I PRESUPPOSTI DELLA PREVENZIONE PSICHIATRICA

Non confondiamo i propositi con i fatti. La prevenzione, per ora, è un auspicio, duramente smentito dalla realtà – che attesta una crescita costante, nei paesi sviluppati, del disagio psichico – e dalla pratica terapeutica corrente, pubblica e privata, che, quando non provoca addirittura danni, consegue risultati nel complesso modesti. Solo una percentuale minima (all’incirca il 20%) di coloro che hanno disturbi psichici avanza una domanda di cura. Di questi, non più di un quarto ricava un vantaggio consistente dalle cure. Gli altri o cronicizzano o peggiorano nel corso del tempo. Il contenimento del disagio è l’obiettivo primario dei servizi. Tradotto in parole povere, significa turare una falla con un dito.

Il problema a monte è capire perché la nostra società è organizzata in modo da compromettere piuttosto che favorire la salute mentale. Il problema a valle è valutare criticamente la sostanziale inefficienza della pratica terapeutica.

La modestia dei risultati terapeutici è ricondotta solitamente al numero di variabili – biologiche, psicologiche, microsistemiche, sociali – che sottendono i fenomeni psicopatologici, alle incertezze che sussistono sul loro ruolo etiopatogenetico, e, da ultimo, all’unicità e all’irripetibilità delle esperienze di disagio ciascuna delle quali sarebbe un caso a sé.

Spiegazioni di questo genere le sento ripetersi da trent’anni. La novità è che oggi sono addotte in nome della filosofia della complessità, che comporta la rassegnazione al pensiero debole. Io penso che tale filosofia abbia degli ambiti applicativi (per es. la nascita dell’universo, la comparsa della vita sulla terra, la struttura della materia, ecc.). La psicopatologia, però, non mi sembra che rientri in essi. Il disagio psichico non è un oggetto misterioso. Dobbiamo finirla con l’esoterismo psichiatrico, che assume come alibi dell’impotenza terapeutica la complessità del disagio psichico. Si sta male perché la vita porta a odiare o a rendere insopportabile lo stare al mondo, vale a dire gli altri, se stessi o se stessi e gli altri. Questo assunto, banale ma inconfutabile, per essere convalidato e rapportato alla realtà clinica, richiede solo uno sforzo di teorizzazione che muova dal presupposto per cui, essendo l’uomo l’unico animale radicalmente sociale dotato di una vocazione ad essere individuale, egli solo sviluppa un disagio psichico. L’oggetto proprio della psicopatologia sono le interazioni tra i corredi genetici individuali, ciascuno dei quali comporta una norma di reazione, e l’ambiente socioculturale che offre ad essi opportunità di sviluppo stereotipiche, normative, alienanti.

Su questo terreno, la psichiatria alternativa è in ritardo sulla realtà. Essa non dispone di un’adeguata teoria della natura umana, dello sviluppo evolutivo e dell’organizzazione della personalità. Ha una concezione sommaria, troppo familista e banalmente sociologica dell’ambiente, che porta a trascurare lo spessore storico della realtà sociale e i suoi aspetti inconsci. Non dispone di un modello psicopatologico di riferimento. Mutua dalla neopsichiatria lo slogan della multifattorialità che, in sé e per sé, rappresenta la scoperta dell’acqua calda. In conseguenza di queste lacune, essa interpreta la prevenzione come umanizzazione dei servizi territoriali o, peggio ancora, come diffusione della buona novella ricavata dalla lotta antistituzionale. Non sarò di certo io a negare l’importanza storica di questa lotta. Affermo semplicemente che essa non ha prodotto, com’era negli intenti dei promotori, un nuovo sapere riguardo ai rapporti tra soggettività e storia sociale che sono in gioco nella produzione del disagio psichico.

Questa lacuna riduce di fatto la portata del progetto preventivo. Posta, infatti, l’assunzione del disagio come un dato di realtà poco o punto modificabile, l’umanizzazione della pratica territoriale si riduce a promuovere l’uso delle risorse sociali – istituzionali e spontanee - per contenere o limitare i danni. L’intento (convivere nel modo migliore possibile con la malattia) è meritorio, ma va ricondotto nell’ambito dell’assistenza e della riabilitazione.

Due presupposti devono presiedere ad un progetto concreto di prevenzione primaria.

Il primo è il rifiuto del modello neopsichiatrico multidimensionale, che identifica nel biologico il fattore necessario per quanto non sufficiente del disagio psichico e gravita dunque verso una forma di prevenzione farmacologica o genetica. Tale rifiuto deve essere netto, ma ciò può avvenire solo in nome di una teoria psicosociosomatica del disagio psichico. Qualunque ipotesi somatopsichica, oltre che ingiustificata, è deleteria. Continuare a mantenere in sospeso il giudizio sull’etiopatogenesi del disagio non è l’espressione di una cautela scientifica, bensì di un diplomatico rifiuto di riconoscere la pregnanza delle critiche antipsichiatriche. Se ci si limita ad utilizzare, a posto del termine malattia, il termine eufemistico di disturbo, si rimane su di un registro meramente retorico. Non è neppure necessario sostenere che la malattia mentale non esiste. Basta affermare che esistono fenomeni psicopatologici per definire i quali il termine malattia è inadeguato e fuorviante. In breve, è necessario demedicalizzare la psichiatria, evitando il rischio opposto di psicologizzare il disagio psichico.

Il secondo presupposto è definire il disagio psichico, in tutte le sue espressioni, come un fenomeno che affonda le sue radici nel problema, intrinseco ad ogni esperienza umana, del rapporto del soggetto col mondo sociale, e riconosce le sue matrici in tutte le circostanze che, a livello relazionale prima e soggettivo poi, pongono in conflitto i due aspetti propri della natura umana: l’essere con, che implica il dover essere in nome dell’appartenenza sociale, e l’essere per, che implica un orientamento vocazionale intrinseco al corredo genetico individuale. Si complica inutilmente il problema se non si capisce che qualunque esperienza di disagio implica, né più né meno, l’incompatibilità dell’essere sociale e dell’essere individuale, che promuove una rabbia, conscia e inconscia, rivolta ora contro il mondo ora contro di sé.

Questo conflitto si realizza in maniera evidente a livello adolescenziale e giovanile, laddove la spinta all’individuazione è inibita o distorta nella sua realizzazione, e in tutte le esperienze adulte nelle quali o i ruoli normativi (familiari, lavorativi, ecc.) risultano, consciamente o inconsciamente, oppressivi o le difese dall’oppressione si traducono in strategie dissipative delle potenzialità individuali.

La prima area, quella giovanile, va privilegiata in un’ottica preventiva perché sia le cause che possono esitare in un disagio sia i disagi che si realizzano nel corso dell’adolescenza lunga, quali che siano le espressioni cliniche, sono agevolmente riconducibili ad una conflittualità relazionale e psicodinamica che ha sempre degli aspetti di immediata comprensibilità, definendo lo scacco dell’integrazione dei bisogni intrinseci, che è l’obiettivo dell’evoluzione della personalità.

I disagi adulti, quando non sono semplicemente la cronicizzazione di disagi insorti a livello adolescenziale e giovanile, vanno ricondotti o a condizioni di vita alienanti (familiari, lavorative, ecc.), il cui cambiamento investe una diversa programmazione socio-politica e una diversa cultura, o a eventi negativi imprevedibili (lutti, separazioni, sfratti, disoccupazione, ecc.) il cui rimedio è la solidarietà sociale e il buon funzionamento dello stato sociale.

 

2.

Gli ostacoli da superare per avviare un progetto di prevenzione sono di due generi.

Il primo è interno al campo psichiatrico, ed è legato all’egemonia della neopsichiatria che ormai ha convinto l’opinione pubblica che ogni forma di disagio psichico ha un fondamento genetico e biologico. Solo negli ultimi tre anni mi sono confrontato con alcune esperienze giovanili incappate nel pregiudizio psichiatrico. In tre casi di psicosi acute sono state avanzate frettolosamente diagnosi e prognosi di schizofrenia ed era stata sconsigliata la psicoterapia; in due casi d’anoressia, è stato fatto presente che si tratta di una malattia in sé e per sé inguaribile; in tre casi di disturbi ossessivo-compulsivi strutturati è stato detto che l’unica cura valida è quella farmacologica. Ho visto anche un certo numero di depressi adulti che ingurgitavano senza esito gli antidepressivi in nome della vulgata in nome della quale nel loro cervello difetterebbe una sostanza chimica. In tutti questi casi, la compliance dei pazienti è stata (per fortuna) relativa, ma il credito accordato dalle famiglie al giudizio degli esperti totale (per quanto associato all’angoscia di una condanna fatale). Non vedo quale progresso si possa fare sul terreno della prevenzione senza contestare con tutti i mezzi possibili l’ideologia neopsichiatrica, demistificare un potere (spesso sancito dalle cattedre universitarie) cui corrisponde una sostanziale e clamorosa incompetenza, e aiutare l’opinione pubblica a non attribuire prestigio a chi non sa quello che fa.

Il secondo ostacolo attiene la coscienza sociale, vale a dire la cultura e il modo in cui i soggetti si rapportano alla vita. La crescita del disagio psichico nei paesi sviluppati non significa solo che nel sistema c’è qualcosa di intrinsecamente sfavorevole alla salute mentale (una programmazione sociale normativa e conformistica che contrasta con condizioni reali di vita quotidiana che alimentano la rabbia e l’insofferenza nei confronti dei simili), bensì che le coscienze individuali sono letteralmente indifese rispetto al rischio di cadere in trappole – microsistemiche, culturali, soggettive - alienanti. La destorificazione delle esperienze soggettive, la riduzione degli orizzonti all’empirismo della vita quotidiana, l’adozione di codici culturali interpretativi pregiudiziali, la falsa sicurezza ricavata dai flussi informativi e dal consenso di gruppo, la frequentazione sempre più scarsa del mondo interiore, il misconoscimento dei saperi umani e sociali che hanno posto in crisi lo statuto delle coscienze umane, sono i fattori per cui la produzione antropologica e l’esperienza sociale producono disastri. Se si pensa di portare avanti un progetto di prevenzione senza mettere in discussione questi aspetti, senza assumersi l’onere di attaccare criticamente il mito della normalità, le modalità di produzione antropologica, l’organizzazione mistificata delle istituzioni sociali (dalla famiglia agli ambienti di lavoro), il senso comune, si rischia di non tirare fuori un ragno dal buco. Una cultura critica sull’uomo, sui fatti umani e sullo status quo è la premessa indispensabile di qualunque prevenzione. Solo una dimensione critica tutela la psichiatria dal continuare ad essere l’ancella dell’ordine di cose esistente. Ciò non significa rilanciare il progetto di una psichiatria politica, bensì più semplicemente assegnare alla psichiatria (o ad un sapere interdisciplinare destinato a sormontarla) un ruolo che la ponga inequivocabilmente dalla parte dell’uomo piuttosto che del sistema.


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