta determinante in rapporto agli altri due, che sono di ordine storico, e quindi esprimono di fatto una dura necessità naturale, esasperata dai limiti della coscienza umana. Limiti intrinseci e estrinseci: i primi riconducibili alla difficoltà di leggere, sotto il velo delle apparenze della fenomenologia sociale, la realtà essenziale dei processi produttivi; i secondi individuabili nella cattura operata dalle ideologie che naturalizzano i rapporti sociali da quelli determinati. Quest'ultimo aspetto è tra i più controversi e equivocati del pensiero di Marx. La teoria delle sovrastrutture ideologiche, che si edificherebbero sulla base della struttura economica per celarla e naturalizzarla, è di fatto esplicitata, ma non elaborata sistematicamente. Cionondimeno, il riduzionismo di cui spesso è stata imputata non sembra avere fondamento. Per definire la struttura globale della società, Marx fa ricorso ad una metafora la cui interpretazione non è di poco conto. Se la produzione è la base o il fondamento dell'edificio sociale, la funzionalità o agibilità dello stesso si identifica con gli spazi che stanno sopra le fondamenta, con gli spazi socio-culturali, laddove gli uomini vivono la loro vita cosciente e si rapportano gli uni agli altri. Il modo di produzione, importante in quanto definisce il grado di sviluppo delle forze produttive, e, di conseguenza, la ricchezza generale che una società riesce a produrre in virtù della divisione del lavoro, di determinati rapporti sociali, è, nel concreto processo del divenire storico, solo un aspetto di una totalità organismica - la formazione socio-economica - della quale esso rappresenta l'anatomia. L'analisi di una formazione socio-economica postula, dunque, uno studio attento delle articolazioni tra i diversi piani strutturali. La critica delle ideologie mistificanti, per effetto delle quali queste articolazioni risultano capovolte, tali dunque da sembrare il prodotto dei valori culturali propri di una società, non attesta di per sé la negazione, da parte di Marx, del bisogno ideologico, e cioè del bisogno di una visione del mondo coerente e articolata, ricca e diversificata. Essa implica però che tale visione si fondi sull'assunzione dell'uomo in quanto ente sociale come produttore e proprietario del mondo storico nel quale si oggettivano le sue forze naturali. Che tale appropriazione non possa prescindere dalla critica delle ideologie che subordinano l'uomo a valori culturali che lo trascendono, limitandolo nel suo sviluppo, nell'uso umano della ricchezza che egli ha prodotto, non significa che la società, per approdare ad una piena consapevolezza di sé, debba scheletrirsi quanto piuttosto spogliarsi di inutili orpelli.

Il rilievo assegnato alla produzione economica - che rappresenta il nodo differenziale tra il materialismo e qualsivoglia forma di idealismo - non deve inoltre fare ignorare che Marx assume la stessa come espressione propria e specifica di una società umana originaria, e cioè di un insieme che, per essere tale, deve disporre di un'organizzazione culturale, simbolica. Si può ammettere che la produzione degli utensili e quella, per esempio, del linguaggio o delle regole parentali avvengano in parallelo e in correlazione. Ma ciò non toglie che, come Marx dice espressamente, l'utensile, prima di essere oggettivato, deve essere rappresentato soggettivamente, ideato. La produzione materiale postula dunque una produzione "spirituale", e cioè l'attribuzione all'uomo di una soggettività espressiva dei suoi bisogni, ma in una qualche misura autonoma. In quale misura, si può ricavare da una lettura più attenta dell'opera di Marx. Laddove egli scrive che la produzione materiale rappresenta la base sul cui fondamento si edificano la visione del mondo propria di una determinata società, non si può trascurare che questo nesso è definito esplicitamente "in generale". Ciò significa che tale nesso non è univoco per quanto concerne i vari aspetti che integrano quella visione del mondo. E' evidente che Marx lo ritiene stretto, deterministico, per quanto concerne le produzioni ideologiche - quali la religione, il diritto, la scienza economica - deputate a giustificare e a naturalizzare un'ordine di cose esistente che subordina l'uomo ad una potenza che lo trascende - sia essa dio, il potere o le dure leggi dell'economia -. Ma, per quanto riguarda altre produzioni culturali - come la filosofia, la letteratura, l'arte, la scienza -, il nesso, nel pensiero di Marx, è sottile e articolato. Il modo di produzione rappresenta una matrice strutturale che segna i confini al di là dei quali la cultura non può dispiegarsi, ma entro i quali essa riconosce di sicuro un grado di autonomia. Così, per esempio, l'arte greca non può affrancarsi in alcun modo dal riferimento mitologico, che comporta la discendenza degli uomini dagli dei, e di conseguenza il carattere fatalistico della loro condizione umana e sociale - per esempio la differenza tra cittadini e schiavi -, ma, posto questo nesso vincolante, sarebbe assurdo per Marx ridurre il significato dell'arte greca, nella quale si esprime l'intuizione ancora velata a se stessa, della grandezza umana, ad una mistificazione ideologica. L'elemento mistificante - il dominio completo e capriccioso degli dei sui destini umani -, che implica una consapevolezza ancora solo embrionale dell'essere l'uomo produttore della storia, nulla toglie al valore autonomo dell'arte greca, che, spogliata di quella mistificazione, fa parte del patrimonio culturale dell'umanità, anticipa e concorre alla sua liberazione. La teoria delle sovrastrutture ideologiche è dunque deterministica solo laddove i nessi tra modo di produzione e cultura sono immediati, nel senso che la cultura serve a sancire la necessità e la non trascendibilità del modo di produzione. Per gli altri aspetti propri della visione del mondo di una determinata formazione economico-sociale, essi si pongono in maniera mediata, e postulano un'analisi sottile delle articolazioni tra gli stessi e la base economica. L'arte, la letteratura, la filosofia, la scienza trascendono sempre, per la loro stessa natura, il mondo delle apparenze, l'ordine di cose esistente: in esse si incarna, nel corso dello sviluppo storico, perennemente il sogno di "cosa" - l'appropriazione da parte dell'uomo della sua grandezza -, anche quando quel sogno rimane inerte in rapporto alla determinazione economica del mondo storico.


Cap. VII La rivoluzione borghese

Antologia

"La società borghese è l'organizzazione storica più sviluppata e differenziata della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti, la comprensione della sua struttura, permettono quindi in pari tempo di comprendere l'articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di società scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costituita, e di cui in parte in essa sopravvivono ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in essa era solo accennato ha assunto significati compiuti ecc. L'anatomia dell'uomo fornisce una chiave per l'anatomia della scimmia." (GRD, 1, pag. 30)

"Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia. La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione. L’esercizio dell’industria, feudale o corporativa, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre.. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allorsa il vapore e le machine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell’industria, i borghesi moderni. La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazone, alle comunicazioni per via terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e, nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo." (MPC, pp. 55-57)

"La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio privo di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, diretto e avido al posto dello sfruttamento mascherato di illusioni religiose e politiche." (MPC, pp. 57-58)

" La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali... Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento esterno contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti. Il bisogno di un smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi... All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, un’interdipendenza universale tra le nazioni. I prodotti intellettuali delle nazioni divengono bene comune...

Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale essa spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza." (MPC, pp. 59 - 61)

"Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero fatto tutte insieme le altre generazioni del passato..." ( MPC, pag. 62 )

" La dissoluzione di tutti i prodotti e di tutte le attività in valori di scambio presuppone sia la dissoluzione di tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella produzione, sia l'universale dipendenza reciproca dei produttori. Non solo la produzione di ogni singolo dipende dalla produzione di tutti gli altri, ma [anche] la trasformazione del suo prodotto in mezzi di sussistenza per lui stesso è venuta a dipendere dal consumo di tutti gli altri... Questa dipendenza reciproca si esprime nella costante necessità dello scambio e nel valore di scambio come mediatore universale. Gli economisti lo esprimono così: ognuno persegue il proprio interesse privato e soltanto il proprio interesse privato; ciò facendo involontariamente e inconsapevolmente serve gli interessi privati di tutti, gli interessi generali. Il punto saliente di questa affermazione non sta nel fatto che perseguendo ognuno il proprio interesse privato, si realizza la totalità degli interessi privati, e dunque l'interesse generale. Da questa frase astratta si potrebbe dedurre piuttosto che ognuno impedisce reciprocamente agli altri di far valere i propri interessi, e che da questo bellum omnium contra omnes risulta anzi una negazione generale. Il punto sta piuttosto nel fatto che l'interesse privato stesso è già un interesse socialmente determinato e può venir raggiunto solo all'interno delle condizioni poste dalla società e solo con i mezzi da essa forniti; esso è dunque legato alla riproduzione di queste condizioni e di questi mezzi. E' sì l'interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La dipendenza reciproca e universale degli individui indifferenti gli uni agli altri costituisce la loro connessione sociale. Questa connessione sociale è espressa nel valore di scambio, ed è soltanto in esso che per ogni individuo la propria attività o il proprio prodotto diviene infine un'attività e un prodotto per esso; l'individuo deve produrre un prodotto universale - il valore di scambio - o, se lo si considera per sé isolatamente e individualizzato, denaro. D'altro canto il potere che ogni individuo esercita sull'attività degli altri o sulle ricchezze sociali, esiste in esso in quanto possessore di valori di scambio, di denaro. esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale, così come la sua connessione con la società. L'attività, quale che sia la sua forma fenomenica individuale, e il rpodotto dell'attività, quale che sia la sua natura particolare, è il valore di scambio, ossia un'entità universale in cui ogni individualità, particolarità è negata e cancellata... Il carattere sociale dell'attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell'individuo alla produzione, qui appare come qualcosa di estraneo, di oggettivo di fronte agli individui; non come loro rapproto reciproco, bensì come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e che sorgono dallo scontro tra individui indifferenti gli uni agli altrui... Nel valore di scambio la relazione sociale tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose; la capacità personale in una capacità delle cose" (GRD, pag. 89)

"... i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme, come distinti dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la costituzione del 1793 può dire:

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Art.2 "Questi diritti ecc." (i diritti naturali e imprescindibili) "sono: l’eguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà"

In che consiste la libertà?..

La libertà è... il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito dalla legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezo di un cippo. Si tratta della linertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa...In che consiste il diritto dell’uomo alla proprietà privata?..

Il diritto dell’uomo alla proprietà privata è... il diritto di godere a proprio arbitrio ( à son gré), senza riguardo agli altri uomini, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell’egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell’altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà...

Restano ancora gli altri diritti dell’uomo, l’égalité e la sûreté. L’égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro che l’uguaglianza della liberté sopra descritta, e cioè: che ogni uomo viene ugualmente considerato come una siffatta monade che riposa su se stessa...

E la sûreté?..

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, secondo cui l’intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà... Col concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è piuttosto l’assicurazione del suo egoismo.

Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa dunque l’uomo egoista, l’uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità." (LQE, pp.28-31)

Commento

La concezione dialettica della storia pone il problema di spiegare la continuità e la discontinuità, l'inerzia e l'accelerazione, la necessità e la casualità: problema che assume il suo massimo rilievo laddove si danno cambiamenti radicali dell'organizzazione economica, sociale e mentale che, solo a posteriori, assumono un senso compiuto. Si tratta, da quel punto di vista, di spiegare il cambiamento qualitativo - per cui la nuova organizzazione appare nettamente differenziata da quella precedente -, e, nel contempo, di ricondurlo all'azione di agenti continui nell'organizzazione presistente che, ad un certo punto, postulano una ristrutturazione radicale della stessa: l'apparire di una nuova formazione economico-sociale. L'analisi che Marx dedica alla nascita della classe e della civiltà borghese rappresenta l' applicazione a una realtà storica determinata del metodo storico-dialettico. Analisi complessa poiché essa riguarda una realtà, che, maturata nel corso di alcuni secoli, comincia ad assumere una fisionomia distinta ed egemonica proprio all'epoca di Marx; ambiziosa, poiché, nell'arco di quarant'anni, si realizza in rapporto ad una contemporaneità brulicante di eventi, che vengono decifrati indiziariamente e strutturalmente; temeraria in quanto rivolta a definire le contraddizioni destinate ad esitare in un cambiamento radicale qualitativo epocale; sottile al punto da essere paradossalmente criticata da alcuni come troppo elogiativa, da altri come troppo denigratoria.

La rivoluzione borghese può essere letta idealisticamente o materialisticamente. La lettura idealistica valorizza al massimo grado i diritti inalienabili dell'uomo e del cittadino che essa ha sancito come universali, cogliendo negli stessi l'avvento nella storia di un'etica che, diventando legge, promuove il regno della libertà e della giustizia - la democrazia -, e, sconvolgendo tutte le tradizioni precedenti, pone la felicità terrena (non incompatibile con quella ultraterrena...) come fine ultimo dell'uomo. Dal punto di vista materialistico, i valori borghesi, sanciti dalla rivoluzione francese, rappresentano l’espressione dell’affermazione storica di una classe sociale che, assegnando ad essi un valore universale, ratifica il suo potere egemonico, presumendo che esso debba durare all’infinito. La rivoluzione borghese è la conseguenza del conflitto, giunto a maturazione, tra una classe oppressa - quella borghese, appunto, divenuta per forza di cose laboriosa, parsimoniosa, disciplinata - e un ordinamento sociopolitico che pretende di mantenerla subordinata al potere nobiliare ed ecclesiastico, per sfruttarla, e pone vincoli giuridici e fiscali al suo sviluppo, che impediscono la liberalizzazione dell'attività economica, e cioè l'assegnazione al mercato di una suprema funzione meritocratica. E' dunque l'ingabbiamento delle forze produttive sprigionate dalla borghesia entro i rapporti sociali di produzione contrassegnati dal privilegio nobiliare il fattore dinamico, storicamente concreto, della rivoluzione borghese. I valori ideali, sui quali essa fa leva, hanno un carattere di necessità, ponendosi in antitesi a quelli presistenti, che impongono un ordinamento gerarchico fondato sui privilegi di nascita. E' difficile minimizzare il peso storico di tali valori che riconoscono ad ogni uomo che viene al mondo il diritto al massimo sviluppo delle sue potenzialità individuali e il diritto al riconoscimento sociale dei suoi meriti. Ma, tra i diritti inalienabili dell'uomo, la civiltà borghese pone la proprietà privata. Ed è questo, secondo Marx, il nodo critico che consente di definire la rivoluzione borghese come incompiuta. La proprietà privata postula l'appropriazione individuale di una ricchezza che è prodotta socialmente, e, dunque, nel suo stesso porsi, contiene l'antitesi di un'espropriazione sociale. Nata dalla rivolta contro l'oppressione, la civiltà borghese contiene, nei suoi stessi valori ideali, la contraddizione per cui la libertà sancisce per alcuni il diritto all'esproprio e per altri la necessità di farsi espropriare. Essa pone, non formalmente ma sostanzialmente, vincoli al pieno sviluppo dell'individualità sociale, e cioè alla fruizione collettiva della ricchezza sociale: crea, in breve, sotto le apparenze di una libertà universale, una nuova forma di dipendenza materiale e di alienazione.

L'avvento della civiltà borghese, dunque, nell'ottica di Marx, rappresenta un momento del divenire storico, della storia totale, la cui apparente discontinuità con le epoche precedenti va spiegata, e il cui porsi come approdo finale di quel divenire, che non potrebbe procedere se non in continuità con esso, va criticato in nome delle contraddizioni che lo sottendono. Per quanto apparente, poiché promossa, a partire dal XVI secolo, dal continuo accrescersi del volume degli scambi mercantili, quella discontinuità pone in luce il significato rivoluzionario della civiltà borghese rispetto alle precedenti epoche storiche - significato che Marx sottolinea a più riprese. In cosa consiste tale discontinuità? Essenzialmente nella lacerazione dei rapporti sociali presistenti, caratterizzati da una produzione devoluta, in gran parte, alla soddisfazione dei bisogni della classe dominante, nobiliare, dunque al consumo. Liberata dalla subordinazione politica a questa classe parassitaria, che, attraverso il sistema fiscale, succhia il suo sangue, la borghesia può disporre pienamente delle sue capacità lavorative - disciplinate e razionalizzate da una pratica secolare - e esprimere uno stile di vita, storicamente del tutto nuovo, incentrato sul risparmio, sull'accumulo e sull'investimento produttivo del denaro. La rivoluzione borghese è dunque, anzitutto, sacralizzazione del lavoro e del risparmio che, anzichè sperperato nel lusso, va investito.

La continuità, inapparente, Marx la coglie nel fatto che la civiltà borghese libera l'uomo dalla dipendenza personale, definendo come diritto la proprietà su di sé e sulle proprie capacità lavorative, ma lo pone in una nuova condizione di schiavitù: schiavitù psicologica degli uni - i borghesi - dal denaro come strumento di potere sui mezzi di produzione e strumento di sopravvivenza in rapporto alla dura legge della competizione; schiavitù materiale per gli altri - i lavoratori -, la cui libertà, realizzandosi in conseguenza della separazione dai mezzi di produzione tradizionali, si riduce a disporre di una forza-lavoro che, per sussistere, va venduta come merce.

La rottura della civiltà borghese con le precedenti epoche storiche, nel corso delle quali il lavoro non è mai stato riconosciuto come espressione la più propria della natura umana, e la ricchezza non è mai stata considerata come un patrimonio sociale da amministrare parsimoniosamente, quindi da conservare e da accrescere, configura una rottura epocale.

L'avvento della borghesia configura una rivoluzione almeno per tre aspetti. Primo, poiché esso determina il superamento di un'organizzazione sociale fondata su rapporti di dipendenza personale; di un'organizzazione, dunque, necessariamente limitata, benché comunitaria, e relativamente isolata rispetto ad altre comunità, con le quali intrattiene rapporti di scambio modesti in conseguenza del suo modo di produzione, deputato in massima parte a soddisfare i bisogni dei membri che ad essa appartengono, alcuni dei quali - tra l'altro -, detentori del potere, consumano senza produrre. Tale organizzazione, nel corso dei secoli, non ha impedito l'accumulo di ricchezze materiali, ma con un tasso di sviluppo sostanzialmente molto basso. Il superamento di quella organizzazione, che coincide appunto con l'avvento contrastato della borghesia, è reso necessario dalla distribuzione sociale di quelle ricchezze: fondiarie, per un verso, mercantili, per un altro. La diversa dinamica produttiva delle ricchezze non è dovuta solo ai diversi ambiti e alle diverse modalità di impiego. Essa fa riferimento - ed è il secondo aspetto - ad un cambiamento di mentalità radicale concernente l'attività lavorativa. Disprezzato dai proprietari fondiari, dalla nobiltà terriera, che la ritiene incompatibile con uno status onorevole, umano in senso proprio, il lavoro diventa per i borghesi uno strumento specifico di affermazione sociale e, di conseguenza, una virtù attraverso la cui pratica l'uomo definisce il proprio valore. E' la rivalutazione del lavoro, la sua assunzione a modalità elettiva di espressione delle capacità umane, il suo connotarsi nuovamente come dovere individuale e sociale, dopo una lunga stagione - iniziata con l'avvento della storia - nel corso della quale esso ha univocamente definito una condizione servile, infraumana, il tratto più specifico della cultura e della mentalità borghese. Tale rivalutazione coincide storicamente, da parte della classe che la promuove e la pratica, con la rivendicazione di un riconoscimento e di un potere sociale, con l'esigenza di affrancamento dai vincoli feudali. E' imprescindibile, dunque, da una nuova definizione dell'individuo come dotato di diritti inalienabili: la libertà e l'eguaglianza. La sacralizzazione del lavoro è indubbiamente il dato della cultura borghese più congeniale a Marx, che individua in esso l'attività attraverso la quale l'uomo oggettiva le sue capacità e, trasformando la natura, si trasforma, rivelandosi a se stesso. Ed è per questo aspetto, inteso come valore in sé e per sé, che Marx non può esimersi dall'elogiare e dal rilevare la portata della rivoluzione borghese. L'ultimo aspetto, pure importante, è congiunturale, concernendo l'aumento della produttività dovuto all'industrializzazione. Ad esso concorrono, infatti, la laboriosità e - se si vuole - la razionalità borghese non meno della disponibilità di mezzi produttivi - l'energia e le macchine - dovuta ai progressi scientifici e alle applicazioni tecniche. Una somma di fattori, insomma, la cui necessità storica non è assoluta e che realizzano pertanto un effetto congiunturale. Ma si tratta di un effetto prodigioso, che sprigiona forze produttive incommensurabile rispetto al passato. Marx intuisce che quell'effetto è destinato a durare, a incrementarsi e a porre le condizioni di un affrancamento universale dal bisogno. Non solo nel senso di poter procurare agli uomini i mezzi di sostentamento in un modo infinitamente meno dispendioso rispetto al passato, ma soprattutto di poter economizzare il tempo, rendendolo in parte universalmente disponibile per la coltivazione dei ricchi bisogni che egli attribuisce alla natura umana. Ma è proprio questa intuizione a porre in luce i limiti della società borghese e del capitalismo.

Lo scioglimento dei vincoli feudali assegna, infatti, agli uomini pari diritti di libertà e di uguaglianza, ma questo riconoscimento avviene nel nome dell'individuo borghese, dell'individuo rivolto alla cura degli interessi privati e indifferente al legame di appartenenza sociale. Di un individuo, ancora, la cui produzione ha un valore di scambio in quanto egli ne ricava del denaro e null'altro che denaro; il cui bisogno ultimo prescinde dal referente sociale, che esiste e deve esistere solo in quanto possessore di un valore da scambiare. Di un individuo, infine, preoccupato unicamente del fatto che il suo potere di scambio si accresca in ogni modo. E il modo proprio e specifico, secondo Marx, attraverso cui si realizza la valorizzazione di quel potere è, di necessità, lo sfruttamento, l'appropriazione del lavoro operaio non pagato, del lavoro eccedente. L'interesse privato borghese non può prescindere dallo sfruttamento della forza-lavoro, del lavoro umano. Non importa che questa realtà coincida o meno con una volontà determinata e consapevole. Essa è resa necessaria dalla logica stessa del capitalismo, che, avviatosi, non può riconoscere altra legge che quella propria del suo sviluppo. Da quella logica discende lo scarto, che Marx coglie lucidamente, tra una rivoluzione produttiva che accresce di continuo la ricchezza sociale e la sua circolazione mondiale, aprendo sempre nuovi fronti di trasformazione della natura e producendo sempre nuovi bisogni, e la miseria propria della società borghese ottocentesca: miseria, anzitutto, della classe operaia sfruttata, costretta a vivere in un regime di sussistenza che impedisce di pensare ad altro che alla soddisfazione dei bisogni primari (condizione infraumana per Marx); miseria della stessa borghesia, drogata dalla univoca sete del guadagno e incapace di trascendere l'orizzonte ristretto degli interessi privati. Miseria universale, dunque, tale da rendere inutile e inutilizzabile la ricchezza sociale accumulata nel corso dello sviluppo storico. Miseria, infine, - e non è poco importante - che, per il diverso carico di sofferenza che impone, implica la distinzione tra vittime e colpevoli. Ma si tratta di una distinzione oggettiva, che i colpevoli sono vittime essi stessi di un meccanismo prodotto dalla storia, incoercibile nella sua spietata logica selettiva. Tant'è che tale meccanismo non può essere regolato, bensì solo sormontato dialetticamente. Non si tratta di portare a termine la rivoluzione borghese, di ridurre lo scarto tra società ideale e società reale. Ciò non è possibile, secondo Marx, in conseguenza del fatto che la società ideale di liberi e uguali, laddove libertà e uguaglianza definiscono i diritti inviolabili degli individui spinti alla competizione sociale dall'avidità di guadagno e dalla paura della precarietà, alimentata dalla logica della selezione, non risolverebbe il problema dell'indifferenza sociale: di un difetto di orizzonti mentali e morali che impedisce comunque all'individuo borghese di trascendere la sua particolarità e di attingere alla coscienza universale.

L'analisi di Marx della nascita della classe, della società e della cultura borghese è, per molti aspetti, un modello insuperabile di applicazione del metodo dialettico alla storia. Marx è convinto che tale metodo permette di cogliere il movimento reale delle dinamiche storiche, delle forze che, strutturandosi al di sotto della superficie delle apparenze, e, dunque, al di sotto dei livelli della coscienza sociale, si manifestano infine dando luogo ad un cambiamento qualitativo delle forme sociali, ad una nuova organizzazione socio-economica e culturale. Il fattore quantitativo di continuità tra epoca preborghese e epoca borghese, da questo punto di vista, sarebbe riconoscibile nella crescita, costante a partire dal XVI secolo, del volume degli scambi mercantili, che consentono un rilevante accumulo di denaro. Il fattore qualitativo, nella trasformazione del denaro in capitale: trasformazione che implica l'invenzione di nuove tecniche produttive - la manifattura e l'industria -, l'appropriazione e lo sfruttamento della forza-lavoro, la razionalizzazione della produzione in regime di concorrenza. A tale trasformazione andrebbe ricondotta infine l'entità della massa delle merci prodotte dall'economia borghese, infinitamente superiore a quella prodotta nelle precedenti epoche storiche. Sarebbe proprio tale ricchezza ad animare e a rendere concretamente realizzabile la speranza universale di un affrancamento dal bisogno materiale: presupposto indispensabile affinché l'uomo possa dedicarsi allo sviluppo onnilaterale della sua individualità, raggiungendo la pienezza del suo essere. Ma la civiltà borghese che, con la sua ingegnosità e incessante attività, ha creato le condizioni oggettive di un salto qualitativo dal regno della necessità a quello della libertà, non può realizzarlo essa stessa. A riguardo, Marx è lucido e implacabile. L'antropologia borghese, con il suo riferimento all'interesse privato, individuale, egoistico, esclude che l'uomo possa trascendere il limite della sua natura e assumere una coscienza universale. L'economia borghese, elevando il profitto, e dunque la sete illimitata di denaro, a scopo univoco dell'agire umano, subordina l'uomo e tutti i valori umani e sociali al capitale, incrementando di continuo l'alienazione della coscienza umana nel mondo degli oggetti e traducendosi psico-sociologicamente in una condizione di perenne e intollerabile precarietà. Ciò è aggravato e reso irrimediabile dal fatto che gli ingranaggi del capitalismo, una volta avviati, pongono fuori gioco la libertà decisionale e la volontà degli individui, che devono piegarsi alle sue leggi. Laddove queste leggi confliggono con i diritti ritenuti inalienabili dell’uomo, la libertà e l’eguaglianza vengono accantonate a favore della proprietà privata, la quale dunque viene a configurarsi storicamente come l’unico valore essenziale della civiltà borghese, destinato a finire con essa e a mutare forma via via che lo sviluppo delle forze produttive renderà incoercibile il bisogno di giustizia sociale. L’analisi del capitalismo è destinata, secondo Marx, a confermare il ruolo civilizzante della rivoluzione borghese e le contraddizioni ad essa intrinseche destinate a promuoverne il superamento.


Cap. VIII Valori e limiti del capitalismo

Antologia

1) La produzione in generale

"L'oggetto in questione è anzitutto la produzione materiale. Individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata degli individui, costituiscono naturalmente il punto di avvio...

Quando si parla di produzione si parla... sempre di produzione a un determinato livello dello sviluppo sociale - della produzione di individui sociali" (GRD, pp. 5-7).

"... tutte le epoche della produzione hanno taluni caratteri comuni, talune determinazioni comuni... Nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, anche se lo strumento fosse soltanto la mano. Nessuna è possibile senza lavoro passato, anche se tale lavoro fosse soltanto la destrezza che attraverso l'esercizio ripeturo si è accumulata e concentrata nella mano del selvaggio" (GRD, PP. 7-8).

"Il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale in generale. Quest'ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione storico-economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi di produzione e in conseguenza i rappresentanti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia la loro determinata forma economica sociale. Difatti, il complesso di questi rapporti in cui i rappresentanti di questa produzione stanno con la natura e fra di loro, in cui producono, costituisce precisamente la società, considerata nella sua struttura economica" (ICP, III, pp. 1100-1101).

"Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo all'interno e a mezzo di una determinata forma sociale. In questo senso è una tautologia affermare che la proprietà (l'appropriarsi) è una condizione della produzione. E' però ridicolo saltare di qui a una determinata forma di proprietà, ad esempio la proprietà privata. (Il che presuppone inoltre anche una forma opposta, la non-proprietà, come condizione). Nella storia la proprietà comune (ad esempio presso gli indiani, gli slavi, gli antichi celti, ecc.) appare piuttosto come la forma più originaria, una forma che come proprietà comunitaria svolge ancora per lungo tempo un ruolo importante" (GRD, pag. 10).

"In origine proprietà... significa rapporto del soggetto che lavora (che produce o si riproduce) con le condizioni della sua produzione o riproduzione come condizioni sue. Questo comportamento dell'individuo come proprietario - non come risultato, ma come presupposto del lavoro, cioè della produzione - presuppone un'esistenza determinata dell'individuo in quanto membro di una tribù o di una comunità (della quale egli stesso è fino ad un certo punto proprietà)" (GRD, pp. 475-476).

"Tutte le forme (più o meno originarie, ma tutte al tempo stesso anche risultati del processo storico) in cui la comunità pressuppone i soggetti in unità oggettiva determinata con le loro condizioni di produzione oppure una determinata esistenza soggettiva presuppone le comunità stesse come condizioni di produzione, corrispondono necessariamente a uno sviluppo limitato, e limitato in linea di principio, delle forze produttive. Lo sviluppo delle forze produttive le dissolve e la loro dissoluzione stessa è uno sviluppo delle forze produttive umane" (GRD, pp. 476-477).

2) Genesi del capitalismo

"Il rapporto del lavoro col capitale, ossia con le condizioni oggettive del lavoro come capitale, presuppone un processo storico che dissolve le diverse forme in cui il lavoratore è proprietario o il proprietario lavora. Dunque innanzitutto: 1) dissoluzione del rapporto con la terra - col suolo - quale condizione naturale di produzione... 2) dissoluzione dei rapporti in cui egli figura come proprietario dello strumento... 4) dissoluzione... anche dei rapporti in cui i lavoratori stessi, le capacità lavorative viventi stesse rientrano ancora immediatamente tra le condizioni oggettive della produzione e come tali vengono appropriate - in cui sono schiavi o servi della gleba... Ora questi sono da un lato presupposti storici necessari per trovare il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di oggetto, puramente soggettiva, che si trova di fronte alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà, proprietà altrui, valore per se stante, capitale" (GRD, pp. 477-478).

"Il processo di dissoluzione che trasforma una massa di individui di una nazione ecc., in salariati liberi - individui che soltanto la loro mancanza di proprietà costringe a lavorare e a vendere il lor lavoro -, presuppone non che le tradizionali fonti di reddito e, parzialmente, le condizioni di proprietà di questi individui siano scomparse, ma al contrario, che solo la loro utilizzazione sia divenuta un'altra, che il loro modo di esistenza sia mutato, sia passato come libero fondo in altre mani... Ma una cosa è chiara: il processo che ha separato un gran numero di individui dai loro tradizionali rapporti positivi - in un modo o nell' altro - con le condizioni oggettive del lavoro, che ha negato questi rapporti e in tal modo ha trasformato questi individui in lavoratori liberi, è lo stesso processo che ha liberato queste condizioni oggettive del lavoro - terra, materia prima, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro, denaro, o tutto questo - dal loro tradizionale legame con gli individui che ne sono poi stati distaccati. Esse esistono ancora, ma in una forma differente; come fondo libero in cui tutte le vecchie relazioni politiche ecc. sono cancellate e che ormai si contrappongono a quegli individui senza vincoli e senza proprietà soltanto sotto forma di valori, di valori a se stanti. Lo stesso processo che ha contrapposto alle condizioni oggettive di lavoro la massa sotto forma di lavoratori liberi, ha anche contrapposto ai lavoratori liberi tali condizioni sotto forma di capitale" (GRD, pp. 484).

"La formazione originaria del capitale non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive di lavoro distaccate dal suolo e già combinate col lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro. La sua formazione originaria avviene invece semplicemente per il fatto che il valore esistente sotto forma di patrimonio monetario viene messo in condizione, attraverso il processo storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, da un lato di comprare le condizioni oggettive del lavoro, dall'altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai divenuti liberi. Tutti questi momenti sono presenti; la loro separazione stessa è un processo storico, un processo di dissoluzione, ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale" (GRD, pp. 488-489).

"Denaro e merce non sono capitale fin dal principio, come non lo sono i mezzi di produzione e di sussistenza. Occorre che siano trasformati in capitale. Ma anche questa trasformazione può avvenire soltanto a certe condizioni che convergono in questo: debbono trovarsi di fronte e mettersi in contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una parte i proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali importa di valorizzare mediante l'acquisto di forza-lavoro altrui la somma di valori posseduta; dall'altra parte operai liberi, venditori della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro" (ICP, I, pp. 880-881).

"La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale..." (ICP, I, pag. 177)

3) Merce, valore, profitto

"La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua forma elementare...

La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo...

L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso... Il valore d'uso si realizza soltanto nell'uso, ossia nel consumo. I valori d'uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la forma sociale di questa. Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio. Il valore di scambio si presenta... come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso di un tipo sono scambiati con valori d'uso di altro tipo" (ICP, I, pp. 43-45).

"Il prodotto del lavoro è oggetto d'uso in tutti gli stati della società, ma soltanto un'epoca storicamente definita, dello svolgimento della società, quella che rappresenta il lavoro speso nella produzione d'una cosa d'uso come qualità "oggettiva" di questa, cioè come valore di essa, è l'epoca che trasforma in merce il prodotto del lavoro" (ICP, I, pag. 75).

"... un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato o materializzato, lavoro astrattamente umano. E come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità della "sostanza valorificante", cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro si misura con la sua durata temporale...

Quindi, è soltanto la quantità di lavoro socialmente necessario, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario per fornire un valore d’uso che determina la sua grandezza di valore" (ICP, I, pp.47-48).

"... il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza-lavoro umana. la forza-lavoro complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali. Ognuna di queste forze-lavoro individuali è una forza-lavoro identica alle altre in quanto possiede il carattere di una forza lavoro sociale media e in quanto opera come tale forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro socialmente necessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un qualsiasi valore d'uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità del lavoro" (ICP, pp. 47-48).

"La grandezza di valore di una merce rimarrebbe... costante se il tempo richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione e da situazioni naturali...

La grandezza di valore di una merce varia dunque direttamente col variare della quantità e inversamente col variare della forza produttiva del lavoro in essa realizzantesi" (ICP, pp. 49-50).

"In quanto valori tutte le merci sono qualitativamente uguali e differiscono solo sul piano quantitativo, si misurano quindi tutte reciprocamente e si sostituiscono (si scambiano, sono convertibili l'una con l'altra) in determinate proporzioni quantitative. Il valore è il loro rapporto sociale, la loro qualità economica...

In quanto valore la merce è in pari tempo l'equivalente di tutte le altre merci in un determinato rapporto. In quanto valore la merce è equivalente, in quanto equivalente, tutte le sue qualità naturali sono in essa cancellate; essa non sta più in alcun particolare rapporto qualitativo con le altre merci; essa è invece sia sia la misura generale, sia il rappresentante generale, il mezzo di scambio generale di tutte le altre merci. In quanto valore essa è denaro" (GRD, I, pp. 68-69).

"Il prodotto diviene merce, ossia semplice momento dello scambio. La merce viene trasformata in valore di scambio. Per equipararla a se stessa in quanto valore di scambio, essa viene scambiata con un segno che la rappresenta come valore di scambio in quanto tale. In questa forma di valore di scambio simbolizzato essa può poi nuovamente venir scambiata in determinati rapporti con ogni altra merce. Per il fatto che il prodotto diviene merce, e la merce diviene valore di scambio, il primo viene ad assumere una duplice esistenza nel cervello. Questo sdoppiamento ideale comporta (e deve comportare) che nello scambio reale la merce si presenta sotto un duplice aspetto, come prodotto naturale da un lato, come valore di scambio dall'altro. Ossia il suo valore di scambio assume un'esistenza materialmente separata da essa" (GRD, pp. 73-74).

" Di dove sorge ... il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. L'eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale dell' eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata temporale riceve la forma di grandezza di valore di prodotti del lavoro, ed infine i rapporti tra produttori, nei quali si attuano quelle determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma d'un rapporto sociale dei prodotti del lavoro.

L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l'immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori...

Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste tra gli uomini stessi...

Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci...

Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del loro proprio prodotto sociale, poiché la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio " (ICP, I, pp. 87 -90).

" Caratteristico del lavoro che crea valore di scambio è... che il rapporto sociale delle persone si rappresenta per così dire rovesciato, cioè come rapporto sociale delle cose. Soltanto in quanto un valore d'uso si riferisce all'altro quale valore di scambio, il lavoro di persone diverse è riferito l'uno all'altro come a lavoro uguale e generale. Quindi, se è esatto dire che il valore di scambio è un rapporto tra persone, bisogna tuttavia aggiungere: un rapporto celato sotto il velo delle cose... E' soltanto l'abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicchè il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco tra cose e tra cose e persone. Nella merce questa mistificazione è ancora molto semplice... Nei rapporti di produzione di più alto livello questa parvenza di semplicità si dilegua" (ICP, I, pag. 969-970).

"Il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità dei processi di produzione e di circolazione" (ICP, III, pag. 55)

"La forma immediata della circolazione delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione in merce di denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo movimento descrive quest'ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione...

(...) il processo D-M-D non deve il suo contenuto a nessuna distinzione qualitativa dei suoi estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve solamente alla loro differenza quantitativa. In fin dei conti, vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato al momento iniziale...

La forma completa di questo processo è quindi D-M-D', dove D' (...) è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore (surplus value) questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma altera anche la propria grandezza di valore, mette su un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale" (ICP, I, pp. 177 -182).

"... il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e... quindi nella sua formazione non può non accadere alle spalle della circolazione qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa. Ma il plusvalore può scaturire da qualcos'altro che dalla circolazione?..

... il cambiamento deve verificarsi nella merce che viene comprata nel primo atto, D-M, ma non nel valore di essa, poiché vengono scambiati equivalenti, cioè la merce viene pagata al suo valore. Il cambiamento può derivare dunque soltanto dal valore d'uso della merce come tale, cioè dal suo consumo. Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe essere tanto fortunato da scoprire all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il consumo reale fosse, esso stesso,, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, cioè la forza-lavoro" ( ICP, I, pp.199 -201).

"... il processo lavorativo continua e dura oltre il punto nel quale sarebbe riprodotto e aggiunto all'oggetto del lavoro solo un puro e semplice equivalente del valore della forza-lavoro... dunque, con la messa in atto della forza-lavoro, non viene riprodotto solo il suo proprio valore, ma viene anche prodotto un valore eccedente. Questo plusvalore costituisce l'eccedenza del valore del prodotto sul valore dei fattori del prodotto consumati, cioè dei mezzi di produzione e della forza-lavoro" (ICP, I, pag. 252).

"L'eccedenza del valore complessivo del prodotto sulla somma dei valori dei suoi elementi costitutivi è l'eccedenza del capitale valorizzato sul valore del capitale inizialmente anticipato. I mezzi di produzione da una parte, la forza-lavoro dall'altra, sono solo le differenti forme di esistenza assunte dal valore iniziale del capitale quando s'è svestito della sua forma di denaro e s'è trasformato nei fattori del processo lavorativo. Dunque la parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima, materiali ausiliari e mezzi di lavoro, non cambia la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Quindi la chiamo parte costante del capitale, o, in breve, capitale costante. Invece la parte del capitale convertita in forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione. Riproduce il proprio equivalente e inoltre produce un'eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più piccolo. Questa parte del capitale si trasforma continuamente da grandezza costante in grandezza variabile. Quindi la chiamo parte variabile del capitale o, in breve: capitale variabile.

Le medesime parti costitutive del capitale che dal punto di vista del processo lavorativo si distinguono come fattori oggettivi e fattori soggettivi, mezzi di produzione e forza-lavoro, dal punto di vista del processo di valorizzazione si distinguono come capitale costante e capitale variabile" (ICP, I, pp. 252-253).

"Il capitale complessivo C si divide nel capitale costante c e nel capitale variabile v e produce un plusvalore pv. Il rapporto di questo plusvalore rispetto al capitale variabile anticipato, ossia pv/v, è da noi denominato saggio del plusvalore e indicato con pv'... Se tale plusvalore viene riferito, anzichè al capitale variabile, al capitale complessivo, esso assume la definizione di profitto (p) e il rapporto tra il plusvalore pv e il capitale complessivo C, ossia pv/C, si chiama saggio del profitto p'" (ICP, III, pp. 83-84)

" Una somma di valore è capitale in quanto viene anticipata per produrre un profitto...

Il profitto... è dunque la stessa cosa che il plusvalore, soltanto in una forma mistificata che peraltro sorge necessariamente nel modo capitalistico di produzione" (ICP, III, pp. 66-67).

"Il capitale non può fare a meno di metter sotto sopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione, per aumentare la forza produttiva del lavoro, per diminuire il valore della forza-lavoro mediante l'aumento della forza produttiva del lavoro, e per abbreviare così la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore. Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall'accorciamento del tempo di lavoro necessario...

... il plusvalore relativo sta in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro... E’ quindi istinto immanente e tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce" (ICP, I, pag. 385-390).

4) Denaro

"Il prodotto diventa merce; la merce diventa valore di scambio; il valore di scambio della merce è la sua qualità immanente di denaro; questa sua qualità di denaro si distacca da essa in quanto denaro, acquista un'esistenza sociale universale, separata da tutte le merci particolari e dal lor modo di esistenza naturale; il rapporto del prodotto con se stesso in quanto valore di scambio diventa il suo rapporto con un un denaro che esiste accanto ad esso, o il rapporto di tutti i prodotti con il denaro esistente fuori da essi tutti" (GRD, I, pag. 76).

"Tutte le merci sono denaro caduco; il denaro è la merce imperitura... Nel denaro, il valore delle cose è separato dalla loro sostanza" (GRD, I, pag. 79).

"La cristallizzazione "in forma di denaro" è un prodotto necessario del processo di scambio, nel quale prodotti di tipo differente vengono di fatto equiparati e quindi trasformati di fatto in merci. L'estensione e l'approfondmento storico dello scambio dispiega l'opposizione latente nella natura della merce tra valore d'uso e valore. Il bisogno di dare, per gli scopi del commercio, una presentazione esterna di tale opposizione, spinge verso una forma indipendente del valore delle merci; e non s'acquieta e non posa fino a che tale forma non è definitivamente raggiunta mediante il raddoppiamento della merce in merce e denaro. Quindi, la trasformazione della merce in denaro si compie nella stessa misura della trasformazione dei prodotti del lavoro in merci" (ICP, pag. 106).

"Le proprietà del denaro 1) come misura dello scambio di merci; 2) come mezzo di scambio; 3) come rappresentante delle merci ( e di conseguenza come oggetto dei contratti); 4) come merce universale accanto alle merci particolari - discendono tutte semplicemente dalla sua determinazione di valore di scambio separato dalle merci stesse e oggettivato" (GRD, I, pag. 75).

"Tutte le determinazioni in cui si presenta il denaro come misura del valore, mezzo di circolazione e denaro in quanto tale, non fanno che esprimere i diversi rapporti in cui gli individui partecipano alla produzione totale o si riferiscono alla loro propria produzione come a una produzione sociale. Ma questi rapporti tra gli individui appaiono come rapporti sociali tra cose" (GRD, pag. 1077).

"...l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio" (ICP, I, pag. 113).

"Il denaro è il dio delle merci" (GRD, I, pag. 160).

"Il valore di scambio posto nella determinatezza del denaro è il prezzo. Nel prezzo il valore di scambio è espresso come una determinata quantità di denaro. Ma poiché il denaro ha un'esistenza autonoma al di fuori delle merci, il prezzo della merce appare come relazione esterna dei valori di scambio o merci con il denaro". (GRD, pp. 125-126)

5) La riproduzione capitalistica

"Il capitalista, trasformando denaro in merci che servono per costituire il materiale di un nuovo prodotto, ossia servono come fattori del processo lavorativo, incorporando forza-lavoro vivente alla loro morta oggettività, trasforma valore, lavoro trapassato, oggettivato, morto, in capitale, in valore autorealizzantesi; mostro animato che comincia a "lavorare" come se avesse amore in corpo" (ICP, I, pag. 236).

"Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale... lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale investito in un'impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne" (ICP, I, pp. 711 sgg.).

"In un determinato periodo di tempo... il capitale produce un determinato plusvalore, determinato non soltanto dal plusvalore che esso crea in un singolo processo di produzione, ma anche dal numero delle ripetizioni del processo di produzione, o delle sue riproduzioni in un determinato periodo di tempo. In seguito all'assunzione della circolazione - del suo movimento esterno al processo di produzione immediato - nel suo processo di riproduzione, il plusvalore non si presenta più posto dal suo rapporto semplice, immediato con il lavoro vivo; tale rapporto si presenta anzi soltanto come un momento del suo movimento complessivo" (GRD, pp. 763-764).

"... le stesse circostanze che producono la condizione fondamentale della produzione capitalistica - l'esistenza di una classe di operai salariati - sollecitano il trapasso di tutta la produzione di merci in produzione capitalistica di merci. Nella misura in cui questa si sviluppa, essa opera disgregando e dissolvendo ogni altra più antica forma della produzione... Della vendita del prodotto essa fa l'interesse principale, dapprima senza apparentemente attaccare il modo stesso della produzione... Ma in un secondo tempo, là dove essa ha affondato le sue radici, distrugge tutte le forme di produzione di merci fondate o sul lavoro personale del produttore o soltanto sulla vendita del prodotto eccedente come merce. All'inizio essa generalizza la produzione di merci e poi trasforma gradualmente tutta la produzione di merci in produzione capitalistica" (ICP, II, pp.40-41).

"L’accumulazione o produzione su scala allargata, che appare come mezzo per una produzione sempre più estesa di plus-valore, cioè per l’arricchimento del capitalista come scopo personale di questo, ed è compresa nella tendenza generale della produzione capitalistica, diviene però in seguito mediante il suo sviluppo...una necessità per ogni capitalista individuale. Il costante ingrandimento del capitale diviene condizione per la conservazione del capitale stesso" (ICP, II, pag. 89).

"La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il consumo, l'offerta fa violenza alla domanda. Nella società attuale, con l'industria basata sugli scambi individuali, l'anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso" (MDF, pag. 35).

"...il capitale, in quanto rappresenta la forma universale della ricchezza - il denaro - è l'impulso illimitato e smisurato ad oltrepassare il suo limite. Ogni limite per esso è e deve essere un ostacolo. Altrimenti esso cesserebbe di essere capitale, ossia denaro che produce se stesso" (GRD, I, pag. 289).

 

6) La mondializzazone del mercato

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"Il denaro... può essere trasformato in capitale sulla base della produzione capitalistica, e attraverso questa trasformazione diventa, da valore dato, un valore che valorizza, che aumenta se stesso. Esso produce profitto... Con ciò esso acquista, oltre al valore d’uso ch’esso possiede come denaro, un valore d’uso addizionale, cioè quello di operare come capitale. In questa qualità di capitale potenziale, di mezzo per la produzione del profitto, esso diventa merce" (ICP, III, pp. 469-470).

"E’ nel capitale produttivo di interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore e assume l’aspetto di un feticcio. Noi abbiamo qui D-D’, denaro che produce più denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da intermediario tra i due estremi... Nel capitale produttivo di interesse questo feticcio automatico, valore genera valore, denaro che produce denaro, senza che in questa forma sussista più nessuna traccia della sua origine, è quindi nettamente messo in rilievo... Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine. In D-D’ noi abbiamo la forma empirica del capitale, il rovesciamento e l’oggettivazione del rapporto di produzione alla più alta potenza: forma produttiva di interesse, la forma semplice del capitale in cui esso è presupposto al suo proprio processo di riproduzione; capacità del denaro, ossia della merce, di valorizzare il proprio valore indipendentemente dalla riproduzione, la mistificazione del capitale nella sua forma più stridente" (ICP, III, pp. 539-541).

"Il sistema creditizio che ha come centro le pretese banche nazionali e i potenti prestatori di denaro, e gli usurai che pullulano attorno ad essi, rappresenta un accentramento enorme e assicura a questa classe di parassiti una forza favolosa, tale non solo da decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche da intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva - e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa" (ICP, III, pag. 748).

"Lo sviluppo del sistema creditizio si compie come reazione contro l’usura. Ma ciò non deve essere frainteso... Significa né più né meno che la subordinazione del capitale produttivo di interesse alle condizioni e alle esigenze del modo di produzione capitalistico... Ciò che distingue il capitale produttivo d’interesse, in quanto elemento essenziale del modo di produzione capitalistico, dal capitale usuraio, non è affatto la natura o il carattere di questo capitale stesso. Sono soltanto le mutate condizioni nelle quali esso opera... Con il sistema bancario la ripartizione del capitale è sottratta alle mani dei privati e degli usurai, come un’attività particolare, come una funzione sociale. Ma la banca e il credito in pari tempo divengono così il mezzo più potente per spingere la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti, e uno dei veicoli più efficaci delle crisi e delle speculazioni" (ICP, III, pp. 819-828).

"Abbiamo già dimostrato a proposito delle più semplici categorie del modo di produzione capitalistico, e anche della produzione mercantile, la merce e il denaro, il carattere mistificante che trasforma i rapporti sociali, ai quali gli elementi materiali della ricchezza servono da depositari nella produzione, in proprietà di queste cose stesse (merce) e ancora in modo più accentuato il rapporto di produzione stesso in una cosa (denaro). Questo travisamento è comune a tutte le forme di società, in quanto giungono alla produzione mercantile e alla circolazione monetaria. Ma nel modo di produzione capitalistico e nel caso del capitale, che è la sua categoria dominante, questo mondo stregato e capovolto si sviluppa ancora molto di più...

In capitale-profitto, o ancora meglio in capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, in questa trinità economica collegante le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti, la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di monsieur le Capital e Madame la terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose." (ICP, III, pp. 1111-1115)

"L'esplorazione della terra in tutte le direzioni per scoprire sia nuovi oggetti utili, sia nuove proprietà utili dei vecchi; come pure nuove proprietà che essi hanno come materie prime ecc.; lo sviluppo delle scienze naturali al suo punto più alto; come pure la scoperta, la creazione e il soddisfacimento di nuovi bisogni generati dalla società stessa; la formazione di tutte le qualità dell'uomo sociale e la produzione di esso come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni - la sua produzione come prodotto sociale possibilmente totale e universale (giacchè per avere un'ampia gamma di godimenti dev'esserne capace, ossia colto in alto grado) - tutto ciò è condizione della produzione fondata sul capitale...

Se da un lato la produzione fondata sul capitale crea l'industria universale - ossia lavoro eccedente, lavoro che crea valore -, dall'altro crea un sistema di sfruttamento generale delle qualità naturali e umane, un sistema dell'utilità generale che appare portato dalla scienza stessa come da tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso appare al di fuori di questo circolo della produzione e dello scambio sociali. Soltanto il capitale crea dunque la società borghese e l'appropriazione universale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società. Di qui la grande influenza civilizzatrice del capitale; la sua produzione di un livello sociale rispetto al quale tutti i livelli precedenti appaiono soltanto come sviluppi locali dell'umanità e come idolatria della natura. [Soltanto col capitale] la natura diviene puro oggetto per l'uomo, puro oggetto dell'utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un'astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo che come mezzo di produzione. In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l'idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la riproduzione di un vecchio modo di vivere. nei confronti di tutto questo esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l'espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito" (GRD, I, pp. 376-377).

" Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo lavoro eccedente, che è lavoro superfluo dal punto di vista del puro e semplice valore d'uso, della pura e semplice sussistenza. E la sua funzione storica è compiuta non appena da un lato i bisogni sono sviluppati a tal punto che il lavoro eccedente, al di là del necessario, è divenuto esso stesso un bisogno universale, il frutto cioè dei bisogni individuali stessi, - dall'altro la laboriosità generale, mediante la rigida disciplina del capitale attraverso cui sono passate le successive generazioni, si è sviluppata fino a diventare un bene comune della nuova generazione. Infine la sua funzione storica è compiuta quando lo sviluppo delle forze produttive del lavoro - che il capitale, nella sua illimitata brama di arricchimento e nelle condizioni in cui esso solo può realizzarlo - è giunto a un punto tale che da un lato il possesso e la conservazione della ricchezza generale richiedono un tempo di lavoro inferiore per l'intera società, e dall'altro la società lavoratrice assume un atteggiamento scientifico verso il processo della sua progressiva e sempre più ricca riproduzione; e quindi ha cessato di esistere il lavoro che l'uomo in essa svolge mentre può farlo svolgere dalle cose in vece sua... In quanto aspirazione incessante alla forma generale della ricchezza, il capitale spinge però il lavoro oltre i limiti del suo bisogno naturale, e in tal modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di un'individualità ricca che è universale nella produzione quanto lo è nel consumo, di un'individualità il cui lavoro perciò non si presenta nemmeno più come lavoro, ma come pieno dispiegarsi dell'attività stessa, di un'attività nella quale la necessità naturale nella sua forma immediata è scomparsa: al bisogno naturale è infatti subentrato un bisogno generato storicamente" (GRD, I, pag. 278).

5) La teoria della crisi

"... il capitale costringe gli operai a spingersi oltre il lavoro necessario, li costringe al lavoro eccedente. Solo così esso si valorizza e crea valore eccedente. Ma d'altro canto esso pone il lavoro necessario solo nella misura in cui e in quanto è lavoro eccedente e questo è realizzabile come valore eccedente. Esso pone quindi il lavoro eccedente come condizione del lavoro necessario e il valore eccedente come limite del lavoro materializzato, del valore in generale. Appena non è in grado di porre quest'ultimo, esso non pone il primo... Il capitale limita quindi... il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la medesima ragione per cui e in quanto esso crea lavoro eccedente e valore eccedente. Esso pone quindi, per sua natura, un limite al lavoro e alla creazione di valore, un limite che è in contraddizione con la sua tendenza a dilatarli all'infinito. E in quanto pone un suo specifico limite e in pari tempo tende a superare ogni limite, esso è la contraddizione vivente" (GRD, pag. 590).

"Dato che la massa di lavoro vivo impiegata diminuisce costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati produttivamente) anche la parte di questo lavoro vivo che non è pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà essere costantemente decrescente rispetto al valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa costituisce però il saggio del profitto che dovrà per conseguenza diminuire costantemente" (ICP, III, pp. 301-302).

"La progressiva tendenza alla diminuzione generale del saggio generale del profitto è.. solo un'espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo della produttività sociale del lavoro. Ciò non vuol dire che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altre ragioni, ma significa che, in conseguenza della natura stessa della produzione capitalistica, e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto" (ICP, III, pag. 301).

"Caduta del saggio del profitto ed acceleramento della accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L'accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su ampia scala e di conseguenza una composizione superiore del capitale. D'altro lato la diminuzione del saggio del profitto accelera, a sua volta, la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione... D'altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, è lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne rappresenta l'unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione; favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente ad un eccesso di popolazione" (ICP, III, pp.339-340).

"Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l'autovalorizzazione del valore-capitale... si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l'accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive del lavoro. Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono" (ICP, III, pag. 352).

"I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia un'epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi sono divenuti troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per contenere la ricchezza da essi prodotta.

Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse" (MPC, pp. 63-65).

7) Capitale e capitalista

"Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi" (ICP, I, pp. 6-7).

"Solo in quanto è capitale personificato, il capitalista ha valore storico... E solo in quanto egli è capitale personificato, la sua propria necessità transitoria è insita nella necessità transitoria del modo di produzione capitalistico; ma i motivi che lo spingono non sono il valore d'uso o il godimento, bensì il valore di scambio e la moltiplicazione di quest'ultimo. Come fanatico della valorizzazione del valore egli costringe senza scrupoli l'umanità alla produzione per la produzione, spingendola quindi ad uno sviluppo delle forze produttive sociali e alla creazione di condizioni materiali di produzione che sole possono costituire la base reale di una forma superiore di società, il cui principio fondamentale sia lo sviluppo libero e pieno di ogni individuo. Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del capitale; in tale qualità condivide con il tesaurizzatore l'istinto assoluto dell'arricchimento. Ma ciò che in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista è effetto del meccanismo sociale, all'interno del quale egli non è altro che una ruota dell'ingranaggio " (ICP, I, pag. 727).

Commento

L’opposizione tra il Marx giovanile, sostanzialmente filosofo, e il Marx maturo, economista scientifico, avallata paradossalmente dall’ortodossia marxista e dagli economisti borghesi, si fonda su di una lettura dei testi singolare, che astrae i concetti dalla forma in cui sono esposti e, di conseguenza, trascura i presupposti filosofici del pensiero marxiano: quelli sui quali Marx non ritorna, poiché li ha già esplicitati. Anche tenendo conto di questo fraintendimento, non è poco sorprendente che si sia voluto trasformare Marx in un economista puro.

Le sue opere economiche hanno come intento univoco la critica dell’economia politica borghese. E’ vero che, per demistificare l’ideologia capitalistica, Marx ha studiato a fondo la materia, dotandosi, nel corso degli anni, di competenze specialistiche eccezionalmente vaste; come pure che la sua analisi critica, ponendo in luce le contraddizioni e le lacune concettuali di quell'ideologia, finisce con il rinnovare l'impianto concettuale dell'economia e con il proporre una serie di problemi teorici (dal valore alle crisi cicliche) che si possono ritenere ancora oggi nodali e non risolti dall'economia borghese. Cionondimeno, la sua analisi del sistema capitalistico si svolge sempre sullo sfondo di una concezione dell’uomo e della storia - materialistica e dialettica - che orienta l’analisi stessa e dà senso al suo procedere e alle conclusioni cui egli perviene. Se si ignora che l’attività trasformativa del mondo attraverso il lavoro è l’espressione più specifica della natura umana; che essa non può realizzarsi se non per effetto della cooperazione sociale; che la ricchezza di valori d’uso prodotta nel corso dello sviluppo storico è e non può essere che, alla pari del linguaggio, un patrimonio sociale, comune; e che, infine, l’umanità, vissuta sempre in una condizione alienata, deve giungere a riconoscere se stessa, la sua vocazione sociale e universale in quella ricchezza, appropriarsene e fruirne pienamente, l’impresa di Marx diventa insignificante. E’ la necessità di trascendere il capitalismo, non solo come sistema economico bensì come espressione estrema, trasparente e drammatica, di un processo di alienazione che segna tutto lo sviluppo storico, la motivazione che spinge Marx a impegnarsi su di un terreno - quello appunto dell’economia - estraneo ai suoi interessi originari. Se egli vi si impegna totalmente, fino al punto di adottare nel corso degli anni uno stile che può apparire aridamente specialistico, è perché scopre che l’alienazione capitalistica, via via che procede, assume forme mistificate la cui complessità è tale che la coscienza umana ha sempre meno possibilità di leggere in esse i processi reali che le sottendono, e di decifrare il mistero per cui l’uomo più produce ricchezza, più diventa il trastullo di una potenza estranea - il denaro - che lo domina. La matrice filosofica implicita nella critica dell’economia borghese è restituita indiziariamente dal linguaggio che Marx adotta: un linguaggio metaforico che nessun economista puro ha mai osato utilizzare. La merce, il denaro, il capitale sono feticci. La realtà appare all’uomo come dominata fantasmagoricamente da cose dotate di vita autonoma, che si rapportano le une alle altre e lo coerciscono. L’estensione mondiale del capitalismo, che giunge all’acme di attribuire al denaro, nella forma del capitale produttivo d’interesse, la capacità di generare se stesso, esercita sulle coscienze un potere stregante: le affascina, le confonde e le corrompe. Il mondo si deforma, si capovolge, quello che è reale appare irreale e viceversa. Il linguaggio di Marx è inequivocabilmente filosofico, e la sua analisi, rivolta a demistificare l’ideologia capitalistica, è un contributo prezioso ad una sociologia critica che, a posteriori, appare nel contempo strutturalista e dinamica. Dando a quel linguaggio un significato realistico, assumendolo cioè come un giudizio di valore sul sistema capitalistico, l’ortodossia marxista è pervenuta alla demonizzazione moralistica del sistema stesso. Se si coglie in esso, viceversa, il riferimento allo scarto tra il modo in cui la realtà storica appare e le ragioni per cui essa è come è, riesce evidente che la critica di Marx, rivolta a rendere visibili i processi reali invisibili che sottendono il sistema borghese, concerne essenzialmente il rapporto tra coscienza sociale e realtà storica. Non risulta in alcun modo che Marx si sia mai reso conto che il potere stregante del capitalismo implica, oltre che un’incoercibile capacità illusionale fondata sul miraggio della felicità individuale, una debolezza intrinseca alla coscienza umana: quella per cui essa non è immediatamente in grado di cogliere nel mondo umanizzato dalla produzione, nella ricchezza sociale generata dalla cooperazione collettiva, il suo prodotto, e l’espressione della sua vocazione all’universalità e alla felicità. Questo aspetto è centrale per capire l’affanno con cui Marx procede nella sua impresa demistificante, e perché questa impresa oscilla, sino alla fine, tra l’attribuire alla realtà storica un movimento dialettico destinato inesorabilmente ad esitare in un cambiamento epocale - la riappropriazione da parte dell’uomo del suo prodotto, della sua ricchezza -, e la necessità che i produttori agiscano consapevolmente e lottino aspramente per accelerare le doglie del parto. Questa contraddizione, mai risolta, è alla base della conclusione sostanzialmente errata alla quale Marx perviene attraverso la critica dell’economia capitalistica.

L’errore consiste nel ritenere fatale, in quanto dovuto a contraddizioni intrinseche irrimediabili, il crollo e il superamento del sistema capitalistico. Tali contraddizioni, cui Marx ha dedicato una costante attenzione, sono riconducibili all’intuizione, espressa per la prima volta nel Manifesto del Partito comunista, secondo la quale lo sviluppo delle forze produttive, reso vorticoso dal modo di produzione capitalistico, sarebbe alla lunga risultato incompatibile con i rapporti sociali di produzione, vale a dire con la proprietà privata dei mezzi di produzione. Su ciò si fonderebbe la necessità di un cambiamento qualitativo dei rapporti di produzione, e cioè della riappropriazione da parte dei produttori del loro prodotto, l’alternativa configurandosi nei termini di una crisi spiralizzata del sistema economico. In questa previsione deterministica, emerge al massimo grado la fiducia illimitata che Marx nutre, per un verso, nei confronti della dialettica storica e, per un altro, nei confronti della coscienza umana, laddove essa, oppressa dallo stato di cose esistente nel mondo, giunga a interpretarlo come un prodotto della storia sociale umana che, in quanto ingiusto, può e deve essere cambiato. Fornendo alla classe operaia l'arma della critica che le difetta, consentendole di prendere atto che il mondo, in tutti i suoi aspetti, è il prodotto di uno sviluppo storico orientato verso l'appropriazione da parte degli uomini delle condizioni oggettive della loro vita, e quindi del loro destino, Marx è certo che la dinamica della storia, con lo sviluppo di forze produttive sociali incontenibili nei rapporti borghesi di produzione, e l'aspirazione insopprimibile delle coscienze alla giustizia convergeranno, inducendo una rivoluzione epocale. Egli non tiene conto che la dialettica della storia, per essere colta nella sua totalità, che dà senso al presente, richiede un orizzonte culturale vasto quanto quello che egli ha costruito nel corso di una vita, e che le coscienze dei diseredati sono immerse in una realtà in cui colgono immediatamente solo le apparenze della loro infelicità: la scarsità (assoluta o relativa) di risorse economiche. Ciò spiega il fatto che la sua analisi dell'economia borghese è tutta rivolta a demistificare le categorie in conseguenza delle quali essa si pone come espressione di leggi oggettive, naturali della produzione. E, dato che quelle categorie fanno esplicitamente riferimento alla libertà degli individui di produrre e di scambiare, è naturale che egli finisca con l'individuare nel libero scambio e nel valore in virtù del quale esso si realizza - il valore di scambio - il nodo gordiano da sciogliere per dimostrare che il capitalismo è una nuova e più insidiosa espressione dell'assoggettamento dell'uomo all'uomo.

Lo scioglimento avviene sulla base di un'analisi del valore di scambio, che giunge a togliere ad esso il significato di qualità propria delle merci che gli assegna l'economia borghese e lo riconduce al processo sociale in virtù del quale esse sono prodotte. Nessun valore si origina se non per l'effetto della cooperazione sociale. Ciò che assume valore, lo assume in conseguenza dell'attività trasformativa umana, del lavoro. Il valore è un prodotto sociale, è il prodotto di uomini associati al fine di soddisfare i loro bisogni. In quanto tale, esso dovrebbe rimanere di proprietà dei produttori. Il sistema capitalistico, con la divisione del lavoro, ne assegna invece la proprietà privata solo a chi possiede i mezzi di produzione. Ma cosa sono i mezzi di produzione - per esempio le macchine - se non l'espressione di un lavoro oggettivato? E com'è che questo lavoro accumulato, morto, non è di proprietà dei produttori, della società tutta, erede di tutte le passate generazioni? Prima ancora di tradursi nel modo di produzione capitalistico, la proprietà privata è l’appropriazione di un patrimonio - il lavoro accumulato dall’umanità nel corso del suo sviluppo storico, i mezzi di produzione - che, come il linguaggio, è un patrimonio sociale. E' evidente che è intervenuto storicamente un processo che ha separato i produttori dal loro prodotto, e che il processo di produzione capitalistico, incorporando il lavoro vivo nella produzione di merci, non fa altro che accentuare questa separazione, riproducendola su di una scala sempre più allargata.

Il tema della separazione dell'uomo dalle condizioni oggettive della sua esistenza - che implica la separazione dell'uomo dall'uomo, dalla natura e dalla sua stessa natura -, questo tema che affiora precocemente nel pensiero di Marx, si riverbera in tutte le opere mature e diventa il punto su cui fa leva la critica economica. E' un tema di portata filosofica immensa, poiché esso fa capo all'alienazione in cui l'umanità è vissuta dall'avvento della storia. Alienazione per cui il mondo prodotto dall'uomo, la cultura nella sua totalità, la ricchezza sociale, non è mai stato pienamente disponibile per l'uomo stesso, che è vissuto nella miseria e nell'abiezione. E' lo scarto tra la ricchezza sociale e la miseria della condizione umana collettiva il filo continuo del pensiero di Marx. Tale scarto non avrebbe senso se non si tenesse conto che Marx ritiene che quella ricchezza, in tutte le sue molteplici manifestazioni, per quanto possa essere ricondotta anche, per quanto riguarda la produzione materiale, all'intraprendenza e, per quanto riguarda la ricchezza "spirituale, alla genialità di singoli individui, appartiene a pieno titolo alla società, è un patrimonio sociale, sia perché gli individui sono posti in grado di sviluppare le loro personali capacità solo in virtù della loro appartenenza sociale sia perché tali capacità, distribuite a caso dalla natura, sono comunque espressione dell'essenza generica, vale a dire delle potenzialità proprie della specie umana.

Che quello scarto, sotto il profilo economico, risulti esaltato dall'avvio e dallo sviluppo del capitalismo è fuor di dubbio. Ma Marx intende dimostrare che esso ha una specificità sua propria rispetto alle altre forme di alienazione che si sono realizzate nel corso della storia: è, infatti, un furto di lavoro umano che avviene sotto le apparenze del libero scambio tra capitalista e operaio, che implica l'indipendenza personale di tutti i cittadini. L'espropriazione capitalistica, è caratterizzata dal fatto che essa avviene nel nome e in conseguenza dell'essere i cittadini liberi e del godere di pari diritti. Essa è dunque ingannevole per le coscienze proprio per il fatto che non comporta un rapporto di assoggettamento personale. L'arcano del capitale è, per l'appunto, questo inganno che non può essere colto immediatamente come tale poiché il lavoro liberamente erogato dal produttore si incorpora nel valore di scambio della merce come se fosse una qualità sua propria. Ed è questa incorporazione che fa sì che il produttore ne risulti espropriato. Ma si tratta di un'espropriazione che, a differenza delle epoche passate, in conseguenza dei progressi tecnologici, assume, col capitalismo, un andamento esponenziale, vertiginoso. Da ciò Marx deriva che esso è destinato a produrre, nelle classi lavoratrici, una miseria crescente, e ad avvitarsi nelle sue contraddizioni intrinseche fino a portare il mondo sull'orlo della catastrofe prima del suo superamento. La teoria della pauperizzazione crescente della classe operaia è stata smentita dalla storia. Ma è riduttivo identificare in questa teoria l’unico fattore di crisi del sistema capitalistico. Marx ne individua degli altri non meno importanti. E non si tratta solo dei cicli economici di espansione e recessione, che pure rappresentano ancora un problema che mette in dubbio le capacità del capitalismo di affrancare gli uomini da una ricorrente condizione di precarietà e di non essere costretto, nei periodi di crisi, a sospingerne una quantità variabile al di sotto della soglia della povertà assoluta e/o relativa. Nell’estensione del capitalismo a livello mondiale, Marx coglie anche l’affiorare di un "feticcio" più pericoloso di tutti gli altri: il capitalismo finanziario, il denaro che genera denaro, il quale, in virtù del sistema creditizio, diventa il più potente fattore di stimolo dello sviluppo economico e nel contempo, con il corteo delle speculazioni e della corruzione, il più potente fattore di crisi. Ma, al di là degli aspetti tecnici, strettamente economici, non v’è dubbio che la critica di Marx al modo di produzione capitalistico rimane, dall’inizio alla fine, incentrata sul fatto che la sua finalità ultima - il profitto - non comporta alcuna attenzione nei confronti dei bisogni sociali, vale a dire non dei bisogni dei consumatori, bensì dell'uomo inteso come essere che mira ad affrancarsi dalla schiavitù della produzione, riducendo il tempo dedicato al lavoro e eseguendo un lavoro soggettivamente e socialmente significativo, al fine di dedicarsi allo sviluppo pieno della sua individualità sociale.

Il capitalismo, nell’analisi di Marx, non è solo un modo di produzione che perpetua, nella forma insidiosa di una presunta libertà universale, il dominio dell'uomo sull'uomo. Esso rappresenta un momento cruciale del divenire storico, in quanto fonda per un verso la possibilità di un definitivo affrancamento dell'uomo dalla "maledizione" del lavoro produttivo, e per un altro determina un sistema - sociale, politico e ideologico - che mira a frustrare questo affrancamento e a convertirlo nel suo contrario, in una totale schiavizzazione - sia degli operai sia dei capitalisti - dell'uomo al capitale, al valore che si autovalorizza: in breve, ad una potenza estranea più pericolosa di tutte le potenze - religiose e politiche - nelle quali l'umanità si è alienata, in quanto capace di dissolvere tutti i vincoli e i valori sociali di un ordinamento civile. I due aspetti sono complementari, esprimendo entrambi la logica interna del capitalismo: logica contraddittoria che impone all'uomo di rinunciare a fruire della ricchezza che egli ha prodotto nel corso del suo sviluppo storico, di rinunciare, dunque, alla pienezza di un'individualità sociale universale, nel nome di una presunta legge oggettiva che mercifica tale ricchezza, e ne vede infine l'espressione più propria nel denaro che produce denaro. Se non si tiene conto di questa complementarietà, l'analisi di Marx del modo di produzione capitalistico appare impregnata di un'insolubile ambivalenza, che rende contraddittorio l'alternarsi dell'elogio e dell'esecrazione. Tale ambivalenza si risolve se si tien conto che in quel modo di produzione Marx legge - in positivo e in negativo - più di quanto colgano gli apologeti borghesi e i rozzi comunisti.

La valutazione positiva del capitalismo coincide, di fatto, con il riconoscimento della sua necessità e della sua funzione storica. La necessità va individuata nei vincoli opposti dai precedenti modi di produzione e dei relativi ordinamenti sociali al pieno sviluppo delle forze produttive, e cioè al pieno impiego delle potenzialità umane nella trasformazione della natura. In ciò che essi hanno di essenziale storicamente, quei vincoli si identificano con la cattura - economica e ideologica - operata sulle coscienze umane dalla terra come matrice di ricchezza, in breve dalla proprietà fondiaria. A partire dalle originarie forme di proprietà comune sino alla proprietà fondiaria nobiliare, la storia sembra di fatto irretita e stregata dal possesso della terra. E tale possesso, che identifica nell'immobile il depositario della ricchezza, assegna un ruolo affatto secondario, evanescente a tutto ciò che si muove e, con il suo stesso movimento, si consuma: alle merci, dunque, e al denaro, oggetti deperibili e alienabili. La proprietà fondiaria immobilizza anche la struttura sociale, vincolandolo gli esseri umani alla campagna, a un modo di vivere relativamente disperso e isolato, chiuso nei suoi orizzonti fisici e mentali, totalmente dipendente dai bisogni di consumo dei proprietari. L'attività mercantile, che si intensifica progressivamente a partire dal XVI secolo, produce però l'accumulo di ingenti patrimoni di denaro. L'ossessiva cattura del fondo, della ricchezza immobile comporta l'univoca aspirazione mercantile alla proprietà terriera, finchè tale aspirazione non viene ad urtare contro il limite dell'ordinamento sociale, che assegna comunque il primato politico ai privilegi di nascita, ed estingue l'ascesa sociale dei mercanti in virtù di un meccanismo fiscale che alimenta quel primato sotto forma di drenaggio. Una classe laboriosa, ricca e sfruttata deve, dunque, trovare il modo di affermare i suoi diritti e di conseguire il potere politico che ad essa spetta. Lo trova nel capitalismo, e cioè nella produzione di merci, di valori di scambio, di valori mobili, riproducibili all'infinito su una scala sempre più ampia: su una scala, dunque, incommensurabile nelle sue potenzialità alla proprietà terriera, che gode del privilegio della riproducibilità dei beni ma in termini finiti, vincolati ai limiti dello sfruttamento della terra. Cos'è il capitalismo? Un modo nuovo di produzione caratterizzato dall'organizzazione razionale, dal calcolo tra i costi e i benefici, dall'impiego attento e parsimonioso delle risorse impiegate, dalla limitazione del consumo entro limiti che consentano di investire i risparmi in un nuovo ciclo produttivo, e di allargarlo. Questa è la definizione della scienza economica borghese. Marx non nega nessuna di tali caratteristiche, nelle quali vede l'avvento di un nuovo modo di porsi dell'uomo nei confronti della natura, ma aggiunge ad esse un elemento che quella scienza rimuove: la necessità che il lavoro vivo, il lavoro erogato da esseri in carne e ossa - gli operai - venga incorporato nel lavoro morto, nel lavoro accumulato rappresentato dai mezzi di produzione al fine di produrre valori di scambio maggiori rispetto ai costi di produzione. E' la teoria del valore di Marx: teoria per la quale nel prodotto il lavoro vivo non pagato, il lavoro eccedente, si oggettiva sotto forma di proprietà di cose, le merci appunto e il denaro, il dio delle merci, sul cui altare i bisogni sociali devono essere sacrificati. Se si riconduce questa teoria al tema della separazione dell'uomo dalla ricchezza che l’attività umana ha prodotto, la sua insostenibilità sul piano strettamente economico è di poco conto. Si può sottilizzare all’infinito sul concetto di valore economico: rimane il fatto che si dà valore dove si dà prodotto, si dà prodotto solo in virtù del lavoro e che la ricchezza sociale non è fruita che in minima parte dai produttori.

Si obbietta che sulla teoria del valore Marx ha impostato tutta la critica al capitalismo, giungendo ad affermare la necessità inesorabile di un suo superamento. Ma ciò significa leggere sub specie economica una teoria che trascende l'economia. Il nodo infatti non sta tanto nell'espropriazione della forza-lavoro, che, pure, in rapporto alla fase di avvio del modo di produzione capitalistico, è inconfutabile in termini reali di sfruttamento, quanto nella separazione dei produttori dai mezzi di produzione, dal lavoro accumulato da tutte le generazioni precedenti. E' la separazione tra lavoro e capitale, che subordina un'attività finalizzata a soddisfare i bisogni sociali ai fini di autovalorizzazione del capitale che, al limite, possono prescindere da essi, il leit-motiv del pensiero di Marx. Tale separazione determina un processo di produzione che aliena il lavoro vivo e, incorporandolo in quello morto, dà luogo ad un prodotto che assume una qualità oggettiva - il valore di scambio - e in virtù di questa qualità entra in relazione con l’universo dei valori di scambio. E' la trasformazione, propria del modo di produzione capitalistico, dei rapporti sociali in rapporti tra cose, dotate di proprietà che sembrano ad esse inerenti, l'aspetto più profondo del pensiero di Marx, che sottolinea lo scarto tra l'umanizzazione della natura - attestata dal fatto che la merce contiene lavoro umano morto e vivo - e lo stato della coscienza che si assoggetta al valore di scambio non meno di quanto in passato si assoggettasse a Dio. In questo senso, sono i presupposti filosofici da cui muove Marx a determinare l'analisi del capitalismo. Se si ammette, infatti, che tutto ciò che esiste sotto forma di cultura - materiale e spirituale - è l'oggettivazione delle potenzialità proprie della natura umana, del lavoro, dunque; che tutto il patrimonio di ricchezze prodotte nel corso dello sviluppo storico dall'umanità non è e non può essere, in quanto lavoro morto, oggettivato dall'attività di tutte le generazioni precedenti, che di proprietà comune; e che, infine, la valorizzazione di tale patrimonio, in quanto comporta l'incorporazione nello stesso di lavoro vivo, accresce quella proprietà che rimane, nel suo complesso, comune; se si ammette tutto ciò, le conclusioni cui perviene Marx hanno il carattere dell'ovvietà. Di un'ovvietà storica che contrasta con il mito della proprietà privata, che assegna all'individuo il potere di disporre di una ricchezza che, in quanto espressione di lavoro morto e di lavoro vivo, non può essere sua. Non c'è da sorprendersi, dunque, che Marx giunga ad affermare che quel mito, allorché l'umanità si sia liberata dai veli che le impediscono di riconoscere il senso della sua vicenda terrena - il senso di uno sforzo collettivo e secolare di trasformazione del mondo mirante all'affrancamento dalla necessità -, risulterà sorprendente non meno di tutti gli altri miti - religiosi e politici - nei quali l'umanità si è alienata.

Leggendo i brani in cui Marx, con toni elogiativi, valuta la funzione storica della borghesia e del modo di produzione nel quale essa esprime la sua concezione del mondo, si rimane sorpresi delle conclusioni - drastiche e inappellabili - cui egli giunge in riferimento alle prospettive del capitalismo. Come si è già accennato non si tratta di un'ambivalenza, bensì di un giudizio che concerne due diversi piani valutativi. Il primo concerne lo sviluppo delle forze produttive sociali e dunque la capacità di trarre dalla loro applicazione una straordinaria ricchezza, incommensurabile a quella prodotta nel corso di tutte le precedenti fasi storiche. La liberazione di quelle forze e l'impiego delle stesse sul piano della cooperazione sociale pone i presupposti per cui l'umanità possa sperare e pretendere di affrancarsi dal regno della necessità, e aprirsi di conseguenza all'adempimento di ciò che è iscritto nella sua natura: lo sviluppo pieno e consapevole, ricco e universale dell'individualità sociale; la realizzazione dell'umanismo e del naturalismo; il superamento dell'alienazione sia religiosa che politica. Se l'aver posto queste basi, rivalutando e sacralizzando l'attività lavorativa, è il prodotto della civiltà borghese, il suo merito storico, tanto più se messo a confronto con il parassitismo delle classi dominanti che l'hanno preceduta, è enorme. Ma non solo si tratta di basi sulle quali il più - lo sviluppo dell'individualità sociale universale - è da costruire, bensì di basi che contengono, nella loro apparente solidità strutturale, una mistificazione di fondo che esclude la possibilità che quello sviluppo si realizzi. Incorporando il lavoro vivo nel lavoro morto, producendo la merce come valore di scambio, investendo il profitto nella riproduzione del ciclo produttivo, e, infine, producendo il capitale monetario, il denaro che genera denaro, il capitalismo, nella sua progressiva estensione a livello mondiale, sancisce come proprietà delle cose - le merci, il denaro - ciò che, di fatto, è un prodotto del lavoro umano, espressione delle potenzialità proprie della natura umana. E, in nome di queste proprietà, assunte come determinate da leggi oggettive, subordina se stesso, nella forma incarnata del capitalista, e tutta l'umanità ad esse, pretendendo che la vita, nella sua totalità, e quindi nel tempo che la definisce, sia devoluta allo sviluppo illimitato non dell'uomo bensì del capitale. Affrancandosi dalla sua base produttiva, e definendo se stesso come valore che si autovalorizza, dotato dunque della capacità intrinseca di autovalorizzarsi, il capitale si configura, agli occhi di Marx nel corso degli ultimi anni della sua ricerca, come una potenza stregante, come un tumore la cui vitalità è imprescindibile da una degenerazione fatale per l'umanità. In cosa consisterebbe questa degenerazione? Nell'affrancamento del capitale da ogni potere di controllo umano: non già solo da parte degli operai, bensì anche dei capitalisti, costretti a subordinarsi essi stessi alle leggi oggettive dell'economia in cui credono. Ma quelle leggi comportano la necessità di uno sviluppo illimitato della produzione capitalistica; lo sfruttamento, sempre più razionale ma nondimeno coattivo, di tutte le risorse umane e naturali; lo spettro delle crisi recessive, che, paradossalmente, sopravvengono a seguito di fasi di sviluppo intense; l'inasprirsi progressivo della concorrenza che, al di là di un certo limite di produttività, comporta il ricorso a strategie concorrenziali - ai confini e al di là dei confini delle leggi - che, alla lunga, rischiano di configurare un rimedio peggiore del male. Le cause dell'affrancamento del capitale dal controllo umano sono intrinseche alla sua stessa logica. Logica che, ispirata al criterio univoco del profitto - e non già solo del massimo profitto, che è il sogno dei capitalisti, bensì anche del minimo che assicuri la riproduzione - comporta fasi più o meno tumultuose di espansione destinate, per l'eccesso dell'offerta sulla domanda, ad esitare in crisi più o meno catastrofiche. La vitalità indubbia del capitalismo è double face, poiché essa mira all'accumulazione e alla valorizzazione del capitale, e sussume l'uomo - formalmente come forza-lavoro e realmente come forza produttiva - solo in funzione dei suoi bisogni di sviluppo illimitato. Se tali bisogni entrano in contrasto con i bisogni e i diritti umani - e, occorre aggiungere, con gli equilibri della natura -, esso li viola e calpesta.

Via via che l'analisi di Marx si estende dalla produzione della merce propria dell'industria inglese ottocentesca al mercato mondiale, laddove il capitale raggiunge la configurazione più piena e alienata di denaro che genera denaro, è evidente che cresce la sua preoccupazione per una fenomenologia del sistema economico che, mascherando sempre più profondamente le basi produttive, può risultare sempre più ingannevole e inafferrabile per le coscienze degli agenti impegnati nella produzione, e quindi sempre meno controllabile. A ciò si aggiunge la consapevolezza che, pur nella sua logica implacabile, il capitalismo, seppure alberga delle contraddizioni autodistruttive, non ha una vocazione autodistruttiva, e pertanto, nella misura in cui espandendosi si imbatte in problemi che potrebbero causarne l'implosione, cerca e appronta rimedi compatibili con le sue finalità. Tende, per esempio, ad allargare il mercato aumentando il potere dei compratori; a sfruttare le risorse naturali e umane che esso scopre nei paesi coloniali; a promuovere un sistema monetario mondiale le cui fluttuazioni siano ammortizzate in qualche modo. In virtù di ciò, esso si perpetua. Ma, posto che la sua logica esclude l'appropriazione da parte dei produttori della ricchezza da essi prodotta, e il porla al servizio dello sviluppo dell’uomo, quei rimedi non fanno altro che incancrenire, sotto l'apparenza di una lenta autoregolazione, il male: il saccheggio delle forze produttive e delle risorse della natura. In definitiva, la critica radicale di Marx al capitalismo, al di là dei prezzi umani che esso impone di pagare, che rappresentano, per quanto importanti, l’aspetto morale di tale critica, verte sul negare ad esso un potere autoregolativo che impedisca la catastrofe sociale, antropologica e ecologica cui esso tende in virtù del fatto che la sua logica si sottrae al controllo dell’uomo e gli si impone con forza di legge. Per questo aspetto, essa si può ritenere ancora valida. Ed è evidente che è del tutto ascrivibile all’alienazione della coscienza sociale in rapporto alla realtà storica.


Cap. IX L'alienazione

Antologia

"... l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto...

La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, dia forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. E' dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. E innanzi tutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica." (LQE, pp. 49-51)

"Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni." (LQE, pag. 50)

"Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell'uomo in opposizione alla sua vita materiale. tutti i presupposti di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera dello Stato, nella società civile, ma come caratteristiche della società civile. Là dove lo stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee." (LQE, pag. 15)

" Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e in estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini...

Questo fatto non esprime nient'altro che questo: che l'oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall'economia politica, come privazione dell'operaio, e l'oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell'oggetto, e l'appropriazione come alienazione, come espropriazione...

L'operaio mette nell'oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all'oggetto. più è grande questa sua facoltà e più l'operaio diventa senza oggetto. Ciò ch'è il prodotto del suo lavoro, esso non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L'espropriazione dell'operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un'esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all'oggetto, lo confronta estranea e nemica."(MEF, pp. 194-195)

"L'alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell'atto della produzione, dentro la stessa attività producente... Nell'alienazione dell'oggetto del lavoro si riassume soltanto l'alienazione, l'espropriazione, dell'attività stessa del lavoro. In che cosa consiste ora l'espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. l'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro... Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste." (MEF, pp. 196-197)

" Poiché il lavoro alienato 1) aliena all'uomo la natura, e 2) aliena all'uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all'uomo il genere; gli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo, estrania l'una all'altra la vita generica e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimenti nella sua forma astratta e alienata... Il lavoro estraniato sconvolge la situazione in ciò: che l'uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza." (MEF, pp. 199)

"... un'immediata conseguenza del fatto che l'uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell'uomo dall'uomo... In generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall'uomo significa che un uomo è estraniato dall'altro, come ognuno di essi dall'essenza umana." (MEF, pag. 200)

"Ogni autoalienazione dell'uomo a se stesso e alla natura si palesa nel rapporto, ch'egli stabilisce, di sé e della natura, con un altro uomo, distinto da lui." (MEF, pag. 202)

Commento

Centrale nell'elaborazione del sistema di pensiero marxiano, il concetto di alienazione è, nella sua complessità, tra i più equivocati. Se si rimane fermi alla critica del capitalismo, che rappresenta l'applicazione alla storia viva del metodo di Marx - applicazione che egli ha portato avanti ininterrottamente per quarant'anni, allargando il suo orizzonte di indagine al sistema capitalistico mondiale - il concetto sembra apparentemente semplice, riducendosi alla produzione del plusvalore, e cioè al valore che il lavoro eccedente, erogato dall'operaio e non pagato dal capitalista, incorpora nella merce, risultando infine valore della merce e del capitalista che ne è proprietario. Da questo punto di vista, l'alienazione si identifica con il furto del lavoro eccedente, della parte di lavoro non retribuito, in conseguenza del quale l'attività vitale del lavoratore si oggettiva in un prodotto che si pone di fronte a lui come una potenza estranea. Ma già a questo livello, al quale spesso viene ridotto il pensiero di Marx sull'alienazione, il concetto è molto più articolato rispetto ad una formulazione apparentemente elementare. Perché infatti si dia, sul mercato, una forza-lavoro disponibile all'impiego capitalistico, e cioè tale da poter essere acquistata come merce, con denaro, e tale quindi da doversi prestare all'uso di chi l'acquista, occorre che gli agenti che la possiedono siano liberi da altri impegni e, nel contempo, obbligati ad accettare lo scambio del loro lavoro con il denaro. Ora, dato che gli uomini non hanno atteso il capitalismo per lavorare, riesce evidente che la loro presenza sul mercato come agenti liberi implica una trasformazione delle condizioni lavorative preesistenti. La forza-lavoro, nell'analisi di Marx, si pone come merce via via che i lavoratori, dapprima impegnati in attività agricole e artigianali che comportano, almeno in una qualche misura, l'appropriazione diretta dei prodotti e lo scambio degli stessi con altri prodotti - uno scambio sociale -, si ritrovano ad essere separati dai tradizionali mezzi di produzione. Diventano, insomma, liberi in conseguenza di una separazione dalle condizioni oggettive di produzione tradizionali: la terra, le materie prime, gli utensili. Liberi e in possesso solo delle loro braccia, gambe e teste per lavorare, ma per effetto appunto dell'essere stati separati, estraniati, alienati dai mezzi di produzione tradizionali. Questo processo non è storicamente spontaneo, bensì determinato dall'avvio del modo di produzione capitalistico che, in difetto di esso, e cioè solo sulla base di una razionalizzazione dei processi produttivi, non avrebbe potuto realizzarsi. Già per questo aspetto, l'alienazione risulta a monte della produzione capitalistica, e ne è la indispensabile premessa. Nel momento in cui, poi, la forza-lavoro come merce si offre allo scambio con il denaro, si definisce un secondo momento di alienazione, caratterizzato dal fatto che ciò che viene venduto non è un prodotto ma un mezzo di produzione, la forza-lavoro. In conseguenza di ciò, l'operaio accetta che la sua attività vitale - espressione della sua vita soggettiva - venga usata da altri: egli vende dunque la sua stessa vita, alienandola sull'altare della sopravvivenza. Il terzo momento, infine, è l'alienazione produttiva in senso proprio: l'alienazione come estraneazione del prodotto del lavoro rispetto al lavoratore. Anche a questo livello, però, il problema si pone in termini complessi, poiché il vissuto soggettivo dell'operaio di essere sfruttato si riconduce alla valutazione del denaro che riceve in cambio del lavoro e non già al fatto che la sua attività, oggettivandosi nel prodotto, dà luogo ad una potenza estranea che lo domina, nel senso di apparire ai suoi stessi occhi come proprietà del capitalista. L'alienazione produttiva è dunque un processo reale ma "invisibile", identificabile con la produzione del plusvalore, che fuorvia la coscienza del lavoratore al punto che egli non avanza mai la pretesa di appropriarsi del prodotto del suo lavoro, bensì rivendica un aumento del salario o una diminuzione dellla giornata lavorativa. Migliorando l'organizzazione tecnica dell'attività produttiva, entrambi le rivendicazioni, sia pure al prezzo di dure lotte e sempre e comunque nel rispetto delle leggi economiche capitalistiche, e cioè a patto che il valore delle merci prodotte ecceda i costi di produzione, possono, per alcuni aspetti, essere accolte, come la storia successiva ha dimostrato.

Ciò che vi è di specifico nell'alienazione capitalistica consiste nel fatto che quanto è determinato da un processo sociostorico - la separazione dell'operaio dai mezzi di produzione tradizionali, la trasformazione del denaro in capitale attraverso l'appropriazione del lavoro morto (per es. le macchine) e del lavoro vivo, della forza-lavoro, lo scambio del lavoro vivo con una quota di denaro che assicura la sussistenza dell'operaio -, e si traduce nei rapporti di produzione - nel rapporto tra il capitalista e l'operaio -, non risulta né viene vissuto come tale, bensì come il realizzarsi di leggi oggettive, naturali dell'economia, sì che il rapporto tra gli uomini appare come un rapporto tra cose (merci, denaro). Reale in sé per sé e resa inesorabile dallo stato di necessità in cui si trovano i lavoratori separati dai mezzi di produzione, cionondimeno l'alienazione si realizza in forza di un assetto sociale fondato su di un potere diverso di proprietà in rapporto al lavoro morto, al lavoro accumulato rappresentato dai mezzi di produzione, e sul diritto di proprietà privata. Tale ineguaglianza non definisce in sé e per sé il diverso valore degli uomini; è il prodotto di determinate condizioni storiche. Ma, sul piano delle apparenze, e quindi nelle coscienze, essa si pone come espressione di leggi oggettive, naturali, intrinseche al processo produttivo; in ultima analisi, come una dura necessità indipendente dalla volontà umana alla quale questa può solo piegarsi. Ciò è vero per l' operaio non meno che per il capitalista, il quale - e Marx lo ripete più volte -, in quanto incarnazione del capitale, è preda egli stesso di un ingranaggio che lo costringe a porre in essere quelle leggi, quali che siano le loro conseguenze a carico dei lavoratori. Il cinismo intrinseco alla logica capitalistica è, di fatto, il cinismo del capitalista. Ciò non significa, però, necessariamente che il capitalista, nella sua concreta realtà umana, sia un essere insensibile, spietato e privo di scrupoli. Assumendo il ruolo del capitalista, egli però deve mettere da parte la sua umanità e i suoi principi morali, e piegarsi al potere delle leggi dell'economia che lo trascende. L'alienazione concerne dunque anche lo stesso capitalista sotto forma di estraneazione rispetto all'altro uomo, di strumentalizzazione e cosificazione del rapporto interpersonale, di perdita o deprivazione di umanità.

E’ evidente che il concetto di alienazione in Marx condensa due diversi aspetti. Per un verso esso definisce un processo storico reale che determina un'appropriazione socialmente diseguale del lavoro morto, del patrimonio di beni, di tecniche e di capacità accumulate nel corso dello sviluppo storico da tutta l'umanità, e comporta di conseguenza un'organizzazione produttiva tale per cui inesorabilmente il lavoro vivo dell'operaio si incorpora nel lavoro morto, trasformandosi in un valore oggettivo su cui l'operaio non ha alcun diritto. Per un altro, esso definisce un'organizzazione ideologica che, sovrapponendosi al processo storico, lo vela e fuorvia le coscienze inducendole ad accettare una realtà che si pone come una potenza estranea dotata di sue leggi oggettive, del tutto indipendente dalla volontà umana. Per il primo aspetto, che concerne la produzione capitalistica, l'alienazione è dunque specifica di una fase determinata dello sviluppo storico. Il secondo aspetto, viceversa, che definisce uno scarto immediato tra lo statuto proprio della coscienza umana, incline a naturalizzare l'ordine di cose in cui essa è immersa, ad essere irretita dalle apparenze, e la complessità dei processi storici che, pur prodotti dagli esseri umani nei loro sforzi incessanti di trasformare la natura, scorrono sotterraneamente e giungono ad apparire sempre e solo come espressioni di leggi naturali, come potenze estranee e indipendenti dalla volontà umana, non è specifico, bensì generico. Concerne, in breve, la storia totale della specie umana, è riconducibile alla difficoltà della coscienza di prendere atto del significato reale della storia come prodotto umano, e si declina, pertanto, nel tempo, in forme varie, espressive dei modi in cui le società hanno organizzato il loro rapporto produttivo con la natura. In questo senso generico, e peraltro fondamentale, l'alienazione si pone nei termini di una separazione dell'uomo dalla propria natura, le cui potenzialità attive, produttive, creative e universali, non sono mai state pienamente recepite a livello cosciente, e di una separazione della coscienza dai suoi prodotti, dalla ricchezza del patrimonio culturale accumulato nel corso dello sviluppo storico. Il ruolo svolto dalle ideologie, e cioè dalle visioni del mondo prodotte dai ceti dominanti, e soprattutto dagli intellettuali, a partire dall'epoca, coincidente con l'inizio della storia umana, in cui si è definita la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, nel ratificare le apparenze - l'organizzazione dei sistemi sociali - come espressioni di leggi di natura, è, per Marx, fuor di dubbio, e peraltro agevolmente verificabile. Ma è pur vero che la produzione ideologica solo in minima parte può essere ricondotta ad una deliberata attività di mistificazione operata da alcuni essere umani a danno di altri. Nel suo complesso, essa esprime un limite proprio della coscienza nel suo rapportarsi alla realtà: un limite non insormontabile, per Marx, ma il cui superamento non può prescindere da uno sviluppo delle forze produttive molto elevato che fonda la possibilità che l'uomo, infine, riconosca se stesso, le potenzialità della sua natura nella ricchezza del mondo storico che egli ha prodotto. E' evidente che tale superamento implica che tra le forze produttive si considerino anche quelle intellettuali.

Se l’insistenza di Marx sulla produzione dei beni viene riferita, come è esplicito in tutta la sua opera, alla totalità della ricchezza sociale, vale a dire alla cultura - il cui aspetto materiale non è meno importante di quello spirituale -, il concetto di alienazione si radicalizza in senso storico-esistenziale. "Gettato" nel mondo dall'evoluzione naturale come un essere sociale dotato di straordinarie potenzialità il cui uso dipende dalla scoperta delle potenzialità intrinseche alla natura inorganica, e quindi da uno sviluppo necessariamente lento, secolare delle forze produttive; separato dunque naturalmente da entrambe le potenzialità, che solo storicamente e progressivamente si attualizzano, non v'è da sorprendersi che l'uomo abbia colmato lo scarto segnato da quella separazione con una produzione simbolica, mitologica che è divenuta, poi, via via che le forze produttive si sono sviluppate, dando luogo all'organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi, ideologica: religiosa dapprima, in riferimento ad una distribuzione di potere sociale immediatamente espressiva di una volontà divina; politica, poi, in riferimento al diritto dell'uomo potente - il Padrone - di assoggettare l'uomo - il Servo -; economica, infine, in riferimento al diritto del capitalista di comprare e usare la forza-lavoro come merce. E' evidente, in altri termini, che l'alienazione, intesa come espropriazione dell'uomo di un potere di controllo su di una realtà storica che egli ha prodotto, si pone, in Marx, come una chiave interpretativa della storia della specie umana nella sua vicenda mondana: una chiave il cui significato ultimo verte sullo scarto tra lo sviluppo delle forze produttive, nel quale si esprimono le potenzialità proprie della natura umana, e lo statuto della coscienza, limitata intrinsecamente nel suo potere di consapevolezza dal calarsi e dal definirsi in rapporto ad un mondo storico e impregnata di un sapere ideologico che, nel contempo, la stabilizza e la fuorvia. Il pensiero di Marx non avrebbe senso se e solo se tale scarto non potesse essere colmato. Ma in virtù di cosa se non di una riforma radicale della coscienza sociale, presupposto indispensabile alfine di una riappropriazione consapevole da parte dell'uomo della storia come suo prodotto?

Il concetto di alienazione, considerato nelle varie forme in cui esso si è realizzato nel corso della storia dal momento in cui, con la divisione del lavoro manuale e di quello intellettuale, si sono differenziate le classi sociali, porta al cuore di una problematica contraddittoria onnipresente nell'opera di Marx. Per un verso, infatti, fuoriuscire dalla preistoria umana, che impedisce la realizzazione generica, universale della singola individualità, implica l'abolizione di quella divisione, e dunque il superamento dell'ordinamento in classi sociali e della proprietà privata. Da questo punto di vista, il cambiamento delle condizioni oggettive alienate in cui si realizza l'attività produttiva è essenziale e inderogabile. Per un altro verso, quell'abolizione, che, attraverso la proprietà collettiva della ricchezza sociale, sancisce il dovere e il diritto dell'individuo di partecipare ad essa nella pienezza delle sue potenzialità, per non esaurirsi sul piano di una rivendicazione assistenzialistica, comprensibile in virtù delle memorie collettive di sfruttamento che rappresentano esse stesse un patrimonio storico - un patrimonio mentale, in parte almeno inconsapevole -, postula una riforma radicale della coscienza umana incentrata sulla consapevolezza dell'identità sostanziale tra individualità pienamente sviluppata e essenza umana generica. L'alienazione intesa come presa di coscienza dello sfruttamento può promuovere una ribellione collettiva contro l'ordine di cose esistente classista, ma, per approdare ad un nuovo ordine sociale umanizzato e umanizzante, essa non basta. Occorre una cultura collettiva radicalmente nuova, una cultura antropologica, filosofica e storica che estingua la possibilità di altre alienazioni - per esempio stataliste. In difetto di condizioni oggettive affrancate dalla divisione del lavoro, tale cultura non può, evidentemente, darsi; ma, in difetto di una nuova cultura collettiva adeguata alla natura umana, quelle condizioni non permettono di fuoriuscire dalla preistoria umana.

Questa contraddizione, che Marx risolve fideisticamente, presumendo che l’abolizione della proprietà privata restituisca immediatamente all’uomo la coscienza del suo essere sociale e universale, rivela indubbiamente il punto debole del sistema marxiano sotto forma di un approccio ingenuo al rapporto tra soggettività, coscienza sociale e storia. In tutte le sue forme, l’alienazione, che separa l’uomo dal suo prodotto - il mondo umanizzato -, è un processo storico, che si realizza sulla base della produzione e della riproduzione della vita. Ma ciò non basta a capire come e perché, in tutte le fasi della storia, essa si sia imposta alla coscienza umana. Pur considerando il ruolo delle ideologie, che naturalizzano l’ordine di cose esistente, riuscendo a far passare come bene e interesse comune quanto è interesse della classe dominante, è impossibile trascurare il fatto che l’alienazione pone in luce anche una debolezza specifica, strutturale della coscienza umana: la sua propensione spontanea a credere nelle apparenze, e la difficoltà di trascendere il piano della fenomenologia sociale e della contemporaneità. E’ singolare che Marx, procedendo nell’analisi del capitalismo nella sua estensione a livello mondiale, e cogliendo il potere stregante che esso esercita per via del fatto che le categorie in cui cela la sua natura selvaggia diventano sempre più astratte, sempre più difficili da ricondurre ai processi reali di produzione, e alla fine del tutto ingannevoli perché incentrate sui valori liberal-democratici, non si sia quasi mai posto il problema di analizzare l’efficacia di quel potere sulla coscienza umana. E non abbia mai avuto dubbi quanto al fatto che la coscienza, in sé e per sé, tenda ad ingannarsi e sia in ciò favorita dal suo prodursi in condizioni socio-storiche determinate che la pongono di fronte ad un ordine di cose dato come un fatto di natura. Gran parte del pensiero marxiano si fonda sullo scarto tra le apparenze della realtà e i processi "invisibili", storici e attuali, che la generano. L’invisibilità di quei processi rinvia ad un piano della realtà, un piano strutturale che oggi si definirebbe inconscio sociale, a cui la coscienza umana non ha immediatamente accesso. La profondità dell’inconscio sociale e la sua inaccessibilità immediata sono gli aspetti a partire dai quali l’alienazione può essere riproposta come problema che investe la storia come prodotto e la capacità della coscienza umana di appropriarsi di esso.


Cap. X Umanesimo comunista

Antologia

" Se le sensazioni, passioni etc., dell'uomo non sono soltanto delle determinazioni antropologiche in [stretto] senso, bensì davvero affermazioni essenzialmente ontologiche (la natura); e se esse si affermano realmente solo in quanto il loro oggetto è sensibile per esse, s'intende così: (...) che soltanto mediante l'industria sviluppata, cioè per la mediazione della proprietà privata, l'essenza ontologica dell'umana passione nasce sia nella sua totalità che nella sua umanità; e la scienza dell'uomo è dunque essa stessa un prodotto della pratica automanifestazione dell'uomo; [e] che il significato della proprietà privata liberata dall'alienazione è l'esistenza degli oggetti essenziali all'uomo, sia come oggetto del godimento sia come oggetto dell'attività." (MEF, pag. 252)

"La soppressione dell'autoalienazione segue la stessa via dell''autoalienazione. Dapprima la proprietà privata è soltanto considerata nel suo lato oggettivo, ma tuttavia avente il lavoro come sua essenza. La sua forma di esistenza è quindi il capitale, che, "come tale", è da sopprimere... Infine, il comunismo è l'espressione positiva della proprietà privata soppressa; e in primo luogo è la generale proprietà privata. In quanto esso abbraccia questo rapporto (la proprietà privata) nella sua generalità, esso è 1), nella sua prima forma, soltanto una generalizzazione e perfezione della medesima proprietà... Questo comunismo, in quanto nega la personalità dell'uomo ovunque, è soltanto l'espressione conseguente della proprietà privata, che ètale negazione. L'invidia generale, che diventa una forza, è soltanto la forma nascosta in cui la cuopidità si stabilisce e si soddisfa in un'altra guisa: il pensiero di ogni proprietà privata come tale si stravolge, almeno contro la proprietà privata più ricca, in invidia e brama di livellamento, così che queste ultime costituiscono persino l'essenza della concorrenza. Il comunista rozzo è solo il perfezionamento di questa invidia e di questo livellamento da un minimo immaginato. Esso ha una misura determinata, limitata. Quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una reale appropriazione lo prova precisamente l'astratta negazione di tutto il mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla innaturale semplicità dell'uomo povero e senza bisogni...

Il comunismo rozzo, la prima positiva soppressione della proprietà privata, è... soltanto la manifestazione della bassezza della proprietà privata che intende porsi come positiva comunità." (MEF, pp. 223-224)

" Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante un’attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l’attività comune di tutti i membri della società. Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale. Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c’è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe." (MPC, pp. 80-81)

"Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione." (MPC, pag. 84)

"...l'antica concezione secondo cui l'uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre lo scopo della produzione, sembra molto elevata rispetto al mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Di fatto però, se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui generata nello scambio universale? cos'è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato. Nella quale l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell'economia politica borghese - e nell'epoca della produzione cui essa corrisponde - questa completa estrinsecazione dell'interiorità umana si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come estraneazione totale, e l'eliminazione di tutti gli scopi unilaterali determinati come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo del tutto esterno." (GRD, 1, pag. 466)

"Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di esserne la misura, e quindi il valore di scambio cessa e deve cessare di essere la misura del valore d'uso. Il lavoro eccedente della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle potenze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della miseria e dell'antagonismo. Il libero sviluppo dell'individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione a un minimo del lavoro necessario della società, a cui poi corrisponde la formazione artistica, scientifica ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti... Ricchezza non è comando di lavoro eccedente (ricchezza reale) bensì tempo disponibile, oltre a quello utilizzato nella produzione immediata, per ogni individuo e per l'intera società" ("The Source and Remedy" ecc. 1821, p. 6)." ( GRD, 1, pp. 717-718)

"La creazione di molto tempo disponibile per la società in generale e per ogni membro di essa (ossia di spazio per il pieno sviluppo delle forze produttive dei singoli, e quindi anche della società) oltre il tempo di lavoro necessario, questa creazione di tempo di non-lavoro si presenta, al livello del capitale, come di tutti quelli precedenti, come tempo di non-lavoro, tempo libero per alcuni. Il capitale vi aggiunge il fatto che esso aumenta il tempo di lavoro eccedente dalla massa con il ricorso a tutti i mezzi dell'arte e della scienza, perché la sua ricchezza consiste direttamente nell'appropriazione di tempo di lavoro eccedente; giacchè il suo scopo è direttamente il valore, e non il valore d'uso. Esso è quindi, senza volerlo, strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, (strumento) per la riduzione del tempo di lavoro dell'intera società, sì da rendere il tempo di tutti libero per lo sviluppo personale. Ma la sua tendenza è sempre, da un lato, quella di creare tempo disponibile, dall'altro di convertirlo in lavoro eccedente... Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più diviene chiaro che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di lavoro eccedente altrui, ma che invece la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo lavoro eccedente. Una volta che essa lo abbia fatto - e con ciò il tempo disponibile cessa di avere un'esistenza antitetica - da un lato il tempo di lavoro necessario avrà la sua misura nei bisogni dell'individuo sociale, dall'altro lo sviluppo della forza produttiva sociale crescerà così rapidamente che, sebbene ora la produzione calcolata in funzione della ricchezza di tutti, cresce il tempo disponibile di tutti. infatti la ricchezza reale è la forza produttiva sviluppata di tutti gli individui. E allora la misura della ricchezza è data non più dal tempo di lavoro, ma dal tempo disponibile." (GRD, 1, pp. 720-721)

"La trasformazione delle forze (rapporti) personali in forze oggettive, provocata dalla divisione del lavoro, non può essere abolita togliendosene dalla testa l'idea generale, ma soltanto se gli individui sussumono nuovamente sotto se stessi quelle forze oggettive e abolendo la divisione del lavoro. Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale... La comunità apparente nella quale finora si sono uniti gli individui s'è sempre resa autonoma di contro a loro e allo stesso tempo, essendo l'unione di una classe contro l'altra, per la classe dominata non era soltanto una comunità del tutto illusoria, ma anche una nuova catena. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa." (LIT, pp. 54-55)

"...nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico." (LIT, pag. 24)

"Il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini finora esistiti, li spoglia del loro carattere naturale, e li assoggetta al potere degli individui uniti." (LIT, pp. 57-58)

"Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell'uomo, e quindi come reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s'identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l'umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tral'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e il genere. E' la soluzione dell'enigma della storia." (MEF, pp. 225-226)

"L'effettiva soppressione della proprietà privata, come appropriazione della vita umana, è... l'effettiva soppressione di ogni alienazione, e con ciò la conversione dell'uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo Stato etc., alla sua esistenza umana, cioè sociale." (MEF, pag. 226)

"La soppressione della proprietà privata è... la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e qualità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente." (MEF, pag. 229)

"Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in "una volta" e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica. Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente." (LIT, pag. 25)

Commento

La ricerca di Marx del senso della storia procede come la soluzione di un enigma. Si tratta, in effetti, di spiegare lo scarto tra ciò che l’uomo, nel suo sviluppo storico, ha prodotto sul piano della cultura materiale e spirituale, che attesta le potenzialità straordinarie della sua natura ed è anzitutto il prodotto della vita sociale, e la miseria - economica, morale e culturale - in cui è vissuta gran parte dell’umanità; lo scarto, insomma, tra il mondo prodotto dall’uomo, nel quale s’è oggettivata l’aspirazione alla felicità in una misura incommensurabile a quella di qualsiasi altra specie animale, e la fruizione di questo mondo, dalla quale i più sono esclusi. Il problema, insomma, è quello che Marx ha colto fin dall’inizio della sua ricerca: la separazione dell’uomo dal suo prodotto, dalla ricchezza sociale, che implica anche la separazione dell’uomo dall’uomo, dalla natura e dalla sua stessa natura. La soluzione dell’enigma, vale a dire l’appropriazione da parte dell’umanità tutta di questo patrimonio che non può riconoscere proprietari privati poiché rappresenta il frutto dello sforzo di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo, postula però che se ne chiarisca la portata. Il dramma dell’alienazione, nelle sue diverse forme, investe infatti tutta la storia umana, anche se raggiunge la sua manifestazione più evidente con lo sviluppo del capitalismo e dell’egoismo borghese. Dacchè esiste la storia, la società ha sempre riconosciuto oppressori e oppressi, proprietari e diseredati. La specificità della civiltà borghese, da questo punto di vista, consiste nell’attribuire a tutti i cittadini gli stessi diritti di libertà e di uguaglianza, sicchè il loro diverso status sociale, data l’illusione di pari opportunità di sviluppo, risulta giusto, vale a dire riconducibile al diverso merito individuale.

Il problema della miseria economica e/o culturale in cui l’umanità è sempre vissuta non è di poco conto per la soluzione dell’enigma, il cui scioglimento comporta la restituzione all’uomo della sua ricchezza suprema: l’essere sociale e il riconoscersi tale attraverso il libero e pieno sviluppo della sua individualità. Se infatti si ricava dalla storia, che per questo aspetto è fortemente indiziaria, la prova che la natura umana porta in sé il germe dell’egoismo, individuale e di gruppo, la soluzione non può fare appello ad altro che ad un ordinamento statale il cui potere sia tale da contenere quella tendenza naturale entro limiti compatibili con la convivenza civile e con un lento progresso verso una maggiore giustizia sociale. L’avversione di Marx per il comunismo rozzo e per il socialismo riformistico non ha radice nella sua volontà di privilegiare in assoluto il suo modello di socialismo scientifico e la necessità, perché esso possa realizzarsi, di una rivoluzione violenta, bensì nel fatto che i superamenti proposti da quelle correnti delle ingiustizie sociali implicano l’accettazione di fondo, sia pure inconsapevole, dei presupposti ideologici della concezione borghese dell’uomo, vale a dire della natura umana in sé e per sé egoistica e tendenzialmente asociale. Le diverse forme di socialismo non scientifico fanno appello alla socialità come ad un valore culturale al quale l’umanità deve pervenire e che deve riconoscere se vuole scampare alla tragedia di una conflittualità permanente tra oppressi e oppressori. Marx ritiene viceversa che la socialità, che non implica solo l’appartenenza ad un gruppo bensì il sentire, da parte di ogni individuo, di esser parte di una totalità che coincide con la specie umana, sia l’attributo più specifico della natura umana, quello da cui, sulla base della cooperazione, si è originata la storia. Come accordare questa convinzione, che in Marx si mantiene assoluta nel corso del tempo, con la fenomenologia storica, vale a dire con una realtà sostanzialmente tragica? La soluzione di Marx è, a riguardo, semplice e suggestiva. La natura umana è una cosa, la coscienza un’altra. Le predisposizioni proprie della natura umana sono potenzialità che, nella loro ricchezza, non sono date immediatamente alla coscienza. Esse promuovono l’oggettivazione, la trasformazione della realtà, la produzione di un mondo - la cultura, la seconda natura umana - che solo gradualmente rivelano l’uomo a se stesso, lo pongono di fronte alla ricchezza dei suoi bisogni e alla sua vocazione alla felicità individuale e alla universalità. L’umanizzazione del mondo precede inesorabilmente l’autocoscienza, poiché, per giungere a prendere atto della sua vocazione mondana e universale, l’uomo deve produrre le condizioni oggettive della autorivelazione. La storia è dunque enigmatica anzitutto perché il mondo va trasformato radicalmente affinché la coscienza umana possa riconoscere in esso, come in uno specchio, il suo senso e il suo destino. Da questo punto di vista, che consente a Marx di definire il tragitto percorso dall’umanità come preistoria, lo scarto di cui s’è parlato non è più misterioso. Rappresenta anzi una triste necessità. Senza la divisione del lavoro intellettuale e di quello manuale, e le conseguenti lotte di classi, l’evoluzione storica non si sarebbe realizzata, e non si sarebbero prodotte le condizioni oggettive di un’autorivelazione dell’uomo a se stesso.

Più volte, nel corso della sua opera, Marx insiste sul fatto che le classi dominanti, in ogni epoca storica, si sono fatte mantenere da quelle lavoratrici. Ricavare da questo che egli intendesse affermare che le classi dominanti hanno svolto un ruolo sostanzialmente parassitario è assurdo. Tranne rare eccezioni, lo sfruttamento lavorativo è stato sempre funzionale all’accumulo di risorse che hanno permesso un’evoluzione dei processi produttivi, ora più lenta, ora più intensa. Per questo aspetto, lo sfruttamento borghese è esemplare per due aspetti: per la sua spietatezza, ricondotta a leggi oggettive dell’economia, e per il fine, il disporre di denaro da investire capitalisticamento, il produrre sempre di più e con più profitto. Marx, che lo stigmatizza aspramente, non ne rinnega però il significato storico. E’ in conseguenza di quello sfruttamento che, per effetto dei progressi tecnici, ha determinato un aumento vertiginoso della produzione e l’istituirsi di un mercato mondiale, che si sono prodotte le condizioni oggettive per cui l’uomo può prendere atto pienamente di se stesso e della sua vocazione. Tale presa d’atto rappresenta la premessa dell’avvento del comunismo.

Il termine comunismo rischia ormai di suonare come sinonimo di dittatura, miseria e degradazione umana. Tenuto conto dell’esperienza del socialismo reale, e di quanto ha inciso nell’immaginario collettivo il suo fallimento, non v’è da sorprendersi. Ma occorre riconoscere che, in Marx, esso significa tutt’altro. La dittatura del proletariato è l’appropriazione, da parte della maggioranza (all’epoca di Marx il 90% della popolazione), dei prodotti che ad essa appartengono: i prodotti del lavoro e la ricchezza sociale accumulata da tutta l’umanità nel corso del suo sviluppo storico. Il rozzo comunismo, che esaurisce la giustizia in una più equa distribuzione dei beni di consumo, non ha nulla a che vedere con il comunismo di Marx che, in quanto appropriazione e fruizione collettiva e individuale della ricchezza sociale, postula una coscienza aperta al riconoscimento del significato di quella ricchezza e attiva nell’utilizzarla. La disponibilità di quella ricchezza è necessaria, ma non basta. La fruizione implica, sulla base di una progettazione sociale, un impegno individuale rivolto allo sviluppo delle proprie qualità. Marx non ha dubbi riguardo al fatto che un individualità pienamente sviluppata, e che riconosce in tale sviluppo il proprio merito e il merito di tutte le generazioni che hanno prodotto la ricchezza sociale, non possa non diventare universale: partecipare insomma alla vita e alla storia come ad un’avventura il cui senso ultimo è la socialità. Né ha dubbi riguardo al fatto che l’individualità sociale, appagata dalla gratificazione che ricava dal sentirsi pienamente partecipe al mondo, risulti immunizzata da qualsivoglia suggestione trascendente. Il comunismo di Marx è un radicale umanesimo,che, dal presupposto per cui "l’uomo è per l’uomo l’essenza suprema" fa discendere "l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole".


Cap. XI L’uomo

Nella vita di ogni uomo é agevole reperire delle contraddizioni. La biografia di Marx ne abbonda. Si tratta di contraddizioni a tal punto evidenti e senza mediazioni che non sorprende il fatto che siano state utilizzate da alcuni per esaltare l’eroico difensore dei diseredati, da altri per demonizzare il cinico stratega della violenza rivoluzionaria. Se si pongono a confronto, per fare un solo esempio, il discorso funebre di Engels e l'astiosa valutazione della personalità di Marx di P. Sylos-Labini, si ha l'impressione che si parli di due diverse persone. E' superfluo aggiungere che tra i marxisti prevale la tendenza agiografica e tra gli antimarxisti, e soprattutto tra gli ex-marxisti, quella demonizzante. Un'eccezione di rilievo è rappresentata da Popper, la cui giovanile simpatia per Marx, seppure abiurata, si riflette nel giudizio sostanzialmente positivo che egli dà di un uomo e di un'impresa intellettuale che egli intende, peraltro, demolire criticamente.

Reperibili nel pensiero, nell’attività militante e nella vita privata, quelle contraddizioni affondano le loro radici nella personalità di Marx, che, per molti aspetti, rimane misteriosa. Marx non indulge, neppure nel ricchissimo epistolario con Engels, all’autobiografia. Tranne le ricorrenti lamentele per i disturbi psicosomatici e le precarie condizioni economiche, e alcuni cenni alla vita familiare è difficile reperire negli scritti di Marx degli indizi sulla sua vicenda privata. Anche i 'ritratti' delle figlie sembrano indulgere all'iconografia. Alcuni dati oggettivi biografici sono però estremamente significativi.

Precocemente, Marx manifesta la sua avversione nei confronti del modello di vita borghese, proprio della famiglia, e dell’atteggiamento paterno, rivolto, anche al prezzo di una conversione spuria dall’ebraismo al protestantesimo, ad integrarsi nella società del tempo. Per quanto le sue doti intellettive gli consentano di portare avanti gli studi brillantemente, Marx, dopo l’iscrizione all’Università, è tutt’altro che uno studente modello. Per un verso, nutre sempre troppo interessi - arte, letteratura, storia, filosofia - per potersi concentrare su di un argomento specifico. E’ troppo esigente nei confronti dei docenti, per cui, annoiandosi, tende a non frequentare i corsi. Ama, poi, intensamente la vita, e la ama sul registro romantico della sregolatezza. Beve, fuma, spende e spande, si accapiglia con gli amici, gira di notte schiamazzando. E’ letteralmente divorato da una fame di sapere incontenibile e da una fame di vivere spiccatissima. Questa contraddizione, piuttosto singolare, spiega la sua avversione - destinata a rimanere costante - e nei confronti della cultura intesa come strumento di integrazione sociale, piegata cioè al calcolo del vantaggio personale, egoistico, e nei confronti dello stile di vita borghese, alla sua epoca tendenzialmente ascetico e incentrato su un controllo molto rigido delle emozioni. L’uomo ricco e universale, aperto alla vita su tutti i fronti, bisognoso di una totalità di manifestazioni umane, ha la sua radice anzitutto nel modo in cui Marx, sin da giovane, sente e vive: un modo passionale. L’odio di Marx nei confronti dell’ "ipocrisia" borghese precede di gran lunga l’elaborazione teorica, l’adesione al comunismo; è un tratto "viscerale", comune a tante anime giovanili vivaci e irrequiete.

L’individualismo romantico giovanile non è però radicale. Marx ha un vivacissimo senso di giustizia che lo porta precocemente a pensare che la sua rivendicazione di vita totale ha un significato che trascende la sua esperienza personale, e si pone come bisogno proprio dell’uomo, universale. Sicchè, quando si imbatte, prima per caso, interessandosi delle legge della Dieta renana sui furti di legna, e poi di persona, a Parigi e a Bruxelles, nella miseria dei lavoratori, e ha modo, frequentando i circoli operai socialisti, di apprezzare la profonda dignità e la vivacità teorica, spontanea, dei diseredati, il suo destino è segnato. Nulla, ai suoi occhi, potrà mai giustificare la miseria, la degradazione e l’abiezione in cui vive la stragrande maggioranza delle persone. L’adesione al comunismo radicalizza e estende all’umanità tutta il diritto, vissuto da Marx come primario, di una vita che abbia senso: senso per l’individuo in quanto tale e per l’individuo in quanto ente sociale.

La miseria in cui vive l’umanità, e l’intuizione di una incoercibile aspirazione alla felicità propria della natura umana, resa evidente dal mondo prodotto dall’uomo, il mondo dei beni di ogni genere - materiale e culturale - è l’ossessione destinata a perseguitare Marx vita natural durante e a spiegare il suo radicalismo. Nonostante nelle opere sia costante il riferimento al fatto che i comportamenti umani sono determinati più dalle circostanze oggettive che dalla coscienza, e che dunque anche i capitalisti sono vittime (privilegiate) dell’ingranaggio che essi hanno messo in movimento, quella miseria attiva in Marx, dall'inizio della sua adesione al comunismo sino alla fine dei suoi giorni, una indignazione e una rabbia biblica, spietata. Nel corso del suo funerale, uno degli amici che lo ha frequentato lungamente - Liebknecht - coglie appieno il senso di questo orientamento passionale riconducendolo ad un amore infinito per l'uomo, per ciò che l'uomo potrebbe essere, che genera odio nei confronti dello stato di cose esistente, del potere che lo mantiene e della classe dominante che ad esso affida la tutela dei suoi privilegi. E’ un fatto che, assolutamente convinto della giustezza delle sue teorie, nella cui realizzazione pratica identifica la fine della preistoria umana e l'avvento del regno della libertà e dell'uomo nuovo, Marx non ha pietà alcuna per chi concorre, direttamente o indirettamente, a mantenere l’umanità in uno stato degradato. La campana a morte che egli fa risuonare sulla borghesia non é una metafora. L'ordinamento borghese ottocentesco è di fatto tale da indurre a pensare che il parto del comunismo non possa avvenire senza lacerazioni e senza sangue. Il ricorso alla violenza rivoluzionaria è in intima contraddizione con i postulati antropologici marxiani per cui in ogni individuo si esprime il genere umano e con l'analisi del sistema capitalistico che vede in esso, una volta avviato, una macchina che impone a tutti le sue leggi coercitive. Non risulta in alcun modo che Marx si sia reso conto di questa contraddizione tra l’umanesimo e il ricorso alla violenza rivoluzionaria. Se se ne fosse reso conto, si danno pochi dubbi riguardo al fatto che egli avrebbe avallato la necessità del cinismo in nome del principio per cui il fine giustifica il mezzo. A differenza di molti intellettuali umanitaristici, per i quali l’umanità è un’astrazione, per Marx esistono solo gli individui reali, in carne e ossa. Accettare che essi, in gran parte, vivano in condizioni degradanti, significa per Marx comportarsi da "bue". La necessità e l’urgenza del cambiamento impongono di mettere da parte ogni remora morale o, meglio, di privilegiare i diritti e gli interessi dell’umanità tutta rispetto ai diritti e a gli interessi di una classe particolare, minoritaria. Cionondimeno non si possono trascurare le interviste concesse a corrispondenti di nazionalità diversa dopo la fine della Comune di Parigi nelle quali il progetto politico comunista riconosce come condizioni preliminari alla sua realizzazione l'educazione, la riforma delle coscienze e, quindi, il tempo.

Spietato con la borghesia, Marx non lo è di meno con i socialisti o anche con i comunisti che, ritenendo impossibile una rivoluzione e puntando sul riformismo, diventano ai suoi occhi, sia pure non sempre consapevolmente, dei traditori. Sterminato è l'elenco di coloro con cui Marx, dopo un qualche sodalizio, per scritto o di persona, litiga e polemizza aspramente, giungendo a condanne inappellabili, quasi sempre associate ad un perdurante disprezzo. Marx è un polemista al vetriolo: da Proudhon a Lassalle, gli avversari li demolisce sia sul piano teorico che su quello personale. Anche per questo aspetto, il suo cinismo può turbare. Ma che si tratti di un atteggiamento tattico, è attestato dal fatto che, allorché essi vengono meno, il riconoscimento del loro valore umano e della dignità della loro lotta, pur giudicata errata, è esplicito e, in alcuni casi, commosso. La "spietatezza" di Marx non può essere estrapolata dal contesto storico ottocentesco che l’ha generata, né può essere equivocata come espressione di giacobinismo. In Marx, nella psicologia di Marx, non v’è nulla che abbia a che vedere con una fede cieca nei principi della Ragione. Egli è e rimane un romantico, il cui amore per l’uomo - ch’è la radice di tutte le cose - promuove l’indignazione, la rabbia e l’odio contro tutto ciò che lo opprime, lo umilia e lo degrada.

Anche la vita privata di Marx abbonda di contraddizioni. Mettendo tra parentesi la circostanza per cui egli avrebbe avuto dalla governante un figlio naturale che avrebbe fatto adottare a Engels - circostanza di cui non si dà alcuna prova certa -, è fuor di dubbio che nel ruolo di figlio, di padre e di marito il comportamento di Marx possa essere riprovato per molti aspetti. Il rapporto con il padre, dacchè Marx diventa studente universitario, è segnato da un conflitto irrimediabile, anche se non raggiunge mai un’asprezza particolare. Il padre, consapevole della genialità del figlio, non ne comprende però le inquietudini e i disordini. Vorrebbe che le sue doti fossero messe a frutto ragionevolmente, nella direzione di un’integrazione sociale accademica o professionale. Marx non può soddisfare le aspettative paterne, poiché l’ambiente accademico è nel suo complesso codino e conservatore e poiché il suo sentimento della vita è inconciliabile con quello paterno.La rottura con la madre, una donna piuttosto rozza e di mediocre cultura, intervenuta per una totale incomprensione reciproca dopo la morte del padre, è invece più drammatica. E’ una rottura reciproca totale e gelida che non evoca mai in Marx alcun ripensamento. Ciononostante, non appena la "vecchia" muore, Marx corre a ritirare la sua parte di eredità, ed esprime addirittura un qualche giubilo per una liberazione che gli risolve parecchi problemi finanziari. In questa circostanza, il cinismo morale di Marx appare senz’altro inquietante. Ma, per quanto criticabile, esso va ricondotto al fatto che Marx, emotivamente e teoricamente, non sacralizza i rapporti di sangue, privilegia anzi quelli acquisiti, soprattutto quando essi si fondano su di una profonda affinità. Marx non teme di odiare a morte perché è capace di amare profondamente.

Marx conosce la futura moglie - Jenny von Westphalen - quando ha appena diciott’anni. Il legame che si instaura tra di loro è destinato a durare tutta la vita. E’ un legame sentimentale, culturale e ideologico. Benché di nobili natali, la moglie ha una spiccata sensibilità per i problemi sociali e, pur non avendo alcuna predisposizione per gli studi teorici, condividerà sempre le idee del marito e accetterà, senza mai lamentarsi, una scelta di vita pagata a caro prezzo. Nonostante l’amore, Marx ha però nei suoi confronti un comportamento poco attento. Jenny è pressoché di continuo incinta, e, tra gravidanze, allattamenti e gestione domestica, spesso, pur senza protestare, versa in uno stato di prostrazione completa. Le bocche da sfamare sono, peraltro, l’ incubo costante di Marx, e non sorprende che allorché esso viene scongiurato da un aborto spontaneo o da un a morte precoce, egli tira un respiro di sollievo. Solo in occasione della morte di un maschio già grandicello, sviluppa un dolore autentico e lacerante. Il rapporto con le tre figlie è ottimale finchè esse sono piccole. Nonostante l’impegno intellettuale quotidiano, Marx ci gioca spesso, racconta loro interminabili favole a puntate di sua invenzione e, non appena sono grandicelle, le introduce al mondo della letteratura classica e contemporanea e le rende partecipi della sua visione del mondo, libertaria, laica e appassionata. Cionondimeno, non manca di interferire ripetutamente nella loro vita affettiva con atteggiamenti talora morbosamente gelosi, talaltra sorprendentemente conservatori. Nel complesso, come la madre, le figlie sono rimaste completamente schiavizzate dalla personalità prepotente e "maschilista" di Marx. Senza cadere nell'acrimonia delle critiche astiose, la circostanza per cui due di esse sono finite suicide (sia pure a distanza di anni dalla morte del padre), non può non far pensare che la vita di famiglia, e per una perenne precarietà economica e per una cultura per molti aspetti disadattiva rispetto al mondo borghese, abbia inciso profondamente sulla loro psicologia .

Se queste contraddizioni vengono estrapolate dalla biografia, la personalità di Marx risulta per molti aspetti negativa. Ma ciò significa né più né meno valutare un grande uomo dal buco della serratura. Se ne danno numerosi altri che depongono a favore di una personalità poco equilibrata, ma umanamente molto ricca. L’amore per la vita, affiorato tumultuosamente fin dalla giovinezza, si mantiene costante anche negli anni segnati dalla miseria e dall’isolamento. Serissimo nell’impegno intellettuale, Marx, nel tempo libero, ama molto il contatto con la natura, le feste danzanti, gli scherzi. Il suo spirito rimane sorprendentemente goliardico, e coinvolge sia i familiari che gli amici. Marx è, poi, generosissimo. Nonostante le precarie condizioni economiche in cui vive sino a quando Engels mette a sua disposizione un vitalizio, non viene mai meno al dovere di assistere e aiutare in ogni modo i suoi compagni di lotta, i rifugiati politici, ospitandoli nella sua casa e dividendo con loro il suo magro bilancio. Nonostante il suo odio nei confronti del filantropismo, l'incontrare per strada dei miserabili lo coinvolge totalmente, ed egli si spoglia del poco che ha anche a costo di affamare la famiglia. Il tratto più rilevante della personalità di Marx, comunque, è la coerenza etica. Nessuno può ragionevolmente dubitare che egli, con le sue doti intellettuali, non avrebbe avuto difficoltà alcuna a raggiungere uno status sociale prestigioso - come accademico o in una qualunque libera professione. Sicché l'accusa che gli è stata più volte rivolta di aver contagiato il proletariato della sua invidia 'nevrotica' nei confronti dei capitalisti è francamente ridicola. Il fatto è che, dal momento in cui - cominciando a interessarsi delle condizioni della classe lavoratrice - Marx si imbatte nell'ingiustizia, nello sfruttamento e nella degradazione umana, egli non ha più scampo. L'onestà intellettuale e la capacità di mettersi nei panni degli oppressi lo inducono a mettere da parte i privilegi di nascita (relativi peraltro, per via delle origini ebraiche) e a operare una scelta di campo definitiva. La scelta è stata pagata (e fatta pagare alla famiglia) al prezzo di una vita che, in molti periodi, si è svolta sullo stesso registro di precarietà e di bisogno in cui versava la classe lavoratrice. Egli stesso ha ironizzato sul fatto di essersi interessato sempre di denaro senza quasi mai averne. Nel prezzo pagato alla coerenza, occorre aggiungere anche le sofferenze psicosomatiche, difficili peraltro da valutare per via del fatto che Marx, a riguardo, è estremamente riservato. Solo di rado, nell’epistolario con Engels, si lamenta dei suoi ricorrenti disturbi, e sempre per sottolinearne il carattere invalidante in rapporto all’attività intellettuale. Di certo, si sa che egli ha sofferto di terribili emicranie e di attacchi di neurastenia che duravano, talora, alcuni mesi. Molteplici fattori devono aver concorso a mantenere una condizione che, oggi, si definirebbe ipocondriaca. Marx è un intellettuale perfezionista, mai appagato dalla documentazione di cui dispone e perennemente alla ricerca di un’esposizione stilisticamente e logicamente inattaccabile. Non riesce quasi mai a rispettare le scadenze editoriali, né i tempi che si dà. Eccezion fatta per i periodi di riposo forzato imposti dalla neurastenia, lavora regolarmente, ma, nei periodi di più intensa creatività, rinuncia spesso al sonno e si alimenta male. Benché perfezionista, ha una natura libertaria, insofferente di ogni vincolo. Sommando queste due circostanze, riesce chiaro che, per portare a termine un lavoro, deve farsi letteralmente violenza. Via via che la sua ricerca si tecnicizza, diventando sempre più una critica dell’economia borghese, e richiedendo un aggiornamento continuo, Marx accantona, sia pure malvolentieri, gli interessi letterari, artistici, filosofici. E’ presumibile che gran parte dei disturbi psicosomatici siano da ricondurre, oltre che alle condizioni economiche perennemente precarie, a una disciplina intellettuale troppo rigorosa, coartante e poco compatibile con una fame di vivere mai doma. Come pure non si può escludere che, nonostante le conclamate certezze che egli esprime nelle sue opere, il lavoro intellettuale sia stato animato a più riprese da dubbi di ogni genere: meno sulla teoria materialista e dialettica che sui tempi e sui modi di realizzazione del comunismo. Da ultimo, occorre tener conto che Marx, pienamente consapevole della sua genialità, vive per anni nella frustrazione dell'anonimato e degli scarsi riconoscimenti sociali conseguiti. La sua fama di capo della I Internazionale, a partire dali anni '60, si estende a tutta l’Europa e varca anche le frontiere continentali. Ma intanto, eccezion fatta per i lavoratori, si tratta di una fama sinistra, che lo qualifica come sobillatore degli animi contro il potere costituito e l'ordine sociale. E poi c’è da considerare che Marx, che ha sacrificato all’attività intellettuale, secondo la sua stessa testimonianza, il successo, la famiglia, la salute, tiene molto, oltre che alle sue idee, alle sue opere. Ma perfino Il Capitale, nell’anno della sua pubblicazione, viene venduto in un numero irrisorio dicopie e ha una ben scarsa risonanza.

L'intensità con cui Marx ha vissuto la sua "missione" consente, almeno in parte, di comprendere le contraddizioni espresse a livello di vita privata. Nella biografia di molti uomini grandi, la passione intellettuale e l’affettività confliggono inesorabilmente. Per quanto concerne Marx, poi, quella passione è animata da una tensione etica che dà ad essa per l’appunto il carattere di un’impresa inderogabile. Tale tensione subordina il privato al politico: è un dato di fatto, che si impone alla coscienza come un dovere assoluto. Marx ha più volte riconosciuto che un rivoluzionario di professione non dovrebbe assumersi le responsabilità di un capofamiglia. Lo si può incolpare, forse, di aver coltivato troppo l’odio contro il capitalismo, non di aver ceduto alle ragioni del cuore. Anzi alle ragioni di due cuori: quello del rivoluzionario e quello dell’uomo.

La personalità di Marx risulta contraddittoria soprattutto in conseguenza di questa scissione. La sua identificazione totale con l’umanità diseredata, al di là degli esiti teorici cui perviene in virtù di uno studio condotto avanti per tutta la vita, lascia pensare ad un corredo originario particolarmente ricco sotto il profilo emozionale. Il suo motto preferito - l’ovidiano Nihil umani a me alienum puto - attesta anche una comprensione nei confronti delle debolezze e delle contraddizioni umane che male si accorda con l’assunzione del ruolo di minaccioso fustigatore biblico della classe borghese. In effetti il Marx - per così dire - migliore lo si ritrova, negli scritti, laddove l’analisi del sistema capitalistico si configura come un prodotto della storia le cui leggi, assunte ideologicamente come oggettive, sfuggendo al controllo di tutti, irretiscono gli stessi capitalisti: in breve, laddove il rapporto tra soggettività e storia sociale viene intuito come tale da trascendere la consapevolezza individuale. C’è da chiedersi dove sarebbe giunta la teorizzazione di Marx se egli avesse potuto approfondire questa intuizione, e approdare alla nozione di inconscio sociale che è implicita in molti passi della sua opera. In difetto di questo approfondimento, l’umanesimo di Marx deve piegarsi alle esigenze della politica. Le colpe del sistema capitalistico implicano degli agenti umani, dunque dei responsabili che, in conseguenza della trasformazione del giudizio oggettivo in giudizio morale, diventano dei colpevoli. E si tratta di colpe contro l’umanità a tal punto terribili che obbligano ad accantonare la pietas per una specie che è ancora alla ricerca di se stessa e impongono il cinismo: la lotta di classe violenta e determinata. Il fine di questa lotta non è la vendetta (poiché le vittime della storia non potranno in alcun modo essere ripagate), quanto piuttosto l’evitare ulteriori sacrifici inutili. Solo chi sa a qual punto una sensibilità ulcerata dall’ingiustizia può promuovere l’indurimento e l’anestesia emozionale, può comprendere l’indignata spietatezza di Marx. E non confonderla, in quanto fondamentalmente emozionale e compensatrice di uno stato personale di impotenza, con quella di alcuni eredi che l’hanno praticata disponendo del potere.


Cap. XII L'eredità di Marx

La morte del comunismo, che assegnerebbe al pensiero di Marx un valore meramente storico, è diversamente argomentata. Gli anticomunisti viscerali vedono in essa la fine di un progetto illiberale che, promettendo il paradiso sulla terra, ha fomentato l’odio sociale, ha prodotto regimi oppressivi e spietati e ha rischiato di interferire con lo sviluppo del capitalismo e con la sua globalizzazione destinata a migliorare gradualmente le condizioni di vita sulla faccia del pianeta. Da questo punto di vista, la morte del comunismo coincide con l'affermazione del primato della civiltà europea, delle sue istituzioni liberal-democratiche e del suo modo di produzione capitalistico, e con la proposizione al mondo intero di quelle istituzioni e di questo modo come modelli cui ispirare lo sviluppo per civilizzarsi e accedere al regno della ricchezza. Il pericolo che una tale estensione - incentrata sullo sfruttamento intensivo delle risorse umane e delle risorse naturali - possa provocare una catastrofe ecologica irrimediabile, viene minimizzato in virtù di una cieca fiducia nelle capacità della scienza di affrontare e risolvere i problemi in atto e quelli che, via via, si porranno.

Gli studiosi non marxisti, ma non pregiudizialmente ostili, pur riconoscendo a Marx l'onore delle armi, e cioé considerando la sua utopia fondata su principi umanitari sostanzialmente non diversi da quelli dell'ideologia liberal-democratica e la sua impresa intellettuale degna del massimo rispetto, giudicano il suo sistema nella sua totalità superato dagli eventi storici. L'interdipendenza dei popoli, delle culture, delle economie - lo scambio universale intravisto da Marx, ma attribuito erroneamente alla logica del capitalismo, mentre esso sarebbe dovuto sostanzialmente allo sviluppo dei mezzi di comunicazione - rappresenterebbe oggi il presupposto di una necessaria integrazione tra gli stessi. Tale integrazione, proprio per il suo carattere necessario, non potrebbe prescindere dall'esigenza di un superamento dei conflitti - sia intra- che intersistemici - in nome di una mediazione che consenta a ogni gruppo umano, a ogni etnia, a ogni nazione di coltivare la sua identità differenziata in un regime di cooperazione internazionale. Da questo punto di vista, il modello della società aperta di Popper sembra il più adeguato ai problemi del mondo contemporaneo.

Tranne rare eccezioni, gli intellettuali marxisti tacciono, come fossero oppressi da una frustrazione epocale e come se l'eredità culturale giunta fino ad essi, la cui acquisizione è stata spesso il frutto di una vita dedicata agli studi, gravasse sulle loro spalle come un fardello. Tacciono, con rare eccezioni, poiché chi ha una formazione marxista, un habitus mentale e uno stile di vita marxisti, non può spogliarsene; ma esibirlo, evidentemente, si associa, se non ad una qualche vergogna, alla consapevolezza di esporsi ad un linciaggio culturale. Il muro di Berlino, il muro della vergogna sembra essersi ricostruito nello spessore delle soggettività, e, quando crolla, dà luogo, con una certa frequenza, all’abiura. I marxisti militanti, impegnati in politica, viceversa, rivendicano la loro fede con l'orgoglio dei resistenti e dei dissidenti in un mondo che - prima o poi - dovrà riconoscere il valore della loro testimonianza. Le loro strategie però, per quanto coerenti con i valori marxisti, pagano un tributo pesante alla logica del sistema capitalistico e alla mentalità borghese che si è diffusa a macchia d'olio presso la classe operaia, e, di necessità, si pongono sul terreno della rivendicazione di una migliore qualità della vita. Le ingiustizie presenti nel corpo sociale rendono tale rivendicazione inoppugnabile per principio. Ma, nei fatti, essa si riduce a riproporre lo Stato - riformato - come garante degli interessi collettivi, e dunque attivamente inserito nel tessuto della vita sociale, economica e culturale, e orientato anzitutto a realizzare una più equa distribuzione delle risorse economiche. Si tratta di un fine ovvio, laddove si consideri il fatto che, nelle società occidentali, sono i ceti più deboli a pagare le ricorrenti crisi recessive, e che la povertà relativa, preconizzata da Marx come alternativa alla depauperizzazione proletaria, sta diventando un problema sociologico di portata rilevante. Ma intanto tale fine confligge con la crisi dello Stato sociale, che, anche laddove ha raggiunto la massima espansione, non sembra in grado di reggere il peso delle nuove e contraddittorie richieste del capitalismo, che pretende nel contempo di avere le mani libere e che gli sia assicurata, in ogni contesto nazionale, una rilevante sicurezza sia sociale che politica. E, in secondo luogo, quella stessa crisi ha rivelato i limiti di un progetto social-democratico, capace di funzionare come un ammortizzatore e un volano rispetto all'evoluzione ciclica del capitalismo, ma non di renderlo più attento ai bisogni sociali. La mondializzazione del mercato rischia anzi, nel nome della legge assoluta della concorrenza, di far apparire nuovamente il volto selvaggio del capitalismo laddove esso si insedia e di smascherarlo laddove esso è convissuto celandosi sotto la maschera dello Stato sociale. Sicchè non sorprende affatto che, all'alba del terzo millennio, il messaggio marxiano suoni all’univoco - mutatis mutandis - con il vangelo sociale della Chiesa, che è divenuto di nuovo altamente competitivo, e la cui asprezza critica nei confronti dell'individualismo e dell'egoismo capitalistico è pari a quella di Marx, anche nelle sue valenze moralistiche.

I partiti politici di ispirazione marxista devono inoltre affrontare, nei paesi occidentali, una società diversa nella sua composizione rispetto a quella analizzata da Marx. La classe operaia, anche se non è scomparsa e non è destinata a scomparire, si va indubbiamente assottigliando e, per molti aspetti, integrando al sistema. La borghesia, viceversa, soprattutto per la proliferazione del terziario, rappresenta ormai più della metà della popolazione. I ceti più deboli riconoscono una forte rappresentanza di emarginati, che però è estremamente eterogenea perché comprende, oltre ai disoccupati e ai pensionati, tossicodipendenti, piccoli criminali, malati mentali, immigrati, ecc. Si tratta dunque di ceti la cui coscienza sociale, per quanto animata di rivendicazioni più o meno consapevoli di giustizia, è ben lontana da quella proletaria analizzata (e in parte mitizzata) da Marx; e la cui difesa confligge con la necessità di cooptare i ceti moderati.

Anticipando un modello epistemologico solo di recente messo a fuoco, nell'ambito della teoria dei sistemi complessi, Marx ha affermato che il cambiamento sociale si realizza solo laddove si diano circostanze strutturali - da lui identificate nel conflitto tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione - incontenibili nell'ambito degli stati di equilibrio propri del sistema in questione. Perciò la legge dell'accumulazione capitalistica, che egli prevedeva si traducesse in una pauperizzazione crescente della classe operaia, svolge, nel pensiero marxiano, la funzione di levatrice della storia. Scongiurato, almeno localmente e parzialmente, all'interno delle nazioni occidentali, tale pericolo, le doglie del parto risultano inefficaci, se si eccettua la sofferenza soggettiva di chi vive nella precarietà o in una condizione di miseria assoluta e relativa. Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sembra incontenibile, e, oltre a continuare a richiedere, su scala mondiale, il tributo di sacrifici umani, esso minaccia direttamente gli equilibri ecologici, da cui dipende l'umanità tutta attuale e futura.

Non mancano, infatti, allargando gli orizzonti critici alla totalità del mondo dominata da tale sviluppo elementi inquietanti che giustificano la diagnosi di Marx. I cicli di espansione e di recessione del modo di produzione capitalistico, nonostante i correttivi adottati che devono non poco al pensiero di Marx, sono accettati ormai come fisiologici. Ma, oltre al fatto che la recessione viene sistematicamente pagata dai ceti meno abbienti, il problema è che le crisi economiche, per quanto prevedibili, non lo sono nella loro entità. Il capitalismo procede né più né meno come una macchina sul ghiaccio, il cui assetto rimane perfetto finchè, per una serie di variabili poco o punto governabili, non sopravviene una brusca sbandata. Tra i correttivi, alcuni economisti inseriscono anche il capitalismo finanziario, che dovrebbe funzionare come volano del mercato. Ma, secondo altri, l’entità dei capitali produttivi di interesse che si aggirano sul mercato mondiale alla ricerca del profitto, nella loro entità che eccede il prodotto interno lordo delle maggiori economie nazionali, è tale che la speculazione, anzichè correggere gli squilibri del sistema, può accentuarli catastroficamente. La corruzione morale del sistema ad opera del capitale, preconizzata da Marx, è una realtà di fatto che investe tutte le nazioni sviluppate. E laddove - come nei paesi del Sud-Est asiatico o nei paesi dell’Est europeo - il capitalismo prende radici e si sviluppa, il suo volto selvaggio, disgregativo di tutti i valori culturali, morali e sociali che lo ostacolano, risulta massimamente evidente.

Il problema del capitalismo è dunque del tutto attuale, nonostante la sua diffusione mondiale rende meno immediatamente evidenti nelle società occidentali, rispetto all'epoca di Marx, le sue conseguenze socio-economiche e culturali. Ciononostante, esso sembra trionfare e incontrare ovunque (eccezion fatta per numerosi paesi dell'Est europeo, compresa la Russia, per la Cina, che sta tentando una complessa mediazione tra comunismo e mercato, e per l'Islam teocratico, refrattario a ogni suggestione occidentale) una resistenza politica decrescente. Come spiegare questo paradosso per cui il comunismo, che quel problema, grazie a Marx, lo ha colto lucidamente, è ritenuto morto e di fatto politicamente ha perso gran parte del terreno e del consenso conquistato fino alla fine degli anni '70?

Il problema è estremamente complesso, ma, volendo azzardare un’ipotesi forte, e dunque inesorabilmente riduttiva, si può dire che le contraddizioni del capitalismo - ciascuna delle quali è gravida di pericoli non solo per l’economia ma per l’organizzazione sociale nel suo complesso: in breve per la civiltà - non sono più dati di esperienza comune e diretta, come era lo sfruttamento lavorativo degli operai nell'Europa ottocentesca. Per essere colte e apprezzate nel loro significato, che rende le previsioni di Marx sulla mondializzazione del capitalismo addirittura ottimistiche in rapporto a quanto di fatto sta accadendo, esse richiedono di trascendere il piano dell'esperienza reale, immediata; richiedono in breve una cultura storica, sociologica, economica, ecologica e psicologica, nonché una capacità di analisi di gran lunga più profonde rispetto al passato. La formazione delle coscienze, che Marx riteneva, ai fini della rivoluzione, potesse esaurirsi immediatamente nell'acquisizione delle leggi proprie di sviluppo del capitalismo, appare oggi un problema ancora più importante che in passato; un problema estremamente complesso, peraltro. A differenza delle fedi religiose, il cui tessuto concettuale teologico è di una straordinaria (e contraddittoria) complessità, ma i cui principi possono essere impartiti ai bambini in virtù di una semplificazione estrema che li rende ad essi accessibili, il marxismo comporta un tessuto concettuale non meno complesso e coerente che, però, non può essere semplificato in alcun modo senza perdere il suo senso autentico. Un tessuto concettuale, peraltro, che, confrontandosi con una realtà storica profondamente diversa - nella sua fenomenologia se non nella sua struttura - da quella analizzata da Marx, non ha alcun potere esplicativo di per sé, poiché postula uno sforzo di riflessione su quella realtà che si può ritenere la frontiera creativa del marxismo. Ciò significa che si tratta di un sapere destinato ad essere coltivato esclusivamente da intellettuali, e che la riforma delle coscienze si pone, contrariamente a quanto pensava Marx, come preliminare per la rinascita del comunismo? L'ipotesi è inquietante, perché pone in gioco alcuni caposaldi della tradizione marxista e pone non pochi problemi di ordine sia teorico che pratico. E' un fatto però che il gap tra coscienza comune e coscienza marxista della storia, che Marx ha posto in luce con la sua stessa impresa intellettuale, peraltro minimizzandolo nel nome di una fiducia illimitata nell’uomo, rimane un problema di enorme importanza. Risolverlo, in ultima analisi, è l'eredità di Marx.


1) Sintesi del pensiero di Marx

Engels per primo ha scritto che il pensiero di Marx nasce dalla confluenza e dall’elaborazione creativa di tre diverse componenti culturali: la filosofia tedesca, l’economia classica inglese, il socialismo francese. Nonostante Marx sia giunto rapidamente - con l’Ideologia tedesca - a delineare un sistema di pensiero autonomo, nettamente differenziato e dotato di una notevole coerenza interna, l’influenza di queste componenti è agevolmente dimostrabile. In tutta la sua opera, esplicitamente e implicitamente, Marx dialoga di continuo criticamente con Hegel e Feuerbach, Smith e Ricardo, Saint-Simon, Fourier e Proudhon. L’influenza della filosofia tedesca è, per ovvi motivi, primaria. Marx si forma in un ambiente accademico ancora impregnato di hegelismo, per quanto scisso tra le interpretazioni hegeliane di destra e di sinistra. Egli giunge ad Hegel attraverso la mediazione di Feuerbach. In questi, Marx reperisce due temi che, in una qualche misura, gli sono congeniali, nel senso che sistematizzano un’intuizione laica e antropocentrica che già fa parte della sua personale visione del mondo. Assumere l’uomo come radice di tutte le cose impone di chiedersi come mai nel corso della storia l’uomo abbia stentato a prendere coscienza del suo ruolo. La risposta di Feuerbach esercita originariamente su Marx un fascino sottile. E’ la stessa grandezza e potenza dell’uomo, attestata dalla cultura, ad aver fatto velo alla verità, inducendo l’umanità ad attribuirla ad un Essere Supremo, a spogliarsene proiettandola fuori di sé, ad alienarla. La critica della religione si pone dunque come preliminare rispetto al compito di restituire all’umanità la piena consapevolezza del suo significato naturale e del suo destino mondano.

Rapidamente Marx, i cui entusiasmi intellettuali sono sempre assoggettati ad un implacabile vaglio critico, scopre i limiti del pensiero di Feuerbach. La concezione feurbachiana dell’uomo concerne, infatti, un’astrazione: la natura o l’essenza umana, che viene estrapolata dalla storia e dalla società. Il superamento di questa astrazione, nonostante tutto idealistica, non può avvenire che in virtù del riconoscimento che gli uomini concreti, in carne e ossa, vivono la loro vita reale solo in società e in una società storicamente determinata. L’essere nella e per la società, l’essere radicalmente sociale e radicato nella storicità si pone dunque, per Marx, come l’espressione primaria della natura umana. Ma ciò non significa che lo studio e l’analisi della società possa consentire di trascendere le astrazioni sull’uomo. Ogni organizzazione sociale, sia pure la più primitiva, è una realtà complessa, stratificata, dominata inesorabilmente dalle idee che gli uomini si fanno, o sono indotti a farsi, riguardo alla loro realtà e al tipo di società cui appartengono. Quello che una società pensa di se stessa, o quello che, al suo interno, pensano i singoli individui, non può essere trascurato, ma neppure sopravvalutato. I processi storici, quelli che danno ad una determinata società una forma, un’organizzazione, una struttura e, infine, una coscienza di sé, una coscienza sociale, pur essendo reali, non sono mai immediatamente visibili. Il radicamento storico della coscienza non si associa mai alla consapevolezza di tale radicamento.

Non per caso, dall’avvento e nel corso dello sviluppo storico, l’alienazione religiosa si è associata sempre ad un’alienazione politica. Marx arriva a questa convinzione partendo da vicino, sottoponendo ad un'analisi critica i diritti dell’uomo e del cittadino sanciti dalla Costituzione francese del 1793 e la filosofia del diritto di Hegel. La conclusione cui giunge, e che ha valore per tutte le società storiche, è che l’uomo vive una doppia vita: una come membro di una comunità i cui principi, pur diversi di epoca in epoca, sanciscono l’ordine di cose esistente come funzionale ai fini dell’interesse generale; un’altra come membro della società civile, definito da un determinato ruolo sociale, espresso dal lavoro che egli svolge - manuale o intellettuale - e dall’accesso che tale ruolo determina alla ricchezza materiale e sociale, ai beni prodotti attualmente e al patrimonio culturale prodotto dall’umanità nel corso del suo sviluppo storico. La distinzione tra l’organizzazione politica dello Stato e la società civile, tra ciò che una società pensa di essere nei suoi ordinamenti giuridici, religiosi e filosofici, e ciò che di fatto essa è, e si può ricavare dalla vita reale dei suoi singoli membri, orienta Marx verso un approccio epistemologicamente rivoluzionario alla storia. Si tratta infatti di prescindere dalla consueta ricostruzione incentrata sugli eventi politici e militari, sui capi e sugli Stati, e di rivolgersi alla storia delle masse, delle società globali, degli uomini concreti nel loro tempo. Si tratta di aprire gli occhi sulla realtà di come gli uomini vivono e interrogarsi sulle ragioni per cui essi sembrano incapaci di affrancarsi definitivamente dalle alienazioni religiose e politiche. Quali processi reali, invisibili, li determinano, e li hanno sempre determinati, ad accettare una realtà sostanzialmente miserabile per i più e indegna della loro potenziale grandezza? C’è, nella struttura sociale, qualcosa di più profondo e determinante dell’alienazione religiosa e politica?

Marx trova la risposta nella società del suo tempo. La trova interessandosi di un evento storicamente minuscolo - una legge della Dieta Renana sui furti di legna secca -, la cui analisi pone in luce un significato che lo trascende: il rapporto reciproco tra l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte di una classe, che ratifica questo "diritto" piegando alla sua logica particolare l’apparato dello Stato, e l’espropriazione di tali mezzi a danno di un’altra classe, che, separata da essi, si ritrova priva di mezzi di sussistenza e dunque libera sul mercato del lavoro. E’ l’intuizione della genesi storica del capitalismo, che orienta Marx verso lo studio febbrile dei classici dell’economia. Ma si tratta di uno studio che avviene sullo sfondo di un interesse persistente per la filosofia e per la storia, com’è attestato dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 e da L’ideologia tedesca del 1845. I Manoscritti sono un abbozzo della critica dell’economia politica borghese, che diventerà lo scopo principale dell’attività intellettuale di Marx. Tutte le categorie economiche classiche - lavoro, capitale, profitto, denaro, proprietà, ecc. - vengono rivisitate, al fine di metterne in luce le contraddizioni, vale a dire sia il loro carattere astratto - per cui, per esempio, la proprietà privata è assunta come un fatto che non abbisogna di spiegazione - sia la loro incapacità di dare un senso compiuto alla realtà sociale cui si riferiscono. Che cosa caratterizza infatti il mondo borghese nato con la rivoluzione industriale? La risposta di Marx è univoca: la contraddizione per cui la "messa in valore del mondo delle cose", lo sviluppo delle forze produttive, la produzione della ricchezza, coincide con la svalutazione, l’immiserimento, la degradazione del produttore. Il tema dell’alienazione, per cui il prodotto del lavoro diventa estraneo al lavoratore e si pone di fronte a lui come una potenza indipendente, è centrale nei Manoscritti, e rappresenta la matrice della teoria del valore che sarà sviluppata ne Il Capitale. Ma, proprio per il fatto che Marx ancora non è impegnato in una impresa "scientifica", esso rivela uno spessore filosofico e morale destinato a diventare sempre più implicito nelle opere della maturità. Lo sfruttamento del lavoratore nel regime capitalistico non fa che perpetuare nel presente una condizione di ingiustizia che c’è sempre stata dall’avvento della storia. Cos’è che lo rende intollerabile, nel senso che impedisce di rassegnarsi all’idea che in esso si esprima semplicemente la legge del più forte, la legge dell’egoismo costitutiva della natura umana? Cos’è che induce a pensare che esso, nonchè stigmatizzato moralmente, debba essere superato praticamente? La risposta di Marx è semplice e essenziale. Il mondo prodotto dall’uomo nel corso del suo sviluppo storico, il mondo prodotto dall’attività umana, dal lavoro, il mondo della cultura - materiale e spirituale -, colto nella sua ricchezza, come patrimonio dell’umanità tutta, oggettiva una grandezza che non può essere attribuita ad alcun individuo particolare, ed è dunque espressiva della natura umana, dell’essenza della specie. In quanto tale la ricchezza non potrà rimanere per sempre estraniata rispetto ai produttori: essa dovrà essere riconosciuta come proprietà comune e fruita da tutti. Ciò che rende possibile questa riappropriazione è il sistema capitalistico stesso che ha impresso alla produzione della ricchezza e alla sua circolazione un’accelerazione mai conosciuta nella storia. Esso "ha fornito al popolo la libertà politica, ha sciolto i vincoli della società civile, ha collegato i continenti, ha creato il commercio, amico degli uomini, e la pura morale e la piacevole cultura; ha dato al popolo, invece dei suoi rozzi bisogni, bisogni civili e i mezzi della loro soddisfazione." (MEF, pg. 213) La ricchezza del mondo prodotto dall’uomo è infatti, anzitutto, la ricchezza dei bisogni umani, che si sono rivelati nel corso della produzione, e che, essendosi oggettivati, non possono più essere rimossi. Da questa condizione, dell’uomo potenzialmente ricco ma di fatto espropriato della possibilità di fruire della ricchezza sociale, discende la necessità morale e l’inevitabilità storica - posto che l’uomo prenda coscienza di quella condizione - della "reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo", vale a dire del comunismo.

Nei Manoscritti si definisce dunque il fondamento del materialismo storico per cui il motore della storia è il lavoro, l’attività trasformatrice della natura da parte dell’uomo, che postula la cooperazione sociale. Non è una scoperta in senso proprio. Marx riconosce a riguardo il suo debito nei confronti di Hegel: "L’importante della fenomenologia hegeliana ... è che Hegel intende l’autoprodursi dell’uomo come un processo, l’oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro" (MEF, pag. 263). Ma in Hegel il mondo oggettivo prodotto dall’uomo deve essere sormontato in nome del ricondursi dell’uomo a se stesso, in quanto soggetto spirituale, e, in virtù di questa consapevolezza, allo Spirito che lo trascende; in Marx, viceversa, quel mondo è l’essenza stessa dell’uomo oggettivata, resa dunque visibile e riconoscibile. Il problema, per quanto concerne l’uomo, è dunque appropriarsene e fruirne, il che implica non già un atto di autocoscienza bensì un cambiamento reale: la soppressione della proprietà privata, che esclude gran parte degli uomini dalla ricchezza sociale. In ciò, si realizza il passaggio dall’idealismo al materialismo storico. L’oggettivazione delle forze produttive umane nel mondo, la trasformazione della natura, la ricchezza della cultura materiale e spirituale è la seconda natura dell’uomo; quella nella quale solo egli può riconoscersi come ente naturale, sociale e universale.

Il materialismo storico è esposto compiutamente ne L’ideologia tedesca, scritta in collaborazione con Engels, che segna la rottura definitiva con l’idealismo. "Esattamente all’opposto della filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo" (LIT, pag. 13). La realtà terrena dell’uomo è quella di un essere sociale che in quanto tale, e non come individuo isolato, si rapporta al resto della natura in virtù di un’attività vitale consapevole, vale a dire del lavoro, che gli consente di soddisfare i suoi bisogni, di scoprirne di nuovi e di perpetuarsi riproduttivamente. La produzione e la riproduzione sociale della vita, che postula la cooperazione di un insieme di individui e la trasformazione della natura, è l’aspetto più caratteristico della specie umana. Essa implica un’organizzazione sociale, la divisione dei ruoli, la definizione di diritti e di doveri. Assumere la produzione come base o infrastruttura dell’organizzazione sociale significa che il modo di produzione specifico di ogni società determina la forma delle relazioni sociali, i rapporti che si stabiliscono tra i membri della società. Si tratta dunque di " spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc; e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentarne la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro)" (LIT, pp. 29-30).

L’ambizione dichiarata del materialismo storico è dunque quella di pervenire alla scienza della storia totale, vale a dire di giungere a spiegare, partendo dall’infrastruttura economica e tenendo conto dei nessi reciproci che essa intrattiene con la sovrastruttura - il diritto, la religione, la filosofia, l'arte, la scienza e le forme di coscienza, le visioni del mondo collettive e individuali -, sia una determinata formazione sociale sia il significato dello sviluppo storico nel suo complesso. In sé e per sé, il materialismo storico non comporta necessariamente il fatto che la storia abbia un senso. Esso è un metodo di analisi della realtà sociale, che non implica alcun giudizio di valore. E' evidente però che in Marx l'applicazione di questo metodo alle diverse fasi di sviluppo dei processi storici giunge a cogliere in essi un movimento dotato di senso. Ciò dipende, indubbiamente, dall’influenza hegeliana non meno che dai presupposti impliciti nel materialismo storico. La trasformazione della natura ad opera dell’uomo, fin dalle origini, eccede il fine della sopravvivenza adattiva. Essa pone in luce una passione trasformativa che, soddisfatti i bisogni primari, ne fa affiorare progressivamente di nuovi e di più ricchi. Come non cogliere in questo movimento un senso? e quale altro senso esso restituisce se non che l’uomo tende alla felicità, e identifica, anche inconsapevolmente, la felicità con il massimo dispiegamento individuale e sociale delle sue potenzialità, delle sue forze produttive? "... (lo) sviluppo delle forze produttive ( in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul pinao locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini" (LIT, pag. 23).

Metodo scientifico di analisi della storia totale, il materialismo storico comporta due possibili applicazioni metodologiche. Per un verso, esso consente di radiografare - per così dire - l’ anatomia di una società, identificando il suo modo di produzione, vale a dire sia i fattori che concorrono alla produzione sia i rapporti sociali che essi determinano. Per un altro, esso può essere rivolto allo studio totale di una formazione economico-sociale, vale a dire di una società storicamente determinata, al fine di spiegarne la struttura, i rapporti reciproci e interattivi tra infra- e sovrastruttura. Questa seconda impresa è ovviamente improba, e impegna un’intera vita intellettuale nell’analisi di una sola formazione economico-sociale. Se Marx avesse deciso di specializzarsi come storico, l’avrebbe di certo realizzata. Ma in lui, nella temperie che precede il ‘48, l’urgenza rivoluzionaria ha una spinta motivazionale ben maggiore rispetto a quella intellettuale. Non v’è da sorprendersi, pertanto, che ne L’ideologia tedesca egli adotti il primo metodo. Ciò gli consente di individuare quattro modi di produzione che si sono succeduti nel corso dello sviluppo storico: il modo di produzione tribale, quello schiavistico, quello feudale e quello borghese. Ognuno di questi modi di produzione è caratterizzato da una specifica forma di proprietà, da una specifica divisione del lavoro e da una specifica relazione interpersonale tra i membri. Su questa base determinata dallo sviluppo delle forze produttive, e in misura direttamente proporzionale alla divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro mentale, si eleva la sovrastruttura ideologica: la religione, il diritto, la morale, la filosofia, ecc. Qual è l’interesse di questa semplificazione estrema della storia dell’umanità? Essa, per Marx, consente di individuare una dinamica altrimenti invisibile che, con una periodicità variabile, dà luogo ad una rivoluzione della struttura sociale e di spiegarla. "Tutte le collisioni della storia hanno la loro origine nella contraddizione tra le forze produttive e la forma di relazioni" (LIT, pag. 32). Lo sviluppo delle forze produttive pone pressoché di continuo in tensione i rapporti di produzione, ma, al di là di un certo limite, tale per cui questi rapporti ostacolano quello sviluppo, essi sono destinati ad essere sostituiti da nuovi rapporti di produzione. Così è avvenuto nel passaggio dalle società antiche al feudalesimo, così nel passaggio dalla società feudale alla società borghese. Questa stessa società, in quanto fondata sulla proprietà privata, vale a dire su rapporti di produzione orientati solo alla produzione del profitto, è destinata inevitabilmente, nella previsione di Marx, ad andare incontro ad una crisi catastrofica in quanto lo sviluppo delle forze produttive che essa ha messo in movimento è destinata a risultare incompatibile con la proprietà privata. La scoperta della legge evolutiva della storia trasforma il materialismo storico in materialismo dialettico. E, col materialismo dialettico, la dinamica intrinseca che percorre la storia appare finalizzata alla felicità umana, di tutti gli uomini: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo..., a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista... e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere... verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma copletamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro... Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini)." (LIT, pp. 27-28)

Delineata la concezione dialettica della storia, si tratta, perché essa non rimanga una mera interpretazione filosofica, di applicarla alla realtà. Ciò significa, per Marx, criticare sistematicamente l’ordine di cose esistente, la società borghese, al fine di comprovarne la sua transitorietà; di individuare gli agenti sociali la cui condizione alienata postula che essi, in nome dell’umanità, si assumano il compito di lottare per cambiare rivoluzionariamente la società; e, fornita loro l’indispensabile "arma della critica", partecipare attivamente alla preparazione della rivoluzione. Il Manifesto del Partito comunista, scritto nel 1848, è la sintesi teorica e programmatica di queste diverse esigenze. L’evoluzione storica, attraverso la lotta di classi, è esistata nell’avvento della borghesia e del suo modo specifico di produzione, incentrato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’uso del lavoro vivo, del lavoro operaio, al fine di trarre da esso un valore che viene dunque espropriato, alienato e incorporato nel capitale, fino a diventare suo valore intrinseco. Il merito storico della borghesia è di aver "dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo" (MPC, pag. 58), di aver dissolto tutti i vincoli feudali che ostacolavano lo sviluppo delle forze produttive e di aver organizzato la produzione, avvalendosi dei progressi della scienza e della tecnica e razionalizzando l’uso delle risorse disponibili, in maniera tale da avviare la mondializzazione del mercato. Per la sua stessa natura, il capitale deve tendere di continuo verso un’espansione illimitata, e con ciò produce una ricchezza vieppiù crescente, che rivela agli uomini la ricchezza dei loro bisogni. Ma questa ricchezza rivelata, non può essere collettivamente fruita. Il fine del capitale non è l’uomo che produce valore bensì il valore stesso in sé e per sé, il profitto. "Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato" (MPC, pag. 81). Nonostante il carattere progressivo e espansivo del capitale, che sembra aperto al futuro, "nella società borghese il passato domina sul presente" (MPC, pag. 81), la proprietà privata dei mezzi di produzione ostacola l’appropriazione della ricchezza da parte dei produttori. Perciò lo sviluppo delle forze produttive messe in moto dal capitale va incontro periodicamente a crisi che la storia non ha mai conosciuto: crisi di sovraproduzione, dovute al fatto che "la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio." (MPC, pag. 64) Troppa ricchezza, insomma, in rapporto all’uso sociale che se ne può fare entro i rapporti borghesi di proprietà. E’ questa contraddizione, di una ricchezza prodotta dall’uomo e che gli si rivolge contro, a contenere in sé le ragioni del suo superamento: "Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante un’attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l’attività comune di tutti i membri della società. Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale. Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c’è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe" (MPC, pp. 80-81). Il comunismo, che la classe operaia, in quanto maggioritaria e sfruttata, è chiamata a realizzare, è null’altro che la riappropriazione sociale di una ricchezza che è già di per sé sociale, poiché è la ricchezza prodotta dall’umanità nel corso di tutto il suo sviluppo storico.

Col Manifesto del Partito comunista, si conclude il cosiddetto periodo giovanile del pensiero di Marx. Il passaggio al periodo maturo, pressoché interamente dedicato alla stesura di opere di critica economica, viene di solito ricondotto alla ambizione di Marx di pervenire a una formalizzazione scientifica della sua teoria.

Ciò sarebbe attestato sia dalla mole impressionante della documentazione storica, sociale e economica che egli accumula e che finisce con l'interferire progressivamente con la stesura delle opere (i "Grundrisse" e "Il Capitale" rimangono, infatti, incompiuti); sia da un cambiamento di stile che interviene nel corso degli anni. Fino alla stesura del primo libro de Il Capitale, Marx si attiene ad uno stile analitico ma spesso si abbandona liberamente ad excursus, riflessioni, commenti di grande interesse; dal 1867 in poi, quello stile diventa assolutamente prevalente, e assume una configurazione logico-matematica, scarna e quasi totalmente vincolata ai contenuti specialistici. C’è del vero in questo assunto, ma non è tutta la verità. Che Marx abbia ossessivamente perseguito l’intento di dimostrare che il sistema capitalistico conteneva in sé le ragioni del suo superamento e che si sia affannato a definire queste ragioni in termini di leggi deterministiche, è inconfutabile, anche se quelle leggi, ponendo i presupposti di un cambiamento strutturale della società e della civiltà, non possono prescindere, per la loro realizzazione, dall'azione umana. Ma non si può non tener conto del fatto che tutte le opere economiche del Marx "scientifico" (Introduzione alla critica dell’economia politica, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, per la critica dell’economia politica, Il Capitale. Critica dell’economia politica) si propongono come fine esplicito la critica di una scienza già esistente, l’economia borghese, o, più precisamente, la demistificazione delle categorie adottate da essa come scientifiche. L’impegno di Marx in questo lavoro di smascheramento, rivolto a far trasparire dietro il velo ideologico di quelle categorie i processi reali che le sottendono e le loro contraddizioni, insolubili all’interno del sistema capitalistico, è direttamente proprozionale alla potenza mistificante delle categorie stesse e al potere stregante della realtà sociale che le ha prodotte. Ma qual è il referente di questo potere se non la coscienza umana, la coscienza individuale e sociale? E quel potere infine è efficace in sé e per sé o non fonda la sua efficacia anche su una debolezza intrinseca alla coscienza umana, riconducibile alla difficoltà di leggere la realtà sociale come prodotto di processi storiciò L’ossessione scientifica di Marx assume il suo pieno significato se e solo se si considera che essa affonda le sue radici nel dubbio, rimosso fideisticamente (e inconsapevolmente), che l'ideologia borghese nel suo complesso possa risultare più potente delle crisi ricorrenti che il modo di produzione capitalistico produce ed è destinato a produrre. A posteriori, è difficile non cogliere la fondatezza di questo dubbio, peraltro mai esplicitato.

Lette in questa ottica, le opere economiche della maturità, i "Grundrisse" e il Capitale, appaiono un’impresa intellettuale geniale, ma pressoché disperata, che un uomo da solo si impegna a realizzare contro il potere stregante di un sistema socio-economico che, prodotto dallo sviluppo storico, rischia di sottrarsi al controllo umano e di trasformare il denaro in un feticcio alle cui onnivore esigenze di autoaccrescimento tutto va sacrificato: i bisogni sociali, la solidarietà, lo sviluppo degli individui, i valori morali, gli equilibri ecologici. Il Marx economista è in realtà uno scienziato sociale che tenta, vita natural durante, di smascherare le essenze invisibili, i processi reali che sottendono e determinano la fenomenologia e la struttura sociale, vale a dire il modo in cui il mondo appare alla coscienza umana e le relazioni che si stabiliscono tra i membri della società, nell'intento di dimostrare che la ricchezza, in quanto prodotta dall'uomo va riappropriata dall'uomo poiché, reificandosi come una potenza indipendente e opposta ad esso, si trasforma in un mostro animato che si sviluppa sulla faccia del pianeta come un cancro.

I Grundrisse e Il Capitale rappresentano nel contempo il tentativo di definire la logica intrinseca del capitalismo e di analizzare il suo sviluppo storico sul piano della contemporaneità sino al punto di prevederne gli esiti. La metodologia di ricerca di Marx, complessa per il sovrapporsi pressoché continuo di una modalità analitica e di una dialettica, non agevola il compito di sintetizzare in poche righe testi che constano di migliaia di pagine. Marx muove dalle apparenze della realtà sociale - il valore, la merce, il profitto - che l'economia borghese assume come categorie dotate di oggettività, e le sottopone ad un lavoro di demistificazione che infine le riconduce ai rapporti reali che si danno in un sistema nel quale i capitalisti detengono la proprietà dei mezzi di produzione, vale a dire del lavoro accumulato dalle precedenti generazioni, e gli operai, espropriati da quei mezzi, devono vendere come merce la loro forza-lavoro. Tale forza, incorporata sotto forma di lavoro vivo al lavoro accumulato nei mezzi di produzione, si trasforma in merce, in un valore di scambio che, convertito in denaro attraverso il commercio, risulta maggiore del denaro investito dai capitalisti nell'acquisto dei mezzi di produzione (macchinari, materie prime, semilavorati) e della forza-lavoro. Qual'è l'origine di questo profitto? Secondo l'economia borghese, il profitto è il compenso dovuto al capitalista per il rischio che egli corre nell'investire il denaro e il valore della merce, che gli appartiene, è una qualità oggettiva ad essa intrinseca.

Secondo Marx, la merce, così intesa, è un feticcio perché il suo valore di scambio, nella componente che eccede il suo costo reale, è di fatto null’altro che il lavoro vivo incorporato in essa nel corso del processo di produzione. E’ il lavoro non pagato dal capitalista all’operaio che viene alienato e, per magia, si separa da esso e diviene valore della merce, proprietà privata del capitalista. L’alienazione del plus-valore avviene in virtù del fatto che l’operaio, separato dai suoi mezzi di produzione tradizionali che gli consentivano di produrre beni di uso e beni da scambiare immediatamente, si ritrova libero sul mercato del lavoro. Egli può offrire solo la sua forza-lavoro a chi possiede i mezzi di produzione, che sono il prodotto di lavoro morto, accumulato. Attraverso i mezzi di produzione, il lavoro vivo, il lavoro eccedente rispetto al salario, viene incorporato nella merce, diventa valore di scambio. Il capitale monetario, originariamente mercantile, si trasforma così in capitale produttivo: valore che si autovalorizza appropriandosi di lavoro altrui. La merce, nella quale è stato incorporato il plusvalore, si converte nuovamente, in virtù del commercio, in denaro, e il ciclo produttivo può ripetersi in una spirale praticamente infinita. Questa spirale che, originariamente, riguarda un solo settore produttivo - quello della manifattura - coinvolge progressivamente tutti i settori della produzione e li sussume nel modo di produzione capitalistico.

E' nella natura del capitale tendere a massimizzare il profitto. Ma, dato che la forza-lavoro non può essere sfruttata più di tanto, esso deve necessariamente tentare di aumentare di continuo le forze produttive, attraverso un'organizzazione sempre più razionale della produzione e l'adozione di nuove tecniche messe a punto dal progresso scientifico. In questa tensione verso uno sviluppo illimitato della forze produttive, da cui ricava un crescente plusvalore relativo (quello assoluto essendo dato dallo sfruttamento della forza-lavoro), Marx riconosce la specificità propria del modo di produzione capitalistico rispetto a tutti quelli che lo hanno preceduto. Tale specificità è comprovata dal fatto che la ricchezza prodotta dal capitalismo nel volgere di pochi decenni è di gran lunga superiore a quella prodotta dall'umanità in tutto il suo passato.

A quella tensione vanno ricondotte l'espansione e la diversificazione della produzione, la concorrenza tra capitalisti orientata a produrre merce al più basso costo possibile, l'estensione del capitalismo su scala mondiale, l'abbattimento dei limiti nazionali e l'universalizzazione degli scambi, il miglioramento della rete di comunicazione e di trasporti, la nascita e lo sviluppo del sistema del credito, la concentrazione e la centralizzazione dei capitali, che comporta la possibilità di investimenti su scala sempre più ampia, la nascita delle società per azioni, ecc. Tutti fenomeni - questi - nei quali Marx legge il prodursi di condizioni oggettive sulla cui base sarebbe possibile ipotizzare lo sviluppo di una società umana affrancata dalla miseria e dalla pena di vivere. Nella sua straordinaria vitalità, che dà luogo allo scambio e al mercato universale e avvia a compimento la trasformazione della natura a favore dei bisogni umani, il capitalismo rivela dunque il senso di tutte le passate epoche storiche, rivela l’uomo a se stesso nella ricchezza dei suoi bisogni e delle sue capacità. Ma questa rivelazione, nella quale consiste il significato storico del capitalismo, non può realizzarsi compiutamente all'interno del modo di produzione suo proprio.

Il limite intrinseco al capitalismo è colto da Marx nel fatto che il fine del suo sviluppo non è l’uomo, l’uomo ricco e universale del quale esso pone le premesse, bensì il profitto. Scopo univoco e cieco del capitale è l’autovalorizzazione senza limite, l’univoca trasformazione dei valori d’uso in valori di scambio. Che questo fine risulti adeguato a soddisfare i bisogni sociali - vale a dire il bisogno di felicità collettiva - è casuale. Ciclicamente, nelle fasi di espansione del capitalismo, e mai spontaneamente ma sempre per effetto delle lotte operaie, si può realizzare una convergenza tra sviluppo economico e bisogni sociali. Ma le fasi di espansione esitano inesorabilmente in quelle di recessione, nel corso delle quali gli uomini vanno sacrificati alla logica del capitale. Una volta avviato, e nella misura in cui, per la sua stessa dinamica intrinseca espansiva, la sua riproduzione assume una configurazione mondiale, il capitalismo diventa una macchina dotata di leggi sue proprie, di leggi coercitive esterne alla volontà degli uomini, compresi i capitalisti. Diventa insomma una macchina priva di potere autoregolativo, ma la cui efficienza e la cui promessa di felicità universale irretiscono tutte le coscienze.

Negli appunti lasciati da Marx per il terzo libro de Il capitale, pubblicato da Engels, dedicati al processo complessivo della produzione capitalistica, il procedere dell'analisi del sistema mondiale fa apparire a più riprese il fantasma di una potenza selvaggia, incoercibile, che vampirizza il mondo e - nonostante la ricchezza che produce - lo svuota di senso; una potenza "stregante", che aliena la coscienza umana e la induce a vedere e a leggere il mondo in un modo deformato e capovolto; una potenza che dissocia tutti i vincoli sociali, morali, culturali che ad essa si oppongono e li mercifica. E’ il tema già presente nei Manoscritti economico-filosofici, anche se, all’epoca, l’orizzonte di Marx era molto più limitato. Questa visione tragica del capitalismo è resa meno pessimistica solo dalla convinzione di Marx che le contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico - la sottomissione della ricchezza sociale al profitto, all’autovalorizzazione, alla speculazione anzichè alla valorizzazione dell’uomo e ai bisogni sociali - contengono in sé le ragioni del loro superamento. Quali sono queste ragioni? Marx le ha indagate tutta la vita, senza mai giungere ad elaborare una teoria definitiva della crisi del sistema capitalistico. Cionondimeno, la lettura de Il Capitale è estremamente significativa. Nel libro primo, la crisi del capitalismo è ricondotta univocamente alla pauperizzazione crescente della classe operaia. Nel libro terzo, laddove Marx estende il suo orizzonte di analisi al capitalismo mondiale, questo aspetto, pur senza essere rinnegato, e reso più flessibile dal riferimento alla povertà relativa, rimane sullo sfondo. Lo sviluppo vorticoso delle forze produttive comporta di necessità un’organizzazione del sistema che viene ad essere dominato dal bisogno di denaro, dunque dal sistema creditizio. Questa trasformazione fa comparire nella storia e accresce smisuratamente il peso del capitale produttivo di interesse, il denaro che genera denaro, e, con esso, un mostruoso feticcio che può determinare speculazioni e corruzioni d’ogni genere, e la cui logica, ossessivamente rivolta all’autovalorizzazione, prescinde pressoché completamente dai bisogni sociali. E’ l’estraneità dei fini del capitale autovalorizzantesi ai fini dell’uomo, che pure esso a concorso a rendere realizzabili, il momento dialettico che permette di prevedere un suo necessario superamento.

Tale superamento può e deve avvenire, per effetto dell'azione consapevole dei lavoratori, nel nome del comunismo. Per Marx, il comunismo è anzitutto riappropriazione da parte della società della ricchezza sociale prodotta nel corso dello sviluppo storico e l'instaurazione di un controllo sociale consapevole su di essa e sulla sua ulteriore crescita al fine di porla al servizio dei bisogni sociali, vale a dire dello sviluppo di libere e universali individualità. Momento politico rivoluzionario, che conclude la 'preistoria' dell'umanità, il comunismo è nondimeno un momento culturale rivoluzionario. Esso infatti postula la consapevolezza individuale e collettiva dell'essere l'uomo un ente sociale, prodotto dalla natura e dalla storia che egli stesso ha prodotto; l'abbandono dunque di ogni illusione di trascendenza in nome dell'accettazione di un destino radicalmente mondano e di una compiuta assunzione di responsabilità esistenziale, il cui peso è alleviato dal riconoscersi parte di una totalità sociale nell'interazione con la quale egli raggiunge il suo pieno sviluppo come individuo ricco e universale. Promossa dalle condizioni oggettive, dalla ricchezza sociale posta sotto il controllo e a servizio dell'uomo, il comunismo non può realizzarsi per effetto di quelle condizioni. E' l'uomo che le usa e ne fruisce a trasformarle soggettivamente in ricchezza umana, in coscienza compiuta e irreversibile di appartenenza alla totalità sociale e di consapevole partecipazione individuale alla storia. In quanto umanizzazione della natura e naturalizzazione dell'uomo, dunque, il comunismo è umanesimo, la soluzione dell'enigma di una storia che, colta in superficie, può apparire ancora oggi un'immane tragedia senza senso.


Appendici provvisorie. Per una storia del marxismo


Glossario marxista (in preparazione)


Bibliografia (in preparazione)