Genesi e Dinamica dei Conflitti Strutturali

1) La teoria struttural-dialettica della personalità

La definizione dei bisogni come attrattori e organizzatori dello sviluppo evolutivo individuale implica la possibilità di elaborare una compiuta teoria struttural-dialettica della personalità. Ai fini del discorso che si sta portando avanti, è sufficiente analizzarne gli aspetti che più immediatamente interessano la psicopatologia.

Il dispiegamento dei bisogni.che avviene nel corso dell'evoluzione della personalità con modalità alternativamente fasiche, concorre a strutturare tre funzioni psichiche fondamentali, rappresentate a livello conscio e inconscio, dalla cui interazione dinamica dipende il grado d’integrazione, più o meno rilevante, della personalità stessa. L’aspetto strutturale delle funzioni è riconducibile, presumibilmente, a circuiti interneuronali limbico-corticali specifici per ciascuna di essa. Tale specificità non esclude ovviamente né dei nessi tra le strutture né la possibilità di ristrutturazioni plastiche. L’aspetto funzionale è comune: ogni funzione può produrre, secondo la logica sua propria, pensieri, emozioni e spinte motivazionali ad agire.

Per denominare queste funzioni, il modello struttural-dialettico attinge parzialmente alla terminologia psicoanalitica, parlando di Super-io e io, e aggiunge di suo l'io vocazionale, opposizionale o antitetico. Facendo però riferimento alla teoria dei bisogni intrinseci, la concettualizzazione di queste funzioni nell’ottica struttural-dialettica presenta degli aspetti originali rispetto alla tradizione psicoanalitica.

Il Super-io, che si struttura sulla base del bisogno d"appartenenza/integrazione sociale attraverso l'interazione con le figure adulte significative (genitori, parenti, insegnanti, ecc.) e l'interiorizzazione dei valori culturali da essi trasmessi, consciamente e inconsciamente, svolge una funzione di rappresentanza sociale all'interno della soggettività individuale. Tale funzione, che comporta un costante riferimento antropomorfico, serve a mantenere in vigore i valori culturali, che sanciscono i diritti degli altri, e a richiamare il soggetto al rispetto dei suoi doveri d"appartenenza. In nome del bisogno da cui si origina, il super-io adotta una logica sistemica che fa riferimento alle esigenze di coerenza e di stabilità del gruppo. Esso, in altri termini, sancisce il primato del gruppo, della tradizione di cui è erede e dei valori culturali dominanti cui fa riferimento sull'individuo.

L'io vocazionale esprime le potenzialità d’individuazione proprie di un determinato corredo genetico individuale. Esso, in conseguenza delle interazioni con l'ambiente, si struttura sulla base del bisogno d’opposizione/individuazione ed è deputato a mantenere soggettivamente il riferimento ai diritti primari dell'individuo (pari dignità, giustizia, libertà), dalla cui realizzazione discende l'attuazione della vocazione ad essere personale. L'io vocazionale rappresenta dunque una funzione che salvaguarda l'individuo dal pericolo dell'assoggettamento al sociale e, in nome di una logica che distingue il soggetto dal sistema cui appartiene, ne promuove la differenziazione e l'autonomia. Il ruolo dell'io vocazionale è di mantenere una tensione verso il raggiungimento di un equilibrio personale, solo potenzialmente rappresentato nel corredo genetico individuale, che può realizzarsi sempre e solo fenotipicamente in rapporto ad un determinato sistema socio-culturale e può risultare più o meno sintonico e integrato con le esigenze d’equilibrio proprie dello stesso.

Dato che la coincidenza delle richieste ambientali con la vocazione ad essere personale è praticamente impossibile, l’io vocazionale assume costantemente una configurazione oppositiva rispetto a quelle che, al suo limite estremo, può configurarsi come antitetica. Considerando che l’opposizione comporta comunque un grado, sia pure modesto, di antitesi, di qui in poi parlerò, per esigenze discorsive, di Io antitetico.

Costantemente presenti e attivi a livello inconscio, il super-io e l’io antitetico, che sono substrutture dell’io, possono essere rappresentati anche a livello subconscio e coscio sotto forma di Ideali dell’io, vale a dire di modelli sottesi da sistemi di valori culturali che fanno riferimento rispettivamente ai diritti degli altri o ai diritti dell’io. La componente ideologica che caratterizza gli ideali dell’io fa sì che la loro corrispondenza con il super-io e l’io antitetico non è sempre del tutto fedele.

La fasicità dell'evoluzione della personalità, che comporta più di un momento critico, sul piano comportamentale e/o interiore, attesta che l'integrazione tra i doveri d’appartenenza e i diritti individuali non è mai un processo lineare. Non potrebbe essere diversamente in conseguenza della tensione intrinseca che sussiste tra i bisogni e tra le logiche delle funzioni che su di essi si strutturano. La logica superegoica privilegia, infatti, la cultura, il cui significato ultimo, sotto il profilo sociale, è di ridurre il pericolo potenziale della diversità individuale, definendo valori e regole di comportamento che la normalizzano. La logica che sottende l'io antitetico, viceversa, mira a promuovere l'individuazione, vale a dire la massima diversificazione possibile, in rapporto al potenziale genetico individuale, del modo di essere, di pensare e di agire del soggetto rispetto al contesto culturale.

Il carattere substrutturale del super-io e dell’io antitetico riesce evidente se si tiene conto che le logiche su cui si strutturano, tendendo rispettivamente a subordinare i diritti individuali ai doveri sociali e viceversa, comportano solo relazioni di potere gerarchico tra l’Altro e l’io. La loro funzionalità consiste nel mantenere una tensione tra i due aspetti propri della natura umana che rappresenta la matrice di indefinite mediazioni dialettiche. La funzione di mediazione è devoluta all’Io.

Il problema della genesi, dello sviluppo e delle funzioni dell’io è il più complesso tra quelli a cui una teoria psicodinamica strutturale della personalità deve fornire una risposta. Di fatto, è il problema che ha posto maggiormente in imbarazzo Freud il quale, avendo assunto l’io come una sorta di interfaccia tra mondo esterno sociale e mondo interno pulsionale, non è riuscito mai a pervenire ad una concettualizzazione adeguata. Le lacune della teoria freudiana hanno generato, con Hartmann, la prima critica radicale al modello di personalità formulato da Freud, incentrata sulla rivendicazione di un certo grado di autonomia dell’io, che, successivamente, ha dato luogo, in virtù della confluenza della psicoanalisi e del cognitivismo, alla proposta di sormontare la psicologia dell’io in nome della psicologia del Sé. Tale superamento, che comporta il riferimento alla consapevolezza che ogni soggetto ha della sua unità come un tutto, della sua identità e della persistenza di questa nel tempo, implica un’attività d’integrazione del patrimonio esperienziale riconducibile alla rappresentazione di sé. Oltre ad essere poco compatibile con una concezione strutturale della personalità, necessaria per interpretare i fenomeni psicopatologici, la concezione del Sé trascura la possibilità di considerare l’io come una funzione rappresentata a livello inconscio oltre che conscio. Tale possibilità estende il potere integrativo dell’io come pure il suo potere di mistificazione che, a livello cosciente, si traduce nella tendenza costante ad appropriarsi e a razionalizzare contenuti psichici prodotti dall’inconscio.

L’insufficienza della teoria freudiana dell’io, a mio avviso, può essere rimediata da una teorizzazione che prescinda definitivamente dal riferimento alle pulsioni. Secondo questa teorizzazione, l’io trarrebbe origine da una coscienza preriflessiva, innata di sé, identificabile con l’io vocazionale, che, in conseguenza del dispiegamento del bisogno d’opposizione/individuazione, dà luogo alla distinzione dell’io e dell’altro. Solo successivamente l’io acquisisce la consapevolezza di un mondo interno, vale a dire la consapevolezza soggettiva. Tale consapevolezza, che si realizza parallelamente all’interiorizzazione dei valori culturali e alla strutturazione del super-io, come è imprescindibile dal riferimento ai doveri sociali, così è imprescindibile dal riferimento ai diritti e ai bisogni individuali.

L’io, dunque, va considerato come una struttura e una funzione relativamente autonoma, rappresentata a livello inconscio e a livello cosciente. L’io cosciente ha una dimensione sociale, che lo rende sensibile all’altro, e una dimensione individuale, che lo rende immediatamente ricettivo dei diritti individuali. Che esso possa essere rappresentato anche a livello inconscio, come ha intuito Freud, è reso estremamente probabile dal fatto che, come attesta la psicologia normale e la psicopatologia, tentativi di mediazione tra il super-io e l’io antitetico avvengono di sicuro e perpetuamente al di sotto della coscienza. E’ comunque a livello cosciente che l’io è impegnato massimamente nell’opera di mediazione tra le diverse logiche e i diversi sistemi di valore che lo sottendono, di cui non ha mai una piena consapevolezza poiché la definizione dei doveri sociali e dei diritti individuali è depositata a livello inconscio.

Tale impegno, che si realizza più spesso irriflessivamente che riflessivamente, dipende nei suoi esiti dalla struttura del super-io e dell’io antitetico, dal grado d’opposizione che vige tra di essi, dagli strumenti culturali di cui l’io dispone e dal suo orientamento ideologico, che può essere più o meno incline a riconoscere i diritti degli altri e i propri.

Anche nei casi in cui, però, la mediazione dell’io e l’integrazione dei valori superegoici e antitetici raggiunge i massimi risultati, non sembra né opportuno né necessario introdurre il concetto di Sé. Intanto perché si tratta di un concetto astratto, estraneo all’esperienza soggettiva. Un io ben integrato è semplicemente un io la cui dimensione sociale e la cui dimensione individuale non confliggono aspramente. E’ ancora più importante considerare che, quale che sia il livello d’integrazione dell’io, esso non può mai estinguere la tensione tra i doveri sociali e i diritti individuali, costitutiva della doppia natura dell’essere umano, che, a livello inconscio, rimane rappresentata dalle substrutture del super-io e dell’io antitetico ciascuna delle quali affonda le sue radici in un capitale di potenzialità sempre esuberante in rapporto alle quote di bisogni dispiegati.

La teoria struttural-dialettica della personalità, che identifica nella fase evolutiva il periodo in cui, per la complessità stessa dei processi dinamici che la sottendono, più facilmente possono determinarsi dei conflitti strutturali, non esclude che ciò possa accadere anche successivamente. Indipendentemente dalle circostanze interattive che frustrano il dispiegamento di una quota dei bisogni intrinseci, la ricchezza stessa dei bisogni - diversa peraltro, come vedremo, da soggetto a soggetto - fa sì che le loro potenzialità non possono che eccezionalmente dispiegarsi compiutamente. C'è dunque al fondo d’ogni esperienza soggettiva una tensione intrinseca che può rappresentare, al tempo stesso, la matrice di ulteriori sviluppi evolutivi come pure di conflitti strutturali, i quali possono originarsi in qualunque epoca della vita.

Il modello evolutivo della personalità ricavabile dalla teoria dei bisogni comporta, dunque, un programma binario che si articola in fasi o periodi successivi, il cui obiettivo ultimo è l'integrazione dialettica dei bisogni, vale a dire l'integrazione a livello di io conscio e inconscio dei sistemi di valore superegoici e antitetici che si strutturano a partire da essi.

Ogni fase comporta il dispiegamento di una quota di bisogni. Il dispiegamento avviene sulla base di un’attivazione, geneticamente programmata, dei bisogni e consiste nell’integrazione dei dati emozionali e cognitivi esperienziali nella logica loro propria. Tale integrazione determina la strutturazione di circuiti subcortico-corticali specifici, superegoici e antitetici, la cui interconnessione è assicurata, a livello inconscio e conscio, dall’io, al quale occorre attribuire anche un’autonomia strutturale psicobiologica.

Il dispiegamento dei bisogni è fasico ed è caratterizzato dall’alternanza di periodi nel corso dei quali il bisogno d"appartenenza/integrazione sociale rende il soggetto ricettivo nei confronti delle influenze ambientali e periodi nel corso dei quali il bisogno d’opposizione/individuazione lo orienta ad affermare la volontà sua propria anche in contrasto con quella altrui.

E’ importante rilevare che, mentre nei primi anni dello sviluppo, le fasi di apertura alle influenze ambientali, che consentono l’interiorizzazione culturale dei valori trasmessi dal contesto d’interazione, sono molto più lunghe delle fasi d’opposizione/individuazione, che durano circa due-tre mesi, dalla seconda infanzia in poi queste ultime tendono a prolungarsi sino alla crisi adolescenziale che talvolta si mantiene sul registro oppositivo per molti mesi o anche per alcuni anni.

Ogni fase di dispiegamento di un bisogno determina una situazione paradossale. Essa, infatti, nella misura in cui trascende l’equilibrio preesistente, coincide con una fase di sviluppo della personalità. Si tratta, però, di uno sviluppo squilibrato dalla parte del bisogno in questione che inesorabilmente è destinato ad essere compensato e sormontato dal dispiegamento dell’altro bisogno. La turbolenza delle fasi di dispiegamento si risolve nella misura in cui, alla fine della fase evolutiva, l’io riesce ad integrare le diverse logiche e i diversi sistemi di valore presenti a livello inconscio e, in misura sempre minore, a livello cosciente.

La teoria dei bisogni porta a ritenere che la dinamica evolutiva, nei suoi aspetti inconsci, sia un processo sostanzialmente più drammatico di ciò che appare in genere alla superficie, laddove i passaggi di fase, i bruschi salti strutturali, le riorganizzazioni del patrimonio esperienziale vengono in qualche misura ammortizzati dall'apparente continuità dell'io e dall'immagine sociale che gli altri se ne fanno. Ciò è estremamente importante sotto il profilo clinico poiché, per spiegare l'emergenza dei fenomeni psicopatologici, occorre ricostruire la storia interiore del soggetto che spesso è scarsamente indiziata dai comportamenti e dai vissuti coscienti. Nell'ottica struttural-dialettica, tale ricostruzione, pur non trascurando i vissuti soggettivi e le rappresentazioni cognitive, ha l'obbiettivo primario di comprendere come e perché il patrimonio dei bisogni intrinseci possa andare incontro ad una scissione.

2) Genetica, soggettività e ambiente sociale

Ogni esperienza umana può essere considerata come il prodotto dell'interazione tra un determinato corredo genetico e l'ambiente. Il corredo genetico individuale comporta due aspetti: delle potenzialità specie-specifiche, presenti in tutti i membri della specie umana, che si potrebbero pertanto definire generiche, e delle potenzialità proprie di quel determinato corredo, che rappresentano il fondamento dell'individualità biologica e di quella psicologica. Per semplificare il discorso, appare opportuno considerare queste potenzialità solo sotto il profilo psicobiologico che investe il problema dell'evoluzione e della strutturazione della personalità.

Le potenzialità specie-specifiche, che adottando un linguaggio filosofico definiscono la natura umana, sono riconducibili ad un capitale emozionale e intellettivo di gran lunga superiore a quello di qualunque altra specie. La realizzazione di questo capitale dipende indubbiamente dall'ambiente, ma ciò non significa che esso non comporti una programmazione intrinseca, genetica. Tale programmazione si può agevolmente ricavare dall'evoluzione della personalità che riconosce fasi abbastanza costanti di maturazione delle strutture emozionali e di quelle cognitive, e soprattutto dagli esiti cui normalmente perviene quell'evoluzione: la definizione di un'identità individuale socializzata e autoconsapevole. L'autoconsapevolezza fa riferimento, per ogni soggetto, all'essere dotato di un mondo interno, distinto dal mondo esterno, con il quale egli comunica e dal quale ricava, in virtù della possibilità di sentire, di pensare e di agire "di testa propria", la certezza del suo essere distinto da tutti gli altri. L'aspetto sociale della personalità individuale fa invece riferimento alla consapevolezza che esistono altri soggetti dotati di un mondo interno e di condividere con essi un patrimonio culturale di valori linguistici, morali, religiosi, civili, convalidato dalla tradizione del gruppo, sul quale si fonda la possibilità di comunicare, di relazionarsi a livello interpersonale e di agire comportamenti condivisi, vale a dire non necessariamente approvati o confermati dagli altri ma almeno riconosciuti come dotati di senso.

Se la condivisione dei valori culturali è ricondotta ad un processo di interiorizzazione per cui essi, interpretati e elaborati, giungono a strutturare una funzione della personalità (il super-io) che rappresenta, all'interno della soggettività, a livello conscio e inconscio, la società, la cultura d"appartenenza e dunque, in senso lato, la volontà altrui, la programmazione specie-specifica rivela un affascinante progetto: quello di creare un essere dotato di soggettività, vale a dire di consapevolezza di sé e degli altri, la cui esperienza si svolge per molti aspetti sul registro dell'interazione tra volontà altrui, collettiva, culturale e volontà propria, personale, individuale. Un essere vincolato affettivamente e culturalmente al gruppo, dunque marcatamente conservatore, e, nello stesso tempo, dotato, rispetto ad esso, di una relativa ma imprevedibile libertà.

I bisogni intrinseci, che ho definito in precedenza, rappresentano gli assi portanti di questa programmazione rappresentando la matrice delle strutture e delle funzioni psichiche (Super-io, io antitetico, io) che la realizzano.

Ci si può chiedere come questi bisogni specie-specifici siano distribuiti nei corredi individuali. Non esiste alcuna ricerca a riguardo. Un'ipotesi sostenibile, in rapporto alla logica della natura, è che le varie combinazioni tra i bisogni siano distribuite secondo una curva gaussiana. Ai limiti estremi della curva si ritroverebbero pertanto i tipi estroversivi e quelli introversivi identificati da Jung, che andrebbero però concettualizzati in rapporto alla teoria dei bisogni. La tipologia junghiana infatti attribuisce l'introversione a un eccesso di pensiero e a un difetto di sentimento, e l'estroversione ad un eccesso di sentimento e a un difetto di pensiero. E' più probabile invece che l'introversione faccia capo ad una maggiore rappresentazione del bisogno d’individuazione e l'estroversione ad una maggiore rappresentazione del bisogno d’integrazione sociale. Tra questi si darebbe una gamma indefinita di possibili configurazioni complementari. La presenza all'interno di ogni corredo genetico degli stessi bisogni ne definirebbe la specie-specificità; la complementarietà dei bisogni porrebbe viceversa il fondamento della differenziazione individuale.

Il dispiegamento dei bisogni, vale a dire la loro progressiva strutturazione psicobiologica, dipende dall'integrazione delle potenzialità emozionali e intellettive che avviene nell'interazione con l'ambiente. Il problema della distribuzione di tali potenzialità nei corredi individuali è irrisolto e, forse, insolubile. In ordine al principio della varietà, si può però ammettere che esse siano distribuite lungo curve gaussiane non necessariamente concordanti. In ogni popolazione esisterebbe, dunque, una maggioranza normodotata e una minoranza iperdotata, all’interno della quale si darebbero varie configurazioni: una normodotazione intellettiva e una iperdotazione emozionale, una normodotazione emozionale e un'iperdotazione intellettiva, un'iperdotazione emozionale e intellettiva. Tranne che in conseguenza di malattie cerebrali, un'ipodotazione genetica non può essere ammessa se non come espressione del limite inferiore della normodotazione.

Tra le varie configurazioni dei bisogni e la distribuzione delle potenzialità emozionali e intellettive si danno intuitivamente dei rapporti, peraltro non semplici da definire. Il dispiegamento dei bisogni coinvolge sia i livelli emozionali sia quelli cognitivi. Le modalità del dispiegamento peraltro dipendono sicuramente dalla configurazione complementare dei bisogni. L'intreccio tra i diversi fattori è troppo complesso per essere sistematizzato. E' importante comunque osservare che una configurazione complementarmente equilibrata dei bisogni associata ad una normodotazione, assolutamente prevalente in ogni popolazione umana, si esprime in un orientamento adattivo che permette di comprendere perché, in tutte le epoche e in tutti i contesti sociali, si è definita un'accettazione dello status quo, una normalità statistica e un qualche equilibrio sociale. Una configurazione equilibrata o squilibrata dei bisogni associata da un'iperdotazione emozionale e/o intellettiva, sicuramente minoritaria, è da ritenersi viceversa, almeno potenzialmente, disadattiva poiché essa comporta per un verso una più ricca influenzabilità educativa (che si traduce originariamente in una strutturazione superegoica forte) e per un altro una più viva percezione delle contraddizioni presenti nella realtà sociale. Non è improbabile, per motivi che si analizzeranno successivamente, che questa minoranza paghi, in alcuni suoi rappresentanti, un tributo rilevante al disagio psicologico.

La fenotipizzazione dei corredi genetici umani dipende comunque in misura rilevante dall'ambiente di sviluppo, vale a dire dall'ambiente culturale prodotto dall'uomo. Già complesso a livello di natura umana, il discorso diventa irto di difficoltà nel momento in cui si rivolge all'ambiente. A questo riguardo si può procedere solo a tentoni.

E' indubbio che si danno condizioni ambientali minimali indispensabili alla riproduzione della società e quindi degli individui. Tali condizioni sono riconducibili ai mezzi di sussistenza, la cui produzione richiede un'attività lavorativa, ad un'organizzazione sociale che investa parte delle sue risorse economiche e affettive nell'allevamento dei piccoli e ad un patrimonio culturale comune - linguistico, religioso, morale, sociale - la cui condivisione assicura l'identità del gruppo e un qualche grado di coesione tra i membri. Si tratta, dunque, di condizioni culturali, che presumono una vita associativa. La socialità è la conditio sine qua non si avvia la cultura, le generazioni si riproducono e i singoli membri acquisiscono un'identità sociale e personale.

Questo solo fatto consente di capire il rilievo smisurato che, per infiniti secoli, ha avuto il gruppo, con le sue tradizioni, i suoi miti, le sue opzioni religiose, morali, politiche, economiche, in rapporto al singolo individuo. Sino forse alle soglie della storia, il singolo, pur avendo coscienza di sé, non si sentiva distinto dal gruppo, bensì parte di esso in virtù di un nesso reale e psicologico indissolubile. L'individuo, inteso come soggetto che ha un'identità distinta dagli altri e si sente in qualche misura indipendente dal gruppo, è una "scoperta" recente nella storia umana. Tale scoperta, nel bene e nel male (la divisione del lavoro intellettuale da quello manuale, la stratificazione sociale, l’iniqua distribuzione dei beni e delle opportunità di sviluppo, ecc.), ha permesso alla civiltà umana di evolvere rispetto allo stato quasi stazionario precedente. L'evoluzione storica è avvenuta sulla base del progetto di trasformare il mondo adattandolo ai bisogni umani. La trasformazione è avvenuta a tutti i livelli, l'ambiente si è sempre più culturalizzato, la psicologia individuale si è affrancata progressivamente, almeno a livello cosciente, dalla soggezione al gruppo. L'individuo borghese, che pure è il prodotto di un immane lavoro effettuato da tutte le generazioni che lo precedono, è giunto a definirsi indipendente, padrone di se stesso e causa sui.

Le scienze psicologiche, psicoanalisi compresa, sono sistematicamente cadute nel tranello ideologico - una sorta di illusione ottica - di considerare sempre più lo sviluppo della personalità come un processo autocostruttivo. Lo scambio affettivo con il gruppo familiare e l'apporto culturale dell'ambiente si sono configurati progressivamente come meramente funzionali ad alimentare l'autopoiesi del soggetto. In conseguenza di ciò quando in psicologia si parla di ambiente si fa riferimento anzitutto alla famiglia, alla scuola, alla socializzazione coetanea: insomma all'ambiente di interazione interpersonale. L'ambiente culturale in senso lato è considerato uno sfondo in rapporto all'evoluzione della personalità, uno sfondo mediato dalle istituzioni educative e dai mass-media.

Si danno buoni motivi per pensare che questa focalizzazione sullo psicologico, l'intersoggettivo, il relazionale sia un errore di prospettiva che impedisce di valutare adeguatamente l'incidenza dei fattori socio-culturali.

I motivi sono molteplici. Privilegiando le relazioni interpersonali, l'affettività, la comunicazione si trascura che, nel progetto della natura, i legami affettivi, oltre a soddisfare bisogni profondi, viscerali di un essere che acquisisce progressivamente consapevolezza di sé e, con essa, della sua precarietà, della finitezza e dell’esposizione al dolore, rappresentano un potente stratagemma in virtù del quale avviene la riproduzione culturale, vale a dire l'interiorizzazione da parte dell'infante dei valori culturali propri del gruppo d"appartenenza. Quest’interiorizzazione è preliminare e necessaria affinché si avvii il processo d’individuazione. Come filogeneticamente la società viene prima dell'individuo, così ontogeneticamente l'interiorizzazione del sociale viene prima dell'individuazione, a cui fornisce un indispensabile fondamento.

Occorre tenere conto inoltre che l'interiorizzazione dei valori culturali, giusta l'intuizione di Freud, non riguarda solo i valori trasmessi coscientemente e verbalmente, o con l'esempio, dagli educatori, bensì anche, in misura direttamente proporzionale alla capacità infantile di registrare i contenuti psichici e i valori di cui gli educatori sono depositari senza saperlo. L’importanza della comunicazione soggettiva inconscia, soprattutto nella strutturazione del super-io, è attestata da pressoché tutte le esperienze psicopatologiche. Attraverso il super-io inconscio, ogni soggetto alberga, dunque, molteplici aspetti della tradizione culturale che si trasmettono attraverso la catena transgenerazionale e hanno un’incredibile inerzia.

Occorre considerare un aspetto ancora più importante, che si integra con il precedente, a cui sinora è stato dato a livello psicologico e psicopatologico, scarso peso. Al di là del fatto che tutti i soggetti veicolano nelle pieghe profonde della soggettività tradizioni, miti, pregiudizi, convinzioni, ecc. di cui nulla sanno a livello cosciente, l'ambiente culturale, la realtà sociale nella sua totalità è un immenso campo di informazioni e di significati sommersi, che appartengono all'inconscio sociale. In quanto prodotto storico stratificato, tutta la realtà sociale - dalle cose alle istituzioni - è carica di significati quasi mai immediatamente trasparenti. E' uno spazio semiotico o, come diceva Baudelaire, una foresta di simboli, di solito decodificata con l'aiuto del senso comune.

La realtà sociale, sia a livello oggettivo sia istituzionale e soggettivo, ha uno spessore significativo molto maggiore di quanto comunemente appare. In virtù della cultura e del senso comune, che ne codifica l'interpretazione, gli uomini hanno, del mondo esterno e a maggior ragione di quello interno, una percezione standardizzata, piuttosto superficiale, funzionale ad indurre un adattamento non riflessivo dei due mondi. Tale adattamento comporta di necessità un sacrificio della complessità del reale in nome di una codificazione ideologica, identificabile con il senso comune, che aiuta la rimozione delle contraddizioni. E' tale codificazione che consente alle coscienze di mantenere un certo grado d’integrazione e di coerenza affettiva, cognitiva e comportamentale. Anche chi, in conseguenza di una capacità intuitiva più viva, che coglie gli aspetti profondi della realtà sociale, sfugge alla codificazione, è costretto nondimeno ad interpretarla, e, tranne casi del tutto eccezionali, ricade inesorabilmente nella trappola delle ideologie sociali proprie del contesto cui appartiene.

Il tema delle ideologie sociali e del loro peso preminente nella psicologia collettiva e individuale, misconosciuto dalle scienze psicologiche contemporanee, è stato illuminato in un altro ambito del sapere sull'uomo: quello della storia. Gli studiosi francesi, che fanno capo alla scuola delle "Annales", insofferenti nei confronti di una tradizione storica che ha sempre privilegiato gli eventi politici e trascurato la vita della gente comune, si sono interrogati sugli orizzonti mentali entro i quali questa è vissuta nelle varie epoche storiche, vale a dire come rappresentava il mondo, pensava, sentiva, praticava gli affetti, ecc. Un lento lavoro documentario e un sottile esercizio interpretativo li hanno messi di fronte ad una verità inconfutabile, quella per cui, in tutto simili a noi dal punto di vista biologico, l'umanità passata, a livello collettivo e a livello individuale, pensava, sentiva e vedeva il mondo diversamente da noi. Tale scoperta ha poco a che vedere con l'intuizione, che la coscienza comune ha sempre avuto e ha tuttora, di un cambiamento nel tempo dei costumi e della mentalità. Essa infatti è approdata alla conclusione che ogni società è dotata di una visione del mondo totalizzante che funziona come una prigione o un recinto mentale il cui carattere coercitivo discende dal fatto che, onnipresente a livello di psicologia collettiva e individuale, appartiene in larga misura all'inconscio sociale.

L'esistenza di un inconscio sociale, vale a dire di un patrimonio di valori, tradizioni, consuetudini, costumi, pregiudizi, miti, rappresentazioni, ecc. depositato sia pure in maniera diversa nelle coscienze (e nell'inconscio) di tutti i membri di una società, era già stata intuita da numerosi sociologi, a partire da Durkheim. La rivoluzione epistemologica dei nuovi storici francesi consiste nell'aver dato a quella nozione, sfumata, appena suggestiva, una definizione precisa e un'importanza nuova.

Nell’ottica della nuova storia, l’inconscio sociale appartiene a pieno titolo alla struttura sociale, essendo costitutivo di essa non meno dei fenomeni economici e istituzionali che la caratterizzano, con i quali esso è in un rapporto d’interazione reciproca e dai quali si differenzia in quanto meno immediatamente visibile alle coscienze, più profondo, dotata di un'inerzia che ne assicura uno scorrimento lento o lentissimo, e quindi la sopravvivenza nel tempo anche quando a livello di superficie sembra sormontato.

Per definire quest’aspetto della realtà sociale, e per differenziarlo sia dall'ideologia intesa in senso peggiorativo (di inganno prodotto dai ceti colti e dominanti per indurre nei subjecti l'accettazione dello stato di cose esistente) sia dall'inconscio collettivo junghiano, gli storici francesi hanno adottato il termine mentalità. Giudicata a posteriori, non è stata una scelta felice

Occorre considerare una iattura il fatto che il concetto di mentalità, male interpretato in conseguenza dell'accezione comune del termine, non sia stato adottato né valorizzato dalle scienze psicologiche e psichiatriche. Non si tratta forse neppure di un errore interpretativo. Ammettere, infatti, che i quadri di mentalità recintano la psicologia collettiva e quella individuale, in una certa misura ritualizzando i pensieri, le emozioni, i comportamenti, e diaframmando ideologicamente le coscienze in rapporto alla realtà sociale di cui partecipano e al mondo interno, rappresenterebbe per quelle scienze una rivoluzione epistemologica che ne renderebbe necessaria la rifondazione. Occorrerebbe, infatti, prendere atto, nonostante i cambiamenti intervenuti nel corso dello sviluppo storico, i quali sono giunti ad enfatizzare il ruolo dell'individuo, che, a livello mentale collettivo e individuale, il primato del sociale (la mentalità essendo un prodotto culturale collettivo) si è mantenuto intatto nel corso del tempo e non v'è motivo di pensare che esso non continui a mantenersi vivo, e a influenzare potentemente la psicologia collettiva e individuale.

Il ricorso al concetto di mentalità varrebbe a dare un fondamento concreto alla necessità di storicizzare l'esperienza soggettiva individuale per capirne la struttura e i modi di vedere, consci e inconsci, su cui si basa il suo funzionamento. Occorre però riconoscere che tale concetto, potenzialmente dotato di una carica rivoluzionaria sotto il profilo epistemologico, va senz'altro approfondito interdisciplinarmente. La teorizzazione più avanzata sinora è stata fornita da G. Duby in un articolo famoso che è opportuno sintetizzare.

Le ideologie - scrive Duby - sono sistemi completi e totalizzanti "dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una rappresentazione di insieme integrata alla totalità di una visione del mondo" (p.119). Rassicuranti per un verso, le ideologie "sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L’immagine che esse offrono dell’organizzazione sociale si costruisce su di un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari" (pp.119-120). Dato che, però, di là di un certo livello di complessità, ogni società ha un’articolazione diversificata, ne consegue la coesistenza di "molteplici sistemi di rappresentazione che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni in parte sono formali, e corrispondono all’esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere. Un certo numero di tratti comuni avvicinano queste ideologie, dal momento che le relazioni vissute di cui offrono l’immagine sono le stesse, e si costruiscono in seno allo stesso insieme culturale e si esprimono negli stessi linguaggi. Tuttavia di solito le une si presentano come le immagini rovesciate delle altre, a cui si contrappongono" (p. 120). Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie hanno anche una funzione stabilizzatrice del sistema. Quest’inclinazione alla stabilità "deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche partecipano alla pesantezza insita in tutti i sistemi di valori, la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidità dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l’istintiva reticenza nei confronti dell’innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette ad ogni nuova generazione. La paura del futuro fa sì che le ideologie si appoggino naturalmente alle forze di conservazione, di cui ci si accorge che sono predominanti nella maggior parte degli ambienti culturali che si giustappongono e si compenetrano in seno al corpo sociale... Più solidamente e più comunemente, il conservatorismo si appoggia sulla stessa gerarchia sociale... Si può pensare che la resistenza al cambiamento non è mai ancorata più saldamente che tra i membri di ogni tipo di clero, attaccati più di chiunque altro alla salvaguardia dei concetti, delle credenze e delle regole morali che costituiscono l’unico sostegno della potenza di cui essi godono e dei privilegi che sono loro riconosciuti" (p.121). Le ideologie, infine, hanno un’efficacia pratica. Infatti "nelle culture di cui si può scrivere la storia, tutti i sistemi ideologici si fondano su di una visione di questa storia, basando su una memoria dei tempi trascorsi, oggettiva o mitica, il progetto di un avvenire che dovrebbe vedere l’avvento di una società più perfetta" (p.122). In questo senso contribuiscono ad animare il movimento della storia. Ma nel corso di questo movimento esse stesse si trasformano per adattarsi ai cambiamenti sociali e politici che intervengono e subendo l’influenza delle altre culture.

Tenendo conto del loro carattere necessario, pervasivo e, per molti aspetti inconscio, è difficile minimizzare il peso delle ideologie sociali in rapporto alla psicologia individuale e interpersonale. Un rinnovamento radicale delle scienze psicologiche, a mio avviso, non potrà avvenire che a partire da una riflessione sui rapporti tra soggettività e storia sociale. La psicopatologia struttural-dialettica che li indaga, alla luce della teoria dei bisogni intrinseci, anticipa e promuove tale rinnovamento.

3) Il campo psicopatologico. Genesi dei conflitti strutturali

La strutturazione di un io che ha raggiunto un grado minimale d’integrazione rappresenta uno spartiacque psicopatologico, di qua del quale si danno drammatiche sindromi malformative, non strutturate - le psicosi autistiche e le psicosi simbiotiche - la cui antitesi sembra confermare l'esistenza di un corredo binario di bisogni e alludere alla possibilità che esso si dissoci precocemente, al punto che uno dei due bisogni, anziché dispiegarsi, s’inattiva funzionalmente. Poiché il dispiegamento dei bisogni si realizza in virtù dell'istituirsi di circuiti subcortico-corticali specifici, non si può escludere che all’inattivazione funzionale corrisponda un difetto strutturale.

Senza addentrarci nel discorso sulla genesi, ancora incerta, delle sindromi malformative, è importante rilevare che epistemologicamente le psicosi infantili non possono essere assunte come modelli per i fenomeni psicopatologici che si realizzano dopo la nascita dell’io, e tanto meno per quelli che si manifestano in età adolescenziale e giovanile.

Le analogie che si danno in ambito psicopatologico - riconducibili ad una tendenza a rifuggire le relazioni e/o a mantenerle ad libitum sul registro della dipendenza - pongono in luce il fatto che, ove si dà disagio psichico, è sempre in gioco il grado di dispiegamento, d’integrazione e di scissione tra bisogni. Tale analogia, meramente fenomenica, non ha però alcun significato esplicativo.

La chiusura autistica infantile e il ritiro dalla situazione di un giovane psicotico, l'angoscia di separazione del bambino simbiotico e quella vissuta da chi soffre di attacchi di panico appaiono fenomenicamente omologabili, ma corrispondono, di fatto, a dinamiche diverse: malformative e non strutturate nel primo caso, regressive e strutturali nel secondo.

Di certo, la regressione, che è un aspetto specifico e costante d’ogni esperienza psicopatologica che si manifesta a partire dall'adolescenza, induce facilmente nell'equivoco della fissazione, in cui è caduto Freud, la cui conseguenza è una spiegazione pedomorfica della psicopatologia.

Vedremo ulteriormente come quest’aspetto possa essere, più proficuamente, spiegato in termini strutturali.

E' o dovrebbe essere ovvio, però, che l'incapacità di progredire nello sviluppo, nonostante la spinta assicurata dai programmi genetici, è tutt'altra cosa rispetto alla tendenza a regredire dopo un tragitto evolutivo apparentemente normale.

Tra psicopatologia malformativa, che si manifesta precocemente, e psicopatologia strutturale, che si manifesta a partire dall'adolescenza, si dà la psicopatologia della prima e della seconda infanzia, che sembra definire un continuum. Si tratta però di un inganno fenomenico.

Un certo grado di strutturazione dell'io segna uno spartiacque tra psicopatologia malformativa e psicopatologia interattiva e sistemica, propria della prima e della seconda infanzia. Fino all’epoca prebuberale, la personalità è caratterizzata da una strutturazione precaria e fluttuante, da un’elevata dipendenza e permeabilità all'ambiente sociale; da un'attrezzatura cognitiva e culturale difettosa di capacità astratte, e quindi immune dal rischio dell'ideologizzazione. Ciò non significa, ovviamente, che l'interazione interpersonale esaurisca la realtà dell'esperienza. La strutturazione progressiva della personalità, a livello conscio e inconscio, comporta numerose possibilità che l’interazione produca dei conflitti che possono dar luogo a manifestazioni sintomatiche e comportamentali non spiegabili in termini interattivi.

Cionondimeno, l'influenzabilità del soggetto, pur riducendosi progressivamente, rimane elevata, al punto che è assolutamente vero, fino all'avvento dell'adolescenza, che un cambiamento comunicativo all'interno del sistema, soprattutto da parte degli adulti, può produrre effetti evolutivi affatto sorprendenti. Tanto più se tale cambiamento, anziché limitarsi all'adozione di strategie prescritte, investe anche i codici culturali, più o meno consapevoli, che gli adulti adottano.

L’avvio dell’adolescenza segna un nuovo spartiacque psicopatologico.

Il dispiegamento turbolento del bisogno d’opposizione/individuazione determina la nascita di un io consapevole di essere dotato di un mondo interno differenziato e autonomo rispetto all'ambiente e attrezzato, sia emotivamente sia cognitivamente, a tutelare questo mondo interno dalle influenze ambientali: in pratica, a rivendicare, più o meno consapevolmente, il diritto di agire in nome della volontà propria, avvertita come espressione immediata dell'identità personale. Si tratta, almeno in parte, di un'illusione dovuta al fatto che l'uso delle operazioni logico-formali, dando luogo ad un'ideologizzazione dell'esperienza personale, fa sentire l'adolescente padrone di una sua visione del mondo, di un suo sistema di valori culturali e comportamentali. E’ un'illusione che coincide, però, con un dato di fatto, inerente il rapporto tra soggetto e ambiente, di grande significato, e che finora è stato poco valorizzato.

La strutturazione ideologica della personalità, configurando una visione del mondo più o meno articolata, ma sempre generalizzata, trascendente l'ambito dell'esperienza privata, conclude l'epoca evolutiva determinando un passaggio critico da un’influenzabilità, che si è nel corso degli anni progressivamente ridotta, ad un’ininfluenzabilità pressoché totale rispetto al mondo degli adulti.

Da questo momento in poi, è il mondo interno a dettare le sue leggi, in rapporto alla sua struttura e alla sua sovrastruttura ideologica, e un cambiamento può avvenire solo per effetto di una ristrutturazione, e cioè passando attraverso la giurisdizione dell'io, il quale solo ha accesso al suo mondo interno.

Posto che l'evoluzione della personalità sia proceduta su di un registro di apparente normalità, è da quest’epoca in poi che eventuali manifestazioni psicopatologiche assumono un carattere strutturale e richiedono una spiegazione complessa, che trascende il livello delle interazioni e pone in gioco la struttura del mondo interno.

Di certo, come afferma Piaget non si dà struttura senza genesi. Di ordine generale, questa verità concerne senza dubbio le strutture psicopatologiche.

La dinamica evolutiva, fondata su programmi affettivo-cognitivi che si dispiegano, riconosce, come si è visto, varie fasi caratterizzate da catastrofi strutturali evolutive: le une, corrispondenti all'attivazione del bisogno d"appartenenza/integrazione sociale, aprono la personalità all'interazione con l'ambiente sociale sul registro dell'armonia relazionale, della partecipazione e dello scambio - affettivo e culturale -; le altre, corrispondenti all'attivazione del bisogno d’opposizione/individuazione, definiscono la personalità in rapporto all'ambiente, consentendo ad essa di sperimentarsi sul registro della volontà propria, che implica una relazionalità potenzialmente conflittuale.

Come e perché tali catastrofi, anziché promuovere l’evoluzione, possano dar luogo ad un conflitto strutturale, è un problema a cui non si può fornire una risposta univoca. Le interazioni tra l’ambiente e la soggettività sono indefinite.

Senza escludere la possibilità che si diano (come, di fatto, si danno) ambienti di allevamento e di riproduzione sociale inadeguati in senso assoluto, incapaci di rispondere, emotivamente e cognitivamente, ai bisogni di bambini dotati di un corredo medio, è indubbio, tenendo conto dei dati clinici, che il più ricco tributo alla psicopatologia strutturale è fornito da individui il cui corredo è fuori della media, o per la spiccata prevalenza di uno dei due bisogni o per la particolare ricchezza quantitativa di entrambi. In tali casi, gli ambienti di riproduzione sociale - la famiglia, la scuola, la chiesa, ecc. - risultano inadeguati relativamente: positivi ed adattivi per un bambino medio, essi possono risultare disadattivi per un bambino il cui corredo genetico non appartiene alla media.

Il problema della predisposizione può, dunque, essere affrontato prescindendo dal rozzo rilievo per cui se, dati gli stessi ambienti, alcuni individui si normalizzano e altri manifestano fenomeni psicopatologici, i fattori ambientali andrebbero considerati come secondari. C'è da considerare piuttosto che la distribuzione del patrimonio culturale - del quale vanno considerate, oltre che le risorse culturali propriamente dette, anche le risorse economiche e affettive - è estremamente disomogenea a livello locale, laddove si dà l'interazione tra individuo e ambiente. Tale disomogeneità aumenta, ovviamente, i rischi di un’inadeguatezza ambientale relativa.

L’ipotesi di un’inadeguatezza ambientale relativa ad un determinato corredo genetico è confortata da numerosi dati clinici, il più importante dei quali è d’ordine anamnestico.

Nella ricostruzione delle storie esitate in un'esperienza psicopatologica, è pressoché sempre possibile - tenendo conto dei ricordi soggettivi e delle testimonianze familiari - reperire tre diverse carriere evolutive: le une, riconducibili ai "bambini d’oro", caratterizzate dall'acquisizione precoce di moduli comportamentali maturi, equilibrati, pienamente rispondenti, in termini di docilità, di cooperazione e di rendimento scolastico alle aspettative familiari ed istituzionali; le altre, riconducibili ai "bambini difficili", caratterizzate da comportamenti precocemente disordinati, tendenzialmente opposizionistici e negativisti, poco o punto sensibili alle correzioni e alle punizioni. Una terza carriera evolutiva è caratterizzata dall’alternarsi, secondo le modalità più varie, di fasi di assoluta docilità e di sfide rivolte all'ambiente o dal succedersi ad una fase protratta dell’altra che si stabilizza. In breve, alcuni bambini d’oro, ad una certa età, cambiano carattere e diventano difficili, mentre, viceversa, alcuni bambini difficili si irreggimentano in una gabbia comportamentale ipernormativa.

Tali carriere attestano configurazioni interattive tra corredo genetico e ambiente sociale che, a posteriori, risultano sempre fortemente indiziarie di una scissione dei bisogni. Stabilire il peso, nel determinarsi di questa scissione, dei fattori genetici e di quelli ambientali è oltremodo difficile. Le carriere cui si è fatto riferimento attestano però, quasi sempre, una particolare ricchezza del corredo dei bisogni intrinseci e, con singolare frequenza, un’iperdotazione emozionale e/o intellettiva. Ipotizzare, come avviene costantemente in ambito neopsichiatrico, un difetto costituzionale di base all’origine delle esperienze psicopatologiche è un fraintendimento che dipende dal valutare la fenomenologia clinica senza tenere conto della soggettività che la vive e della sua storia interiore.

Il definirsi di una matrice conflittuale in una qualunque fase evolutiva non determina di necessità, né immediatamente né in prospettiva, l'affiorare di manifestazioni psicopatologiche. Benché essa comporti una scissione dei bisogni, il suo carattere dinamico non esclude la possibilità di una soluzione dialettica in un'ulteriore fase evolutiva, in virtù dell'acquisizione di un'attrezzatura emozionale e cognitiva atta a permettere il dispiegamento della quota di bisogni frustrati. In un certo qual modo, tutti i conflitti che si definiscono nel corso dell'evoluzione della personalità sono rimandati alla prova del nove del periodo critico che va dall'adolescenza alla prima giovinezza.

L'apertura degli orizzonti cognitivi e culturali, la frequentazione sociale di ambienti nuovi, l'inaugurazione della vita sentimentale, la progettazione di sé nello studio e/o nel lavoro possono indurre catastrofi strutturali evolutive, permettendo alla quota di bisogni frustrati di dispiegarsi.

Il tenace conservatorismo superegoico e un ideale dell’io superegoico per un verso, l’io antitetico e un eventuale ideale dell’io antitetico per un altro possono, con la loro opposizione, non solo impedire tale dispiegamento, bensì determinare una tendenza del conflitto all’autoalimentazione. Pur rimanendo dinamico, il conflitto, in tale caso, assume una configurazione catastrofica, caratterizzata da un’instabilità strutturale aperta al rischio di una più o meno repentina destrutturazione.

Anche questa situazione critica, che precede costantemente il manifestarsi di fenomeni psicopatologici, può, per particolari circostanze soggettive e ambientali, dar luogo ad un salto evolutivo. Più comunemente, però, essa dà luogo ad una catastrofe psicopatologica, vale a dire all'affiorare del conflitto sotto forma di vissuti, di sintomi e di comportamenti.

E' importante, a questo punto, chiedersi quali elementi di novità comporti l'approccio struttural-dialettico al pensiero psicopatologico.

Tali elementi mi sembrano riconducibili a tre nuclei concettuali: l'invarianza strutturale della matrice conflittuale psicopatologica; la fenomenologia, soggettiva e comportamentale, dei bisogni frustrati; il piano metapersonale su cui si generano i conflitti.

Per quanto riguarda il primo aspetto, c’è da ribadire che, laddove si dà una fenomenologia psicopatologica, l’analisi è sempre in grado di ricondurla ad un conflitto tra super-io e io antitetico. Le diverse espressioni della fenomenologia dipendono dall’intensità del conflitto, dai valori culturali che strutturano le due funzioni a livello inconscio, dalla connivenza dell’io, mediata di solito da un ideale dell’io, con una di esse, dagli strumenti culturali di cui l’io dispone per fare fronte al conflitto, dalle interazioni con l’ambiente, ecc.

Il secondo aspetto è dato dal fatto che la quota di bisogni frustrati, in virtù del carattere programmato dei bisogni stessi che tende verso un dispiegamento, va incontro ad una singolare trasformazione che, sinora, è stata male interpretata. Impedito nel suo dispiegamento emozionale, cognitivo e comportamentale infatti, il bisogno ridonda, vale a dire s’intensifica progressivamente. In ciò si può riconoscere un meccanismo difensivo psicobiologico. Nella misura in cui, infatti, la frustrazione del bisogno determina una struttura di personalità instabile, la ridondanza serve ad inviare alla coscienza messaggi che mirano ad indurla a adottare strategie atte a risolvere il problema. Purtroppo però i messaggi ridondanti, proprio in virtù della loro intensità, possono conseguire facilmente l’effetto opposto di indurre la coscienza a sentirsi minacciata da essi.

L'aver assunto il livello fenomenico, onirico, soggettivo, e, talora, comportamentale come immediatamente espressivo della natura umana rappresenta l'equivoco in cui è caduto Freud e che ha segnato la storia del pensiero psicoanalitico. Alla luce della teoria dei bisogni, quel livello rappresenta l'espressione della ridondanza (per cui, per esempio, l'assetato nel deserto allucina cascate d'acqua, e cioè oggetti che eccedono di gran lunga il suo reale bisogno) significata a partire da sistemi di valori che la negativizzano o agita in opposizione a tali sistemi.

In altri termini, la fenomenologia pulsionale occulta e rivela nel frattempo il capitale dei bisogni frustrati il cui dispiegamento dialettico può assicurare il superamento del conflitto psicopatologico. L'individuazione del positivo nel negativo, nonché dei modi in cui il negativo può positivizzarsi, rappresenta l'aspetto epistemologicamente più rilevante della psicopatologia strutturale e dialettica.

C'è, infine, da considerare il terzo aspetto. La genesi interattiva delle strutture psicopatologiche non significa che esse siano riconducibili immediatamente al piano dei rapporti interpersonali. Questi, nelle fasi evolutive, servono a promuovere la socializzazione, vale a dire l'acquisizione da parte dell'infante di sistemi di valori e comportamenti atti ad integrarlo nel sistema sociale. Essi hanno dunque una doppia connotazione, affettiva e culturale. Si può ritenere utile lo stratagemma inventato dalla natura di utilizzare i legami affettivi per indurre la replicazione culturale. Tale stratagemma non è, però, privo di pericoli. La realtà delle persone adulte è caratterizzata dall’essere individui singoli, differenziati, dotati di un'identità propria, unica e irripetibile, e nel frattempo dall’essere veicoli di tradizioni culturali di cui essi solo in minima parte sono consapevoli.

La condizione del bambino in rapporto a questa realtà adulta è del tutto particolare. Aperto alle influenze ambientali del bisogno d’appartenenza/integrazione, egli s’identifica con gli adulti ai quali attribuisce prestigio, consapevolezza assoluta di ciò che essi fanno e intenzionalità cosciente. La funzione superegoica si costruisce su tale identificazione promuovendo la replicazione dei valori culturali trasmessi e vincolando il soggetto ad un obbligo di fedeltà. Tali valori possono però risultare, oltre che contraddittori, poco compatibili con la vocazione ad essere individuale. L’entrata in azione del bisogno d’opposizione/individuazione determina inevitabilmente un conflitto che, se non è agito, viene comunque vissuto sul piano interpersonale. Di fatto esso è sempre e comunque un conflitto culturale.

L'ossessione psicoanalitica e relazionale di decifrare il conflitto psicopatologico sul piano dei rapporti interpersonali - per un verso, tenendo conto dei fantasmi soggettivi che sottendono tali rapporti; per un altro, analizzando, sul piano comunicativo, i bisogni omeostatici del sistema familiare che configurano quei rapporti in termini di potere – non fa altro che dare corpo all’equivoco in cui cade il paziente.

Dal punto di vista strutturale e dialettico, la matrice del conflitto, che si definisce entro spazi interpersonali, concerne, sempre e comunque, l'obbligo di fedeltà per un verso e il rifiuto viscerale di conformare la propria esistenza, in nome di quell'obbligo, a valori culturali vissuti come alienati, contraddittori o incompatibili con la vocazione ad essere individuale. L'intensità del conflitto è direttamente proporzionale al grado della scissione tra i bisogni e le funzioni che su di essi si strutturano. La scissione implica il venire meno dell'interdipendenza tra tali funzioni, ciascuna delle quali, quindi, persegue ciecamente i propri obiettivi, senza che l'io cosciente possa svolgere la sua funzione di mediazione e d’integrazione. Gli effetti del conflitto sono una conseguenza di questo difetto di comunicazione interno alla personalità, poco o punto rimediato dalla connivenza, conscia e inconscia dell'io, con uno dei due sistemi di significati. Dato che il sistema superegoico è sempre e comunque tributario di un ordine culturale che, anziché interagire, scinde il corredo dei bisogni, la psicopatologia, come si è affermato ne La Politica del super-io, ha come suo orizzonte epistemologico l'alienazione sociale, e la conseguenza dell'alienazione negli spazi microsociali, ove essa si rifrange nella trama delle esperienze soggettive.

Rimane da affrontare il problema delle esperienze psicopatologiche che si manifestano in età adulta, spesso dopo molti anni dalla fine della fase evolutiva contrassegnati da un buon adattamento alla realtà.

Si danno due diverse situazioni. La prima fa capo alla possibilità che una matrice strutturale conflittuale, tenuta sotto controllo da un'organizzazione di vita ad hoc, o sul registro del cieco rispetto dei valori superegoici o su quello del progressivo rilancio di un ideale dell'io antitetico, si destabilizzi o per saturazione soggettiva o per circostanze oggettive che rendono necessario un cambiamento di quell’organizzazione.

Si dà anche, però, la possibilità che, in assenza di matrici conflittuali strutturali, siano le circostanze oggettive a determinare un sovraccarico funzionale, una situazione di stress che fa affiorare sintomi psicopatologici. Da questo punto di vista assumono una particolare importanza le situazioni interattive, soprattutto familiari ma anche lavorative e sociali, esplorate dalla teoria comunicativa dei sistemi. Le interazioni patologiche, quando non si dà alcuna possibilità di sottrarsi ad esse o di oggettivarle e cogliere i presupposti impliciti a partire dai quali si realizzano, possono indubbiamente generare conflitti tra bisogni.

Un criterio differenziale importante tra queste due possibilità è il grado di strutturazione dei sintomi. Il sovraccarico funzionale può, come noto, determinare sintomi reattivi di tipo neurastenico, ansioso (più o meno somatizzato), depressivo (più o meno mascherato). Un'angoscia catastrofica e una depressione con gravi autoaccuse pongono in luce una matrice conflittuale rimasta a lungo latente. Le sindromi ossessive, gli episodi distimici, i deliri - più o meno strutturati - non comportano dubbio alcuno (posto, ovviamente, che si escludano patologie organiche).