Miseria della neopsichiatria

Sul problema della predisposizione e sul delirio schizofrenico

INTRODUZIONE ALLA LETTURA

Se è vero che i figli sventurati sono prediletti dai genitori (quando non sono rifiutati), Miseria della neopsichiatria rimane, nel mio cuore, il saggio psicopatologico a cui sono più legato. Saggio sventurato per due motivi.

Il primo è che, nello scriverlo e nel darlo alle stampe, ero cosciente, come benevolmente ha detto un mio amico, che si trattava di un suicidio editoriale. Non mi aspettavo infatti alcuna ricezione da parte della corporazione psichiatrica, né, dato il titolo specialistico, una qualche diffusione a livello pubblico. Nutrivo solo una vaga aspettativa che esso potesse essere accolto, dalla psichiatria alternativa, e in particolare dalla PRESAM, associazione nata a Roma per rilanciare su scala nazionale il movimento antistituzionale, di cui ero socio, come un manifesto contro la pratica psichiatrica corrente e come un modello psicopatologico denso di suggestioni. L'aspettativa è andata delusa.

Grazie all'iniziativa del mio amico Fiore Bruno, la PRESAM ha organizzato un seminario sulla schizofrenia invitandomi come unico relatore. Mi sono malauguratamente fidato, e, com'è mio costume, ho scritto una relazione come traccia del seminario. Dalla relazione riesce chiaro che prevedevo che, come già accaduto in altre occasioni analoghe, avrei avuto almeno un'ora per l'esposizione orale. Solo pochi minuti prima del seminario, mi è stato comunicato che, per dare spazio alle controrelazioni e al dibattito, il tempo a me concesso era di un quarto d'ora. Avrei dovuto semplicemente ringraziare dell'invito e andare via. Come avrei potuto illustrare in un quarto d'ora le conclusioni, meditate e argomentate, di trent'anni di esperienza psicoterapeutica? Su cosa si sarebbe dibattutto se nessuno dei presenti (tranne, ma ho qualche dubbio, i controrelatori) aveva avuto modo di leggere il saggio?

Per rispetto degli uditori, e soprattutto di alcuni amici intervenuti, ho estrapolato dalla relazione le due o tre cose che mi sembravano particolarmente significative. I controrelatori si sono limitati a riesumare gli stereotipi del modello multidimensionale neopsichiatrico: l'eredità genetica, la vulnerabilità, ecc. Non hanno analizzato il libro: hanno ripetuto, tra l'altro con un'insopportabile tono accademico, la sterile lezioncina del retto pensiero psichiatrico, alternativo ma aperto al compromesso con la neopsichiatria. Uno di essi in particolare non ha perso l'occasione di ironizzare sulla mia "fissa" di attribuire ai pazienti schizofrenici potenzialità emozionali e intellettive superiori alla media. Evidentemente l'esperienza non insegna nulla se non la si sa leggere o la si legge pregiudizialmente

Gli operatori intervenuti nel dibattito, in gran parte psichiatri, hanno contestato il radicalismo, apparentemente antipsichiatrico, di alcune mie affermazioni. A loro non risulta che la schizofrenia è l'espressione dell'evoluzione negativa, spesso iatrogenetica, di una condizione originariamente dotata di comprensibilità. Il problema è che per capire questo occorre prescindere dal fatto che esista la malattia come fatto primario.

Nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il nodo che avevo proposto nell'esposizione. Che senso ha definirsi psichiatri alternativi se, nella pratica ospedaliera (CPDC) e territoriale (SSM), gli schizofrenici vengono trattati con dosi elevate di neurolettici e, sempre più spesso, con neurolettici ad azione protratta nel tempo?

La realtà, triste, è che in Italia una psichiatria alternativa non esiste più, e coloro che si definiscono psichiatri alternativi non hanno altra mira che stabilire a livello territoriale un'egemonia di potere identica a quella che i neopsichiatri hanno stabilito a livello accademico.

Il secondo motivo è l'isolamento intellettuale che ho mantenuto consapevolmente negli ultimi venti anni, ma la cui conseguenza è di non avere rapporti con la corporazione psichiatrica, le istituzioni universitarie, le scuole di formazione psicoterapeutica, ecc.,e di non disporre di alcun potere mediatico. Nessun mio libro ha avuto sinora l'onore di una recensione nè sui quotidiani nè sulla stampa specializzata. Non mi pento di questo isolamento. Intanto perchè penso che esso abbia salvaguardato la mia autonomia di ricercatore e la relativa neutralità delle conclusioni cui sono pervenuto. In secondo luogo, perché non avrei potuto fare altrimenti. Non scherzo affatto quando dico che il 90% degli psichiatri e degli psicoterapeuti hanno sbagliato mestiere, non disponendo né di un'attitudine nè di una cultura adeguata al lavoro che svolgono. Confrontarmi con loro è stato sempre intellettualmente penoso e scientificamente insignificante.

Miseria della neopsichiatria - non ho difficoltà a confessarlo - è stato finora un clamoroso insuccesso editoriale, avendo venduto non più di duecento copie. Per fortuna ho fatto l'abitudine agli insuccessi, che non hanno mai inciso più di tanto sul mio stato d'animo né minimamente scosso la convinzione che il mio destino è quello di un autore postumo.

Nonostante questo, continuo a ritenere il saggio in questione una delle cose migliori che abbia mai scritto. E non solo perché in esso la contestazione del modello neopsichiatrico è tanto radicale quanto argomentata. La realtà è che il libro, in linea col tragitto teorico percorso dall'82 ad oggi, propone un modo assolutamente nuovo di interpretare i fenomeni psicopatologici, sottolineando la loro dipendenza da una strutturazione profonda della personalità che, per quanto scissa, ha una piena e quasi trasparente comprensibilità.

Che le "malattie" mentali più gravi funzionino come cristalli le cui scissioni ci permettono di penetrare il mistero della struttura della personalità, normale e patologica, è un'intuizione visionaria freudiana, che è incorsa poi, in Freud stesso e negli psicoanalisti a lui succeduti, in una pressochè totale rimozione. L'avere restaurato il punto di vista strutturale sulla organizzazione della soggettività e avere dimostrato la potenza esplicativa che tale punto di vista ha in psicopatologia è, in assoluto, il contributo più rilevante del saggio. E' superfluo dire che, se dovessi riscriverlo oggi, muterei qualcosa e approfondirei qualcos'altro. Ma tant'è: una volta partoriti, i libri, come i figli, vanno per conto loro.

Ciò non significa che un giorno o l'altro, ottenuta la liberatoria dall'editore, non lo riscriva.

Essendo in libro ancora sul mercato, mi limito a pubblicare il capitolo primo, preceduto dalla relazione scritta per la presentazione alla PRESAM, che ne sintetizza i contenuti di fondo.

RELAZIONE PER IL SEMINARIO DELLA PRESAM

Prevenzione della schizofrenia e metapsichiatria

1. La schizofrenia, ancora oggi, è il signum contradictionis tra due ideologie, antropologiche prima ancora che psichiatriche, l'una delle quali assume la personalità come un sistema dipendente, in misura rilevante, dall'interazione con l'ambiente, mentre l'altra enfatizza il ruolo dei fattori genetici. Il contrasto sconfina dall'ambito psichiatrico. Esso infatti fa riferimento al rapporto tra natura umana e cultura, dal quale - a seconda di come lo si definisce - discendono tutta una serie di conseguenze che investono l'interpretazione dei fatti umani, e in particolare un atteggiamento critico o acritico nei confronti dell'organizzazione sociale.

Minimizzare questo contrasto facendo riferimento al modello multidimensionale, che lo avrebbe sormontato in nome del riconoscimento di fattori causali molteplici (biologici, psicologici e sociali) significa ignorare che tale modello è meramente nominale. Non c'è un alcun lavoro nella letteratura psichiatrica che abbia articolato il modello multidimensionale in termini epistemologicamente significativi. Si tratta semplicemente di un tributo formale alla teoria dei sistemi complessi che serve a dare alla psichiatria una patina di scientificità. Ciò è comprovato dal fatto che la pratica corrente continua ad essere caratterizzata da una medicalizzazione brutale e sommaria.

Fornisco un esempio che conferma ciò che dissi nel recente Convegno sulla prevenzione riguardo all'insensatezza di qualunque progetto alternativo che non entri in conflitto con la neopsichiatria.

Alcuni mesi fa, una giovane donna, U., madre di una bambina di due mesi, è stata ricoverata volontariamente nel CPDC del S. Spirito per una bouffée delirante. Dopo un'ora dal ricovero, il responsabile del servizio ha convocato nel suo studio il marito, la madre e il fratello per comunicare loro la ferale notizia. La donna, a suo avviso, era affetta da una grave malattia cerebrale che avrebbe richiesto un trattamento farmacologico protratto, sui cui esiti egli non osava pronunciarsi. Alla richiesta del marito di sapere in base a quali esami si fosse pervenuti ad una diagnosi senza scampo, lo psichiatra gli ha chiesto (con tono sprezzante) se era laureato in medicina. Alla contestazione ulteriore, per cui l'uomo eccepiva che in medicina occorre fornire delle prove, lo psichiatra ha risposto seccamente che di una malattia del cervello si trattava. Punto e basta.

Il giorno dopo, alle rimostranze della donna che chiedeva di uscire per accudire la figlia, la risposta è stata il TSO e il divieto di allontanarsi dal reparto anche in compagnia del marito. Alla dimissione sono stati prescritti 10 mg di Zyprexa e tre compresse di Depakin.

Attualmente ho in cura questa paziente che è estremamente collaborativa, e assume solo alcune gocce di ansiolitico. Sulla comprensibilità dell'episodio delirante parlerò tra poco.

Per porre i presupposti di un intervento preventivo, occorre, a mio avviso, definire in maniera non ambigua che cos'è la schizofrenia e affrontare il problema cruciale della predisposizione alla schizofrenia.

Essendo stato invitato - suppongo - in nome del mio ormai noto (almeno ad alcuni) atteggiamento critico nei confronti della neopsichiatria, tenterò d'illustrare preliminarmente quei presupposti.

 2.

Il termine schizofrenia dovrebbe essere bandito, in quanto esso è gravato da un pregiudizio organicistico che implica il riferimento ad una predisposizione genetica e ad un processo morboso. Pure avendo infatti rinunciato ad un principio classificatorio eziologico, il DSM-IV è una riproposizione aggiornata del verbo kraepeliniano, appena temperato dai punti di vista di Bleuler e di Schneider che sono indubbiamente più flessibili ma non meno pregiudiziali in rapporto alla natura biologica del processo morboso. L'unica differenza reale rispetto al passato consiste nel considerare la schizofrenia una sindrome piuttosto che una malattia unica, nell'ammettere almeno due forme elementari (l'una caratterizzata da sintomi positivi, l'altra da sintomi negativi) che si riconducono a due diverse eziopatogenesi, e nel tenere conto di una costellazione che sfuma per un verso nel disturbo di personalità schizoide e per un altro nelle psicosi acute schizofrenosimili.

Il pregiudizio intrinseco al termine schizofrenia, per effetto della propaganda neopsichiatrica, è giunta ad influenzare l'opinione pubblica. Formulare una diagnosi di schizofrenia significa oggi esprimere un verdetto che, nell'accezione dei pazienti e ancora più delle famiglie, suona come inappellabile, alla stregua di un cancro psichico la cui evoluzione è inesorabilmente maligna.

Bandire il termine schizofrenia, non significa solo rifiutare il significato ad esso implicito di malattia a prevalente causalità organica, bensì soprattutto dare un significato del tutto diverso all'insieme dei fenomeni cui esso fa riferimento. Una valutazione critica dei dati clinici porta a ritenere, infatti, che la schizofrenia non sia una condizione di esordio, bensì l'esito evolutivo infausto di un'esperienza psicopatologica che, originariamente, quale che sia la fenomenologia clinica, riconosce un conflitto psicodinamico di base comprensibile ed omologabile, nelle sue componenti strutturali, a quello che sottende qualunque forma di disagio strutturato.

Partiamo dai dati clinici. La schizofrenia esordisce con tre diverse modalità.

Si danno forme striscianti, definite, a posteriori, pseudonevrotiche o atipiche, nelle quali il conflitto di base è trasparente e ha una comprensibilità che obbliga a mantenere in sospeso per mesi il giudizio diagnostico. In questi casi, il giudizio a posteriori è sbagliato, poiché tiene conto dei sintomi e non delle dinamiche sottostanti che sono di fatto nevrotiche, anche se con potenzialità espressive psicotiche.

A. è un figlio-modello sino all'ultimo anno delle superiori, quando il suo rendimento declina. Va a lavorare in una fabbrica e, per i suoi modi signorili, una certa introversione e un atteggiamento ossequioso nei confronti dei capi, viene preso in giro dai colleghi e investito da critiche e accuse pesanti. Dopo un anno, cede e dà le dimissioni perché ha delle fantasie rabbiose che gli fanno temere di potere perdere il controllo e fare male a qualcuno. Avendo scoperto di essere inadatto al mondo, si chiude in camera e non ne vuole sapere di qualunque lavoro. Dato che è venuto su da una famiglia operaia con un senso del dovere spiccato, la nullafacenza viene pagata al prezzo di continui dolori agli occhi e al collo. Se esce di casa, sente gli occhi della gente che lo rimproverano e lo accusano di fare la bella vita sulle spalle dei suoi. Diagnosticato come schizofrenico e trattato con psicofarmaci, la situazione non migliora nel corso degli anni. L'esasperazione della clausura e dei dolori fanno addirittura affiorare comportamenti violenti in famiglia.

Si danno poi forme acute, destrutturanti, che però regrediscono più o meno rapidamente residuando un assetto di personalità che, analizzato, si rivela essere sotteso da un conflitto psicodinamico.

L'esperienza di U., cui ho fatto cenno, rientra in questa categoria. Essa, ritrovatasi incinta senza volerlo, si è calata nel ruolo di madre a tempo pieno, rifiutando gli aiuti parentali, per cancellare il ricordo di una madre nevrotica e anaffettiva che le ha creato problemi. Questa strategia, come accade sempre, ha determinato l'affiorare di angosce claustrofobiche, vale a dire di fantasia di fuga e di abbandono della bambina che sono state terribilmente colpevolizzate. Prima della bouffée delirante, U. ha passato sei notti insonni tormentandosi sul suo essere una madre sciagurata e, al tempo stesso, non potendo negare a se stessa di non farcela più ad adempiere i suoi doveri.

Si danno, infine, forme acute che non tendono a regredire e si strutturano. La strutturazione, di solito delirante, rende trasparente il conflitto di base.

Giunta alla laurea in matematica a 28 anni, dopo una carriera di vita contrassegnata da una militanza politica di sinistra e durissimi scontri con una madre implacabilmente perfezionista, E. comincia a lavorare e decide di andare ad abitare da sola. Chiude praticamente i conti con la famiglia e, pur lavorando con passione, si abbandona ad un genere di vita alquanto disordinato. Dopo sei mesi, comincia a ricevere strani messaggi sulla segreteria telefonica, avverte un'ostilità diffusa da parte dei colleghi e sente dappertutto un mormorio profondo che alla fine decifra come rivolto a sé. Si tratta di minacce che concernono la sua vita e, ancora più, quella dei suoi. Per scongiurarle, non esce più di casa la sera, non frequenta il gruppo politico e tiene in ordine la casa. Non basta. Per non sentirsi responsabile della morte dei suoi, deve tornare ad abitare con loro. Le "voci" non cessano però nonostante due ricoveri in casa di cura e gli psicofarmaci. E' evidente che esse sono funzionali a farla rimanere con i suoi e a comportarsi in maniera tale da non far loro correre dei rischi.

I dati clinici portano a pensare che, al suo esordio, la schizofrenia sia null'altro che l'espressione di una conflittualità psicodinamica caratterizzata, rispetto alle altre forme di disagio, da una configurazione scissa e dissociata di polarità conflittuali che si ritrovano in ogni altra esperienza di disagio. Se ciò è vero, all'esordio, quale che sia la fenomenologia, sarebbe giusto parlare di una sindrome dissociativa. Questo termine ha il vantaggio di cogliere un aspetto clinico-descrittivo e di alludere ad un aspetto psicodinamico. Naturalmente, trattandosi di un termine tradizionale, occorre concettualizzarlo in maniera nuova.

3.

Dal punto di vista clinico-descrittivo, la dissociazione va riferita al carattere ambivalente del pensiero, dell'affettività e del comportamento. Questo aspetto, riconosciuto da sempre, viene riferito ad una debolezza o a una disorganizzazione dell'io. E' singolare che non ci si sia mai chiesti se il malfunzionamento dell'io non dipenda da dinamiche e logiche sottostanti che compromettono il suo potere integrativo.

Il punto di vista dinamico chiarisce il problema. Adottandolo, infatti, riesce immediatamente chiaro che la struttura di un qualunque delirio dissociativo è una variazione sul tema del rapporto tra soggetto e mondo, o meglio tra doveri sociali e diritti individuali, che si articola sulla base di logiche antitetiche.

A. si ritira dal mondo per la paura di perdere il controllo e di fare male a qualcuno. Il ritiro dal mondo non estingue però la sua rabbia, che si mantiene sotto forma di volontà di non avere più a che fare con esso. Questa decisione, però, lo costringe alla nullafacenza e a vivere sulle spalle dei suoi.

U. pensa di abbandonare la figlia per non finire di danneggiarla come ha fatto la madre con lei. La soluzione però implica comunque il sentirsi una madre snaturata.

E. fugge di casa per dare spazio alla sua vocazione ad essere e per non avere più a che fare con i suoi. Non riesce però ad accordare la sua sensibilità sociale, vivissima, che la porta a schierarsi sempre dalla parte dei deboli e degli emarginati, con l'abbandono di due genitori anziani e col venire meno ai suoi doveri di figlia.

La specificità del delirio dissociativo è da ricondurre al fatto che, quali che siano le difese adottate, l'altro rimane onnipresente nell'orizzonte esperienziale del soggetto. I diritti individuali vengono regolarmente colpevolizzati in riferimento ai doveri sociali. La colpa riabilita univocamente il sociale che rivendica i suoi diritti. Si tratta ovviamente di un sociale interiorizzato che, adottando il linguaggio psicoanalitico, si può identificare col termine super-io.

Ogni sindrome dissociativa pone di fronte al primato, nell'organizzazione soggettiva umana, del sociale interiorizzato (il Super-Io psicoanalitico). Mi chiedo da molto tempo perché questo dato, clinicamente evidente, non è riconosciuto né adeguatamente valorizzato. Questo misconoscimento è ancor più rilevante se si tiene conto che la maggior parte delle sindromi dissociative comportano un delirio persecutorio, vale a dire un delirio caratterizzato dal fatto che l'altro, vissuto proiettivamente, assume, nelle maniere più varie, il controllo dell'io. La risposta non è semplice.

Un motivo è il rifiuto, ancora abbastanza diffuso tra gli operatori psichiatrici, di concetti e di termini psicoanalitici, ritenuti datati o inservibili in un'ottica che non sia esclusivamente interattiva e comunicativa. Un altro motivo è da ricondurre al fatto che la nostra cultura, enfatizzando l'io individuale, tende a minimizzare o a misconoscere il ruolo e il peso del sociale interiorizzato nella strutturazione della personalità. Un ulteriore motivo è la difficoltà di accettare una concezione strutturale della personalità, che vede in essa l'espressione dell'equilibrio dinamico di varie funzioni in qualche misura differenziate.

4.

Muovendo dal rilievo che il sociale interiorizzato svolge una funzione decisiva in tutte le esperienze di disagio psichico, ho elaborato una teoria psicopatologica che ha il duplice vantaggio di essere esplicativa sul piano psicologico e di azzerare lo scarto tra psicogenesi e biogenesi. Non è possibile, per ovvie ragioni, esporre compiutamente tale teoria. Accludo alla relazione alcune pagine, tratte da un saggio non ancora pubblicato, che ne definiscono le linee di fondo. Mi limito qui a dire che essa muove dall'attribuire alla natura umana due bisogni intrinseci, geneticamente determinati, che rappresentano gli assi di strutturazione della soggettività. Uno di questi bisogni - d'appartenenza/integrazione sociale - promuove l'interiorizzazione dei valori culturali dell'ambiente con cui il soggetto interagisce e determina la strutturazione del super-io. L'ipotesi freudiana secondo la quale il super-io rappresenta l'interiorizzazione delle figure adulte significative va sormontata in nome del fatto che, nella personalità adulta, il super-io rappresenta la società e tiene in vigore dei sistemi di valori normativi che, in quanto culturali, non sono il prodotto delle famiglie o dei soggetti. Essi, quali che siano, rappresentano, in altri termini, il dovere essere in nome dell'appartenenza, e assoggettano ai doveri sociali la libertà individuale. Da ciò è facile capire che il super-io si articola su di una logica che privilegia l'insieme sociale all'individuo.

L'altro bisogno - d'opposizione/individuazione - veicola la vocazione ad essere propria di un determinato individuo, depositata, sotto forma di potenzialità, nel suo corredo genetico. Tale bisogno determina, nel corso dell'evoluzione della personalità, la strutturazione di una funzione - l'io antitetico - deputata ad adattare le richieste interiorizzate dell'ambiente alle esigenze proprie del soggetto. La definizione di io antitetico è resa necessaria dal fatto che è praticamente impossibile che le richieste ambientali, che fanno riferimento ad aspettative normative, vale a dire a comportamenti di ruolo, coincidano puntualmente con la vocazione ad essere individuale.

Questo aspetto è a tal punto importante da richiedere una delucidazione. I valori culturali definiscono doveri di ruolo: per esempio, prescrivono o proscrivono comportamenti in riferimento al ruolo del figlio buono. Essi prescindono dal contesto concreto del rapporto tra un determinato figlio e una determinata famiglia. Comportamenti non conformi al ruolo possono, dunque, inconsciamente, giungere ad essere colpevolizzati anche se essi sono comprensibili o inevitabili in rapporto ad un determinato contesto.

Da ciò è agevole ricavare che l'io antitetico si fonda su di una logica che privilegia le esigenze individuali rispetto a quelle dell'insieme sociale.

Il super-io e l'io antitetico rappresentano substrutture dell'io, vale a dire le componenti strutturali e funzionali, in gran parte inconscie, che sottendono l'evoluzione dell'io. La funzione dell'io è di mediare le diverse logiche che animano la soggettività umana, vale a dire di trovare un equilibrio tra i doveri sociali e la vocazione ad essere individuale.

Se, nel corso dell'evoluzione della personalità, in conseguenza dell'interazione con l'ambiente, le substrutture, anziché integrarsi, giungono a porsi in opposizione, si determina, a livello inconscio, una matrice conflittuale che può dar luogo, dopo un periodo vario di latenza, ad una fenomenologia psicopatologica. Questo è il conflitto di base che sottende tutte le esperienze di disagio psichico.

5.

La sindrome dissociativa è l'espressione più grave di questo conflitto di base. Essa attesta, infatti, un'opposizione irriducibile tra le substrutture che scinde l'io e determina lo scorrere, a livello cosciente, di flussi di pensiero, di emozioni e di spinte comportamentali antitetici. La presunta debolezza dell'io, che è alla base di un sostanziale pessimismo terapeutico, va intesa come una conseguenza della "forza" delle substrutture e dell'opposizione che si dà tra di esse.

La specificità della sindrome dissociativa non è però riconducibile alla matrice conflittuale, che è la stessa che sottende ogni esperienza psicopatologica, bensì a due aspetti particolari.

Il primo è dato dal fatto che le substrutture, più che in ogni altra esperienza di disagio psichico, sono vissute antropomorficamente. L'antropomorfismo delle funzioni psichiche è riscontrabile in altre sindromi. Per esempio, nel corso di una sindrome ossessiva, l'affanno del soggetto di eseguire i rituali per scongiurare che accada del male a sé o agli altri implica inconsciamente il riferimento a "qualcuno" che controlla il comportamento e, in caso d'inadempienza, può intervenire agendo un potere punitivo. Sempre nell'ambito ossessivo, le fantasie e i pensieri coatti, non riconosciuti come propri, implicano il riferimento a parti della soggettività autonome rispetto all'io. Nella sindrome dissociativa, l'antropomorfismo delle funzioni psichiche raggiunge il massimo grado e promuove la proiezione delle stesse all'esterno e all'interno. In conseguenza di ciò il super-io s'identifica col mondo sociale e l'io antitetico con una "presenza", solitamente inquietante, che parassita l'io dall'interno.

Il secondo aspetto, di fondamentale importanza ai fini di un superamento dell'antitesi tra psicogenesi e biogenesi, va ricondotto al fatto che le substrutture, il cui riconoscimento avviene in virtù del loro aspetto funzionale, vale a dire alla capacità di produrre ciascuna pensieri, emozioni e spinte comportamentali, hanno indubbi correlati biologici. Non si va lontano dal vero ipotizzando che il super-io e l'io antitetico corrispondano a circuiti interneuronali specifici la cui attività è integrata solitamente dall'io. In conseguenza di un conflitto strutturale, che oppone irriducibilmente il super-io e l'io antitetico, si può ritenere che i circuiti interneuronali, in virtù di un'attivazione, si autonomizzino funzionalmente. Ciò permette di spiegare gran parte dei fenomeni dissociativi a carico dell'ideazione, dell'affettività e del comportamento.

Si tratta, com'è evidente, di una teorizzazione sostanzialmente semplice (per quanto epistemologicamente compressa), che ad un estremo, per quanto riguarda i valori superegoici e quelli antitetici, apre la psicopatologia allo studio dei rapporti tra soggettività e storia sociale, e all'estremo opposto consente di spiegare il coinvolgimento biologico in termini psicosomatici.

6.

Le conseguenze di questa teorizzazione sulla prevenzione e sulla cura della sindrome dissociativa sono molteplici e importanti.

Anzitutto, essa porta a distinguere due diversi livelli di prevenzione primaria. Il primo consiste nel prevenire, in fase evolutiva, la strutturazione del conflitto che, dopo un periodo di latenza vario, esita nell'affiorare di una sintomatologia clinica. Il secondo, nel prevenire che una sindrome dissociativa evolva verso la schizofrenia, vale a dire verso la cronicizzazione psicodinamica e biologica.

Per quanto riguarda il primo livello, la prevenzione primaria richiede ancora un lavoro di ricerca sul campo. I tratti di carattere solitamente ricondotti ad una predisposizione schizofrenica - una tendenza a rifuggire le relazioni sociali, una scarsa capacità comunicativa, un orientamento al ripiegamento interiore, una certa stranezza comportamentale - non sono insignificanti. Come pure non sono insignificanti altri tratti di carattere di segno opposto: un'irrequietezza originaria, una tendenza spiccata all'opposizionismo, uno scarso controllo comportamentale, un orientamento tendenzialmente anarchico, ecc. Ma è un fatto che non poche sindromi dissociative esordiscono a ciel sereno precipitando nella catastrofe soggetti che sino ad allora hanno manifestato comportamenti assolutamente normali. Quale dato accomuna carriere così diverse al punto che esse imboccano la stessa via finale? In che termini, si può porre oggi il problema della predisposizione alla schizofrenia?

Da anni io sono convinto che il dato in comune va identificato in una condizione di diversità genetica riconducibili, nella maggior parte dei casi, ad un'iperdotazione emozionale e/o intellettiva. Tale iperdotazione si associa solitamente ad un orientamento introverso, e più raramente ad un orientamento estroverso.

Ho ricavato tale convinzione dalla pratica terapeutica, in particolare dalla ricostruzione delle carriere di vita che esitano in una sindrome dissociativa. E' sorprendente in quale misura tali carriere rientrino, per lo più, nello stereotipo del"bambino d'oro" e del "figlio-modello", caratterizzato dallo sforzo perfezionistico di rispondere alle aspettative degli adulti e di non dare problemi, e, più raramente, nello stereotipo del "bambino difficile", irrequieto, oppositivo, ribelle. Non penso che sia un caso legato ad un campione poco attendibile, vale a dire all'insieme dei soggetti che ho avuto in cura.

Ho fatto presente più volte questa mia convinzione, accettando e valutando le critiche e tollerando il sarcasmo degli operatori. La ripropongo come un'ipotesi da verificare seriamente. Se essa risultasse confermata, un progetto di prevenzione primaria in senso proprio potrebbe risultare concretamente realizzabile. Occorrerebbe infatti riconoscere che, indipendentemente da circostanze ambientali particolari incompatibili in assoluto con l'evoluzione normale di qualunque corredo genetico, le istituzioni pedagogiche, che fanno riferimento ad un bambino mediodotato e mirano alla produzione di cittadini integrati, non offrono adeguate possibilità di sviluppo ad esseri la cui dotazione è superiore alla media. Riconosciuto ciò, si potrebbe facilmente realizzare una strategia di screening atta ad identificare i soggetti a rischio.

Ho tentato in un articolo di documentare il rischio che corrono i bambini che vengono al mondo con un corredo introverso, pressoché costantemente associato ad un'iperdotazione emozionale e/o intellettiva. Tale rischio comporta, tra l'altro, la possibilità che, nel corso o alla fine della fase evolutiva, affiori una sintomatologia dissociativa. Accludo tale articolo a questa presentazione, augurandomi che esso possa dibattuto.

Per quanto riguarda il secondo livello, un intervento terapeutico precoce è necessario. Tenendo conto che una sindrome dissociativa coinvolge inesorabilmente il contesto familiare, angosciato o talora investito da comportamenti aggressivi, tale approccio non può prescindere da un aiuto fornito alla famiglia. Tale aiuto talora richiede d'illuminare alcune dinamiche interattive che possono incidere sull'evoluzione della sindrome. Ma, in rapporto alla mia esperienza, fondamentale è alimentare nella famiglia una speranza di guarigione, dissolvendo le previsioni negative che talora dipendono dalla drammaticità del quadro clinico, talaltra dalle previsioni prognostiche operate dagli psichiatri. Ciò richiede, da parte del terapeuta, la convinzione di un'evoluzione positiva della sindrome dissociativa. Il pericolo che puntare sulla guarigione possa creare aspettative frustrate da un'evoluzione negativa esiste, ma va corso in quanto esso rappresenta un male minore rispetto al mettere le mani avanti e affidarsi dubitativamente al verdetto del tempo. E' giusto comunicare alle famiglie che il tragitto terapeutico è destinato a riconoscere inesorabilmente momenti di crisi, ciascuno dei quali rappresenta una fase evolutiva.

La psicoterapia della sindrome dissociativa si articola sulla focalizzazione del conflitto di base, che va tradotto in termini comprensibili in rapporto alla sua genesi interattiva e alla sua evoluzione sotterranea, e sull'insistere di continuo su tale conflitto per indurre nel soggetto la presa di coscienza di quanto in esso vi è di significativo sotto il profilo esperienziale. Adottando questa strategia ci si imbatte costantemente nella resistenza del soggetto che difende il realismo del suo delirio. Scalzare questa convinzione è oltremodo difficile, ma per fortuna non necessario. Interpretando infatti i vissuti sulla base del conflitto individuato e dando ad essi un significato che investe la storia interiore del soggetto, a forza di insistere si ottiene quasi naturalmente lo spostamento dell'attenzione dai contenuti deliranti alla concreta esperienza del soggetto.

In questo tragitto, più che in tutti gli altri trattamenti psicoterapeutici, il momento dell'apprendimento, che riguarda i bisogni intrinseci, l'evoluzione e l'organizzazione profonda della personalità, l'influenza dell'ambiente sotto il profilo affettivo e soprattutto culturale, è di fondamentale importanza. E' impossibile infatti che un soggetto delirante riesca a trascendere il livello vissuto del delirio se egli non comprende il ruolo e l'attività del super-io e dell'io antitetico. E' superfluo aggiungere che il momento dell'apprendimento va calibrato in rapporto ai livelli culturali propri del soggetto in questione.

Per quanto riguarda l'uso degli psicofarmaci, essi non vanno né assolutizzati né demonizzati. La loro utilità sintomatica in rapporto alle crisi acute e a momenti di particolare difficoltà psicologica è indubbia. Ciò non giustifica però in alcun modo un trattamento continuativo con alti dosaggi. Primo, perché un trattamento del genere, posto che sia accettato, induce nel paziente la convinzione di albergare un processo morboso, che si traduce poi in una dipendenza tale per cui qualunque tentativo di scalaggio o di sospensione fa ricomparire i sintomi. Secondo, perché un trattamento ad alte dosi può impoverire l'esperienza soggettiva, sottraendo alla psicoterapia tutta una serie di indizi e di vissuti significativi dell'attività dinamica dei conflitti.

La prevenzione secondaria ha come intento d'impedire che l'evoluzione inconscia dei conflitti disorganizzi il mondo interno al punto tale da indurre una cronicizzazione degli stessi, alla quale corrispondono quasi con certezza assetti neuronali e biochimici poco o punto reversibili. Tenendo conto che la cronicizzazione dei conflitti irrigidisce il modo di rapportarsi e d'interpretare la realtà, gli interventi riabilitativi sono della massima importanza poiché, immergendo il soggetto in contesti interattivi, mirano a fare giunge al soggetto delle informazioni che possono mantenere almeno un minimo di plasticità emozionale e cognitiva. Anche una psicoterapia può essere utile a questo fine. Se essa infatti non risolve il delirio può consentire al soggetto di mantenere un minimo di atteggiamento critico.

7.

Esaurire il discorso sulla prevenzione della schizofrenia nell’ambito psichiatrico o psicosociale è comunque riduttivo. Si danno infatti una serie di circostanze culturali che assumono, in un’ottica più ampia, un fondamentale interesse. Le più importanti tra queste sono tre.

La prima è il coscienzialismo contemporaneo, intendendo con questo termine il fatto che le persone sono educate a vivere i livelli di coscienza come se fossero gli unici livelli di esperienza soggettiva. Nelle sindromi dissociative questa ideologia, in cui ci si imbatte in ogni esperienza terapeutica, che rappresnta un vero e proprio recinto mentale, ha un'incidenza enorme, poiché più di tutti gli altri soggetti coloro che sviluppano una sindrome dissociativa hanno una tendenza spiccata a percepire la realtà a livello subliminale e nei suoi aspetti inconsci.

La conseguenza del coscienzialismo è una forma di realismo ingenuo (il realismo del senso comune), attestato dal credere che tutti i contenuti che attraversano la coscienza abbiano origine nel mondo esterno. Complementare a tale aspetto è il misconoscimento del mondo interno, soprattutto nei suoi aspetti inconsci, e delle leggi che lo sottendono. Da questo punto di vista, si può ritenere esiziale la rimozione culturale, ch'è propria del nostro mondo, del peso che il sociale interiorizzato continua ad avere nell'esperienza soggettiva.

Il coscienzialismo va sormontato all'interno di ogni esperienza terapeutica. Ma esso rappresenta, come di è detto, un recinto mentale ideologico che va sormontato in nome di una programmazione culturale che promuova, su scala collettiva, il riconoscimento del mondo interno e delle leggi sue proprie.

Un secondo aspetto - permettetemi d'insistere su questo tema - è il misconoscimento di una diversità genetica che espone alcuni esseri ad un inevitabile conflitto con l'ambiente. Il modo di produzione antropologico corrente, che viene realizzato dalle istituzioni pedagogiche, si rivolge al bambino medio per tirarne fuori un cittadino integrato nel mondo così com'è. Mettendo tra parentesi il fatto che l'e-ducere risulta sempre più spesso una precoce induzione all'alienazione, c'è da dire che tale modo di produzione è disfunzionale per bambini la cui diversità genetica li pone ai limiti estremi di una curva gaussiana. Gli uni, totalmente accondiscendenti in nome della loro sensibilità sociale, sono trattati né più né meno, incolpevolmente, come polli di allevamento; gli altri, che hanno una natura ribelle e oppositiva, sono sottoposti ad un intervento correzionale omologabile a quello che un tempo si usava per i macini. Mi chiedo quanto tempo occorrerà per riconoscere questo problema in ambito psichiatrico e per diffondere la consapevolezza a livello sociale.

Un terzo aspetto è la diffusione dell'ideologia psichiatrica che, superato il manicomio, mantiene nell'opinione pubblica il riferimento alla follia come malattia mentale. Tale diffusione ostacola la possibilità dei soggetti affetti da un delirio di riconoscere la loro esperienza come uno dei possibili modi attraverso i quali un soggetto, che alberga dei conflitti psicodinamici, sperimenta il mondo. Non si tratta di un'assenza della coscienza di malattia, che la neopsichiatria assume come uno dei segni patognomonici della sindrome dissociativa, bensì del rifiuto di essere etichettati come "folli". E' assolutamente sorprendente in quale misura i soggetti affetti da sindrome dissociativa, immersi in un contesto interpersonale che prescinde da ogni preoccupazione diagnostica, siano in grado di comunicare la loro esperienza. Il fatto che questa comunicazione si associ spesso alla richiesta di essere creduti, che investe anche le convinzioni deliranti, esprime l'angoscia di passare per "pazzi". Ovviamente si richiede una grande pazienza per fare venire fuori i pazienti dal ricatto della categoria normalità/follia di cui sono prede.

E' evidente che, in una società affrancata da tale ricatto e orientata a capire il senso dei diversi modi soggettivi di rapportarsi alla realtà, la fatica sarebbe di gran lunga minore. Ma ciò significa né più né meno rilanciare, aggiornandolo, il pensiero antipsichiatrico nel suo valore imperituro, che è la contestazione del senso comune di cui la psichiatria rappresenta, al tempo stesso, la ratifica e l'estremizzazione.

Intervenire su questi aspetti, come si è accennato, trascende l'ambito strettamente psichiatrico e coinvolge una programmazione sociale che diffonda una nuova cultura riguardo alla struttura mentale, al rapporto tra soggettività e storia sociale, al ruolo delle famiglie come agenzie psicologiche di riproduzione antropologica, alla comprensibilità del disagio psichico in tutte le sue diverse espressioni e alla possibilità di ricavare da esso un sapere più profondo sulla condizione umana.

C'è poco da illudersi sulla possibilità che la psichiatria cambi pelle. Ciò che è avvenuto negli ultimi quindici anni dovrebbe aprire gli occhi anche ai ciechi. La ristrutturazione ideologica seguita alla contestazione antipsichiatrica ha dato luogo ad un paradigma - formalmente multidimensionale - che, analizzato criticamente, risulta essere più rigido, deterministico e riduzionistico rispetto a quello kraepeliniano. Esso infatti comporta non solo la definizione, ormai univoca, della schizofrenia come una malattia cerebrale o, addirittura, come una malattia genetica la cui fenomenologia è incidentalmente psichica, bensì l'ammissione esplicita di una causalità primaria genetica per tutte le esperienze di disagio psichico (ansia, ossessione, fobie, depressione, ecc.). Questo riduzionismo biologico radicale, incentrato sul riferimento ad una presunta "vulnerabilità" costituzionale allo stress, che sottenderebbe tutto l'ambito psichiatrico e riconoscerebbe come fattori meramente collaterali quelli psicologici e ambientali, ha una pesante ricaduta a livello di pratica terapeutica, poiché privilegia l'uso degli psicofarmaci e assegna alla psicoterapia e agli interventi sull'ambiente un ruolo coadiuvante.

Mettendo tra parentesi l'analisi delle circostanze, di ordine storico, economico, sociale e culturale, che hanno consentito alla neopsichiatria di riorganizzarsi, di radicalizzarsi e di diventare egemone - a livello scientifico e di opinione pubblica -, il punto su cui riflettere concerne l'impossibilità di sormontare un paradigma riduzionistico accettando come dato di fatto l'appartenenza della psichiatria alla scienza medica. Una psichiatria alternativa, minoritaria a livello pubblico e scarsamente rappresentata a livello privato, non ha alcuna possibilità di successo se essa non opera una proposta epistemologicamente forte che la ponga in opposizione al paradigma neopsichiatrico. Occorre, a tale scopo, porre fine all'egemonia medica in campo psichiatrico, e proporre un modello metapsichiatrico decentrato nell'ambito delle scienze umane e sociali.

Ciò non significa ignorare il ruolo dei fattori biologici in rapporto all'attività mentale, normale e "patologica". Per questo aspetto, il paradigma antipsichiatrico non è riproponibile. Occorre orientarsi verso una metapsichiatria, vale a dire una scienza nuova non riduzionistica ma dialettica, incentrata su di una concezione fenotipica della genetica e, in conseguenza di ciò, aperta allo studio delle indefinite interazioni tra biologia e storia sociale, che si esprimono nell'organizzazione della personalità e nel funzionamento della soggettività.

La schizofrenia, che è attualmente il caposaldo della neopsichiatria, può, a mio avviso, diventare il terreno di lotta teorica e pratica atto a promuovere il superamento definitivo della psichiatria come disciplina medica.

MISERIA DELLA NEOPSICHIATRIA

SUL DELIRIO E SULLA PREDISPOSIZIONE SCHIZOFRENICA

Armando Roma 2001

Indice

1. La restaurazione psichiatrica

2. Dall’esperienza alla riflessione teorica

3. Il nucleo delirante

4. Un bilancio dell’esperienza

5. Il modello psicopatologico struttural-dialettico

6. La matrice conflittuale strutturale

7. Il primato del sociale interiorizzato

8. Il caso Schreber

9. Delirio e storia sociale

10. I corredi genetici individuali

11. Interazione natura/cultura

12. Il peso delle ideologie sociali

13. Riparazione e proiezione

14. Genesi di un delirio

15. La catastrofe strutturale psicotica

16. L'evoluzione della schizofrenia

17. Un tragitto terapeutico concluso

18. Un tragitto terapeutico in sospeso

19. Un fallimento terapeutico

20. Lo scarto tra teoria e prassi

21. Il continuum strutturale

22. Le configurazioni dinamiche

23. Analisi critica dei dati della ricerca neurobiologica

24. Il problema della predisposizione

25. Rischio genetico e rischio ambientale

26. Terapia e prevenzione

Conclusione

Appendici

Dal Cap.1 La restaurazione psichiatrica


La schizofrenia rappresenta da sempre il caposaldo ideologico della psichiatria biologista. La diffusione epidemiologica costante (0,8 -1,4%) nello spazio e nel tempo, l'esordio, prevalentemente giovanile (tra 15 e 25 anni), non di rado a ciel sereno, l'apparente irrazionalità dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti, la progressiva invalidazione sociale del paziente, l'evoluzione lunghissima, contrassegnata spesso da un progressivo peggioramento, l'esito talora disastroso (lo sfacelo psichico), e la presenza, sia pure non costante, di consanguinei affetti da disturbi psichiatrici, sembrano tutti elementi indiziari di un processo morboso, di natura prevalentemente ereditaria, nella cui genesi e nel cui decorso i fattori psicologici e ambientali avrebbero un'incidenza relativa, patoplastica.

La suggestione dei dati epidemiologici e clinici non deve indurre ad ignorare che, mentre la loro somma coincide con lo stereotipo messo a fuoco dalla psichiatria manicomiale fin dai suoi esordi, che oggi sappiamo almeno in parte determinato dall’istituzionalizzazione, un'analisi dettagliata mette di fronte ad una realtà meno omogenea.

L'esordio giovanile è prevalente, ma, in media, più tardivo nelle donne (tra i venti e i trenta anni) che negli uomini (tra i diciotto e i venticinque anni). Si danno peraltro casi che insorgono in età adulta e, da alcuni anni con una frequenza significativamente crescente, casi ad insorgenza precoce, adolescenziale.

Il comportamento premorboso talora è del tutto normale, anzi ipernormale, caratterizzato cioè da un'evoluzione lineare della personalità che soddisfa in maniera ottimale le aspettative sociali; talaltra, viceversa, appare contrassegnato da tendenze all'opposizionismo, al negativismo e da sintomi (in particolare di tipo ossessivo).

L'incomprensibilità del quadro clinico riguarda tutt’al più le fasi acute della schizofrenia, che si possono definire ‘psicotiche’ in quanto sono con certezza associate a squilibri biologici, interpretabili peraltro anche in termini psicosomatici. Superate le fasi acute, il delirio quasi sempre si organizza e raramente appare incoerente. In alcuni casi addirittura, esso si struttura assumendo una configurazione logica inoppugnabile.

L'invalidazione sociale è frequente ma non costante. Non poche forme si incistano, consentendo ai soggetti di condurre una vita pressoché normale.

L'evoluzione, infine, riconosce una varietà molto maggiore rispetto a quanto si riteneva in passato. In molti casi essa, infatti, è contrassegnata da un progressivo, rapido o lento, peggioramento. Si danno però, sia pure raramente, crisi acute inequivocabili che sopravvengono anche una sola volta nella vita di un soggetto e non sembrano incidere su di essa in maniera sostanziale. In altri casi, l'evoluzione dei sintomi tende ad arrestarsi col procedere dell'età. L'esito catastrofico, demenziale, non riguarda infine che un quarto dei pazienti.

L’eterogeneità dei dati clinici e del decorso ha invalidato il classico quadro nosografico kraepeliniano, accreditato per più di un secolo come una pietra miliare del pensiero psichiatrico1, i cui presupposti teorici erano la natura biologica della schizofrenia, il suo carattere processuale, evolutivo e maligno, e l’esito demenziale.

La crisi del paradigma kraepeliniano è sopravvenuta sull’onda della lotta antistituzionale, avviatasi intorno al 1960, che, in virtù di radicali cambiamenti dell’ambiente manicomiale e dell'atteggiamento degli operatori nei confronti dei pazienti, ha dimostrato che la processualità morbosa da esso descritta era in misura rilevante il prodotto dell’istituzionalizzazione. Questa presa d'atto ha dato l'avvio ad un movimento, critico-teorico e pratico, mirante a demolire il ‘mito’ della malattia mentale. Tale critica ha coinvolto psichiatri, intellettuali e forze sociali, prevalentemente di sinistra, di tutto l’Occidente, assumendo configurazioni diversificate ed esitando in una serie di proposte: da quelle, più moderate, di sostituire l'ospedale psichiatrico con comunità terapeutiche o con una rete di servizi pubblici territoriali a quelle, più radicali, di assumere la schizofrenia come l'espressione più drammatica dell'alienazione borghese e di progettare una sua risoluzione nell'ottica di una rivoluzione sociale.

Vivacissimo per due decenni (dal 1960 al 1980) ma eterogeneo, contraddittorio e privo di un coordinamento, tale movimento, impropriamente etichettato come antipsichiatrico2, ha avuto il merito di demistificare l'ideologia manicomiale come strumento di controllo e d'oppressione sociale e di avviare delle riforme che hanno avuto esiti diversi nei paesi occidentali.

La critica destruens del modello kraepeliniano non ha dato però luogo, nonostante una molteplicità di spunti interessanti, alla elaborazione di un modello psicopatologico alternativo sufficientemente coerente ed esplicativo. Gli ostacoli che si sono opposti a tale elaborazione sono stati sostanzialmente due.

Il primo va ricondotto alla valutazione del ruolo dei fattori psicologici e sociali nella genesi e nell'evoluzione della schizofrenia. Incapace di produrre una teoria autonoma della personalità, il movimento antistituzionale non ha potuto fare propria alcuna delle teorie maturate nell'ambito delle scienze psicologiche per non ricadere dalla padella del biologismo nella brace dello psicologismo. In conseguenza di ciò, i nessi più volte ribaditi tra la dimensione privata della soggettività individuale, laddove si definisce il fatto clinico, e la storia sociale cui essa appartiene, sono rimasti oscuri e indecifrabili. Il problema non si è potuto risolvere neppure in senso inverso, sociopsicologico, perché il movimento è rimasto fermo ad una teoria sociologica di stampo marxista la cui carenza sostanziale, come riconosciuto da tempo, riguarda proprio quei nessi.

Il secondo ostacolo va identificato nella difficoltà di valutare il ruolo dei fattori biologici nella genesi della schizofrenia, soprattutto per quanto concerne il problema della predisposizione. Manifestamente in imbarazzo a riguardo, il movimento antistituzionale, è finito con il refluire su di un atteggiamento agnostico, il peggiore che si possa assumere su un problema di così grande rilievo e che è peraltro difficile da comprendere. Ammettere infatti che, nella nostra come in ogni società esistita sinora, alcune persone con certi genotipi siano, più frequentemente di altre, affette da schizofrenia, non implica alcun cedimento all'impostazione psichiatrica tradizionale o alla neopsichiatria3, bensì impone, semplicemente, di affrontare il problema della schizofrenia entro una cornice più vasta di discorso scientifico che implica una teoria dialettica dei rapporti tra biologia, storia sociale e soggettività.

La carenza teorica del movimento antistituzionale, il cui massimo successo è stato il superamento definitivo del manicomio avvenuto in Italia, ha consentito alla psichiatria tradizionale di riorganizzare le sue fila sul piano pratico e su quello teorico. Il vento della restaurazione ha cominciato a spirare negli Stati Uniti, laddove, nonostante una lunga tradizione psicodinamica e psicosociologica, la psichiatria biologica, per la sua consonanza con l'ideologia dominante individualistica, per il connubio con la neurobiologia e la sponsorizzazione delle industrie psicofarmaceutiche, ha mantenuto sempre un potere rilevante.

Sul piano pratico, preso atto dell'estrema variabilità dei criteri diagnostici adottati in precedenza, la psichiatria statunitense, egemonizzata dall’organicismo, si è fatta carico del problema di formulare un prontuario nosografico (il DSM)4 che unificasse a livello internazionale i criteri diagnostici. Nonostante l’intento scientifico dell'impresa, la comparazione delle varie edizioni del DSM, giunto ormai alla quarta5, pone di fronte al fatto che la schizofrenia rimane una nebulosa dai contorni piuttosto indefiniti a cui appartengono, oltre alla forma classica, episodi psicotici brevi, sindromi schizofreniformi, sindromi schizo-affettive, ecc. Il nucleo stesso non è per nulla così ben definito come sostengono gli autori, dato che, per giungere alla diagnosi definitiva, occorre un periodo d'osservazione non minore di sei mesi6.

Sul piano teorico, la neopsichiatria ha recepito gli attacchi antipsichiatrici inserendo nel suo modello di riferimento, multidimensionale o multifattoriale, i fattori psicologici e sociali come concausali, ma, attraverso l'alleanza con la neurobiologia, si è orientata, con impegno crescente a partire dal 1980, a dimostrare il primato eziologico dei fattori biologici. L'ultimo decennio del secolo scorso, dedicato al cervello, avrebbe dovuto coronare la restaurazione psichiatrica con la scoperta definitiva delle cause biologiche della schizofrenia. All'alba del terzo millennio, lo stato dell'arte è ancora lontano dall'obiettivo.

Le ricerche effettuate sino ad oggi, con le tecniche genetiche, biochimiche, anatomiche e radiologiche più avanzate, non hanno consentito infatti di risolvere il ‘mistero’ dell'eziologia e della patogenesi della schizofrenia. La sproporzione tra la massa dei dati accumulati, in via di costante crescita esponenziale6, e la povertà dei modelli che tentano, senza riuscirvi, di integrarli, è enorme. L'ipotesi attualmente dominante è che la schizofrenia nasca dall'interazione di un corredo genetico caratterizzato dalla presenza di più geni ‘vulnerabili’ con i fattori ambientali. Esclusa un'ereditarietà mendeliana semplice, la predisposizione genetica è ricondotta ad un modello multifattoriale a soglia. Tale modello presuppone l'esistenza di un numero relativamente elevato di geni sfavorevoli, benché non necessariamente patologici, distribuiti a caso nella popolazione che, in alcuni corredi individuali, si combinerebbero tutti o quasi tutti dando luogo ad un effetto soglia, vale a dire ad una vulnerabilità ai fattori ambientali. I fattori ambientali potrebbero agire sia prima sia durante sia dopo la nascita contribuendo ad indurre una strutturazione neuroanatomica abnorme che sarebbe infine rivelata dai sintomi.

Si tratta di un'ipotesi legittima, le cui carenze epistemologiche vanno però sottolineate preliminarmente. Essa muove da un ragionamento sillogistico che comporta almeno una premessa incerta. Posto che alcuni soggetti manifestano dei disturbi del pensiero, dell'affettività e del comportamento e che tali disturbi non sono immediatamente comprensibili7 in rapporto alle circostanze ambientali, se ne deduce che essi interagiscono con l'ambiente in base ad un difetto costituzionale. La metodologia di ricerca conseguente al sillogismo è vantata com'empirica. In realtà si procede a tentoni. Si cercano, nel corredo dei pazienti e in quello dei loro parenti, i presunti geni sfavorevoli che determinerebbero l'effetto soglia. L'individuazione avviene sulla base del reperimento di minime anomalie cromosomiche. Il rapporto tra tali anomalie, peraltro incostanti e presenti in varia misura anche nella popolazione normale, e la schizofrenia è semplicemente presuntivo.

La vulnerabilità, d'altro canto, sarebbe un fattore necessario ma non sufficiente ad attivare la malattia. I fattori ambientali, il cui ruolo risulta decisivo dal punto di vista eziologico, non possono essere generici, riconducibili cioè a circostanze comuni di vita, poiché, in tal caso, tutti i soggetti che hanno nel loro corredo gli stessi geni sfavorevoli (i gemelli monozigoti), allevati nello stesso ambiente, dovrebbero ammalare, mentre la concordanza non supera il 40%. Nonostante la loro importanza, però, tali fattori rimangono indefiniti. Le ipotesi avanzate a riguardo, nessuna delle quali è stata sinora confermata, spaziano da un'infezione virale fetale a non meglio specificati stress. Posto che, sulla base di una predisposizione genetica, sono i fattori ambientali a fenotipizzare la schizofrenia, il carattere incerto e contraddittorio di queste ipotesi getta una luce di discredito sul paradigma organicistico.

Nonostante lo stato della ricerca scientifica sulla schizofrenia imporrebbe ragionevolmente di dedicare, a fini preventivi, tempo e denaro allo studio dei fattori ambientali, che sembrano decisivi al fine di trasformare la predisposizione in malattia, e che, solo in spregio al buon senso, possono essere identificati con l’ambiente uterino, la neo-psichiatria procede ormai da anni sulla via d'una mistificazione ideologica che, nella comunicazione con i mass-media, raggiunge il livello della falsificazione propagandistica. Se essa infatti, sul piano scientifico, si fa scudo adottando il modello multidimensionale che ammette, per ogni disagio mentale, l'interazione di fattori genetici, psicologici e ambientali, e riconosce che, per quanto riguarda la schizofrenia, mancano ancora molti dati per rendere epistemologicamente attendibile tale modello6, sul piano della propaganda rivolta all'opinione pubblica, che utilizza ampiamente i mass-media e la rete Internet, mette da parte ogni cautela ed esibisce un trionfalismo dogmatico che dà per scontato la natura genetica della schizofrenia e ne anticipa l'imminente soluzione medica.

Di questo trionfalismo dogmatico si potrebbero fornire prove molteplici. Mi limiterò a due documenti pubblicati su Internet. Il primo, del 1997, è un lungo articolo pubblicato dall'Istituto Nazionale per la Salute Mentale degli Stati Uniti (NIHM) che fa un bilancio delle ricerche biologiche sui disturbi mentali. L'articolo esordisce con l’asserzione che le malattie mentali gravi sono malattie del cervello. A ragione della loro diffusione epidemiologica, che il NIHM, sommando i dati che riguardano la schizofrenia, i disturbi dell'umore, gli attacchi di panico, i disturbi ossessivo-compulsivi, i disturbi del comportamento alimentare, ecc., valuta com'estesa al 12-15% della popolazione statunitense, le malattie mentali sono considerate un problema sanitario prioritario in conseguenza delle sofferenze che esse producono ai pazienti e alle famiglie e dei costi dell'assistenza e della previdenza. All’interno di questo insieme, univocamente considerato di pertinenza medica, la schizofrenia, per il suo lungo decorso e per gli esiti spesso devastanti, è considerata la frontiera della ricerca neurobiologica.

I dati acquisiti al 1997 su questa frontiera sono riportati in dettaglio. Da essi risulta ciò che è noto da tempo: il rischio di morbilità per i parenti di un soggetto affetto da schizofrenia, direttamente correlato al grado di parentela, e la non concordanza nella malattia che riguarda i gemelli monozigoti di genitori schizofrenici affidati a famiglie sane. Per quanto riguarda i geni vulnerabili, un'analisi dettagliata delle ricerche internazionali porta alla conclusione che i risultati sono attualmente inconsistenti. Ciononostante, gli autori, fondandosi unicamente sulla ereditarietà familiare, ritengono, senza porsi alcun altro problema, che essa, mettendo in luce una predisposizione, basti a definire la schizofrenia una malattia cerebrale.

Il secondo articolo, pubblicato nel marzo 1999, dalla British Columbia Schizophrenia Society si rivolge invece ai giovani, agli educatori, ai parenti e ai lettori interessati al fine di sensibilizzarli. La sensibilizzazione si fonda sulla seguente asserzione: "La schizofrenia è una malattia del cervello, identificata da sintomi specifici, caratterizzata da un estremo disordine del pensiero, delle emozioni e del comportamento, trattabile in molti casi con i farmaci". Naturalmente, il capitolo sulle cause della schizofrenia non fornisce alcuna prova certa a sostegno della natura medica della malattia, che però, nell'articolo, è ribadita più volte in maiuscolo. Da questo dogma discendono i singolari consigli rivolti ai parenti e ai pazienti sui criteri da seguire per ottenere un trattamento ottimale nei limiti attuali dello stato dell'arte, che può contenere non guarire il processo morboso. Per essere certi di avvalersi di tale trattamento, i parenti e i pazienti devono accertare che lo psichiatra creda nella natura organica della malattia, sia sufficientemente esperto nell'uso dei nuovi antipsicotici e onesto sia nell'escludere la guarigione sia nell'anticipare, ai parenti, un'evoluzione sostanzialmente infausta!

L’asserzione apodittica per cui la schizofrenia è una malattia del cervello8, non giustificata da alcun dato scientifico probante, si legge ormai ovunque nella letteratura specialistica e in quella indirizzata al grosso pubblico. Il sospetto che, almeno in parte, i neopsichiatri siano asserviti al potere delle case farmaceutiche, che vedono nella schizofrenia, per la sua incidenza statistica e il lungo decorso, un budget d'inestimabile valore9, non è infondato. Nel dicembre del 1998 uno psichiatra statunitense, il dottor Loren R. Mosher, noto per i suoi studi sulle comunità terapeutiche, ha presentato le sue dimissioni dall'American Psychiatric Association con una lettera i cui contenuti radicalmente critici riecheggiano le denunce dell'antipsichiatria degli anni '70. Mosher infatti rileva ironicamente che l'APA dovrebbe ormai più correttamente definirsi American Psychopharmacological Association, in quanto essa risulta completamente asservita ai capitali delle industrie farmaceutiche, che ne finanziano i meetings, i simposi, i convegni, le ricerche, in cambio naturalmente della disponibilità degli psichiatri a trasformarsi in spacciatori di farmaci. Anche il training psichiatrico, riducendosi ormai all'acquisizione della capacità di prescrivere psicofarmaci, fa sì che la cura non si rivolge ai pazienti ma ai loro neurotrasmettitori. Ciò prova l’adesione dell’APA ad un modello radicalmente e ciecamente riduzionistico il cui intento sarebbe quello di sancire definitivamente l'appartenenza della psichiatria alla medicina somatica. Non si tratta, però, secondo Mosher, di un modello scientifico ma d'una miscela di moda, di politica e, grazie ai contributi delle case farmaceutiche, di denaro, che fa della psichiatria uno strumento d'oppressione e di controllo sociale.

Per quanto si tratti di una denuncia autorevole, e inconfutabile nel merito, è difficile ammettere che, negli Stati Uniti come altrove, tutti gli psichiatri siano corrotti e in mala fede. E’ più probabile che gran parte di essi risenta dell’influenza del training e della diffusione del paradigma biologista. Il training di fatto si riduce all’acquisizione acritica di tale paradigma. La letteratura specialistica, prodotta da un'infinità di centri di ricerca in tutto il mondo, in massima parte finanziati dalle industrie farmaceutiche, è totalmente schierata a favore di un riduzionismo biologico radicale. Il tam-tam dei convegni dedicati alla schizofrenia è incentrato sul riferimento univoco, che si ripete come una formula liturgica, al modello multifattoriale e al ruolo dei fattori genetici. In difetto di strumenti interpretativi complessi, solo in parte ricavabili dalle scienze psicodinamiche, il quadro sintomatologico della schizofrenia e, soprattutto, il suo decorso, è tale da potere facilmente indurre, anche in psichiatri in buona fede10, la verifica del paradigma.

Nonostante il ruolo delle industrie farmaceutiche, la cui vocazione speculativa risulta oggi sempre più chiara, non appare ragionevole pensare ad una cospirazione della corporazione psichiatrica a danno dei pazienti e del progresso scientifico. In ambito psichiatrico, si sta realizzando semplicemente un massiccio fenomeno di normalizzazione paradigmatica11 che tende a vanificare il potere critico degli addetti ai lavori e ad occludere ogni orizzonte di ricerca alternativo. Non mancano voci dissenzienti che valutano i dati attualmente disponibili come del tutto precari e incompatibili con il dogma della malattia. Ma, nonostante la loro autorevolezza, ad esse non è dato alcun rilievo pubblicistico nelle riviste specialistiche più accreditate. Per reperirle occorre rivolgersi all'unico sito WEB antipsichiatrico statunitense (www.antipsychiatry.com), ispirato al pensiero di Th. Szasz12.

Il panorama psichiatrico è caratterizzato dunque da un dogmatismo ideologico e da una sconcertante approssimazione propagandistica, sapientemente orchestrati, anche in Italia, da alcuni ‘baroni’ sponsorizzati dalle case farmaceutiche. Di recente, uno di questi13 si è esibito, nel corso di un convegno, in una serie d'aberranti affermazioni incentrate sulla certezza che la schizofrenia e i disturbi dell’umore siano destinati, in un futuro prossimo, ad essere debellati dall’ingegneria genetica. Secondo lo stesso, che peraltro si limita a ripetere gli slogans dell'organicismo statunitense, non si tratterebbe di malattie psichiatriche bensì di malattie genetiche che si esprimono con sintomi psichici. Nell’ottica di questo riduzionismo biologico estremizzato, lo svuotamento di significato di esperienze esclusivamente umane è, dunque, totale. Con tale svuotamento, la neopsichiatria, che ambisce ad essere riconosciuta sic et simpliciter come branca specialistica di una medicina di organi, rivela la sua miseria culturale più ancora che scientifica e la sua totale inadeguatezza all'oggetto in questione, che è l'uomo con la sua storia, le sue contraddizioni, le sue passioni, la sua frustrata vocazione ad essere.

Prescinderò, in questo lavoro, dalla critica ideologica. Identificare le cause economiche e socio-culturali della restaurazione psichiatria e i motivi per cui la società occidentale, affetta da un tasso di disagio psichico crescente14, manifesta una preoccupante connivenza con un'ideologia che, rendendone responsabile unicamente la natura, pregiudica i malati di mente come esseri vulnerabili, costituzionalmente incapaci di adattarsi alle normali richieste della vita, non è difficile15. Ma non è questo, se non implicitamente, il tema di questo lavoro, che intende affrontare ciò che comunemente si definisce lo specifico psichiatrico. La schizofrenia, intesa come malattia del cervello, è di fatto un mito, pericoloso in quanto esclude qualunque altro orizzonte di ricerca che non sia neurobiologico, e, in conseguenza di ciò, deresponsabilizza i pazienti, le famiglie e la società. Nella realtà, però, essa, intesa semplicemente come modalità di esperienza che per le sue caratteristiche viene costantemente ad essere identificata socialmente (dai congiunti e dalla gente comune, prima ancora che dagli psichiatri), è un nodo complesso di problemi che, se non vanno frettolosamente etichettati, vanno di sicuro affrontati.

Note

1) Considerata tale da coloro per i quali la psichiatria è null'altro che una branca specialistica della medicina, l'opera di Kraepelin, considerata sotto il profilo storico, si può giudicare più propriamente una pietra tombale del pensiero e della pratica psichiatrica. Non si può ignorare infatti che, con Pinel, la psichiatria nasce, sotto l’impulso dell’Illuminismo, con una vocazione medica e assistenziale sottesa però da forti istanze di ordine umanitario, morale, filosofico e civile. Per quanto segregativo, l'asilo, nell'intento originario di Pinel, comporta più una tutela dei malati di mente dal contatto con una società urbana turbolenta e umanamente degradante che non il contrario. Esso rappresenta per i pazienti, quasi tutti provenienti dai ceti meno abbienti, un ambiente confortevole ove possono godere di un tenore di vita nettamente superiore a quello sperimentato nella vita civile e interagire con operatori in qualche misura interessati alla loro rieducazione sociale e morale. L’esempio di Pinel è seguito in Italia da Chiarugi e in Inghilterra dai Tuke. Con l’avvento del Romanticismo, la psichiatria francese, pur con delle contraddizioni, manifesta delle suggestive aperture problematiche che concernono l’incidenza dei fattori psicologici e sociali nella genesi della malattia mentale, il rapporto tra normalità e follia, tra follia e genialità, ecc. In Germania, ove pure l’Illuminismo e il Romanticismo hanno avuto un’ampia risonanza, con Griesinger prima e Kraepelin poi si impone invece un miope positivismo che, sulla base dell’assunto per cui la malattia mentale è una malattia cerebrale, privilegia l’intento classificatorio (che equipara gli uomini ai minerali e alle piante) e sancisce la sacralizzazione della normalità statistica e dell’ordine sociale. Il modello tedesco si allarga a macchia d’olio nell’Europa della seconda metà dell’800 e giunge rapidamente ad avere la meglio su quello, meno sistematico, più inquieto, francese. Fino all’avvento dell’antipsichiatria, negli anni ‘60 del ‘900, che si fa carico e dà voce a isolate contestazioni che non sono mai venute meno contro la brutalità del regime manicomiale, la psichiatria ufficiale è governata da un’ideologia teutonica.

2) L'estensione del termine antipsichiatria, coniato da D. Cooper (Psichiatria e antipsichiatria, Armando, Roma, 1978) a tutto il movimento è dovuto semplicemente all'intento comune, restituito dal prefisso, di contrapporsi alla psichiatria tradizionale, manicomiale, sopravvissuta, col suo gretto positivismo, ai travagli epistemologici, scientifici e filosofici della prima metà del '900.En passant, é opportuno rilevare che la rimozione del pensiero antipsichiatrico, intervenuta a seguito della restaurazione psichiatrica, è stata senz’altro agevolata dal fatto che non è stato prodotto alcun lavoro di sintesi che ne ricostruisse la storia, gli sviluppi concettuali, le differenze tra le diverse posizioni. Forse, non è ancora tardi per farlo.

3) Il termine neopsichiatria è un neologismo che ormai utilizzo da alcuni anni per definire la pratica psichiatrica ispirata al modello multidimensionale, messo a fuoco in risposta alle critiche antipsichiatriche. Esso vale a sottolineare la sostanziale continuità di tale modello con l'antesignano ottocentesco comprovata dal ritenere i fattori genetici come necessari e primari nell'eziologia schizofrenica. Da questo presupposto deriva, nella pratica, una totale disattenzione ai fattori psicologici e a quelli sociali, che pure sulla carta vengono ammessi come concausali.

 4) DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, 1996.Rispetto alle edizioni precedenti, il DSM-IV è caratterizzato da una preoccupazione diagnostica che, avendo preso atto di un'impossibile ordinamento dei fenomeni psicopatologici su base eziologica, ripropone un ordinamento meramente descrittivo e sindromico. Deprivati di ogni tensione esplicativa, i criteri che esso propone servono solo ad incasellare quei fenomeni. Il DSM-IV intende dimostrare che la psichiatria è a pieno titolo una branca specialistica della medicina che non ha alcun bisogno di aprirsi all'interazione con le scienze umane e sociali per definire e valutare il suo oggetto.In conseguenza di ciò esso lo svuota però di significato fino al paradosso per cui un computer, programmato a tal fine, potrebbe sottoporre un paziente ad un'intervista e pervenire a una diagnosi nosograficamente corretta.

5) Per una critica ideologica del DSM rinvio a F. De Paola, L'istituzione del male mentale, manifesto libri, Roma, 2000, pp. 47-66.

6) Tale crescita è dovuta a due motivi: all'entità dei fondi finanziari, pubblici e soprattutto privati (erogati dalle industrie farmaceutiche), messi a disposizione dei ricercatori che nondimeno si lamentano periodicamente della loro inadeguatezza in rapporto all'impresa; e all'ambizione dei ricercatori stessi che, in combutta con gli psichiatri, aspirano ad un premio Nobel che arricchirebbe il misero 'medagliere' della scienza psichiatrica, fermo a quello improvvidamente assegnato all'inventore della psicochirurgia.

7) L’incomprensibilità dei sintomi schizofrenici rappresenta, per l’appunto, la premessa criticabile del sillogismo. E’ evidente che la comprensibilità cui fa riferimanto la neopsichiatria salta a pié pari la distinzione jaspersiana tra comprensibile e esplicabile (cfr. Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1965, pp. 326-328), identificandoli. Già in questo si può intravedere un arretramento del pensiero psicopatologico rispetto ad una tradizione fenomenologica che, posto il principio dell’inesplicabilità causale del delirio, si poneva almeno il problema di cogliere i nessi logici e psicologici sui quali, pur partendo da una premessa errata, esso si costruisce. Ma il vero problema, che denuncia la rozzezza culturale dei neopsichiatri, è che essi assumono come metro di misura del delirio il senso comune, vale a dire la condivisione collettiva di modi di vedere, di pensare e di agire maggioritari.

8) Non è superfluo specificare che per cervello la neopsichiatria intende né più né meno un organo equiparato a qualunque altro, un organo destorificato. L’equiparazione è ridicola e, paradossalmente, in contrasto non solo con il buon senso ma con i dati stessi della neurobiologia. Il polmone, il rene, il fegato, ecc. si differenziano sulla base di un determinismo genetico piuttosto rigido. La struttura del cervello, invece, con i suoi circuiti interneuronali e la sua fitta rete dendritica, dipende in misura rilevante dall’interazione con l’ambiente. Nota da parecchio tempo (cfr. Changeux J. -P., L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983), questa verità è stata confermata sino ad oggi da tutte le ricerche sulla plasticità cerebrale.

9) Il budget potenziale è facile da calcolare. Solo nei Paesi sviluppati gli schizofrenici sono più di dieci milioni. Se, com’è negli intenti della neopsichiatria e delle industrie farmaceutiche, si riuscisse a ‘curarli’ vita natural durante, ciascuno di essi, tenendo conto delle terapie standardizzate e dei costi dei farmaci, renderebbe ogni anno all’incirca una decina di milioni di lire. La moltiplicazione porta a una cifra vertiginosa. Un nonnulla peraltro se si pensa al budget potenziale rappresentato dall’ansia e dalla depressione. Ma gli ansiosi e i depressi, di solito, non assumono farmaci per tutta la vita né possono essere costretti a farlo.

10) Il problema della buona fede dei neopsichiatri è complesso. In termini generali, si può dire semplicemente che essi non sanno quello che fanno nell’estrapolare da un’esperienza umana i sintomi, nel classificarli nosograficamente e nel trattare conseguentemente la malattia come un fatto oggettivo. Le cause di questa inconsapevolezza che, in altri settori della medicina, equivarrenne all’imperizia, vale a dire all’incompetenza, sono molteplici. In parte esse possono essere ricondotte ad un indottrinamento ideologico che induce una lettura stereotipica della realtà clinica e porta a selezionare solo i dati - sintomi, vissuti e comportamenti - che confermano il paradigma organicistico di riferimento. Ma tale indottrinamento difficilmente potrebbe realizzarsi in maniera così rilevante come attesta la pratica psichiatrica se non fosse facilitato da altri fattori. Uno di questi è da ricondurre all’iter formativo degli psichiatri che, dopo sei anni di medicina e quattro di specializzazione, possono disporre di una buona cultura medica e neurologica ma - al limite - di nessuna competenza psicologica, psicodinamica, sociologica, filosofica. L’identificazione degli psichiatri da parte dell’opinione pubblica come cultori dei misteri della mente è, tranne rare eccezioni, del tutto infondata. Un altro fattore riguarda l’attitudine. Un’intelligenza di ordine generale può consentire di acquisire qualunque laurea. Ma si danno professioni, come quella psichiatrica, che richiedono una predisposizione, una capacità empatica, una disponibilità al confronto con altri mondi di esperienza rispetto al proprio e una curiosità intellettuale che sono doti naturali e vocazionali, delle quali purtroppo molti psichiatri sono del tutto sprovveduti. Il dramma storico della psichiatria è che non pochi pazienti, soprattutto schizofrenici, sono in genere più dotati di coloro che li curano.

11) Ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino, 1974), Thomas Khun sostiene che un paradigma scientifico nuovo insorge sempre in virtù di una più o meno brusca rottura epistemologica rispetto al modello presistente. Via via però che esso, dopo una fase di conflitto che vede contrapposti i sostenitori del vecchio e quelli del nuovo modello, viene accettato dalla comunità scientifica, tende inesorabilmente a normalizzarsi, vale a dire ad essere condiviso e ripetuto da tutti gli scienziati con un'inesorabile allentamento critico che impedisce di venderne i limiti finchè, a partire da questi, qualcuno non ne propone un altro. Capita, in breve, anche a livello scientifico ciò che accade nella storia: le rivoluzioni finiscono col diventare, nel corso del tempo, potenti apparati di conservazione.

12) Considerato, per i suoi lavori, uno dei padri storici dell'antipsichiatria, Th. Szasz (Il mito della malattia mentale, Il saggiatore, Milano, 1966; Disumanizzazione dell'uomo, Feltrinelli, Milano, 1977; Schizofrenia, simbolo sacro della psichiatria, Armando, Roma 1979) occupa un ruolo particolare nel pantheon antipsichiatrico, che è stato brutalmente soppiantato dal monoteismo organicistico. Se non l'unico, è uno dei pochi che ha condotto avanti la sua battaglia muovendo dalla difesa dei diritti naturali dell'individuo in un'ottica dichiaratamente e radicalmente liberal. Ciò gli ha assicurato un certo prestigio nel contesto statunitense in cui ha operato, senza salvaguardarlo dalla rimozione che ha investito tutte le voci critiche nei confronti della teoria e della prassi psichiatrica corrente.

13) Il convegno si è svolto a Torino e il guru in questione è l’ineffabile Prof. Cassano, il cui massimo merito scientifico è di avere avuto in cura alcuni big del mondo dello spettacolo, di apparire spesso in televisione e di avere pubblicato un libro-intervista divulgativo pretenzioso e ridicolo nel contempo (E liberaci dal male oscuro, Longanesi, Milano 1993). Il resoconto dell’intervento è stato riportato su la Repubblica (11 gennaio 2000) con un rilievo del tutto ingiustificato data l'infondatezza delle dichiarazioni.

14) Nel corso di una conferenza internazionale tenutasi a Helsinki nel 1996 (1° Meeting Mondiale su "L"impatto della malattia mentale sulla famiglia e sulla società, l'influenza delle politiche pubbliche, i trattamenti terapeutici e i gruppi di auto-aiuto"), l'OMS ha lanciato un inquietante allarme confermando che il trend epidemiologico delle malattie mentali è in costante aumento. La crescita riguarda prevalentemente, almeno per tre quarti del totale, i Paesi occidentali a più alto sviluppo industriale. I dati sulla diffusione epidemiologica mondiale della malattia mentale sono agghiaccianti: 400 milioni di persone soffrono di disturbi ansiosi, 340 milioni di turbe dell'umore, 250 milioni di disturbi della personalità, 45 milioni di schizofrenia! A queste cifre occorre aggiungere 100 milioni di alcolisti e 15 milioni di tossicodipendenti. Se questo trend prosegue, la previsione dell'OMS è che, entro il 2020, i disturbi neuropsichiatrici investiranno oltre il 25% della popolazione dei Paesi più industrializzati. Si tratta di un immane sofferenza che rimane sommersa: non più dell'1% dei soggetti con questi disturbi diventano pazienti psichiatrici. La popolazione psichiatrica rappresenta dunque la punta di un iceberg. Questi dati spiegano la preoccupazione 'umanitaristica' della neopsichiatria, sponsorizzata dalle industrie psicofarmaceutiche, rivolta ad indurre nella popolazione la presa di coscienza della malattia e della necessità di curarla con i farmaci. E' in gioco un budget che investe un miliardo di potenziali consumatori. Non si stenta neppure a capire la sottile resistenza opposta dagli Stati in cui vige un sistema sanitario nazionale all'inserimento degli psicofarmaci nel Prontuario (che, pure, lentamente avviene). Se i soggetti con disturbi psichiatrici si decidessero a 'curarsi' il bilancio dello Stato sociale risulterebbe inesorabilmente dissestato.

15)Incolpare la natura dei comportamenti che disturbano l'ordine socioculturale e teoricamente potrebbero mettere in discussione la sua congruenza coi bisogni umani è un orientamento ideologico nettamente prevalente negli Stati Uniti, laddove il benessere economico prodotto dal sistema è assunto come un indice univoco della sua efficienza, che viene ricondotta all'adesione spontanea e partecipe dei cittadini. Tale orientamento ideologico, che si va diffondendo in Europa, raggiunge l'acme del ridicolo nella misura in cui, al di là dei comportamenti sociali più propriamente disturbanti (malattia mentale, tossicodipendenza, criminalità), esso si estende a qualunque anomalia comportamentale (disturbi del comportamento alimentare, tabagismo, gioco d'azzardo, dipendenze dal computer, tradimenti coniugali, perversioni sessuali, ecc.). La connivenza dell'opinione pubblica è dovuta in gran parte all'aspettativa che la spiegazione genetica di tali fenomeni possa dar luogo rapidamente a trattamenti farmacologici risolutivi. Rimane comunque pressoché incomprensibile tale connivenza da parte di molti soggetti affetti da disturbi di ansia e dai disturbi dell'umore, che sembrano liberati da un peso nell'accettare che la loro condizione è una malattia come le altre, di origine genetica. Sembra che essi siano letteralmente incapaci di capire che, essendo l'organo in questione il cervello, quell'accettazione implica il loro riconoscersi affetti da una malattia mentale.