Sulla Prevenzione Psichiatrica

Di prevenzione psichiatrica si parla da parecchio tempo senza riuscire a tradurre quest'aspirazione in un progetto minimale e in una pratica concreta. Diversi fattori concorrono a mantenere una situazione di impotenza: alcuni esterni alla psichiatria, altri interni.

I fattori esterni sono sinteticamente riconducibili:

1) alla scarsa sensibilità politica al problema dovuta essenzialmente a una valutazione poco attenta non tanto dei costi esistenziali quanto socio-economici del disagio psichico.

L’assistenza territoriale costa indubbiamente meno, per unità di assistito, rispetto a quella dell’ex-ospedale psichiatrico e delle case di cura private. Ma l’offerta dell’assistenza territoriale determina, per ovvie ragioni, un aumento della domanda di cura. Se a ciò si aggiunge il fatto che alcune sindromi (attacchi di panico, depressioni, disturbi del comportamento alimentare, crisi di identità adolescenziali) stanno andando incontro da alcuni anni ad un aumento statistico assoluto, non ci vuole molto a capire che i costi dell’assistenza sono destinati ad aumentare di continuo, fino ad un limite critico.

2) ad una scarsa domanda sociale di prevenzione, conseguente alla privatizzazione del disagio stesso.

Sorprendentemente, all’aumento della domanda sociale di cure non corrisponde un aumento proporzionale della domanda sociale di prevenzione. Si può dire anzi che quest’ultima domanda è praticamente inesistente. Concorrono a questo paradosso vari fattori il più importante dei quali è la tendenza alla privatizzazione, soggettiva e familiare, del disagio, dovuta essenzialmente alla vergogna sociale.

3) alla crisi dello stato sociale, che orienta l’investimento delle risorse a favore di categorie disagiate più rappresentate.

I fattori interni sono sinteticamente riconducibili:

1) al dominio ormai pressoché incontrastato del modello psicopatologico multidimensionale.

Secondo una vulgata ormai corrente, la salute mentale è espressa dalle capacità di adattamento ai problemi che, nelle diverse età della vita, l’individuo si trova ad affrontare. Da questo punto di vista, si tratta di uno status individuale, dovuto in parte a circostanze - biologiche e sociali - casualmente favorevoli, in parte ai meriti dell’individuo. Complementarmente, la malattia è una condizione di disadattamento alle richieste della vita dovuta ad una vulnerabilità costituzionale, all’adozione di moduli cognitivi e comportamentale errati e a circostanze di vita particolarmente stressanti. Il peso di questi diversi fattori varia da caso a caso, ma i sostenitori di questo approccio assumono la vulnerabilità costituzionale come fattore necessario per quanto non necessariamente sufficiente. Non sorprende pertanto che le loro proposte preventive, pur non prescindendo dalla necessità di qualche cambiamento sociale (in pratica, dalla riduzione dello stress della vita quotidiana), vertano essenzialmente sullo screening genetico, sulla diagnosi della predisposizione e sull’intervento farmacologico precoce, anche prima dell’insorgenza dei sintomi. Si può ragionevolmente ritenere questo approccio non solo sterile (e pericoloso per quanto riguarda le prospettive legate all’ingegneria genetica) nell’ottica della prevenzione, ma addirittura nocivo, iatrogenetico. Esso infatti determina: la deresponsabilizzazione dei curanti in rapporto agli esiti del trattamento, che possono essere sempre attribuiti a fattori biologici incoercibili; l’alimentarsi nei pazienti e nelle famiglie di aspettative univocamente farmacologiche, con la messa tra parentesi di nodi problematici soggettivi, intersoggettivi e interattivi; la diffusione di una cultura incentrata sul darwinismo sociale, che assegna univocamente merito agli integrati e squalifica i disadattati; la definizione di una politica sanitaria psichiatrica sempre più vincolata al punto di vista medico e sempre più incline a delegare ai medici i problemi della salute mentale. Un primo momento importante del progetto di prevenzione della salute mentale è dunque vincolato al superamento del modello multifattoriale neo-organicistico, che ha restaurato l’assolutismo del potere medico nell’ambito dell’assistenza psichiatrica, e alla riduzione dei danni iatrogenetici da esso prodotti. Non si tratta di un problema meramente teorico, di ordine scientifico, bensì di un problema socio-culturale. La propaganda neopsichiatrica, avallata e sostenuta dall’industria farmaceutica, si è avvalsa con spregiudicatezza dei mass-media a partire dagli inizi degli anni ‘80, ed è giunta a far presa sull’opinione pubblica. Diffusa a livello sociale è ormai la convinzione che il disagio psichico, in tutte le sue espressioni, sia da ricondurre anzitutto a una predisposizione genetica e a disturbi biochimici, e che ciò sia stato dimostrato scientificamente. Questa convinzione determina, da parte dei familiari dei pazienti, una richiesta sempre più pressante di interventi psicofarmacologici; nei pazienti, lo sviluppo sempre più frequente di un atteggiamento farmacofilico o farmacofobico; da parte degli psichiatri, una tendenza sistematica a prescrivere dosaggi terapeutici massimali e ad usare cocktails farmacologici i più disparati.

2) all'interesse convergente della corporazione psichiatrica e di quella psicoterapeutica, sia a livello pubblico che privato, al mantenimento di una domanda di cure elevata.

E’ superfluo soffermarsi sui fini che perseguono le case di cura private.

Non si può trascurare, invece, il ruolo svolto dai psicoterapeuti, dagli psicoanalisti e in generale dalle scienze psicodinamiche. Un ruolo indubbiamente alternativo rispetto al modello neo-organicista, e quindi meno nocivo, ma del tutto refrattario al problema della prevenzione. I motivi sono ovvii: l’estensione del mercato è una manna per una corporazione eterogenea fortemente rappresentata a livello pubblico, ma la cui aspirazione neppure tanto segreta è la pratica privata. Essa, che si sente già minacciata dalla crisi economica in corso, non può avere alcun interesse per la prevenzione, poiché questa, se efficace, si tradurrebbe in un’ulteriore contrazione della domanda.

3) alla carenza di dati tratti dalla pratica assistenziale e terapeutica atti a formulare un progetto di prevenzione.

Non si tratta di una carenza assoluta. Esistono numerosi osservatori epidemiologici che elaborano statisticamente dati inerenti il disagio psichico. Ma i dati raccolti sono piuttosto bruti sia quando l’ottica è centrata sull’ereditarietà sia quando è centrata sulle circostanze sociali e sugli eventi di vita. Difettano dati significativi, vale a dire dati ricostruiti in rapporto a microstorie soggettive e familiari che consentano di cogliere, sullo sfondo della storia sociale, momenti di particolare interesse psicodinamico e/o interattivo. Dati molteplici che consentano anche, attraverso l’analisi comparativa, di oggettivare quei momenti come causali o concausali, e di assumerli quindi come indici di prevedibilità. E’ ovvio che un progetto di prevenzione, se può prescindere da una teoria condivisa del disagio psichico, non può avviarsi senza l’individuazione di alcuni indici sui quali sia possibile un intervento concreto.

Considerati questi limiti, un progetto di prevenzione non può essere articolato che su obiettivi a breve, a medio e a lungo termine.

A breve termine, occorre:

1) intervenire a livello mass-mediologico, denunciando, sulla scia della metodologia critica adottata da Steven Rose e dai suoi collaboratori, l’inganno perpetrato dalla neo-psichiatria ai danni dell’opinione pubblica. Sarebbe in particolare opportuno, da parte di tutti coloro che non aderiscono al modello neo-psichiatrico, fondare una rivista a diffusione nazionale, rivolta non solo agli operatori ma anche al pubblico, incentrata su una disamina seria e aggiornata dei problemi inerenti la salute mentale e il disagio psichico.

2) trasformare la pratica assistenziale in una pratica teorica, vale a dire ricavare da essa, adottando un protocollo adeguato, dei dati clinici, psicologici, psicodinamici, interattivi, culturali, sociologici e sociostorici che possano permettere un’elaborazione atta a fare affiorare comparativamente eventi, circostanze, momenti ricorrenti di probabile significato casuale.

3) utilizzare questi dati per individuare alcune situazioni a rischio, formulare, riguardo a queste, un progetto di prevenzione mirata e controllare nel tempo i risultati di tale progetto.

Per non lasciare nel vago il discorso, mi si consenta di fornire almeno un’ indicazione concreta tratta dalla pratica personale. Una situazione di rischio è riconducibile ai figli d’oro, vale a dire a quei figli che nel corso della loro evoluzione non danno mai alcun problema, appaiono precocemente maturi e totalmente rispondenti alle aspettative degli educatori. Questa categoria è facilmente individuabile perché coincide, con rare eccezioni, con quella degli studenti che forniscono eccellenti prestazioni scolastiche. Assumerla come una categoria a rischio si impone in virtù del fatto che, tra coloro che a livello adolescenziale e giovanile sviluppano un disagio psichico, essa appare rappresentata in una misura statistica estremamente rilevante. Intervenire a questo livello non è affatto difficile. Basterebbe identificare i figli d’oro che vivono in un regime di terrore interiore legato alla paura di deludere le aspettative degli educatori e di essere disconfermati. Un intervento su queste situazioni ridurrebbe di gran lunga le catastrofi psicopatologiche che intervengono, a partire dall’adolescenza, sotto forma di nevrosi ossessiva, di insabbiamento pre-psicotico o di repentini viraggi verso la devianza.

A medio termine, la prevenzione dovrebbe articolarsi sulla socializzazione di un patrimonio culturale che attualmente rimane proprietà privata degli esperti. Si fa riferimento al patrimonio che, a partire dall’700, si è sviluppato nell’ambito delle scienze umane e sociali (antropologia, sociologia, psicologia generale e sociale, psicoanalisi, ecc.) e nel quale oggi giorno si può inserire a pieno titolo la neurobiologia. Quali che siano le lacune e le contraddizioni intrinseche a tale patrimonio, è innegabile che esso ha profondamente rinnovato la visione che l’uomo ha di se stesso e della propria condizione. Non si vede alcun motivo che giustifichi l’esclusione di tale patrimonio dai programmi scolastici impedendo a gran parte dei cittadini di accedere ad esso.

Ci si può chiedere in quale senso questa socializzazione del sapere potrebbe rappresentare un valido strumento di prevenzione. E’ assurdo di fatto pensare che la cultura, la quale spesso viene utilizzata per razionalizzare, possa dissolvere i conflitti che si determinano nell’interazione tra i soggetti e il loro contesto. Ma non è affatto irragionevole pensare che un’attrezzatura culturale critica potrebbe depotenziare quei conflitti ed impedire che essi imbocchino tragitti psicopatologici a vicolo cieco. Mi si consenta di fare due esempi.

L’esplosione epidemiologica degli attacchi di panico attesta che, nella nostra società, un numero crescente di persone sviluppano fantasie di attacco nei confronti dei legami familiari e sociali e di fuga dal mondo. Dato che tali fantasie si attivano nei contesti più vari, è impossibile individuare una categoria sociale a rischio (per quanto la maggior incidenza a livello femminile sia un indizio non trascurabile). Ma ci si chiede in quale misura l’intervento terapeutico potrebbe risultare agevolato se le persone sapessero che la frustrazione di bisogni psicogenetici (come ad esempio la libertà individuale, il senso di giustizia, ecc.) dà luogo inconsciamente a reazioni rivendicative di rabbia che si infinitizzano, affiorando alla coscienza sotto forma di vendetta, scissione dei legami oppressivi, desiderio radicale di cambiar vita (anche a prezzo di morire o di impazzire...).

Il secondo esempio concerne lo scoglio che quasi sempre si oppone agli interventi psicoterapeutici quando è in gioco un delirio: il cosiddetto difetto di coscienza di malattia. Tale difetto viene assunto solitamente come sintomo del processo morboso. Ma, a ben vedere, esso non è null’altro che il riproporsi, a un diverso livello, del realismo ingenuo della coscienza di cui sono ‘affetti’ quasi tutti i cittadini che appartengono ad uno stesso contesto socio-culturale. Tale realismo porta a credere ciecamente ai propri occhi, alle orecchie, ecc. e ad ignorare che il mondo così come lo vediamo è in gran misura il prodotto del mondo interno. Ci si può chiedere dubitativamente se il difetto di coscienza di malattia si porrebbe negli stessi termini in cui noi lo conosciamo in un mondo nel quale i soggetti sapessero che il mondo interno, per quanto si definisca sulla base dell’interazione del soggetto con l’ambiente, ha una realtà sua propria che struttura i dati che provengono dall’esterno, ma può anche produrli (come è attestato dai sogni).

L’obiettivo a lungo termine è socio-politico. Di solito, esso si riassume nella formula per cui la migliore prevenzione del disagio mentale consiste nell’offrire a tutti coloro che vengono al mondo adeguate opportunità di sviluppo. Il limite di questa formula è che difettano molti elementi atti a definire quali siano le potenzialità individuali e quali, di conseguenza, le migliori opportunità di sviluppo. Per non rimanere abbagliati da una formula impraticabile, essa va tradotta in un linguaggio concreto. Le opportunità di sviluppo, genericamente parlando, sono le risorse affettive, economiche e culturali che una società mette a disposizione dei cittadini. La messa a disposizione di tali risorse è necessaria per quanto non sufficiente ad assicurare l’integrazione di una personalità capace di affrontare la vita, poiché una variabile non insignificante è l’uso che il soggetto ne fa. Mentre, però, quest’ultimo aspetto attiene l’ambito della responsabilità personale, la messa a disposizione è un atto di giustizia sociale. Se si considera lo stato della nostra società, non si può non rilevare che si è ben lontani dal realizzare tale giustizia. Ciò va inteso in senso non univoco. Il patrimonio affettivo, economico e culturale è distribuito a pelle di leopardo, con contraddizioni che questa metafora non permette di rappresentare. Raro è il caso di soggetti deprivati affettivamente, economicamente e culturalmente. Frequenti sono invece i casi in cui un privilegio viene pagato col difetto di un altro: per esempio, in alcune famiglie ricche la disponibilità economica coincide con carenti rapporti affettivi; in famiglie poco abbienti, la viva affettività corrisponde a scarsi strumenti di stimolazione culturale. E’ un problema politico realizzare una distribuzione equa della ricchezza sociale. E’ sommamente importante che questa ricchezza venga considerata nelle varie voci (affettività, economia, cultura) che la rendono umanamente fruibile.