E' POSSIBILE UNA PREVENZIONE PSICHIATRICA?

1.

Alla prevenzione psichiatrica ho dedicato grande attenzione nel corso degli anni. Lo testimoniano gli articoli dedicati a questo problema (Sulla prevenzione), il capitolo XII della Prassi terapeutica dialettica e il saggio Psicopatologia e storia sociale che, nonostante rappresenti una bozza alla quale, forse, un giorno o l'altro, porrò di nuovo mano, offre numerosi spunti di riflessione. Torno sul problema per due motivi. Il primo è legato al fatto che la legge di riforma della Legge 180, il cui itinere parlamentare è estremamente lento, non fa quasi cenno a questo problema, limitandosi ad esortare gli operatori a fare ogni sforzo possibile al fine di prevenire il disagio mentale. Si tratta insomma, ancora una volta, di una sterile petizione di principio, che implica nei riformatori una totale ignoranza di ciò che possa significare una prevenzione psichiatrica. Il secondo motivo è di ordine personale, e coincide con il dubbio che, benché affrontato molteplici volte negli scritti, i nodi del problema non risultino sufficientemente chiari. Quali sono questi nodi?

Un primo aspetto importante è concettuale. In senso proprio prevenire il disagio mentale implica che esso non sia un evento fatale, deterministico, ma rappresenti solo uno dei possibili sviluppi di un'esperienza soggettiva. Ciò significa non già escludere per principio una predisposizione genetica, bensì ritenere che, anche laddove se ne ammette l'esistenza, essa non ha mai in sé e per sé un potere causale determinante.

Escluso il fattore genetico come necessario, la prevenzione richiede una teoria di riferimento che spieghi la genesi del disagio mentale. Qui si viene ad urtare contro un problema di grande portata. Esperienze di disagio mentale si realizzano in tutte le epoche della vita, dall'infanzia alla terza età, concernono soggetti appartenenti a tutte le fasce sociali, e sembrano fare capo ai più diversi tragitti di esperienza. Com'è possibile - vien da chiedersi - pretendere di ricondurre una siffatta varietà clinica ad una teoria? Non è meglio mantenere un atteggiamento eclettico che mira di volta in volta a valutare l'incidenza dei fattori biologici, psicologici e socioculturali?

L'atteggiamento eclettico è necessario sul piano della pratica clinica, vale a dire per capire il senso delle singole esperienze psicopatologiche. Se esso viene adottato nell'ottica della prevenzione, non serve quasi a nulla perché porta ad ammettere ad un estremo esperienze nelle quali i fattori genetici sarebbero prevalenti e all'estremo opposto esperienze nelle quali prevarrebbero i fattori ambientali. Tra questi due estremi si darebbero esperienze prevalentemente psicogenetiche. Questo schema inattiva la prevenzione perché i fattori genetici e quelli ambientali sono al di fuori della portata di qualunque intervento, e i fattori psicologici, essendo meramente privati, comportano tutt'al più una diagnosi e un intervento precoce allorché si manifestano i sintomi.

Occorre poi considerare che questo schema, che si iscrive nell'ambito della teoria multidimensionale, comporta, per quanto riguarda la schizofrenia, il riferimento ad un difetto genetico che inciderebbe precocemente, forse addirittura a livello fetale, sulla strutturazione dei circuiti interneuronali. Accreditare un'ipotesi del genere, significa, né più né meno, aprire la via alla prevenzione genetica.

Ponendo tra parentesi questo estremo rigurgito di determinismo, occorre ammettere che oggi c'è una tendenza crescente a ritenere possibile in ambito psichiatrico solo la prevenzione secondaria, vale a dire una diagnosi e una terapia precoce. Indipendentemente dal fatto che i sostenitori di questo approccio preventivo propongono quasi sempre, come rimedio, cure farmacologiche, c'è da sottolineare il fatto che un progetto serio di prevenzione deve articolarsi sulla base di un intervento che impedisce al disagio psichico di sopravvenire, vale a dire sul piano della prevenzione primaria.

Se si prescinde dall'eclettismo e dal sostanziale pessimismo per cui si ritiene possibile solo la prevenzione secondaria, il problema della teoria di riferimento s'impone. Ora, posta la distinzione tra esperienze di disagio che insorgono nella fase evolutiva o giovanile, le quali sembrano porre in gioco la strutturazione della personalità, e esperienze che insorgono in età adulta e matura, che sembrano avere maggior rapporto con circostanze ambientali, c'è da chiedersi se si dia almeno un fattore che le unifica, un fattore patogeno essenziale. Io penso di averlo individuato da molti anni. Non si dà, dall'inizio alla fine della vita, una sola esperienza di disagio nella cui trama superficiale e profonda non siano attive quote spesso rilevanti di emozioni negative (rabbia, odio, vendetta) associate a più o meno intensi sensi di colpa. Per questo aspetto, che concerne la struttura del conflitto patogeno, occorre dare ragione a Freud. Per quanto riguarda il significato ultimo del conflitto, il discorso è un altro.

Ho chiarito più volte che le emozioni negative hanno poco a che vedere con una presunta aggressività innata e che solo raramente esse si esprimono attraverso comportamenti aggressivi. Più spesso le emozioni negative si ritorcono contro il soggetto, in conseguenza dei sensi di colpa consci e inconsci che generano. Se si fa il bilancio dei danni che i soggetti disagiati infliggono a se stessi e di quelli che infliggono agli altri, si giunge subito alla conclusione che i primi sono assolutamente più rilevanti dei secondi che, ovviamente, avendo un'incidenza sociale, vengono più facilmente rilevati.

In breve, è come se i soggetti si ritrovassero ad albergare senza volere quote spesso imponenti di emozioni negative, e inconsciamente si punissero per questo. I sensi di colpa, poi, non corrispondono che raramente al modello dell'angoscia sociale evocato da Freud: più spesso essi riconoscono una matrice culturale individuabile.

I conflitti strutturali attestano che i soggetti sono spinti ad arrabbiarsi, ad odiare, a nutrire fantasie di vendetta da circostanze che attengono l'interazione sociale. I sensi di colpa attestano una sensibilità sociale primaria modellata da valori culturali.

Posto che si accetti questo assunto, c'è da chiedersi quale sia il suo significato nell'ottica di una prevenzione primaria. In sé e per sé, di fatto, non significa nulla. Le emozioni sono eventi privati e, per giunta, gran parte della vita emozionale scorre al di sotto della superficie della coscienza. Come si può prevenire la produzione di emozioni negative se esse, tra l'altro, implicano anche interpretazioni soggettive della realtà? Anche i sensi di colpa, per quanto riconoscano una componente culturale, hanno una valenza soggettiva. Date le stesse circostanze, essi variano da soggetto a soggetto. In un numero prevalente di casi, poi, essi non fanno riferimento a colpe oggettive, ma per l'appunto a emozioni, pensieri e fantasie spesso del tutto inconsce.

La teoria di riferimento struttural-dialettica, come appare in grado di illuminare i conflitti strutturali, sembra d'acchito comportare una straordinaria difficoltà di delineare un progetto di prevenzione.

2.

Il problema diventa meno complesso se si considera che un progetto del genere non può avere l'ambizione di scongiurare tutte le potenzialità conflittuali intrinseche all'esperienza umana che si possono attivare in rapporto alle interazioni sociali. Escluso questo obbiettivo, parecchio però si può fare. Per illustrare le linee-guida di un progetto di prevenzione, procedo da problemi di ordine generale a problemi più specifici.

Un problema primario è di ordine culturale. La nostra civiltà esalta l'individualità come dimensione unica e irripetibile. Questa esaltazione avrebbe senso se, di fatto, si riconoscesse come matrice dell'identità individuale un aspetto costituzionale che va dall'introversione all'estroversione. Così non è. L'individuo è sollecitato all'autorealizzazione in nome di un modello unico caratterizzato dalla capacità topicamente estroversa di socializzare, di stare con gli altri, di manifestare un elevato livello di sicurezza, di padronanza di sé, di certezza nelle proprie convinzioni, di esibire un comportamento adeguato alle diverse situazioni della vita di relazione, di esprimere anche una certa dose di aggressività "positiva". Questo modello unico, funzionale al perpetuarsi di una società di scambio fondata sulla competizione, spinge anche gli estroversi ad adottare precocemente una maschera, a strutturare cioè una personalità sul registro del falso io. Esso risulta però devastante per gli introversi, sia perché li mette costantemente di fronte ad una presunta e vergognosa inadeguatezza, che accentua la loro innata tendenza all'isolamento, si perché li costringe spesso ad indossa una maschera che è ancora più posticcia rispetto a quella adottata dagli estroversi in quanto essa non ha nulla di congeniale.

Se si riconosce che il fondamento dell'individualità è di ordine costituzionale, occorre concedere ad ogni individuo le opportunità per svilupparsi secondo la sua vocazione ad essere, e quindi riconoscere che i tempi e i modi di evoluzione della personalità introversa sono nettamente differenziati rispetto a quella estroversa. Questo però implica un salto culturale, vale a dire il prescindere dal fatto che esista un unico modello di adattamento al mondo o, meglio ancora, che sia normale solo adattarsi al mondo così com'è.

Il riconoscimento dell'introversione come un orientamento significativo di vita determinato geneticamente rappresenterebbe un balzo sulla via della prevenzione, perché è inconfutabile che, tra le persone che sviluppano un disagio psichico, gli introversi rappresentano una maggioranza assoluta (pur essendo geneticamente una minoranza).

Per non ripetere cose già scritte, invito il lettore a consultare gli articoli sull'introversione presenti già sul sito, anticipando che essi confluiranno in un saggio che è in corso di stesura.

Un secondo problema di ordine generale, importante ai fini preventivi, concerne l'educazione. Pur considerando l'importanza dei legami affettivi che rappresentano i canali che permettono la trasmissione dei valori culturali, quest'ultimo aspetto sembra assolutamente fondamentale. Ora, nella nostra società, l'educazione si riduce alla trasmissione di buoni principi, siano essi di ordine morale (esser buoni, docili, ecc.) o di ordine sociale (rispettare gli altri). Per quanto si possa considerare importante questo quadro di valori, non c'è dubbio che esso è carente. L'evoluzione della personalità umana avviene, interiormente, all'insegna dello squilibrio, dell'ambivalenza e del conflitto. Ancor più dell'acquisizione di buoni valori, ciò che appare decisivo nella costruzione di una personalità autentica è il peso e il significato che un soggetto assegna alle emozioni cosiddette negative, vale a dire la rabbia, l'odio e il desiderio di vendetta. Ho più volte scritto che queste emozioni non riconoscono la loro matrice in una presunta aggressività innata, bensì in un senso di giustizia innato, più o meno spiccato nei singoli soggetti. Si tratta indubbiamente di un aspetto critico della soggettività umana, perché esso, essendo innato, comporta reazioni emotive anche intense laddove non si danno ancora strumenti adeguati d'interpretazione della realtà. Ciò non toglie che tali reazioni si danno. Farsene carico a livello educativo, significherebbe aiutare i bambini a riconoscerle, a "naturalizzarle" e ad impegnarsi ad elaborarle via via che la loro attrezzatura cognitiva e culturale si amplia.

Ciò che di fatto avviene è che, in nome dei buoni principi, le emozioni negative vengono univocamente squalificate, definite come cattive o malvagie, e assoggettate ad un processo di rimozione che impedisce la loro maturazione e elaborazione.

E' difficiel minimizzare questo aspetto nell'ottica preventiva, se si tiene conto che gran parte delle esperienze psicoteraputiche sono rivolte a sormontare quella rimozione e a mettere il soggetto in grado di dare un senso umano alle emozioni negative, per un verso utilizzandole per differenziare la personalità e per un altro assoggettandole a critica in ciò che esse hanno di eccessivo in rapporto alla realtà. L'eccesso è da ricondurre al fatto che esse si attivano, in situazione vissute dal soggetto come ingiuste. arbitrarie, prepotenti, ecc., in conseguenza della convinzione che i comportamenti umani siano sempre e comunque intenzionali e consapevoli.

Questa convinzione porta ad un altro punto decisivo nell'ottica della prevenzione. Ormai è noto e universalmente acquisito (anche se in termini diversi) che l'esperienza cosciente è solo una parte dell'esperienza soggettiva globale, che comporta un'attività imponente e perpetua della sfera inconscia. Ciò non significa che la coscienza sia una dimensione insignificante, ma solo che la pretesa dell'io cosciente di essere padrone di sé è insensata. Ogni uomo è un nodo di contraddizioni, di incoerenze, di debolezze; ogni uomo agisce comportamenti che, casomai, giustifica, ma le cui motivazioni sfuggono del tutto al suo controllo essendo inconsce; ogni uomo, insomma, è sempre altro da ciò che pensa di essere coscientemente.

Se questo è vero, c'è da chiedersi che significato abbia educare i bambini come se la coscienza esaurisse la loro esperienza, radicare in essi cioè la convinzione che tutto si può spiegare in termini coscienti. Questo intanto comporta l'applicazione di tale convinzione ai grandi, i cui errori e le cui contraddizioni generano di conseguenza una delusione e una rabbia infinita. In secondo luogo, nella misura in cui quella convinzione viene adottata dal soggetto in rapporto a sé, essa induce l'io cosciente a trincerarsi nella coltivazione di un'immagine che è sempre povera e riduttiva in rapporto alla sua realtà interiore, e ad adopttare sistematicamente meccanismi di rimozione e di repressione che rendono l'identità sempre più fragile.

Certo, non è affatto semplice programmare una nuova cultura educativa che aiuti l'uomo a prendere atto e a tenere conto della complessità della mente e, soprattutto, dei suoi due livelli di funzionamento. Per qunto difficile, però, questa esigenza è improcrastinabile. Si pensi - solo per fare un esempio - al problema delle allucinazioni, che rappresentano uno degli scogli più duri da affrontare sul piano della cura. Le alluinazioni sono emergenze dell'inconscio, che proiettano all'esterno complessi processi mentali interni, e danno luogo a interpretazioni coscienti che fuorviano ulteriormente il soggetto dalla possibilità di coglierne il senso.

La difficoltà terapeutica di indurre la comprensione dei meccanismi e delle dinamiche che sottendono le allucinazioni si fonda in gran parte sul realismo della coscienza, che non considera l'esistenza di un mondo interno. Ma questo orientamento è potenziato da tutta l'educazione. Basterebbe aiutare i bambini a prendere atto che il sogno mette in luce le capacità dell'inconscio di produrre un mondo indistinguibile, spesso, da quello reale, per indurre il dubbio che l'attività della mente si riduca a cogliere ciò che avviene nel mondo esterno.

3.

Certo, la prevenzione non si può ridurre alla presa d'atto di una diversità genetica che va rispettata, né ad una significazione culturale delle emozioni negative che assegni ad esse un valore umano non diverso rispetto a quelle positive, né al superamento del realismo ingenuo della coscienza in nome della presa di coscienza dell'attività del mondo interno. I processi educativi, che fondano le premesse di conflitti destinati a produrre effetti psicopatologici, avvengono in un contesto storico-sociale e culturale che li condiziona.

Il privilegio accordato al modello normativo estroverso dipende dal fatto che esso è funzionale ad un sistema sociale che fonda la sua sussistenza e la sua riproduzione sull'attività pratica, sullo scambio, sulla capacità di public relations piuttosto che sulla riflessione, il raccoglimento interiore, il dubbio, ecc.

La squalifica delle emozioni negative dipende primariamente dall'incidenza della cultura cristiana e secondariamente dal codice borghese avverso alle manifestazioni "volgari" di tali emozioni, per quanto tutt'altro che avverso alle manifestazioni raffinate (la furbizia, la capacità d'ingannare e di sfruttare l'altro, la competitività senza limite, ecc.).

Il realismo della coscienza è coltivato infine per promuovere un adattamento alla realtà così com'è e per limitare la possibilità che essa prenda atto che, per molti aspetti, quella realtà è un prodotto storico, un prodotto dunque dell'attività e dell'ideologia umana.

Nonostante questo, i punti in questione sembrano veramente preliminari nell'ottica di un progetto di prevenzione del disagio psichico.

Se anche essi fossero affrontati, rimarrebbero tutti i problemi legati alla struttura sociale, vale a dire alla distribuzione iniqua delle risorse affettive, economiche e culturali, alla crisi della famiglia nucleare, all'organizzazione astratta della programmazione scolastica, al privilegio accordato, sul piano dell'apprendimento, a ciò che è immediatamente utile rispetto a quello che è necessario alla formazione di una personalità critica, all'organizzazione del mercato del lavoro e degli ambienti di lavoro, allo scarto tra la dimensione urbana, sostanzialmente nevrotizzate, e di quella provinciale, spesso apatica, alla precarietà delle strutture assistenziali e previdenziali, ecc.

E' compito della politica e dell'evoluzione sociale porre rimedio a questi problemi. La prevenzione psichiatrica non può ambire a cambiare il mondo. L'importante sarebbe cominciare a fare i primi passi in questa direzione.

Dicembre 2003