Maurizio FerrarisNietzsche e la filosofia del NovecentoBompiani, Milano 2009 |
I.LA VITA E IL PENSIEROI. 1 Filologia, filosofìa, critica della cultura1.1.1 1844-1869. La giovinezza, l'apprendistato filologico, la cattedra di Basilea Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce il 15 ottobre 1844 a Ròcken, presso Lipsia. Il padre, Karl Ludwig, è pastore protestante, a sua volta figlio di pastore; stessa provenienza quella della madre, Franziska Òehler. Per quanto Nietzsche, nella sua autobiografia Ecce homo, e nel quadro della sua costante polemica antitedesca, si proclami "nobiluomo polacco pur sang", nulla sembra confermare questa leggenda; come ricorda Janz (1978,1, 14 ss.), è possibile che, risalendo sino al XVI secolo, si riescano a rintracciare origini boeme, ma la Boemia era un territorio fortemente germanizzato, e non si può parlare di commistione con sangue slavo; il nome, del resto, in varie forme (Nietzsche, Nit-sche, Nitzke), è assai comune nella Germania centrale. Il 10 luglio 1846 nasce la sorella Elisabeth, destinata in più sensi a occupare un ruolo decisivo nella vita di Nietzsche. Il 27 febbraio di due anni dopo nasce il fratello Ludwig Joseph, che morirà il 4 gennaio 1850. Ma, soprattutto, il 30 luglio 1849 muore il padre, per rammollimento cerebrale (una forma di tubercolosi che investe il cervello, ma che non è trasmissibile per via ereditaria); sembra dunque escluso che il crollo psichico finale sia da porsi in relazione con la malattia paterna. E tuttavia Nietzsche, nei ripetuti sguardi retrospettivi sulla propria vita, tende a istituire una sorta di misteriosa corrispondenza tra il proprio destino e quello paterno: "uomo postumo", Nietzsche si penserà anzitutto come un sopravvissuto, come un individuo duplice, che per un verso è già morto, seguendo il destino del padre, e per un altro sopravvive, sul filo della linea femminile della famiglia. Così nel 1869: "Come pianta io nacqui presso il camposanto, come uomo in una canonica [...] Il primo avvenimento che colpì la mia coscienza gradualmente ridesta fu la malattia di mio padre" (1856-69, 133: corsivi miei); ma soprattutto in Ecce homo: "La fatalità della mia esistenza ne ha fatto la felicità, le ha dato, forse, il suo carattere unico: io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio [corsivi miei]. Questa doppia discendenza, come dire dal più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e inizio al tempo stesso - questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue [...]. Mio padre morì a trentasei anni, era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare oltre - un ricordo benevolo della vita, più che la vita stessa. Nell'anno stesso in cui era declinata la sua vita, declinò anche la mia: nel trentaseiesimo anno la mia vitalità scese al suo punto più basso - vivevo ancora, eppure non riuscivo a vedere tre passi avanti [...] ero diventato ombra" (1889, 271). Come ha scritto Gilles Deleuze, tutto in Nietzsche è aforisma della vita e aneddoto del pensiero: anche la stretta connessione fra conoscenza e interessi pratico-vitali, professata sul piano filosofico, trae origine dall'intima interconnessione tra vita e opera in Nietzsche (seguendo la pulsione artistica che del resto domina il suo intero destino). Nel 1850 la famiglia si trasferisce poco distante, nella città di Naumburg, dove Franziska Oehler ha parenti. Nietzsche inizia qui la sua educazione musicale e letteraria, che accompagna con una volontà di sapere enciclopedica: oltre ai primi interessi rivolti alle cose militari e al teatro, “nacque in me l'inclinazione alla poesia, già a nove anni, e i miei modesti tentativi si ripeterono ogni anno. A undici anni mi nacque la passione per la musica sacra e infine per la composizione [...]. Anche il mio amore per la pittura risale a questo periodo, suscitato dalle esposizioni annuali. -Queste passioni non si succedono immediatamente, bensì si intrecciano, così che è impossibile determinarne il principio e la fine. In seguito si aggiunse l'inclinazione per la letteratura, la geologia, l'astronomia, la mitologia, la lingua tedesca (antico alto tedesco), ecc." (1856-69, 80). Nell'ottobre del 1858, Nietzsche entra nella scuola di Pforta, sostenuto da una borsa di studio offerta dalla città di Naumburg. A quest'epoca risalgono le prime amicizie durature (Paul Deussen, Cari von Gersdorff). Il ginnasio di Pforta è caratterizzato da un severo cursus umanistico, che fornisce una eccellente conoscenza della lingua e letteratura latina e greca, e dei classici tedeschi; molto meno curata è la formazione scientifica, cosa che Nietzsche deplorerà (e a cui progetterà in varie occasioni, in età matura, di por rimedio, divisando di seguire corsi di scienze naturali a Parigi o a Vienna; il superamento dell'alternativa umanistica tra Geistes- e Naturwissenschaften costituisce del resto un tema ricorrente del Nietzsche del periodo medio e tardo, con i frequenti richiami alla 'fisiologia', alla 'chimica delle idee e dei sentimenti' ecc.). Con ogni verosimiglianza, è nel 1862 che Nietzsche conosce per la prima volta la musica di Wagner, attraverso uno spartito per pianoforte del Tristano e Isotta. La disciplina di Pforta incanala il suo eclettismo, e negli ultimi anni di ginnasio matura la vocazione filologica. "Fu solo nell'ultimo periodo della mia vita a Pforta che rinunciai, conoscendomi ormai a fondo, a qualunque progetto di vita artistica; da allora in poi nel vuoto così creato venne a inserirsi la filologia. Voglio dire che cercavo un contrappeso alle inquiete e mutevoli inclinazioni che mi avevano dominato fino allora, una scienza che potesse venir coltivata con fredda riflessione, con logico distacco e con operosità uniforme, senza toccar subito il cuore con i suoi risultati" (ibid., 184). Nell'autunno 1864 Nietzsche si immatricola come studente di teologia a Bonn. Le pressioni dell'ambiente familiare sono scontate, ma Nietzsche si ripropone di congiungere teologia e filologia, per esempio attraverso lo studio della letteratura neotestamentaria. A Bonn segue le lezioni del grande filologo Friedrich Ritschl; e quando, nel 1865, Ritschl lascia Bonn per Lipsia, anche Nietzsche lo segue "come un fuggiasco", immatricolandosi in quella università come studente di filologia. Risale a quest'epoca e a questa decisione il primo vero contrasto con la madre. Il 1865 è importante nella formazione intellettuale di Nietzsche anche per un altro motivo: nell'ottobre-novembre di quest'anno legge 1/ mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, il 'pensatore privato', antiaccademico, ascetico e artistico su cui Nietzsche modellerà a lungo il proprio pensiero. Così in un frammento di questi anni: "qui era ogni riga a proclamare la rinuncia, la negazione, la rassegnazione, in quello specchio vedevo riflessi in dimensioni terrificanti il mondo, la vita e il mio proprio animo. Da quelle pagine mi fissava l'occhio solare e totalmente disinteressato dell'arte, qui io scorgevo il morbo e la guarigione, l'esilio e il rifugio, il cielo e l'inferno" (1856-69, 163). Le sue cognizioni filosofiche si estendono (positivismo inglese; Kant, attraverso la monografia di Kuno Fischer); le sue pulsioni artistiche trovano uno stimolo indiretto dalla conoscenza personale di Wagner (8 novembre 1868). Prosegue intanto l'apprendistato scientifico. Nietzsche stringe un "sodalizio filologico" con un gruppo di compagni (risale al 1866 l'amicizia con Erwin Rhode, che sarà tra i massimi filologi tedeschi), che si impegnano a leggere pubblicamente, a turno, lavori di carattere filologico; in questo ambito, Nietzsche tiene cinque conferenze: L'ultima redazione della silloge teognidea, Le fonti di Snida, I cataloghi degli scritti aristotelici, La contemporaneità di Omero e di Esiodo, Il cinico Menippo e le satire varroniane. Ritschl è ormai persuaso del valore del suo allievo, e lo invita a pubblicare alcuni saggi sul "Rheinisches Museum": Per la storia della silloge gnomica di Teognide, Il canto di Danae di Simonide, de Laertii Diogenis fontibus. Sposando la filologia, Nietzsche non ha dunque preso congedo definitivamente dagli interessi artistici dei suoi primi anni, e l'attività bifronte, di filologo da una parte, di lettore di cose filosofiche e di wagneriano dall'altra, lo dimostra chiaramente. Questa duplicità è anche indotta dallo stato della filologia tedesca dell'epoca, che ha ormai voltato le spalle all'ideologia umanistica che aveva caratterizzato il risorgere della scienza dell'antico in Germania tra classicismo e romanticismo. Ora la filologia, nella generale enfasi della 'scienza tedesca' che culminerà con l'esaltazione nazionalistica successiva alla guerra con la Francia nel 1870, si modella sugli ideali e i metodi delle scienze della natura (oggettività dell'indagine; atteggiamento industriale nei confronti del lavoro scientifico: con conseguente perdita del senso profondo della cultura classica). Nietzsche deplora questa situazione, e l'epistolario registra con costanza i termini del suo disagio: "Non vorremmo negare infatti che alla maggior parte dei filologi manca quella esatta visione complessiva della antichità, poiché essi si pongono troppo vicini al quadro, indagano su di una macchiolina d'olio, invece di ammirare i tratti grandiosi e audaci dell'intero e goderne". La micrologica divisione del lavoro, per la quale al filologo possono bastare "diligenza", "preparazione", "metodo", deve essere integrata da uno sguardo artistico e filosofico. Così, a proposito dei maestri della filologia contemporanea: "Se ci si pone da un punto di vista più elevato, che consenta una prospettiva storica della cultura, si vede come anche queste menti in fondo non siano che operai, e precisamente al servizio di qualche grande semidio della filosofia (il più grande dei quali, in tutto l'ultimo millennio, è Schopenhauer)". (L'angoscia per la "gregarietà" è un filo emotivo costante nell'opera nietzscheana, e queste pagine giovanili sembrano protendersi verso la polemica del Nietzsche maturo contro gli "operai della filosofia", Kant, Hegel, ai quali viene contrapposta la figura dell'oltreuomo e il lirismo di Zarathustra.) Se si tiene presente questo stato d'animo, è facile comprendere i sentimenti contrastanti con cui Nietzsche accoglie la notizia della sua precocissima nomina a professore di filologia nella Università di Basilea. Al giubilo della famiglia fanno da controcanto le sue perplessità nei confronti di un lavoro di cui ha incominciato a intravedere i limiti. Quando Nietzsche viene chiamato a Basilea, non ha ancora compiuto venticinque anni; come ricorda Janz, la nomina di professori giovanissimi non era inconsueta in quella università. Ma anche quando si tenga conto di queste peculiari circostanze, il caso di Nietzsche - che non era neppure laureato - resta anomalo. A suo favore deponevano gli studi pubblicati sul "Rheinisches Museum", e in particolare il lavoro su Diogene Laerzio, che era destinato a costituire un punto fermo per la filologia classica ancora per diversi anni. A ciò andava poi aggiunto l'incondizionato e influente appoggio di Ritschl. "Per quante giovani forze io abbia visto svilupparsi sotto i miei occhi ormai da 39 anni", scrive Ritschl caldeggiando la chiamata di Nietzsche, "non ho mai conosciuto o cercato secondo le mie facoltà di instradare nella mia disciplina un giovane che sia maturato così precocemente ed in età così fresca come questo Nietzsche [...] Se avrà, come Iddio voglia, lunga vita, io predico che un giorno egli sarà ai primissimi posti nella filologia tedesca" (cit. in Janz 1978,1,232). A Basilea, Nietzsche fa incontri culturalmente importanti, come Franz Overbeck, storico della Chiesa, che resterà il più fedele e intelligente tra i suoi amici, e lo storico Jacob Burckhardt (Basilea 1818-1897). È in particolare con quest'ultimo che Nietzsche instaura un sodalizio intellettuale denso di influenze reciproche. Nel 1860 Burckhardt aveva pubblicato La civiltà del Rinascimento in Italia, che penetrerà in modo pervasivo nel mondo ideale nietzscheano (Cesare Borgia come modello dell'oltreuomo, la rinascentia romanitatis come ideale di una umanità di spiriti liberi ecc.); per contro, gli scritti e le lezioni di Nietzsche sul mondo greco, benché accolti in forma non univoca da Burckhardt, che era del resto tanto più anziano, sono l'impulso immediato che spinge Burckhardt a occuparsi di storia greca (cfr. Storia della civiltà greca, 4 voll., postumo, 1894-1902). Nietzsche, molestato dalla ristrettezza di idee dei cittadini di Basilea, da cui non ritiene immune neppure Burckhardt, trova comunque in lui un interlocutore sensibile, e uno schopenhaueriano; all'epoca dell'euforia torinese e del crollo psichico, Burckhardt (oltre a Overbeck e pochi altri) sarà il destinatario dei "biglietti della follia", nei quali risuona in forma paradossale e profonda il concetto burckhardtiano di storia universale. Ma, soprattutto, gli anni di Basilea sono segnati dalla frequentazione di Richard Wagner e di sua moglie Cosima, che si sono da poco trasferiti da Monaco a Tribschen, presso Lucerna. La prima visita è del 17 maggio 1869, meno di un mese dopo l'arrivo di Nietzsche a Basilea. In Wagner, Nietzsche vede un complemento artistico alla vita di studioso, e un nuovo interlocutore per la propria fede di schopenhaueriano. "A lei e a Schopenhauer io debbo se fino a oggi sono rimasto fedele alla serietà germanica della vita, ad una considerazione approfondita di questa esistenza così enigmatica e problematica" (lettera a Wagner per il suo compleanno, 22 maggio 1869). E a Erwin Rhode: "Egli realizza tutti i nostri desideri: il mondo non conosce affatto la grandezza umana e la singolarità della sua natura, nella sua vicinanza imparo molto: questo è il mio corso pratico di filosofia schopenhaueriana". Anche sotto l'influsso di Wagner risorgono in Nietzsche gli interessi intorno alla nascita del dramma musicale antico, su cui già nel 1869 progetta di tenere un discorso pubblico. Wagner e Cosima sono anche un importante polo affettivo. Wagner ha sessantanni, sua moglie trenta, e per lui ha lasciato il suo precedente marito, il compositore Hans von Biilow; gli amici chiamano Cosima Arianna, Wagner Dioniso, mentre von Biilow è Teseo; Nietzsche, secondo uno schema destinato a ripetersi, ama Cosima attraverso Wagner, e le figure di Dioniso e Arianna continueranno ad abitare il suo mondo interiore attraverso metamorfosi e migrazioni. Quali siano, a questa altezza, le convinzioni di Nietzsche intorno all'ambito e ai fini del lavoro filologico, è attestato nella prolusione inaugurale del suo corso a Basilea Omero e la filologia classica (28 maggio 1869). Qui la polemica contro l'irrigidirsi positivistico della scienza dell'antico si fa pubblica e programmatica. Già la scelta dell'argomento è significativa, in quanto comporta un richiamo alla figura di Friedrich August Wolf (1759-1824), il filologo classico sospeso tra illuminismo e romanticismo, che aveva affrontato la questione omerica con il metodo storico-critico, ma non tanto per definire riduttivamente una congetturale personalità dell'uomo Omero, quanto piuttosto per riconoscere nei poemi omerici il frutto di un genio nazionale. Non è dunque bastante, per un sapere dell'antico, far valere un apparato metodico che abbia garanzie di scientificità; occorre anche, di là dal metodo e persino dalla storia, saper risalire a una scaturigine spirituale, a un movimento ideale che alla fine giustifica lo stesso valore normativo del classico per noi, e che insomma costituisce la ragione profonda dell'esistenza degli studi filologici. La filologia, scrive Nietzsche, "così è in parte storia, in parte scienza naturale e in parte estetica: storia, in quanto vuole comprendere le manifestazioni di determinate individualità etniche in figure sempre rinnovantisi, e la legge che governa il fluire dei fenomeni; scienza naturale in quanto cerca di investigare il più profondo istinto dell'uomo, l'istinto della lingua; estetica infine perché dal ciclo delle antiche civiltà pone fuori la cosiddetta antichità 'classica', con la mira e l'intenzione di dissotterrare un mondo ideale disperso e di contrapporre allo stato presente lo specchio della classicità e di un modello eternamente valevole" (1869, 5-6). Il primato assiologico del momento estetico-ideale rispetto a quello storico-critico è qui del tutto evidente: "Se ci mettiamo scientificamente di fronte all'antichità, possiamo cercar d'intendere, con occhio di storici, ciò che già ha raggiunto il suo sviluppo, o, a mo' di naturalisti, classificare, paragonare, tutt'al più riportare ad un'unica legge morfologica le forme linguistiche dei capolavori dell'antichità; ma sempre rimane perduto per noi il procedimento magnifico della formazione, il particolare profumo dell'antica atmosfera, dimentichiamo quella nostalgica emozione che indirizzava verso i greci la nostra facoltà di sentire e di godere, con la potenza dell'istinto, come la più soave delle guidatrici" (ibid., 9). Una scienza dell'antico che - come quella presente - abbia perso di vista buona parte di questo orizzonte ideale, porge facilmente il fianco ai "motteggiatori delle filologiche talpe", che non a torto ironizzano sull'affannoso cumulo di nozioni salvate dall'oblio ma, con lo stesso gesto che le disseppellisce, destituite di senso, perché non sono collocate entro un orizzonte spirituale organico. La verità è però, scrive ancora Nietzsche, che questa riduzione meramente antiquaria della filologia non incresce minimamente al tempo attuale, proprio nella misura in cui dalla svalutazione della normatività del senso del classico i moderni ricavano la coscienza enfatica della loro superiorità sugli antichi. Recuperare nel suo valore profondo il senso dell'antico significa perciò cogliere il valore eversivo del classico, la critica che i modelli del passato muovono alla mediocrità del presente; ma perché ciò avvenga, è necessario precisamente che la filologia sorpassi la soglia meramente antiquaria, per accedere a una dimensione filosofica, così da garantire la mediazione spirituale tra antico e moderno. "Anche ad un filologo può piacere di racchiudere lo scopo del suo lavoro ed il suo cammino nella breve formula di una professione di fede; e sia dunque ciò fatto, invertendo un periodo di Seneca: 'philosophia facta est quae philologia fui? " (ibid., 32). 1.1.2 1870-1872. Il problema del tragico All'inizio del 1870, Nietzsche tiene a Basilea le progettate conferenze, che costituiscono il nucleo genetico della Nascita della tragedia: Il dramma musicale greco e Socrate e la tragedia. Ma, per tutto quello che si è detto, La nascita della tragedia rappresenta, prima che un esordio, una conclusione e una presa di congedo dalla filologia; la tonalità polemica intorno ai modi e agli scopi della scienza dell'antico sorprende anche coloro che sono più vicini a Nietzsche, e financo Wagner: "Persino coloro che sono iniziati alle mie idee potrebbero, a loro volta, spaventarsi, se a causa di queste idee si trovassero in conflitto con la loro fede in Sofocle e persino in Eschilo. Io - per quanto riguarda la mia persona - le grido: così è! Ella ha colpito nel giusto [...] Ma mi preoccupo per lei, e mi auguro con tutto il cuore che Ella non abbia a rompersi il collo". E bisogna notare come in quelle conferenze le tesi di Nietzsche fossero ben più plausibili e meno radicalmente contrarie al senso comune filologico di quanto non sarà La nascita della tragedia; non è presente la dialettica tra apollineo e dionisiaco, l'idea di dramma musicale rivela apertamente il proprio riferimento all'attualità (come contrapposizione fra il dramma tedesco di Wagner e il classicismo francese del grand siècle); soprattutto, manca l'idea che apparirà di gran lunga più scandalosa ai filologi dell'epoca, quella secondo cui la tragedia sarebbe morta suicida, per opera di Socrate e di Euripide. Intanto, il 9 aprile 1870, Nietzsche riceve l'ordinariato. Nell'estate, allo scoppio della guerra franco-prussiana, Nietzsche, che è diventato cittadino svizzero e che pertanto non può arruolarsi nell'esercito tedesco, presta servizio come infermiere, ma la sua permanenza nella zona delle operazioni dura soltanto dal 23 agosto al 7 settembre, dopo di che, ammalatosi di dissenteria e di difterite, fa ritorno alla casa materna a Naumburg. Qui lavora alla Visione dionisiaca del mondo, destinata a rimanere inedita, dove prende forma il nucleo propriamente teoretico della Nascita della tragedia, e cioè la diarchia tra apollineo e dionisiaco come istinti artistici primordiali, il primo caratterizzato come "sogno", il secondo come "ebbrezza". Nel 1871 esce l'ultimo lavoro filologico, il Certamen quod dicitur Homeri et Hesiodi, ma l'attenzione di Nietzsche è interamente assorbita dal lavoro sulla tragedia; a Lugano, tra il 16 febbraio e l'inizio di aprile, lavora a una nuova stesura: Socrate e la tragedia greca (che sarà pubblicato come tale nel 1933 dall'editore H.J. Mette di Monaco). Tra l'ottobre e il dicembre il manoscritto definitivo della Nascita della tragedia, ormai ultimato, viene consegnato (dopo un rifiuto da parte di Engelmann) a E.W. Fritsch di Lipsia, che è anche l'editore di Wagner. La nascita della tragedia dallo spirito della musica ovvero grecità e pessimismo (questo il titolo definitivo) esce prima della fine del dicembre 1871. In che misura lo scritto sul tragico dovette apparire (e appare tuttora) così eversivo di fronte agli ideali della filologia classica? Nella prefazione apposta nel 1886 alla riedizione della Nascita della tragedia è Nietzsche stesso a metterlo in chiaro: "Forse la follia non è necessariamente sintomo di degenerazione, di declino, di civiltà troppo tarda? Ci sono forse - un problema per psichiatri - nevrosi della salute, della giovinezza del popolo e del suo slancio giovanile? [...] se i Greci ebbero, proprio nella ricchezza della loro gioventù, la volontà del tragico e furono pessimisti; se fu proprio la follia, per usare un'espressione di Platone, a portare sulla Grecia le maggiori benedizioni; e se, d'altra parte e inversamente, proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimistici, superficiali, istrionici, e anche più smaniosi per la logica e la logicizzazione del mondo, cioè al tempo stesso 'più sereni' e 'più scientifici', non potrebbe essere forse la vittoria dell'ottimismo, il predominio della razionalità, l’utilitarismo pratico e teorico, come la democrazia stessa, di cui esso è contemporaneo, - un ritorno di forza declinante, di vecchiaia approssimantesi, di affaticamento fisiologico, a dispetto di tutte le 'idee moderne' e di tutti i pregiudizi del gusto democratico?". Già i grandi eretici della filologia romantica, Friedrich Schlegel (1772-1829) e Friedrich Creuzer (1771-1858), avevano preso a far vacillare l'edificio irreale del classicismo, anzitutto ponendo in dubbio il pregiudizio della serenità e della naturalità dei greci. Il romanticismo, con un gesto carico di conseguenze, si volge verso Oriente, e vede nella Grecia il punto d'arrivo di una diversa storia: coglie dunque il classico non come natura, ma come cultura, che si impone su altre civiltà e, nel farlo, cancella, rimuove, depista. Prima dei greci e della loro composta 'naturalezza' ci sono gli orientali (gli indiani, gli egizi), con le loro religioni misteriose e la loro arte smisurata, fatta di abnormità e di metamorfosi. Hegel, che è ben consapevole di questa situazione, descrive il classico come un punto d'arrivo ideale, che si impone sulle aberrazioni orientali proprio come i greci seppero sconfiggere il "gran re" a Maratona. La tragedia è la forma canonica di questa vittoria: Edipo risponde all'enigma della Sfinge (che è l'espressione dell'Oriente, dell'arte simbolica), e presenta il principio dell'autocoscienza; "qual è quell'essere che alla mattina cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due, e alla sera con tre?": quell'essere è l'uomo; Edipo impone così il principio di Socrate, "conosci te stesso", e proprio da Edipo prende avvio il ciclo tragico tebano. La Sfinge è precipitata in un dirupo, il logos come autocoscienza socratica si autoafferma, e dal logos nasce la tragedia. Ma Nietzsche intitola il suo libro La nascita della tragedia dallo spirito della musica. "Penso di non affermare niente di assurdo dicendo che finora il problema di quest'origine non è stato ancora neanche posto seriamente, e tanto meno risolto, per quanto gli svolazzanti brandelli della tradizione antica siano stati già spesso cuciti e combinati assieme, e poi di nuovo lacerati. Questa tradizione ci dice con piena risolutezza che la tragedia è sorta dal coro tragico, e che originariamente essa era soltanto coro e nient'altro che coro: donde ci viene l'obbligo di scrutare nel cuore di questo coro tragico come nel vero e proprio dramma originario" (1872a, 50); "Quelle parti corali in cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice di tutto il cosiddetto dialogo" (ibid., 61). Il coro tragico non racconta le gesta di Edipo e dell'autocoscienza, non narra la nascita del logos, ma piuttosto, sotto molte maschere, ci parla dei travagli di Dioniso, dio dell'ebbrezza che si oppone alla coscienza e alla ragione - e che precede il principium ìndividuationis, la coscienza e il dialogo socratico come paradigma del logos: "la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso [...] Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quell'eroe originario" (ibid., 71). Lo spirito greco non è pertanto semplice e indiviso: esso reca piuttosto in sé quella duplicità che in precedenza veniva rappresentata nella contrapposizione tra i greci e gli orientali. In Nietzsche l'ambiguità immanente al classico viene determinata (non senza contraddizioni e perplessità) come contrapposizione fra Apollo e Dioniso. Apollo è il dio delle belle forme, della semplicità composta e della raggiunta autocoscienza; ma Apollo si confronta drammaticamente con l’égarement orgiastico di Dioniso, di modo che la bellezza delle forme classiche è la reazione di fronte all'insostenibile universo dionisiaco visto come pienezza di vita, rifiuto della morale e della ragione. "Bisogna ora dichiarare che questa armonia, anzi quest'unità dell'uomo con la natura, contemplata con tanta nostalgia dagli uomini moderni, e per la quale Schiller ha introdotto il termine tecnico 'ingenuo', non è per nulla uno stato così semplice, che risulti evidente, per così dire inevitabile, e in cui dobbiamo imbatterci sulla soglia di ogni civiltà, come in un paradiso dell'umanità: ciò potè essere creduto soltanto da un'epoca che cercò di immaginare l'Emilio di Rousseau anche come artista e si illuse di aver trovato in Omero un tale Emilio artista, educato nel cuore della natura" (ibid., 33). L'ingenuo non è un punto di partenza, ma un risultato, il travagliato trionfo della forma sull'informe. "L'ingenuità omerica è da intendere solo come la perfetta vittoria dell'illusione apollinea" (ibid., 34). Se i greci ci appaiono idealmente sereni, è solo in ragione dello sforzo che dovettero compiere per superare l'orrore dionisiaco, che in loro non fu più debole, bensì tanto più forte che negli orientali, così da imporre come contro-movimento la misura apollinea del classico. Qui è stata giustamente sottolineata una incongruenza o oscillazione in Nietzsche. A tratti parrebbe che il dionisiaco preceda l'apollineo, come l'informe precorre la forma. Ma allora come si giustifica che l'arcaico Omero fosse apollineo, mentre il coro tragico nel più tardivo Eschilo sarebbe dionisiaco? Più precisamente, allora, l'apollineo e il dionisiaco non sono stadi successivi, ma piuttosto principi contrapposti e metastorici, che si danno battaglia nell'arte greca. "Al contrario di tutti coloro che si studiano di far discendere le arti da un principio unico, come fonte di vita necessaria di ogni opera d'arte, io tengo lo sguardo fisso alle due divinità artistiche dei Greci, Apollo e Dioniso, e vedo in loro i vivi e intuitivi rappresentanti di due mondi d'arte, diversi nella loro essenza e nelle loro finalità supreme. Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium individuationis, grazie a cui soltanto si può conseguire davvero la liberazione nell'illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell'individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell'essere, verso l'essenza intima delle cose" (ibid., 105). Qui la matrice schopenhaueriana è conclamata. Dioniso è il centro delle cose, il mondo della volontà unica e universale che travalica l'individuo; Apollo è il velo di Maya, l'illusione benefica, il sogno con cui, artisticamente, ci si ripara dall'orrore dell'esistenza. E nondimeno qui siamo anche discosti da Schopenhauer, perché Apollo non è semplicemente un principio razionale, il mondo della rappresentazione e della individuazione, bensì un principio artistico. Tanto nell'apollineo quanto nel dionisiaco siamo ancora nell'ambito dell'arte. " 'Titanico' e 'barbarico' appariva al Greco apollineo [...] l'effetto provocato dal dionisiaco, senza comunque che potesse negare di essere egli stesso intimamente affine a quegli eroi e a quei Titani precipitati. Qualcosa di più anzi dovette sentire. Tutta la sua esistenza, e così ogni bellezza e moderazione, poggiava su un fondamento - mascherato - di sofferenza e di conoscenza, che a lui veniva di nuovo svelato da quel dionisiaco. Ed ecco che Apollo non poteva vivere senza Dioniso!" (ibid., 37). Come è stato spesso osservato, il cuore del discorso di Nietzsche non verte tanto sull'indagine intorno alla nascita della tragedia, ma piuttosto sulla ricognizione delle cause della sua morte. Fintantoché esiste il dionisiaco, l'apollineo può trarne in modo contrastivo le proprie forze di trasfigurazione estetica. Ma quando Dioniso muore definitivamente, o almeno è scacciato dalla scena della storia mondiale, anche l'apollineo muore. Ritroveremo questo schema di pensiero sino al termine della riflessione di Nietzsche, per esempio quando, nel Crepuscolo degli idoli (1888), la fine del mondo vero operata dalla crescita scientifica e dall'estendersi del dominio del nichilismo comporta anche la fine del mondo apparente. La serenità apollinea esigeva la tragicità dionisiaca; quando il grande Pan muore, allora anche il grande stile classico si sfalda. "La tragedia greca perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d'arte affini: morì suicida" (ibid., 75). Ultimo dei tragici, Euripide trasforma il coro in una semplice appendice del logos, in un elemento didascalico che con argomenti dialettici accompagna lo svolgimento dell'azione; le individualità, che in Eschilo e ancora in Sofocle erano astratte e simboliche, in quanto incarnazioni di potenze etiche superiori, divengono qui riproduzione naturalistica dei caratteri; il dialogo e l'ironia, che saranno poi lo stile proprio della commedia attica, acquisiscono per la prima volta un predominio incontrastato. "Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina " (ibid., 77). L'arte, in vecchiaia, diviene frivola e capricciosa, scherza e ironizza facendosi portavoce del logos. Cessa cioè di essere grande arte, non è più né apollinea né dionisiaca, così come i greci, smarrita la loro libertà, incominciano a incarnare l'ideale alessandrino dello scienziato, o del plebeo astuto. "Anche Euripide era in certo senso solo maschera: la divinità che parlava per sua bocca non era Dioniso e neanche Apollo, bensì un demone di recentissima nascita, chiamato Socrate" (ibid., 83). È qui che inizia la lotta di Nietzsche contro il socratismo e il platonismo come dissolvitori del tragico attraverso la dialettica. L'ottimismo socratico recita che il bello è tale solo in quanto è razionale, e che solo il sapiente è virtuoso; Socrate accetta con serenità la morte, anzi non fa alcun tentativo per porsi in salvo - al fine di mostrare sino in fondo, con un esempio di vita, la bontà dei propri principi. "Il Socrate morente divenne l'ideale nuovo" (ibid., 93). Anche la vita, in fondo, proprio come l'arte ellenistica, non è che la dimostrazione di un sillogismo. Sedotto dalla figura di Socrate morente, Platone brucia le tragedie scritte in gioventù, e intesse l'apologia del maestro in un nuovo genere completamente antiartistico, il dialogo, che mescola tutti i generi e gli stili, e precipita l'arte in un eclettismo da cui parrebbe non possa riprendersi (perché questo mélange è lo stile dei moderni e, come vedremo, la cifra della mancanza di stile dei tedeschi del Ketch). "Se la tragedia aveva assorbito in sé tutti i generi d'arte precedenti, la stessa cosa si può d'altro canto dire, secondo una diversa prospettiva, del dialogo platonico, che, prodotto dalla mescolanza di tutti gli stili e le forme esistenti, è sospeso a metà fra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia, e ha quindi anche infranto la rigorosa legge più antica della forma linguistica unitaria" (ibid., 94-5). La morte dell'arte - l'idea cioè che l'arte sia cosa del passato, incapace ormai di avere una consistenza autonoma - che Hegel aveva censito come fenomeno caratteristico del moderno-romantico, viene declinata da Nietzsche al passato. Per il resto, la descrizione della decadenza dell'arte di fronte alla dialettica, per cui l'estetico appare ora non come una potenza specifica, bensì piuttosto come la semplice espressione sensibile dell'idea, cioè di quanto si può dire meglio e più propriamente attraverso il concetto - segue un decorso che è essenzialmente conforme a quello hegeliano. "Realmente Platone ha fornito a tutta la posterità il modello di una nuova forma d'arte, il modello del romanzo: questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto di gerarchia simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, cioè come ancilla [...] Qui il pensiero filosofico cresce al di sopra delle arti, costringendole ad abbarbicarsi strettamente al tronco della dialettica" (ibid., 95). Rispetto al discorso dell'arte come cosa del passato, qui troviamo però una diversa assiologia. Hegel constata la morte dell'arte e stigmatizza il romanzo e ancor più l'idillio come forme decadute di espressione estetica: ma ritiene d'altra parte che, a riparazione della morte dell'arte, la dialettica filosofica sia ora in grado di sopperire ai bisogni più alti dell'umanità. Per Nietzsche, invece, l'imporsi della dialettica è una decadenza senza redenzione, un declino per il quale l'impossibilità del tragico non trova risarcimento nella crescita ellenistica delle conoscenze. "Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura alessandrina e trova il suo ideale nell'uomo teoretico, che è dotato di grandissime forze conoscitive e lavora al servizio della scienza, e di cui Socrate è il prototipo e il capostipite" (ibid., 119). L'uomo teoretico è l'antitesi e la degradazione dell'uomo tragico, e dell'artista in genere. Mentre quest'ultimo mira a una pienezza di esistenza, che è anche riconoscimento dell'orrore dionisiaco del mondo, e al più (nell'apollineo) si tutela attraverso un mondo di sogno simbolico - l'uomo teoretico, anche a prezzo della propria vita, "gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di un disvelamento sempre felice, che riesce per forza propria" (ibid., 100). Anche per questo motivo, Nietzsche non potrà mai ridurre la propria lotta contro i pregiudizi morali e le illusioni della conoscenza a una semplice attività di smascheramento - perché in un tale disvelamento ravviserà un piacere alessandrino e teoretico. Per Nietzsche, invece, lo smascheramento deve portare alla costituzione di nuove maschere, ogni demitizzazione deve costituirsi come nuovo mito. A quest'altezza, tuttavia, Nietzsche sembra pensare non tanto a una compresenza tra smascheramento e rimitizzazione, ma piuttosto a una rinascita del tragico, capace di creare nuovi dei. Cacciato da Socrate, Dioniso "Si salva nelle profondità del mare, cioè nei flutti mistici di un culto segreto, che a poco a poco invaderà il mondo intero" (ibid., 89); la concezione dionisiaca del mondo, entrata in una fase di latenza, è destinata a riemergere "un giorno di nuovo come arte dalle sue mistiche profondità" (ibid., 113). In che modo dovrebbe attuarsi questa rinascita della tragedia? Da una parte, e con una progressione tipicamente dialettica, è la stessa conoscenza che, giunta a compimento con Kant e con Schopenhauer, si converte "in rassegnazione tragica e in bisogno d'arte" (ibid., 103). Kant e Schopenhauer, infatti, hanno conseguito "la vittoria più difficile, la vittoria sull'ottimismo che si cela nell'essenza della logica, il quale è poi il sostrato della nostra cultura" (ibid., 121): il mondo non è che apparenza; il gioco dell'uomo teoretico, pervenuto al suo esito radicale, non può che deprimersi (è ciò che più tardi Nietzsche descriverà come nichilismo europeo); la facoltà frustrata del togliere veli richiede ora una compensazione e un nuovo inizio. Questo diverso principio è, come nel mondo greco, la musica in quanto arte dionisiaca, che con il suo potere dissol-vitore delle individualità è ora in grado di arginare il regno del nulla che si è impossessato della conoscenza; ma la musica dionisiaca non va cercata nel melodramma, che nasce e muore nella parola, e che è ancora, sin dalle sue origini nell'umanesimo fiorentino, un prolungamento del culto platonico per il logos, bensì nella musica tedesca, dal corale luterano a Beethoven sino a Wagner. "Questo corale di Lutero risuonò profondo, coraggioso e pieno di anima, smisuratamente buono e delicato, come il primo richiamo da un'intricata boscaglia all'approssimarsi della primavera. Gli rispose l'eco d'emulazione di quel corteo tracotante d'invasati dionisiaci, a cui dobbiamo la musica tedesca - e a lui dovremo la rinascita del mito tedesco" (ibid., 153). I filologi reagirono con costernazione a questa uscita in campo aperto. Il 31 dicembre 1871 Ritschl annota nel suo diario: "Libro di Nietzsche Nascita della tragedia (= stravaganza geniale)". Più tardi gli scrive una lettera che è una nobile apologia del cosmo etico e ideale in cui Ritschl vede le radici delle Geisteswissenschaften e della scienza tedesca: "Secondo la mia intera natura io - e questa è la cosa principale - appartengo alla corrente storica e alla considerazione storica delle cose umane, in modo così risoluto che non mi è mai sembrato si potesse trovare la redenzione del mondo in questo o quel sistema filosofico; che neppure mi potrò mai indurre a definire 'suicidio' il naturale appassirsi di un'epoca o di un fenomeno; che non sono in grado di vedere un regresso nell'individualizzazione, né di credere che le forze e le potenze della vita spirituale di un popolo in un certo senso privilegiato e raramente dotato per natura e grazie allo sviluppo storico, siano da considerare come una norma assoluta per i popoli e le epoche - allo stesso modo che una religione non basta per le varie individualità nazionali, non è mai bastata, né basterà. - Lei non può pretendere da un 'alessandrino', da uno 'scienziato' di condannare la conoscenza e di scorgere solo nell'arte la forza riplasmatrice, redentrice e liberatrice del mondo". Che il libro sulla tragedia fosse, sul piano scientifico e accademico, un suicidio, lo si vede ancora meglio se si bada non alle reazioni di Ritschl, ma a quelle di Ulrich von Wilamowitz Möllendorff, di quattro anni più giovane di Nietzsche, come lui ex allievo di Pforta, e destinato a un luminoso avvenire accademico. "L'apparizione della Nascita della tragedia mi mandò in bestia", scriverà nella propria autobiografia (Wilamowitz 1929, 171); "in particolare mi sembrava che venisse insultato tutto ciò che avevo portato con me da Pforta come qualcosa di sacro e intoccabile. Uno di Pforta non doveva violarlo [...] Lo stravolgimento dei fatti storici e di ogni metodo filologico era più che evidente [...] Qui non si mirava alla conoscenza scientifica: in realtà non si trattava affatto della tragedia attica, ma del dramma in musica di Wagner che da parte mia non tenevo in grande considerazione [...] Nietzsche aveva imparato qualcosa su Dioniso da Erwin Rhode: infatti uno dei meriti principali di questo insigne studioso è quello di aver capito che con il Dio straniero ha fatto irruzione una forma nuova di sentimento e di comportamento religioso, sconosciuta all'antico culto divino degli Elleni. Sarà anche vero che nelle poesie estasianti, a cui Nietzsche si è innalzato, soffia uno spirito dionisiaco. Proprio per questo tale spirito è sempre stato non solo estraneo, ma anche ostile, all'essenza specificamente ellenica" (ibid., 171-2). Wilamowitz attacca la Nascita della tragedia con un opuscolo intitolato Filologia dell'avvenire! Una replica al libro di Nietzsche 'Nascita della tragedia', che ne contesta sia l'impianto sia gli assunti generali e che si conclude invitandolo a scendere dalla cattedra. E probabile (come del resto lo stesso Wilamowitz ammetterà) che qui giocasse una rivalità accademica; ed è così che Nietzsche interpreterà l'attacco di Wilamowitz in una lettera a Rhode (incaricato di una replica): "Deve essere ancora assai immaturo - evidentemente lo hanno utilizzato, stimolato, incitato [...] Non c'è scampo, bisogna conciarlo per le feste, sebbene il ragazzino sia stato sedotto. Ma, a causa del catdvo esempio e a causa dell'influenza prevedibilmente enorme che quell'opuscolo pieno di bugie avrà, ciò è necessario. In ringraziamento del fatto che tu lo concerai per le feste, riceverà una cattedra in qualche posto e sarà contento". In realtà, la replica di Rhode non poteva "conciare per le feste" Wilamowitz, perché da un punto di vista strettamente filologico la ragione era, su molti punti cruciali, dalla parte di quest'ultimo. In difesa di Nietzsche scende in campo anche Wagner, con una lettera aperta pubblicata il 23 giugno 1872 sulla "Norddeutsche Zeitung". Nel marzo dell'anno successivo, da Roma, Wilamowitz controreplica, e Nietzsche e Rhode decidono di non dar seguito alla polemica (i cui atti sono raccolti nel volume Der Streit um Nietzsche* "Geburt der Tragödie", a e. di K. Griinder, Hildesheim 1969; trad. it. e con introd. di F. Serpa, La polemica sull'arte tragica, Firenze 1972). 1.1.3 1872-1876. La critica della cultura Di là dalle polemiche intorno al libro sulla tragedia, il 1872 si apre con una serie di conferenze tenute da Nietzsche a Basilea, Sull'avvenire delle nostre scuole (16 gennaio, 6 febbraio, 5 marzo, 23 marzo: l'ultima conferenza in programma non fu mai pronunciata). In qualche misura, questo ciclo costituisce l'attualizzazione della problematicità del rapporto con il classico che sta al centro della Nascita della tragedia. L'intero sistema pedagogico degli studia humanitatis è irretito nell'alessandrinismo e nella mancanza di stile caratteristici della cultura moderna. "Nel momento presente, le nostre scuole sono dominate da due correnti apparentemente contrarie, ma egualmente rovinose nella loro azione, e in definitiva confluenti nei loro risultati: da un lato, l'impulso ad ampliare e a diffondere quanto più è possibile la cultura, e dall'altro lato, l'impulso a restringere e a indebolire la cultura stessa" (1872b, 109). Da una parte, la scuola assolve il mero compito di riproduzione della cultura, mira cioè alla formazione di altri insegnanti che avranno una visione angusta del loro ambito di competenze, inteso in senso puramente tecnico e limitativo (i classicisti si attengono alle analisi micrologiche di frammenti, di etimologie ecc., senza uno sguardo complessivo sull'antico; e se anche il loro greco e il loro latino sono buoni, il tedesco con cui traducono e si esprimono è completamente imbarbarito). Dall'altra, la cultura ridotta a tecnica cade facilmente preda di altre istanze che, più performativamente sebbene in modo altrettanto acefalo, contribuiscono alla diffusione capillare di un sapere ristretto e impoverito: essa si fa ostaggio dello stato e, soprattutto, del giornalismo. Il giornale, estensione e riduzione della cultura a fatto del giorno, è qui la cifra dell'eclettismo e della mancanza di stile; è un "vischioso tessuto connettivo, che stabilisce le giunture fra tutte le forme della vita, tutte le classi, tutte le arti, tutte le scienze, e che è solido e resistente come suole esserlo appunto la carta da giornale" (ibid., 1113-4). Di fronte all'euforia per le conquiste militari e culturali dello spirito tedesco, occorre allora dire che "Ciò che [...] è chiamato ora, con particolare presunzione, 'cultura tedesca' è un aggregato cosmopolitico, che sta rispetto allo spirito tedesco nello stesso rapporto in cui un giornalista sta rispetto a Schiller, o Meyerbeer rispetto a Beethoven" (ibid., 135). Anche qui, come nel libro sulla tragedia, il rimedio all'alessandrinismo consiste nel recupero delle ragioni profonde della cultura e della civiltà greca - cioè nell'obiettivo che aveva guidato la nascita della scienza dell'antico nella Klassik tedesca, volta, attraverso Goethe, Schiller, Hölderlin, a indicare il nesso privilegiato che unisce i due grandi popoli filosofici, greci e tedeschi. "Il legame che avvince realmente la più intima natura tedesca al genio greco, è qualcosa di assai misterioso e di difficilmente afferrabile. Tuttavia, sintanto che il più nobile bisogno del vero spirito tedesco non cercherà di afferrare la mano di questo genio greco [...] sino allora il fine della cultura classica del liceo continuerà a svolazzare qua e là nell'aria" (ibid., 138). Il resto della attività letteraria di Nietzsche nel 1872 resta in forma di abbozzo. Caratteristico, nel quadro della progressiva separazione dalla filologia, è il crescente interesse filosofico riscontrabile negli scritti di questo periodo (in particolare, Su verità e menzogna in senso extramorale e Il libro del filosofo), che anticipano temi e problemi ricorrenti nel seguito della riflessione nietzscheana: il legame tra verità e moralità visto da una prospettiva di critica della ideologia - la verità come menzogna sociale riconosciuta e accettata, l'oggettività come illusione ecc. - ; il nesso tra verità, metafora e finzione ecc. Anche qui, Nietzsche sembra sospeso tra l'esigenza di demitizzare le illusioni della conoscenza e la ricerca di un nuovo mito, di modo che la sua posizione non è univoca. Leggiamo in Su verità e menzogna: "Che cos'è dunque la verità? un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come moneta" (1872c, 361). Ma il problema non è qui semplicemente di svelare la natura metaforica della verità, perché per questa via si farebbero valere delle pretese di scientificità, che non per questo sarebbero meno metaforiche, e dissimulerebbero soltanto la forza mitopoietica che le ha originate, mortificandola e insterilendola. Che ogni verità non sia se non un'antica metafora sembra allora andare piuttosto - come nella Nascita della tragedia - nel senso di una rinascita del mito e dell'arte. "Quell'impulso a formare metafore, quell'impulso fondamentale dell'uomo da cui non si può prescindere neppure per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dall'uomo stesso, risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un mondo nuovo, regolare e rigido, come roccaforte. Tale impulso si cerca allora un nuovo campo di azione, un altro alveo per la sua corrente, e trova tutto ciò nel mito, e in generale nell'arte [...]' La veglia di un popolo - per esempio degli antichi Greci - ispirato miticamente risulta, a causa dei miracoli continuamente operanti quali sono accolti dal mito, realmente più simile al sogno che non alla veglia del pensatore scientificamente disincantato" (ibid., 368-9). L'anno si chiude con le Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, "scritte con animo lieto nei giorni natalizi del 1872", ricopiate e rilegate da Nietzsche per farne dono alla dedicataria, Cosima Wagner: "Sul pathos della verità", "Sull'avvenire delle nostre scuole", "Lo stato greco", "Il rapporto della filosofia schopenhaueriana con la cultura tedesca", "Agone omerico". Con il distacco dalla filologia matura in Nietzsche una progressiva disaffezione nei confronti della vita accademica. Anche l'aggravarsi delle condizioni di salute (cefalee, nausee, disturbi alla vista) rende precaria la continuità dell'insegnamento. Nel 1873 Nietzsche lavora a un'altra opera destinata a rimanere postuma, La filosofia nell'epoca tragica dei greci; di contro all'irrigidirsi scientistico della cultura 'alessandrina', è ancora la filosofia, intesa come attività eminentemente artistica, che viene chiamata a promuovere un contro-movimento (e il modo in cui Nietzsche caratterizza l'attività filosofica richiama da vicino l'apologia romantica delle Geisteswissenscbaften rispetto al pensiero logico-scientifico. Come è stato più volte osservato, l'inattualità nietzscheana non va misurata, come Nietzsche sembra ritenere, in millenni, nella rivendicazione delle origini greche del pensiero a fronte della decadenza attuale -ma piuttosto in decenni: Nietzsche riporta in onore tematiche e modi di vedere la cultura che erano stati propri dell'età di Goethe). Ma l'impresa che polarizza l'attività nietzscheana in questo periodo è la critica della cultura svolta nelle Considerazioni inattuali. Nietzsche ne progettò dodici; in effetti, ne realizzerà quattro: David Strauss. L'uomo di fede e lo scrittore (1873); Sull'utilità e il danno della storia per la vita e Schopenhauer come educatore, entrambe del 1874; e Richard Wagner a Bayreuth (1876). Con l'eccezione della Seconda, quella sulla storia, non si sbaglia a considerare le Inattuali come opere minori, cioè come segno di un travaglio culturale che non ha ancora trovato sbocco. L'obiettivo polemico è qui anzitutto la cultura tedesca, che si inorgoglisce per le vittorie militari e si insterilisce in un crescente "filisteismo" (secondo l'espressione del gergo studentesco a cui proprio nelle Inattuali Nietzsche conferirà una dignità letteraria). Ciò è particolarmente evidente nella Inattuale su David Strauss. Strauss (Ludwigsburg 1808-1874), teologo e filosofo, era un epigono della sinistra hegeliana; in età avanzata, aveva scritto un libro carico di ingenuo ottimismo borghese, di fede nel progresso e nella cultura tedesca, L'antica e la nuova fede. Un'opera tarda in molti sensi, che diviene per Nietzsche il simbolo della miseria dell'epoca presente, e persino della udisfatta [...] dello spirito tedesco a favore dell'impero tedesco" (1873a, 167). Riappare qui tematicamente l'idea della decadenza come mescolanza di stili e perdita di slancio vitale: "Cultura è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni culturali di un popolo. Ma il molto sapere e la molta erudizione non costituiscono un mezzo necessario alla cultura, e si conciliano all'occorrenza con il contrario della cultura, la barbarie, ossia la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili. Appunto in questa caotica confusione di tutti gli stili vive il Tedesco dei nostri giorni; e rimane un serio problema come possa essergli possibile, con tutta la sua istruzione, non accorgersi di ciò e rallegrarsi per giunta di vero cuore della sua presente 'cultura' [...] Il Tedesco accumula intorno a sé le forme, i colori, i prodotti e le curiosità di tutti i tempi e di tutti gli ambienti, producendo in tal modo quella moderna varietà di colori da fiera che i suoi dotti dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il 'moderno in sé'; quanto a lui, in questo tumulto di tutti gli stili se ne rimane tranquillamente a sedere. Ma con questa specie di 'cultura', che è comunque solo una flemmatica insensibilità per la cultura, non si possono vincere i nemici, e meno di tutti quelli che abbiano, come i Francesi, una vera cultura produttiva, non importa di qual valore, e di cui noi abbiamo finora imitato tutto, per lo più inoltre senza abilità" (ibid,, 171-2). In Sulla utilità e il danno della storia per la vita la polemica si universalizza e rivela un diverso respiro. La barbarica mescolanza di tutti gli stili non affligge solo i tedeschi del Reich, ma è piuttosto l'esito di una malattia storica che ha contagiato l'intera umanità del XIX secolo. Nietzsche coglie qui con chiarezza le aporie dello storicismo, cioè di quella educazione in cui egli stesso si era formato. L'Ottocento ha portato a perfezione la comprensione storica di tutte le epoche; ogni secolo e ogni individualità passata sono vagliati minuziosamente, e con una precisione prima sconosciuta. Con questo gesto, tuttavia, la modernità si è resa incapace di creare una storia e uno stile peculiari, in quanto si è confinata in un paralizzante museo dei secoli trascorsi, nell'arte così come nell'agire pratico. Come un turista, l'uomo moderno si aggira per i giardini della storia, prova infinite maschere, ma non riesce a trovare una vita propria e vera. Ora, scrive Nietzsche, "è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza l'oblio [...] c'è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà" (1874a, 284). Da Paul Yorck von Wartenburg sino allo Heidegger di Essere e tempo la necessità di recuperare un rapporto autentico con la storia e con il presente si modellerà in esplicita consonanza con la diagnosi della Seconda Inattuale: lo storicismo si propone, per usare l'espressione di Dilthey, di "ridare vita alle ombre esangui del passato"; ma questo non è sufficiente, anzi, alla fine non è neppure possibile, se chi è chiamato a resuscitare monumenti perenti non è che una presenza spettrale - se è schiacciato dal peso di millenni di storia. Yorck e poi Heidegger tematizzeranno questa problematicità facendo valere la necessità di distinguere tra un rapporto puramente museale con il passato, da un lato - e, dall'altro, l'assunzione radicale della storicità in cui ciò che è trascorso ritorna a vivere nell'attualità del nostro presente, così da farsi nuovamente "carne e sangue" (Yorck). Ora, questo paradigma vitalistico per il quale la storia conta solo nella misura in cui - di là dalla semplice dimensione documentario-archiviale - è in grado di rinascere produttivamente nel presente, e di servire la vita, viene pienamente esplicitato da Nietzsche nella sua polemica contro la riduzione positivistica del comprendere storico. "Un fenomeno storico, conosciuto in modo puro e completo e ridotto a fenomeno di conoscenza è, per colui che lo ha conosciuto, morto: egli ha infatti riconosciuto in esso l'illusione, l'ingiustizia, la cieca passione, e in genere tutto l'orizzonte terrestremente offuscato di questo fenomeno è appunto la sua potenza storica. Questa potenza è ora per lui, come sapiente, divenuta impotente: ma forse non ancora per lui, come vivente. La storia, pensata come pura scienza e divenuta sovrana, sarebbe una specie di chiusura e liquidazione della vita per l'umanità. L'educazione storica è invece qualcosa che è salutare e promette futuro solo al seguito di una forte corrente vitale nuova, per esempio di una cultura in divenire; cioè solo quando viene dominata e guidata da una forza superiore e non quando è essa stessa a dominare e a guidare. La storia, in quanto sia al servizio della vita, è al servizio di una forza non storica, e perciò non potrà né dovrà diventare mai, in questa subordinazione, pura scienza, come per esempio è la matematica" (1874a, 271-2). Di qui le diverse modalità di una storia posta al servizio dell'extrastorico, cioè della vita, che per affermarsi richiede insieme assunzione di modelli dal passato e possibilità di oblio. Per Nietzsche, la storia vale in primis come storia monumentale, che "serve innanzitutto all'attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente" (ibid., 272). Viene poi la storia antiquaria, di cui abbisogna "colui che custodisce e venera - colui che guarda indietro con fedeltà e amore verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa pietà, egli per così dire paga il debito di riconoscenza" (ibid., 280). Ma all'apice della conoscenza storica, in quanto deve essere orientata dal servizio nei confronti della vita, non sta l'epico oblio di sé, la facoltà di trasporsi integralmente nel passato, che costituiva lo scopo (del resto praticamente e teoricamente irraggiungibile) dei grandi storici dell'Ottocento. Non all'oblio di sé e alla paralisi, ma al superamento della storia in nome della vita, deve tendere un rapporto autentico con la storicità; è ciò che Nietzsche chiama storia critica: l'uomo "deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo; ogni passato merita infatti di essere condannato - giacché così vanno appunto le cose umane: sempre la violenza e la debolezza umana sono state potenti. Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza che pronuncia qui il giudizio: ma soltanto la vita, quella forza oscura, impellente, insaziabilmente avida di sé stessa" (ibid., 284). Va forse cercato qui l'atto di nascita del radicalismo filosofico del Novecento, lo sguardo iconoclasta rivolto verso il passato, la necessità di oltrepassare la tradizione attraverso ciò che, di lì a cinquant'anni, Heidegger chiamerà "distruzione della metafisica". Schopenhauer come educatore (che desterà l'ammirazione di Cosima Wagner e che, tradotto in francese nel 1875 da Marie Baumgarten, porrà la prima base per la risonanza di Nietzsche in Francia) sviluppa il tema del pensatore privato e inattuale, dunque al tempo stesso costituisce la giustificazione delle categorie sotto il cui segno Nietzsche ha deciso di porre il proprio pensiero - e la testimonianza della venerazione nei confronti del filosofo che funge da guida a questa prima parte della riflessione nietzscheana. Nel 1875 Nietzsche rinuncia al progetto di una Inattuale intitolata Noi filologi, e decide di pubblicare come Quarta Inattuale Richard Wagner a Bayreuth, che uscirà l'anno successivo. Ma quest'ultimo opuscolo (largamente celebrativo) è il segno di una contraddizione, e appare inconciliabile con le vere conclusioni a cui Nietzsche è pervenuto nel valutare il suo vecchio ideale estetico. Wagner, a dispetto di tutte le sue professioni di fede, è tutt'altro che un inattuale, e di questo Nietzsche si rende conto proprio nel quadro delle celebrazioni wagneriane di Bayreuth, dove giunge il 23 luglio 1876, ma per ripartirne il 27 agosto, cioè prima della fine del festival. La cultura che plaude a Wagner è precisamente quella dell'impero tedesco, e Wagner si è "cristianizzato", smania per riconoscimenti e onori, si compromette con il filisteismo e ne adula il gusto. La rottura con Wagner non si consuma definitivamente qui, ma II caso Wagner (1888) esprimerà retrospettivamente questo stato di penosa delusione. Intanto il distacco dall'università, oltre che ideale, diviene pratico. A causa del peggioramento delle condizioni di salute, Nietzsche ottiene nell'ottobre 1876 un anno di congedo. Parte con Paul Rèe per l'Italia, e il 27 ottobre è a Sorrento, ospite di Malwida von Meysenburg. Qui lo raggiunge la notizia della morte del suo maestro Ritschl. 1.2 "Vengo dal mito e vado verso il mito"1.2.1 1877-1882. Da "Umano troppo umano" alla "Gaia scienza": 'illuminismo' nietzscheano e morte di Dio Scriverà Nietzsche nel secondo libro di Così parlò Zarathustra (1883, "Dei dotti"): "io sono uscito dalla casa dei dotti: e per giunta ho sbattuto la porta alle mie spalle". È nel quadro della rottura con il mondo accademico che si può trovare la cifra della vita e della riflessione nietzscheana sul finire degli anni Settanta. Nel 1877 Nietzsche è a Sorrento, e qui, il 2 settembre, incomincia a dettare a Peter Gast la prima parte di Umano troppo umano, in cui si esplicita la nuova maniera dello stile nietzscheano, quella più nota e caratteristica (ricorso all'aforisma, rinuncia alla trattazione sistematica e all'approfondimento erudito). Il 3 dicembre il manoscritto è consegnato all'editore Schmeitzer, e il volume vedrà la luce nel maggio dell'anno successivo. La rottura con Wagner è ormai definitiva: "Quando compiamo il passo decisivo e imbocchiamo la via che è chiamata la 'nostra via', ci si fa chiaro, improvvisamente, un mistero: tutti, anche chi ci è stato amico e confidente, si erano immaginati fino a questo momento una loro superiorità su di noi e si mostrano offesi" (1881, aforisma 484, "La nostra via"). Nel dicembre 1878 è pronto il manoscritto della seconda parte di Umano troppo umano, che esce in primavera. Dal 19 marzo 1879, Nietzsche sospende l'attività didattica a Basilea, e in maggio viene definitivamente messo a riposo. "Che cosa si sconta nel modo peggiore? La propria modestia; di non aver prestato ascolto ai propri bisogni più profondi; scambiarsi con altri, abbassarsi; perdere la finezza d'udito per i propri istinti; questa mancanza di rispetto per se stessi si vendica con ogni sorta di perdita: salute, benessere, orgoglio, serenità, libertà, saldezza, coraggio, amicizia. Più tardi non ci si perdona mai questa mancanza di schietto egoismo: la si considera come un'obiezione, come un dubbio su un vero ego" (Frammenti postumi, primavera 1888,15 [98]). Nietzsche inizia così anche il suo stile di vita ben noto, quello di un pensionato afflitto da una malattia misteriosa, in costante movimento tra località rivierasche italiane e francesi durante l'inverno, e stazioni climatiche svizzere d'estate. I ritorni in Germania saranno rari, e per lo più accompagnati da depressioni, per l'insofferenza nei confronti dell'ambiente familiare, e in genere per l'approfondirsi del dissidio culturale nei confronti dello spirito tedesco. Nell'estate 1879 Nietzsche è a Saint Moritz, dove scrive Il viandante e la sua ombra, che uscirà, sempre dallo Schmeitzer, nel 1880 (e che costituisce la sezione conclusiva della seconda parte di Umano troppo umano). Ancora nel corso di quest'anno, Nietzsche inizia a lavorare ad Aurora. Dopo varie peregrinazioni (Naumburg, Riva del Garda, Venezia, poi nuovamente la Germania), si stabilisce, a partire dall'8 novembre a Genova, con il progetto di vivere in solitudine. Aurora esce ai primi di luglio 1881: Nietzsche trascorre per la prima volta l'estate a Sils Maria, nella Svizzera ladina; dal 1° ottobre è nuovamente a Genova e qui, il 21 novembre, sente la Carmen di Bizet, destinata a incarnare i suoi nuovi ideali artistici, quelli di una musica superficiale, sensuale e mediterranea, contrapposta alle profondità e alle ascesi troppo cristiane dell'opera di Wagner. Nel febbraio 1882 Paul Ree gli regala una macchina per scrivere, di cui peraltro Nietzsche non si servirà mai, ricorrendo a Peter Gast per la trascrizione in bella dei propri manoscritti; "anche se non se ne è mai servito, Nietzsche è stato il primo pensatore dell'Occidente a possedere una macchina per scrivere, di cui possediamo la fotografia. Heidegger, invece, poteva scrivere solo a penna, con una mano da artigiano e non da meccanico" (Derrida 1985, 423). In procinto di partire per Messina, dove si tratterrà tra marzo e aprile, compone i versi degli Idilli di Messina; di ritorno dalla Sicilia, sosta a Roma. Qui, a casa di Mal-wida von Meysenburg, conosce Lou Salomé, giovane aristocratica di origine russa, destinata a occupare un posto di rilievo nella cultura filosofico-letteraria tra Otto e Novecento (nel 1894 dedicherà un libro intelligente e sensibile al pensiero di Nietzsche, v. infra, II.l.l; e più tardi entrerà in rapporto con Freud, contribuendo allo sviluppo del movimento psicoanalitico). Nietzsche ripete con Lou e con Paul Rèe lo schema affettivo di Dioniso, Arianna e Teseo; progetta di fondare una sorta di cenobio laico con Lou e Rèe. Questi complicati propositi naufragano anche per l'intervento di madre e sorella. Verso fine anno, Nietzsche cade in una profonda depressione, ha progetti suicidi, abusa di sonniferi, mentre la salute ha un ulteriore tracollo: "Questo ultimo boccone di vita è stato il più duro che io abbia finora dovuto masticare ed è ancora possibile che ne rimanga soffocato [...] Se non invento l'espediente alchimistico di ricavare l'oro anche da questo fango, sono perduto" (lettera a Overbeck il giorno di Natale del 1882: è possibile trovare, nell'immagine del pastore dello Zarathustra soffocato dal serpente, una trasposizione di questo stato d'animo; v. infra, 1.2.2). Intanto, a fine agosto, era uscita La gaia scienza, concepita inizialmente come uno sviluppo di Aurora, e poi dilatata sino a raggiungere una dimensione autonoma. Si è soliti considerare la fase media del pensiero nietzscheano, che da Umano troppo umano giunge sino alla Gaia scienza, fermandosi perciò alle soglie dello Zarathustra, come l'epoca dell'"illuminismo" di Nietzsche. A questa altezza della sua riflessione, infatti, Nietzsche fa valere l'esigenza di una considerazione più pacata e razionale del mondo della cultura, e si applica a un'opera di smascheramento dei pregiudizi e degli interessi soggiacenti a ogni conoscenza che si pretenda pura e disinteressata (di qui il valore programmatico di Umano troppo umano: le motivazioni sublimi, la scienza oggettiva, l'amore disinteressato per il prossimo, l'ascesi e la morale, non sono che metastasi di motivi bassi, meschini, molto umani e del tutto conoscibili: "non dovremmo noi, gli uomini più intellettuali di un'età che chiaramente s'incendia sempre di più, dar piglio a tutti i possibili mezzi di spegnimento, per conservare, almeno noi, la nostra fermezza, tranquillità e moderazione, e per poter servire un giorno come lo specchio e l'autocoscienza di questa epoca?" (1881, aforisma 38). Nasce qui, dietro a suggestioni volterriane, il tipo dello spirito libero, che ripropone, sul finire dell'Ottocento, l'idea settecentesca del libre penseur, che scuote i gravosi vincoli della morale e della tradizione proiettandosi entro un universo emancipato attraverso la ragione. "L'uomo libero è privo di legami, poiché egli vuole dipendere in tutto da sé e non da una tradizione" (1881, aforisma 9). La polemica con la "malattia storica", che attraversa la prima parte della riflessione nietzscheana, si trasforma in biasimo del tradizionalismo, del prevalere dei sentimenti, del romanticismo, che costituisce ora agli occhi di Nietzsche il tratto deteriore della cultura tedesca. "La tendenza principale dei Tedeschi fu tutta diretta contro l'illuminismo e contro la rivoluzione della società che, con grossolano fraintendimento, era considerata una conseguenza di esso: la reverenza per tutto quanto ancora esisteva cercò di capovolgersi nella reverenza per tutto quanto era esistito, soltanto perché cuore e intelletto fossero ancora una volta colmi, e non ci fosse in essi più spazio per mete future e rinnova-trici. Il culto del sentimento fu innalzato al posto di quello della ragione" (1881, aforisma 197). Il romanticismo che sostanziava la riflessione del giovane Nietzsche sembra, almeno in parte, sconfessato, congiuntamente al declino degli ideali wagneriani. La stessa polemica filologico-umanistica contro l'insterilirsi positivistico degli studi storici (la divisione del lavoro, gli "operai del sapere" ecc.) cede il passo a una riabilitazione della scienza come oggettività (beninteso, nei limiti che questa categoria assume nell'orizzonte nietzscheano), priva di pathos, intimamente collegata a uno sguardo razionale. Si può anche parlare, nel quadro del riemergere di queste tematiche settecentesche, di un recupero del materialismo; al culto contemporaneo, e segnatamente tedesco, dell'ideale, Nietzsche (sulla scia del suo maestro Schopenhauer) oppone i valori del corpo, la sua "grande ragione", enfatizzando il ruolo della fisiologia (del vitto, del clima ecc.) nella genesi e nello sviluppo del pensiero. Più che di una semplice ripresa del progetto dell'illuminismo, tuttavia, si direbbe che qui sia in opera una dialettica dell'illuminismo. Nietzsche non ha mai nascosto che il suo intento non era opporre alla ragione qualcosa che non fosse pensiero (per esempio, i sentimenti o l'irrazionale' in senso vago e morbido), e che il suo progetto più generale era anzi quello di portare a compimento la filosofia critica di Kant (ci si ricorderà del resto del ruolo non secondario giocato da Kant, insieme a Schopenhauer, nel superamento dell'ottimismo teoretico quale era stigmatizzato nella Nascita della tragedia). Ma proprio il compimento della critica richiede che ci si porti di là dalle angustie del concetto di ragione e di criticismo elaborato dal Settecento e poi sviluppato dalle scienze dello spirito romantiche. L'illuminismo appare a Nietzsche, come hanno osservato Horkheimer e Adorno, una figura ancipite: esso è al tempo stesso uno strumento di emancipazione che induce l'uomo a risvegliarsi dal sonno della tradizione, e un'arma in mano ai grandi artisti di governo, un dispositivo dogmatico che, attraverso la realizzazione di un mondo amministrato, accresce le servitù dello spirito. Nietzsche volta in positivo questa duplicità. Da sola la ragione non basta, intanto perché l'idea di razionalità e di scienza come disinteresse e oggettività non tiene di fronte agli smascheramenti apportati da una critica che sia veramente tale, e che, per l'appunto, metta in chiaro i vincoli troppo umani che pregiudicano Vethos dell^uomo della conoscenza". Ma soprattutto, la critica non deve limitarsi (e proprio questa è stata, alla fine, l'intima debolezza dell'illuminismo) a muovere una critica ai valori esistenti; la decostruzione del mito deve, infine, por capo a una rinascita di nuovi miti e valori capaci di dar sostanza al progetto di emancipazione degli "spiriti liberi". Il filosofo critico alla maniera di Kant, osserverà più tardi Nietzsche, nella Genealogia della morale, è ancora semplicemente un operaio della cultura, in quanto si limita a criticare ciò che esiste in nome dei principi di un rischiaramento razionale; il culmine di un criticismo autentico, per contro, è rappresentato dal filosofo "legislatore", che alla critica dei pregiudizi della tradizione unisce la capacità artistica della creazione di valori nuovi. Così, nell'aforisma 535 di Aurora: "Alla verità occorre la potenza. In sé la verità non è per nulla una potenza - checché sia abituato a dire in contrario il galante illuminista. Essa deve anzi attrarre dalla sua parte, o mettersi a fianco della potenza, altrimenti continuerà sempre ad andare in rovina!" E più sopra (aforisma 330): "Ancora non bastai Ancora non basta dimostrare una cosa, si deve sedurre gli uomini ad essa, oppure innalzarveli. Perciò il sapiente deve imparare a dire la sua saggezza: e spesso in modo tale che essa suoni come follia!" Alla ricerca di pacatezza contro l'infiammarsi dello spirito fa dunque da controcanto una diversa fiamma, artistica e mitologica. "Vivere", leggiamo nella nuova prefazione, del 1887, alla Gaia scienza, "vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamma tutto quel che siamo" (1887b, 7); ma già nell'aforisma 26 della Gaia scienza: "Vivere - ecco quel che significa: respingere senza tregua qualcosa che vuole morire; vivere - vuol dire essere crudeli e spietati contro tutto ciò che sta diventando debole e vecchio in noi e non soltanto in noi". La Gaia scienza è l'espressione compiuta di una simile dialettica. Sotto gli occhi di una storia universale, l'illuminismo appare come una fase imprescindibile; si ripete qui, con un cambiamento di accento, l'esame dell'imporsi dell'ottimismo socratico sul grande mondo tragico che Nietzsche aveva svolto nella Nascita della tragedia. La tragedia non può che soccombere di fronte all'imporsi di un pensiero più ironico, pacato, individuale, secolarizzato. Come la religione di un popolo si dissolve progressivamente nell'individualismo delle superstizioni coltivate non dalla collettività, ma dai singoli (nel che Nietzsche ravvisa un chiaro segno di illuminismo), cosi la tragedia si risolve nell'ironia e nella commedia, e il pathos delle passioni universali diviene interesse privato - ma, per ciò stesso, principio di una conoscenza più disincantata e di un meno insincero amore per la verità. "Sono proprio queste le epoche di 'rammollimento', quando la tragedia corre per case e vicoli, quando si generano il grande amore e il grande odio e la fiamma della conoscenza tutta avvampando si drizza in cielo" (1882, aforisma 23, Gli indizi della corruzione). Ma proprio nella misura in cui la cura di sé e il pathos della verità non sono che la secolarizzazione della visione tragica del mondo, sopravvive in essi il loro fondamento avverso e la loro provenienza. Nella sua smania di conoscenza oggettiva, l'amore per la verità non cessa di essere una passione; così, commentando la sentenza di Spinoza secondo cui conoscere significa non ridere né piangere né detestare, bensì intelligere, Nietzsche scrive: "che è in ultima analisi questo intelligere se non la forma in cui appunto ci diventano a un tratto avvertibili questi tre fatti? Un risultato dei tre diversi e tra loro contraddittori impulsi a voler schernire, compassionare, esecrare? Prima che sia possibile un conoscere, ognuno di questi impulsi deve aver già espresso il proprio unilaterale punto di vista sulla cosa e sul fatto: in seguito ha preso origine il conflitto tra queste unilateralità, e da esso talora un termine medio, una pacificazione, un salvar le ragioni di tutte e tre le parti, una specie di giustizia e di contratto [...]. Noi, che siamo consapevoli delle ultime scene e della liquidazione finale di questo lungo processo, riteniamo perciò che intelligere sia qualcosa di conciliante, di giusto, di buono, qualcosa di essenzialmente contrapposto agli impulsi: mentre esso è soltanto un certo rapporto degli impulsi tra di loro" (ibid., aforisma 333). Conoscenza e ascesi, le forme della spiritualizzazione, sono semplicemente la secolarizzazione (o la sublimazione) di un pathos antico e tragico; così scrive Nietzsche, rivolgendosi ai realisti: "Il vostro amore per la 'realtà' [...] oh, è un antico, antichissimo 'amore'!" (ibid., aforisma 57) - e lo stesso martirio come negazione di sé è l'espressione di una volontà cupa e appassionata, come si chiarisce nell'aforisma 13 della Gaia scienza, in cui l'idea di volontà di potenza fa una delle sue prime apparizioni: "Perfino quando mettiamo in giuoco la nostra vita, come fa il martire nell'interesse della sua Chiesa, è questo un sacrificio offerto alla nostra volontà di potenza". Ma se lo stesso amore per la verità e il sacrificio del martire (che trova il proprio archetipo nella figura di Socrate morente) sono null'altro che una metamorfosi individualistica del grande mito tragico, che tipo di rinascita della tragedia possiamo auspicare? Forse la musica di Wagner non è il contro-movimento capace di riportare in vita il grande Pan, ma piuttosto una lusinga del gusto più triviale, come di fatto si è sperimentato a Bayreuth. "Quanto ci offende ora l'udito il grido teatrale della passione, come è diventato estraneo al nostro gusto tutto il romantico tumulto e guazzabuglio di sentimenti, che è prediletto dalla plebe colta, compresi i suoi aneliti verso il sublime, l'eletto e l'ampolloso! No, se noi convalescenti abbiamo ancor bisogno di un'arte, questa è un'altra arte - un'arte beffarda, leggera, fuggitiva, divinamente imperturbata, che avvampa come una fiamma chiara, in un cielo sgombro di nubi!" (1887b, 9). Nelle arie di Bizet tragedia e commedia non si contrappongono più, e nel comico si registra una maggiore onestà che non nell'ampollosa magniloquenza del tragico. La fase ulteriore - dopo la morte della tragedia e dopo l'imporsi dell'illuminismo socratico divenuto planetario - il superamento della dialettica dell'illuminismo che si fa dogma (razionalizzazione dell'esistenza, da un parte; pathos tragico alla portata di tutti, dall'altra), è piuttosto la farsa. Molto dell'ultimo Nietzsche, dallo stile a tratti operettistico dello Zarathustra sino all'enfasi commovente dei biglietti della follia, si comprende a partire dall'abbandono degli ideali tragici che si consuma definitivamente nella Gaia scienza. "Vivat comoedial", leggiamo nell'aforisma 67; e più sotto (aforisma 77): "Il cattivo gusto ha i suoi diritti come il buon gusto e finanche una priorità su di esso, ove costituisca la grande necessità, il sicuro appagamento e per così dire una lingua universale, una maschera e una mimica assolutamente intelligibili; il buon gusto, il gusto eletto, ha invece sempre come una ricerca, qualcosa di tentato, qualcosa di non pienamente certo della sua comprensibilità: esso non è popolare e non lo è mai stato. Popolare è e rimane la maschera. Ben venga dunque la corsa di tutta questa mascherata nelle melodie e cadenze, nei ritmici guizzi e gaiezze di queste opere! Proprio la vita dell'antichità! Che cosa si comprende di essa, se non si intende il piacere della maschera, la buona coscienza di ogni mascherata?" L'illuminismo smaschera la tragedia, ma anch'esso è nondimeno maschera, pathos che si ignora. Al culmine di una dialettica dell'illuminismo deve porsi dunque uno smascheramento dello smascheramento: occorre rinunciare al pathos della verità, e accedere a un universo comico e farsesco in cui tutto è maschera; diversamente, si resterà ancora una volta irretiti nella fede metafisica nei confronti del vero - una fede tanto più insidiosa quanto più non si riconosce per tale e anzi si pretende emancipata. È in questo quadro che si inseriscono le considerazioni di Nietzsche sulla verità come donna (1882, aforismi 60, 64 e passim), come "Circe dei filosofi": ossia come maschera che non crede in se stessa, e che, attraverso una actio in distans, seduce il metafisico. L'umanità, nella crescita progressiva delle conoscenze e nel divenire della secolarizzazione come ininterrotto dipartirsi dal mito tragico, ha di fatto esautorato la pretesa di validità relativa a qualsiasi fondamento, sia esso la trascendenza del dio cristiano oppure le evidenze de! sapere positivo. Il vero, per una umanità come quella dell'Ottocento europeo, non è che una spoglia disseccata; ma quella stessa umanità che ha saputo spingersi nei fatti tanto lontano nella esautorazione di qualsiasi fondamento, non è capace di tirare le somme. La verità non crede più in se stessa, né può farlo; ma l'umanità non è ancora in grado di vivere senza di lei, e trasferisce il vero, revocato dal dominio della fede, nell'ambito della scienza, senza avvedersi di questo, che l'autentica emancipazione non può passare attraverso la costituzione di nuovi ambiti di verità, ma piuttosto attraverso la dissoluzione della nozione stessa di vero, e una gioiosa costituzione di miti che non appoggiano la loro efficacia sulla fede in un fondamento esterno. È in questo orizzonte che, nell'aforisma 125 della Gaia scienza, si colloca l'annuncio dell' "uomo folle" che va proclamando la morte di Dio. "Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: 'Cerco Dio! Cerco Dio!' E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa [...]. II folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: 'Dove se n'è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! [...] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!' A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. 'Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiut! ". Si fraintenderà l'annuncio della morte di Dio fintanto che si vedrà in esso la comunicazione di una "scoperta' o di una 'dimostrazione'. L'uomo folle va dicendo agli uomini non tanto che Dio è morto, ma anzitutto che sono stati loro a ucciderlo, per quanto non ne siano ancora divenuti coscienti e non ne abbiano tratto le conseguenze teoretiche. Il compimento dell'illuminismo nei suoi esiti nichilistici (nulla esiste, se non la maschera, e dietro a una maschera non c'è che maschera, la fede nella verità è una pia illusione) non ha ancora trovato una umanità capace di corrispondergli. Di qui la necessità di un filosofo come educatore, in grado di condurre gli uomini, per il medio del mito, alla coscienza di ciò che essi hanno già compiuto in forma irriflessa. Proprio per questo, in Nietzsche, non c'è contraddizione tra illuminismo e mito, così come, sul piano dello sviluppo del suo corso di pensiero, la fase 'illuministica' trova un esito conseguente nel mito di Zarathustra (che del resto fa la sua prima comparsa precisamente quando la Gaia scienza volge al termine: cfr. l'aforisma 381, Per la questione della comprensibilità). 1.2.2 1883-1885. La maschera di Zarathustra e il mito dell'eterno ritorno La prima parte di Così parlò Zarathustra nasce all'inizio del 1883, in "dieci giorni di gennaio assolutamente sereni e freschi". Nietzsche soggiorna a Rapallo, poi di nuovo a Genova. Dal 4 maggio al 16 giugno è a Roma, dove si riconcilia con la sorella dopo la vicenda di Lou. Il 18 giugno giunge a Sils Maria, dove si trattiene fino al 5 settembre; qui, in luglio, attende alla stesura della seconda parte dello Zarathustra, mentre la prima parte vien data alle stampe (dopo la lettura delle bozze Gast scrive a Nietzsche: "A questo libro si deve augurare la diffusione della Bibbia", e nell'iperbole coglie bene il carattere di comunicazione di massa che Nietzsche aveva inteso allegare alla propria opera, come poi a tutti i suoi scritti successivi, di cui progetterà tirature smisurate). Tra il 1883 e il 1884 Nietzsche sverna a Nizza, come poi tutti gli anni successivi, sino all'inverno 1887-88; qui, il 18 gennaio 1884, porta a termine la terza parte dello Zarathustra. A Nizza si intrattiene in lunghe conversazioni con il giovane zoologo viennese Joseph Paneth, che era buon amico di Freud (è "l'amico Giuseppe" della Interpretazione dei sogni); dopo Lou, questo è il secondo filo, per il momento soltanto aneddotico, del duraturo legame tra il pensiero di Freud e quello di Nietzsche. Dopo un breve soggiorno a Venezia, presso l'amico Gast, Nietzsche, tra metà luglio e fine settembre, soggiorna nuovamente a Sils Maria. Altri dissidi con la famiglia, ancora per la questione di Lou. Nell'inverno 1884 e sino all'inizio dell'aprile 1885, Nietzsche è a Nizza, dove termina la quarta parte dello Zarathustra, pensata inizialmente come un'opera autonoma dal titolo Meriggio e eternità, che viene stampata in quaranta copie a spese di von Gersdorff presso il Naumann di Lipsia. Il 22 maggio Elisabeth sposa l'antisemita Bernhard Forster; a causa di ciò, Nietzsche entra nuovamente in conflitto con la famiglia. Come sempre, dal 6 giugno a metà settembre è a Sils Maria, e l'I 1 novembre, di nuovo, a Genova. Lo Zarathustra si apre con il racconto di tre metamorfosi che rappresentano una sorta di fenomenologia del mondo in cui Nietzsche autocomprende la propria evoluzione di pensiero (cfr. 1883-85,1, Delle tre metamorfosi). Lo spirito si fa anzitutto cammello, porta il peso della tradizione e dei valori trasmessi, e si impegna a sopportarli; poi diviene leone, si scuote di dosso il fardello delle eredità tramandate, distrugge gli idoli e lotta contro i pregiudizi; infine si rende fanciullo, emancipato sia dalla tradizione sia dall'impresa della negazione e della critica: "Innocenza è il fanciullo o l'oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un pieno vuoto, un sacro dire di sì". Secondo questa tipologia, lo Zarathustra incarna lo spirito diventato fanciullo. Lo stile perde qualsiasi carattere dimostrativo, e casomai appare imparentato con l'andamento dei testi sacri e devozionali, contro cui si era scagliato lo spirito divenuto leone. Così pure, la più misteriosa rivelazione che attraversa il libro, il mito dell'eterno ritorno, mira a risolvere tutta la storia precedente, con il suo peso paralizzante di colpa, bassezza e risentimento, nella "innocenza del divenire", in una ciclicità selettiva che sappia togliere ciò che la storia ha di miserabile e di meschino, per affermare solamente ciò che merita di tornare - con un gesto che è insieme di riassunzione di tutta la storia precedente e di nuovo inizio. Zarathustra, il predicatore a cui sono attribuiti le vicende e i discorsi riferiti nel libro di Nietzsche, è il nome di un profeta iranico, la cui identità storica è oggi messa in dubbio dagli studiosi, ma che la tradizione vuole che sia vissuto in un'epoca imprecisata, tra il 1000 e il 600 a.C. nell'Iran orientale. I greci lo conobbero con il nome di Zo-roastro, ma per loro era ormai solo una figura mitica, simbolo della saggezza orientale, e questo anzitutto è il senso in cui lo vede Nietzsche, sebbene le notizie che possedeva sulla sua figura fossero più ampie: Zarathustra-Zoroastro fu infatti il fondatore di una religione (zoroastrismo o mazdeismo) di impostazione rigidamente dualistica, che vede il mondo come il campo di una contesa tra i due princìpi contrapposti del bene e del male; culto tradizionale dei persiani, il mazdeismo si diffuse sia a oriente (dove sopravvive tuttora, in India, nella religione dei parsi), sia a occidente, influenzando forme ereticali dell'ebraismo ellenizzato e del pensiero cristiano primitivo. Overbeck era un sicuro conoscitore della gnosi, e verosimilmente proprio a lui Nietzsche deve queste suggestioni. Lo Zarathustra della tradizione corrisponde dunque a due temi profondi del pensiero di Nietzsche: l'elemento orientale e pre-greco che si insinua nella Klassik, e la pulsione mitopoietica e religiosa. Ma, come ha mostrato Heidegger nel suo scritto Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, dietro a questa maschera arcaica si presenta il divenire del mondo moderno: "Il deserto cresce: guai a colui che favorisce i deserti", leggiamo nello Zarathustra; e il deserto è il nichilismo, la condizione di un mondo che si è sbarazzato di Dio ma che non è stato capace di sostituirlo con un uomo che durerà più di lui. Nella prefazione dello Zarathustra, la condizione del nichilismo è incarnata dall''ultimo uomo', come immagine precisa delT'uomo moderno' privo di trascendenza, ma fiero delle conquiste industriose della tecnica; è ancora la polemica contro la barbarie e la mescolanza degli stili, ma spostata dalla dimensione della critica della cultura a quella della predicazione della profezia, giusta il canone dello Zarathustra. "Si avvicinano i tempi dell'uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso. Ecco! io vi mostro l'ultimo uomo. 'Che cos'è amore? E creazione? E anelito? E stella?' - così domanda l'ultimo uomo, e strizza l'occhio. La terra allora sarà diventata piccola, e su di essa saltellerà l'ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce [...] Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: e chi sente diversamente va da sé al manicomio. 'Una volta erano tutti matti' - dicono i più raffinati e strizzano l'occhio. Oggi si è più intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: cosi la materia di scherno è senza fine [...] 'Noi abbiamo inventato la felicità' - dicono gli ultimi uomini e strizzano l'occhio." Ma il contro-movimento positivo di fronte all'avanzare del deserto non può consistere nella riabilitazione dei valori umanistici, come credeva il giovane Nietzsche; se, per una curva entropica, la storia universale ha seguito un destino di nichilismo, questo non è stato per una degenerazione degli ideali greci, bensì piuttosto perché essi si sono realizzati sin troppo bene, nel dominio umano sulla terra, nella potenza conoscitiva e industriale della scienza-tecnica, e nella inconsapevole morte di Dio che essa comporta. Qui Nietzsche si spinge di gran lunga di là dalla reazione romantica alla distruzione della tradizione per opera dei terrore rivoluzionario, e anche dall'ottimismo (solidale con il discorso dell'ultimo uomo) dei progressisti ottocenteschi. Il genio di Nietzsche, che inaugura qui una prospettiva che sostanzierà sistematicamente la filosofia heideggeriana della storia, è che al nichilismo dell'ultimo uomo va contrapposto l’oltreuomo, un tipo mai visto sulla scena della storia mondiale (benché in taluni momenti Nietzsche lo modelli sulle figure della civiltà del Rinascimento in Italia), capace non di restaurare valori che sono intimamente orientati verso il nichilismo, bensì piuttosto di costituire valori totalmente nuovi e impressionanti, perché difformi e oltraggiosi rispetto agli ideali dell'umanismo. (Di qui, un nuovo sguardo sulla crudeltà, il desiderio di dominio, la spietatezza; cfr. 1883-85, pref., 9: "Guardali i credenti di tutte le fedi! Chi odiano essi massimamente? Colui che spezza le loro tavole dei valori, il distruttore, il delinquente: - ma questi è il creatore": tutti elementi che risulteranno molto consonanti con il nazismo ma, almeno in parte, per un equivoco, perché il nazismo appare nella sua essenza di esaltazione della tecnica, del sangue, della terra e del popolo, come un movimento essenzialmente umanistico.) "Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo?" (ibid., 3); "L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso [...] io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione" (ibid., 4); e ancora, nel primo libro dello Zarathustra: "tu devi bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!" (Del cammino del creatore); "Morti sono tutti gli uomini: ora vogliamo che il superuomo vivai - questa sia un giorno, nel grande meriggio, la nostra ultima volontà!" (Della virtù che dona, 3). In che misura l'oltreuomo si distacca dai canoni nichilistici dell'umanismo? Tutta la lettura heideggeriana di Nietzsche (cfr. infra, II.2.3) è volta a mostrare come, di fatto, alla diagnosi del nichilismo europeo non corrisponda, nella riflessione nietzscheana, un contro-movimento sufficiente: l'oltreuomo non è il superamento dell'ultimo uomo, ma piuttosto il suo estremo germoglio. La volontà di dominio, che nell'oltreuomo si fa volontà di potenza, volere che vuole eternamente se stesso, costituisce l'ultimo bagliore del nichilismo, divenuto ora pienamente padrone di sé, ma incapace di autotrascendersi. La inquietante prossimità tra l'ultimo uomo e l'oltreuomo (come anche tra Zarathustra e lo 'spirito di gravità' che vuole confonderlo) costituisce però, e proprio in forza di questo, uno dei tratti più rilevanti dello Zarathustra. "Il popolo capisce poco ciò che è grande, cioè: la creazione. Ma esso ha comprensione per tutti gli attori e i commedianti delle grandi cause. Il mondo ruota intorno agli inventori di valori nuovi - invisibilmente esso ruota. Ma il popolo e la fama ruotano intorno ai commedianti: così va il mondo" (ibid., I, Delle mosche al mercato). Il lirismo dello Zarathustra sta dalla parte dell'oltreuomo o da quella dell'ultimo uomo? e, più precisamente, si può vedere la commistione fra oltrepassamento e farsa come un fallimento di Nietzsche, destinato a restare soltanto sulla soglia di una filosofia dell'avvenire, secondo l'interpretazione di Heidegger? o non bisogna piuttosto pensare che questa commistione faccia parte a tutti gli effetti del pensiero nietzscheano, del suo rifiuto della dimostrazione e della sua fedeltà al tema della maschera? In questa seconda ipotesi (che, come si vedrà più oltre, sta alla base delle esegesi sviluppatesi nel quadro della Nietzsche-Renaissance francese degli anni Sessanta: v. infra, II.3), lungi dal restare semplicemente al di qua del nichilismo, Nietzsche avrebbe inaugurato una filosofia della maschera molto meno 'metafìsica' e assertoria di quella di Heidegger. Certo, tutto il secondo libro dello Zarathustra, percorso da una tematica funeraria (Zarathustra si allontana dalla città recando con sé un cadavere; visita l'isola dei sepolcri dove riposa il suo sé passato; sogna di essere diventato un guardiano notturno di tombe), sembra descrivere le fasi di un auto-oltrepassamento e di una rinascita, dal vecchio uomo che vuole tramontare all'oltreuomo che deve rinascere dalle ceneri del vecchio e di là da esse. Ma nella dialettica tra ultimo uomo e oltreuomo non è possibile trovare un esito certo, e sarebbe forse far torto a Nietzsche attribuire a questa lotta tra il vecchio e il nuovo il decorso obbligato di una esperienza mistica. È proprio nel quadro di questa Mischung di ascesi e commedia che si può verosimilmente collocare il momento culminante dell'esperienza di Zarathustra, la visione dell'eterno ritorno che sta al centro del terzo libro. Sappiamo che l'idea dell'eterno ritorno si presentò a Nietzsche nell'agosto 1881, sulle rive del lago di Silvaplana in Alta Engadina, a "seimila piedi sugli uomini e sul tempo", come scriverà a Gast. Di contro alla rappresentazione cristiana di uno sviluppo lineare del tempo, con un principio, la Creazione, e una fine promessa, la Redenzione (una visione che si era secolarizzata in tutte le filosofie della storia), Nietzsche recupera la concezione arcaica di un ritorno circolare del tempo, senza creazione né redenzione. Karl Lowith, autore dell'opera basilare sull'eterno ritorno in Nietzsche, ravvisa qui un contromovimento arcaico che si oppone alla modernità giunta al suo apice; e Charles Andler, nella sua monografia nietzscheana, riepiloga le fonti di questa idea (i greci, Anassimandro, i pitagorici, Eraclito; e soprattutto gli stoici, originari dell'Asia Minore, nei quali Nietzsche vide un tramite verso le origini orientali dell'eterno ritorno, la Persia di Zarathustra, il brahmanesimo, il buddhismo; ma, ricorda Andler, nel 1878, un fisico, F.G. Vogt, nel suo libro Die Kraft, eine real-monistische Weltanschauung, aveva riproposto l'idea dell'eterno ritorno sulle basi della scienza moderna). Come è possibile che Nietzsche considerasse come il più alto e nuovo dei suoi pensieri un mito antico ma costantemente riapparso, anche nella modernità, ovunque ci si volesse opporre a una filosofia lineare della storia, o si volesse instaurare una cosmologia rigorosamente materialistica? Proprio qui, più che altrove, occorre tener presente la dimensione visionaria del pensiero del Nietzsche maturo. Il tratto dello Zarathustra in cui compare il mito dell'eterno ritorno si intitola La visione e l'enigma, e Zarathustra conclude il suo racconto sottolineando l'imperscrutabilità della propria esperienza: "Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire?" Tutto nella visione dell'eterno ritorno è ancipite: anzitutto, Zarathustra, che si confronta qui al suo doppio, il nano, lo spirito di gravità, che lo tormenta con qualcosa che ha a che fare con il difficile trapasso dall'uomo all'oltreuomo: "o Zarathustra, è vero, tu scagliasti la pietra lontano - ma essa ricadrà su di te" ("Wilamowitz, nella stroncatura alla Nascita della tragedia, aveva utilizzato un'espressione simile: chi scaglia fango contro il sole - contro la perfezione dell'umanità greca - è destinato a vederselo ricadere addosso). Ma è qui, nella visione, che si affaccia il tema dell'eterno ritorno; prostrato, Zarathustra si domanda quale sia il peso più duro da portare nella lotta per la trasvalutazione di tutti i valori e per il superamento del nichilismo; e gli si presenta l'idea che il peso estremo, l'immagine più deprimente, sia questo, che tutta la fatica sia destinata a ripetersi eternamente: "Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice 'Questo fu la vita? Orsù! Da capo!' " Come suggerisce Gilles Deleuze (1962), in questa accettazione incondizionata dell'esistenza si annida il principio pratico di una trasvalutazione. Volere eternamente quanto ci è accaduto, in ogni sua parte, è infatti la base per un pensiero che si porti al di là del bene e del male. Nessuno, infatti, in un mondo morale, può rinunciare alla prospettiva di cambiare, se non il mondo, almeno se stesso; la morale si costituisce entro un regno dei fini e delle trasformazioni. Ma l'eterno ritorno spezza qualsiasi teleologia e qualunque redenzione. Venuta meno la promessa di un cambiamento, ogni sentimento morale assume una tonalità nuova; non solo all'uomo morale è revocata la promessa di una diversa storia: ma soprattutto ogni bassezza, ogni meschineria, ogni pigrizia muta di senso. Il pigro si ripromette eternamente che domani lavorerà; ma una pigrizia che si voglia eternamente, una meschineria che non faccia conto di redimersi, una bassezza irrisarcibile - sono ancora la stessa pigrizia, la stessa meschineria, la stessa bassezza? Già qui, in un ultimo uomo che rinunci alla promessa di migliorare e si voglia eternamente, in un plebeo che non si collochi entro la dialettica di signoria e servitù, sembra risiedere uno dei volti dell'oltreuomo. Il rischio di questa prospettiva (o quanto meno la sua fondamentale duplicità) è che questo è anche l'avviso del nano che tormenta Zarathustra. A Zarathustra che gli mostra una porta carraia in cui confluiscono due sentieri, tutto il passato e tutto l'avvenire convergenti sulla soglia dell'attimo, a che non possono non incontrarsi in un decorso infinito, il nano risponde: "Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo!" ''Tu, spirito di gravità! [...]" risponde Zarathustra, "non prender la cosa troppo alla leggera! [...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - anche se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta!" Qui, sempre seguendo Deleuze, si apre la via di una seconda dimensione dell'eterno ritorno: non ogni cosa ritorna, non ogni risentimento e debolezza, ma solo ciò che è dotato di una potenza affermativa, e che merita di ripetersi. Non siamo troppo lontani dall'intreccio tra la storia monumentale e la storia critica nella Seconda Inattuale: i grandi modelli del passato, a cui Nietzsche non cessò di misurarsi, riappaiono eternamente come guida per tutto ciò che non vuole morire ed è in grado di trascendersi; quanto nel passato segna la debolezza di ogni essere finito, merita invece di essere superato, secondo le modalità della storia critica, e non sarà più in grado di tornare. Questa paradossale filosofia ottimistica della storia, costituita sulla negazione del progresso o della redenzione, risulta strettamente solidale con l'idea, che Nietzsche viene sviluppando in questo periodo e che acquisirà un risalto tematico dopo lo Zarathustra, della volontà di potenza come capacità affermativa, come trasvalutazione delle angustie e del risentimento che affliggono il volere (la volontà di potenza avvilita e negata) dell'ultimo uomo. E in questo senso che Nietzsche ritiene di avere oltrepassato il nichilismo ed è così che, per noi, il suo pensiero si colloca di là dalla semplice dimensione di compimento del nichilismo conferitagli da Heidegger. Il quarto e ultimo libro dello Zarathustra, imperniato sul "grande meriggio", sull'immagine di eternità che, attraverso il Ritorno, si è sottratta al transitorio di un mondo storico abitato dal nichilismo, rappresenterebbe in questo quadro la 'riuscita' dell'esperimento di Zarathustra e lo scioglimento del carattere enigmatico della sua visione. Come tuttavia questo meriggio eterno possa conciliarsi con I''innocenza del divenire' - e con il carattere dinamico della volontà di potenza - è un problema supplementare che complica la nostra intelligenza della visione di Zarathustra. 1.2.3 1886-1889. Il 'sistema' della volontà di potenza e l'euforia torinese Nell'inverno 1885-86 Nietzsche è a Nizza. Il 23 febbraio apprende che Rhode, il suo amico di gioventù, è stato chiamato alla cattedra di filosofia della Università di Lipsia: "Mi sembra un sogno di essere stato anch'io una volta una specie di tale animale speranzoso, philologus Inter philologos" (a Rhode). Estate a Sils Maria. Nietzsche progetta un'opera in quattro volumi sulla volontà di potenza, e un libro sull'eterno ritorno; ai primi di agosto esce Al di là del bene e del male, in edizione privata, sempre da Naumann; l'editore Fritsch, che ha acquisito i diritti delle opere di Nietzsche apparse dallo Schmeitzer, che è fallito, ripubblica La nascita della tragedia e Umano troppo umano, con nuove prefazioni di Nietzsche. Al di là del bene e del male provoca reazioni contrastanti: Burckhardt risponde in modo reticente. Hippolyte Taine scrive una lettera entusiastica, e da questo momento si adopererà sistematicamente per la diffusione del pensiero di Nietzsche in Francia, inverno 1886-87 a Nizza. Nietzsche apprende del fidanzamento di Lou con l'orientalista Andreas, e cade in una ulteriore crisi depressiva. Lettura di Dostoevskij: "a parte Stendhal, nessuno mi ha procurato un piacere e una sorpresa maggiori, ecco uno psicologo con cui mi intendo". A maggio stende un lungo (rammento sul nichilismo europeo, che sarà smembrato nella edizione della Volontà di potenza curata da Elisabeth Förster-Nietzsche. Dal 12 giugno è a Sils Maria, dove attende alle tre dissertazioni della Genealogia della morale, che uscirà in novembre da Naumann. Inverno a Nizza: "Dieci anni di malattia, più di dieci anni; e non semplicemente una malattia per la quale esistano medici e medicine. C'è qualcuno che sappia che cosa mi ha reso malato?" (12 novembre, a Overbeck). All'Opera italiana di Nizza sente nuovamente la Carmen. II 27 novembre 1887 riceve la prima lettera di Georg Bran-des, lo studioso danese di letteratura che contribuirà largamente alla diffusione del suo pensiero; questo interesse, insieme alla lettera di Taine, e poi di un lettore newyorkese, persuade Nietzsche di essere ormai un uomo famoso. Nietzsche si trattiene a Nizza sino al 2 aprile 1888, dove lavora a L'Anticristo, pensato inizialmente come una sezione dell'opera sulla volontà di potenza e sulla trasvalutazione di tutti i valori. Alla madre (e non alla sorella, come questa volle dare a intendere con una contraffazione): "lo spirito non è malato, solo la cara anima è malata". Da Nizza, Nietzsche si trasferisce a Torino, di cui trae una impressione entusiasmante: "Questa è davvero la città che adesso può fare per me"; gli uniformi palazzi settecenteschi gli ricordano una Residenz tedesca pre-rivoluzionaria, la Mole antonelliana gli appare come il simbolo della volontà di potenza. Nella tarda primavera porta a termine II caso Wagner, e apprende del ciclo di conferenze che Brandes gli ha dedicato all'Università di Copenaghen. Dal 5 giugno al 20 settembre, a Sils Maria, scrive il Crepuscolo degli idoli e raccoglie appunti per la Volontà di potenza. Ai primi di ottobre è nuovamente a Torino: Ecce homo è ultimato il 4 novembre, Nietzsche con tra Wagner il 15 dicembre; dal Naumann, intanto, è uscito II caso Wagner, e sono pronte per la stampa tutte le opere scritte in quest'anno. "Oggi io sono l'uomo al mondo più colmo di gratitudine - pieno di sentimenti autunnali in tutti i significati migliori di questa parola: questo è il tempo della mia grande mèsse". Nietzsche ha ormai rinunciato al progetto articolato di un'opera sulla trasvalutazione di tutti i valori, e ha deciso di considerare L'Anticristo come l'intera Trasvalutazione, e non come una parte di essa. "La mia 'Trasvalutazione di tutti i valori', sotto il titolo capitale L'Anticristo, è pronta. Nei prossimi due anni devo fare i passi per far tradurre l'opera in 7 lingue; la prima edizione in ogni lingua, circa un milione di esemplari" (a Paul Deussen, 20 novembre 1888). Nietzsche si trova in uno stato di euforia che prelude al crollo psichico che avrà luogo ai primi di gennaio dell'anno successivo; lo stesso giorno della lettera a Deussen scrive a Gast: "Nella mia 'attualità', piena in fondo di allegria e cattiveria, Lei troverebbe ispirazione per 1''operetta' forse più che in qualsiasi altra situazione: io faccio tante buffonate con me stesso e ho tali ispirazioni private da pagliaccio, che mi capita di ghignare mezz'ore intere per strada, non saprei trovare un'altra parola [...] In uno stato simile, io penso, uno è maturo per essere il 'redentore del mondo'? [..,] Venga..."; e in dicembre: "che lo spirito più profondo debba essere anche il più frivolo, questa è addirittura la formula per la mia filosofia". Accanto alio scherzo e all'operetta, Nietzsche coltiva il progetto di una 'grande politica': "Ormai siamo entrati nella grande politica, anzi nella più grande mai vista [...] Io propongo un evento che con ogni probabilità spaccherà la storia in due, fino al punto che avremo una nuova cronologia: a partire dal 1888 come l'anno Uno" (abbozzo di lettera a Brandes, mai spedita). Nonostante ciò, Nietzsche è pienamente in grado di seguire le vicende editoriali delle sue opere, rinvia con puntualità le bozze corrette; negli stessi giorni in cui progetta la grosse Politik scrive una lettera pacata a un ex collega di Basilea per ottenere un prestito destinato alla pubblicazione dei nuovi scritti. L''effondrement è alle porte. A Overbeck, il giorno di Natale: "Ciò che qui a Torino è notevole è la fascinazione totale che io emano [...] quando entro in un grande negozio ognuno muta faccia". Nietzsche si sente chiamato alla redenzione del mondo. Redige un promemoria per le corti europee contro il Reich tedesco; tenta di entrare in contatto con il re d'Italia, Umberto II; nomina proprio ambasciatore a Parigi il redattore della Revue des deux mondes con cui era stato messo in contatto da Taine per la traduzione francese delle sue opere; definisce le sorti dell'Alsa-zia-Lorena. Il 30 dicembre scrive ad August Strindberg: "Ho convocato un congresso di sovrani a Roma [...] Nietzsche Cesare"; il giorno successivo, a Gast: "il mio indirizzo non lo conosco più: supponiamo per ora che potrebbe essere il palazzo del Quirinale". All'inizio di gennaio è la volta dei cosiddetti 'biglietti della follia', indirizzati a Gast, Strindberg, Overbeck, Burckhardt, Brandes e firmati (per una finale ambiguità) - ora "Dioniso" ora "Il Crocifisso". Tra questi biglietti spicca la bella lettera a Burckhardt del 6 gennaio 1889, dove risuonano tutti i nuclei profondi della riflessione nietzscheana (il rapporto con la storia, il problema della trasvalutazione e della redenzione, la volontà di potenza e la labilità dell'identità personale, la maschera e la farsa), ma riproposti con una tonalità infantile che a ben vedere è la caratteristica più tipica dell'intera personalità di Nietzsche: "Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da omettere, per causa sua, la creazione del mondo. Come vede, bisogna fare sacrifici, comunque e dovunque si viva [...] Quel che è sgradevole e nuoce alla mia modestia è il fatto che in fondo io sono ogni nome della storia; anche per i figli che ho messo al mondo le cose stanno in modo tale che rifletto con una certa diffidenza se tutti quelli che vengono nel 'regno di Dio' vengano anche da Dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito il minimo possibile, ai miei funerali, la prima volta come conte Robilant (no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio io. [...] Vado dappertutto nel mio vestito da studente. Ogni tanto batto sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura... Domani viene mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che però riceverò ugualmente in maniche di camicia... Il resto per la signora Cosima... Arianna..." Avvertito da Burckhardt, Overbeck giunge a Torino l'8 gennaio; cantando una canzone napoletana, Nietzsche sale con lui sul treno che deve portarlo a Basilea, in clinica. Le sue condizioni peggiorano ulteriormente, e viene trasferito a Lipsia. Escono nel frattempo Il crepuscolo degli idoli, Nietzsche contra Wagner, Ecce homo. Il 24 marzo 1890 Nietzsche lascia la clinica, e viene condotto dalla madre nella casa di Naumburg. Nuovo peggioramento delle sue condizioni: Nietzsche parla con crescente difficoltà, urla, mentre il suo volto è sereno, tenta di annegarsi (il decorso della malattia è descritto da Thomas Mann nel Doktor Faustus, sotto la maschera della follia del compositore Adrian Leverkiihn). Il 20 aprile 1897 muore la madre, e la sorella lo porta con sé a Weimar, dove si sta costituendo l'Archivio Nietzsche. Qui muore il 25 agosto 1900, verso mezzogiorno. Quanto della riflessione nietzscheana, nel suo insieme o quantomeno nell'ultimo periodo, sia segnato dalle stigmate della follia, è un problema che ha interessato critica e clinica (le prime opere sulla pazzia di Nietzsche uscirono molto presto, sin dall'inizio del Novecento, v. infra, II. 1.2). La questione sembra però mal posta, e sicuramente lascia troppo spazio all'arbitrio ermeneutico dei singoli. Tanto più che paradossalmente, il periodo della riflessione nietzscheana che ha maggiormente influito sul pensiero del Novecento è proprio quello che, cronologicamente, è più a ridosso dell'euforia torinese: da Baeumler e Heidegger a Deleuze, è anzitutto il Nietzsche pensatore della volontà di potenza che ha sortito i maggiori esiti ermeneutici, orientando retrospettivamente anche gli sguardi gettati sul Nietzsche filologo o 'illuminista'. Su tutto il problema del rapporto tra follia e filosofia in Nietzsche, sembra largamente condivisibile il parere di Foucault nella Storia della follia: non ha troppo senso, né teoricamente né praticamente, vagliare nel corpus nietzscheano ciò che si ritiene indenne dalla pazzia, e ciò che viceversa ne sarebbe toccato; la follia, in Nietzsche come in Hòlderlin o in Van Gogh, traspare non nell'opera, ma nel silenzio che segue al definitivo crollo psichico; sino a che disponiamo di testimonianze scritte, e anche nel caso dei biglietti della follia, ci troviamo di fronte a qualcosa che non è follia, ma pensiero, e che si riallaccia con coerenza all'intero corso speculativo che lo ha preceduto. Tutto l'ultimo periodo del pensiero di Nietzsche è impegnato nel progetto di una summa teoretica intorno alla trasvalutazione di tutti i valori e alla volontà di potenza. Grazie alla pubblicazione dei frammenti postumi di questi ultimi anni nella edizione Colli-Montinari, possediamo un gran numero di piani preparatori e indici di questo Haupt-werk (a cui, come si è visto, Nietzsche rinuncerà negli ultimi mesi del 1888). Uno dei più completi, datato "Sils Maria ultima domenica del mese di agosto 1888", si presenta nel modo che segue: "La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di rutti i valori. Noi iperborei (impostazione del problema). Libro primo: che cos'è la verità?; Libro secondo: origine dei valori; Libro terzo: Lotta dei valori. Passatempo di uno psicologo; Libro quarto: II grande meriggio". Altrove viene dettagliata la morfologia della volontà di potenza (come natura, vita, società, volontà di verità, religione, arte, morale, umanità). E sulla base di questi piani, non senza omissioni e falsificazioni, e in genere in modo filologicamente arbitrario, che la sorella di Nietzsche ricavò un'opera riprendendo i testi preparatori e conferendo a essi un andamento aforistico (mentre, come si vede per esempio nella Genealogia della morale, ma in genere in tutte le opere dell'ultimo periodo, Nietzsche sembra maggiormente interessato a conferire ai propri scritti un impianto organico e unitario). Dopo una prima edizione in circa 600 paragrafi, uscirà nel 1906 la cosiddetta edizione 'definitiva' della Volontà di potenza, con 1067 paragrafi; è su questa edizione che si eserciterà l'intelligenza europea del Novecento, a partire da Heidegger, che proprio a essa dovrà il suo incontro con Nietzsche. Le circostanze congiunte della manipolazione editoriale e della smisurata fortuna esegetica fanno sì che l'idea della volontà di potenza appartenga almeno in uguale misura a Nietzsche e ai suoi eredi novecenteschi. - dalla sorella a Heidegger e a Deleuze. Ma il concetto di Wille zur Macht sviluppa coerentemente, e riassume in se, tutto il cursus della riflessione nietzscheana. Si muove anzitutto dalia acquisizione fondamentale del periodo 'illuministico', il fatto cioè che la realizzazione della critica non deve consistere nella legittimazione o delegittimazione dei valori esistenti, bensì nella creazione di nuovi valori. Così per esempio nell'aforisma 211 di Al di là del bene e del male: "Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano 'così deve essere!': essi determinano in primo luogo il 'dove' e l"a che scopo' degli uomini e così facendo dispongono del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di tutti i soggiogatori del passato - essi protendono verso l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro 'conoscere' è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è volontà di potenza". L'ottimismo di Socrate morente, spiritualizzatosi nella fede in un mondo delle idee in Platone e poi divenuto universale attraverso il cristianesimo e la coscienza, ha imposto l'immagine ingannevole di una verità oggettiva e di un amore disinteressato per il vero. Di fatto, l'amore per il vero e l'ascesi dello scienziato o del santo non sono che la metamorfosi di una volontà di potenza che si ignora, e si finge oggettiva: nascondendosi il fatto che ogni conoscere è interpretare, far valere giudizi e interessi, punti di vista più o meno soggettivi (ma anche il soggetto, scrive altrove Nietzsche, non è che una interpretazione, una formazione della volontà di potenza, un risultato). La conoscenza e la morale, strettamente associate, si configurano così come formazioni reattive: di fronte all'immagine dell'onnipotenza pervasiva della volontà nella scienza e nel comportamento, gli uomini si ritraggono atterriti, e edificano strutture protettive, per ripararsi da una rivelazione di cui avvertono il peso insostenibile. Ma anche nello schiavo si annida la volontà di potenza, così come nello scienziato, nell'asceta o nel martire. Accade così, per un verso, che lo sviluppo di questa volontà dissimulata pone capo al nichilismo europeo, alla progressiva revoca di ogni trascendenza, all'avanzare del deserto. La volontà di potenza che si auto-nega. l'uomo, quell'animale che ha escogitato il più gran numero di accorgimenti per autoannientarsi, si spinge sino a negare ogni valore, a vanificare, con ottimi argomenti, ogni fiducia nel fondamento e nella oggettività; ma non per questo il volere cessa di misconoscersi: esso viene inteso o come una semplice facoltà psicologica, oppure come una dimensione terribile, che pertanto deve anzitutto limitarsi (è il caso della noluntas schopenhaueriana). "I filosofi sono soliti parlare della volontà come se fosse la cosa più nota di questo mondo [...] il volere mi sembra soprattutto qualcosa di complicato, qualcosa che soltanto come parola rappresenta una unità" (1886a, aforisma 19); "Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: - questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col pensiero" (ibid., aforisma 23). Tematizzare la volontà di potenza significa allora portare allo scoperto il rimosso di tutto il pensiero metafisico, la dimensione energetica e prospettica che si nasconde dietro il pathos per la verità e per il martirio. Questo comporta certo un disincanto da esprit fort, ma in sé la scoperta della portata pervasiva del volere non ha nulla di tragico o di deprimente. Il vaso di Pandora ci mostra non una volontà unica e terribile, ma una molteplicità di voleri in lotta fra loro, una potenza affermativa e liberatrice, una leggerezza che l'umanità si era negata attraverso le barriere reattive volte a controeffettuare la volontà di potenza, a avvilirla o a dissimularla. Certo resta da spiegare - e proprio su questo, in sostanza, si eserciterà gran parte della esegesi nietzscheana del Novecento - la contraddizione cruciale insita nel Wille zur Mackt: per quale motivo, se la volontà di potenza come assenso nei confronti della vita costituisce una dimensione affermativa, e dunque destinata a prevalere - la storia ci mostra invece l'eterna commedia della dissimulazione del volere, il predominio delle forze reattive, la volontà di nulla e i tormenti con cui si affligge l'animale umano? C'è tuttavia - e questa, probabilmente, resta l'ultima parola di Nietzsche sulla volontà di potenza - una dimensione in cui il Wille zur Macht ha potuto dispiegarsi liberamente nella storia mondiale. Questa dimensione è l’arte, come costante ricreazione di forme, di stili e di maschere tese a potenziare la vita, e non a mortificarla come nel caso della conoscenza e della morale. È così che questo demier mot si riallaccia al progetto giovanile di redenzione estetica del mondo. "L'arte e nient'altro che l'arte! Essa è la grande creatrice delle possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere. L'arte come l'unica forza antagonistica superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita, come l'elemento anticristiano, anti-buddhistico, antinichilistico per eccellenza. L'arte come la redenzione dell'uomo della conoscenza: di colui che scorge il carattere spaventoso e problematico dell'esistenza, anzi lo vuole scorgere, di colui che ha la conoscenza tragica. L'arte come la redenzione dell'uomo d'azione: di colui che non solo scorge e vuole scorgere il carattere spaventoso e problematico dell'esistenza, ma anche lo vive, vuol viverlo, dell'uomo tragico bellicoso, dell'eroe. L'arte come la redenzione del sofferente: come la via verso condizioni nelle quali la sofferenza è voluta, trasfigurata, divinizzata, in cui la sofferenza è una forma della grande delizia" (Frammenti postumi, maggio-giugno 1888, 17 [3]). "La grandezza di un artista non si misura dai 'bei sentimenti' che egli suscita: lo credano pure le donnette. Bensì dal grado in cui si avvicina al grande stile, dal grado in cui è capace di grande stile. Questo stile ha in comune con la grande passione il fatto che disdegna di piacere, che dimentica di persuadere, che comanda, che vuole [...] Dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma: a diventare logico, semplice, univoco, matematico, legge: è questa, qui, la grande ambizione. Con essa si respinge; niente eccita più l'amore per tali uomini della violenza - intorno ad essi si forma un deserto, un silenzio, una paura come di fronte a un grande sacrilegio" (ibid., primavera 1888, 14 [61]). [...] La filosofia di Nietzsche "alla luce della mia esperienza"Negli anni trascorsi dalla prima pubblicazione di questo libro il Novecento che sta nel titolo è diventato il secolo scorso. Malgrado ciò, sono molto affezionato a questo lavoro, e ne condivido soprattutto il tratto che, forse, gli ha permesso di affrontare la prova, se non dei secoli o magari dei millenni (non voglio barare, il secolo e il millennio in cui il libro è uscito erano agli sgoccioli), almeno di un paio di decenni, che è davvero un bel traguardo. Questo tratto è l'amore per il suo oggetto, per Nietzsche, un amore controverso che negli anni, come è naturale che sia, ha attraversato momenti buoni e cattivi, e che sin dall'inizio non era univoco. Per intenderci, le stelle fisse del mio rapporto con Nietzsche sono lo Zarathustra, che ho sempre trovato ridicolo, già da ragazzo, e le Lettere da Torino, che invece ho sempre amato; su tutto il resto, ho cambiato in forma maggiore o minore i miei giudizi, senza per questo toccare la sostanza della interpretazione. Su questo piano, avrei solo una riconsiderazione da fare, e riguarda il ruolo della sorella, di Elisabeth, nella gestione dei testi. Nel 1989 accettavo ancora la versione dominante secondo cui Elisabeth avrebbe falsificato i testi del fratello orientandoli in senso protonazista. Era la vulgata, che come tanti avevo preso per buona, anche perché aveva il vantaggio di rendere meno problematica la lettura di Nietzsche che, come si sarà visto nella ricostruzione della fortuna, dagli anni sessanta in avanti aveva ricevuto molte e importanti interpretazioni di sinistra, che ne avevano fatto una specie di comunista. Così, mi dicevo io, e si dicevano tanti altri, le cose che non vanno le avrà aggiunte quella nazista di sua sorella. Ma i conti non tornavano. Da una parte, i frammenti postumi pubblicati nella edizione Colli-Montinari, presentati come gli "originali" falsificati dalla sorella in opere come La volontà di potenza, mi sembravano tali e quali, per contenuto, stile e indole politica, a ciò che per l'appunto avevo letto nella Volontà di potenza. D'altra parte, con il tempo mi imbattevo in una evidenza grossa come una casa, o almeno come la lettera rubata nella novella di Poe: i testi che Nietzsche aveva pubblicato nel pieno dei suoi spiriti grondavano di affermazioni irricevibili, non dico da un comunista, ma da un socialdemocratico o da un democristiano, per rifarci al panorama politico della Prima Repubblica che proprio negli anni in cui usciva il mio libro si stava avviando verso la fine. Erano frasi che tuonavano contro l'uguaglianza tra gli uomini, contro la parità tra uomini e donne, contro gli ideali di giustizia come equità, frasi contro la ragione, e che inneggiavano alla violenza di aristocratici, superuomini e belve bionde ai danni degli schiavi, dei deboli, persino dei neri (non dimentichiamo l'agghiacciante etimo di "malus", cattivo, dal greco "melas", nero, nella Genealogia della morale). Ed erano lì, sotto gli occhi di tutti. Come si era potuto fingere che non ci fossero, magari considerando Lukàcs, che lo aveva detto, come un vecchio arnese, anzi come un vecchio pazzo? E sì che, rispetto agli interpreti degli anni sessanta e settanta, Lukàcs aveva il vantaggio incomparabile di avere vissuto nella Germania degli anni venti, di aver visto con i suoi occhi che tipo di cocktail infernale si poteva creare a partire da quelle affermazioni. Adesso credo di aver capito che cosa stava alla base della seduzione di Nietzsche a sinistra, che non corrispondeva a niente di quello che si poteva leggere nei suoi testi a proposito di politica in senso costruttivo. Era, puramente e semplicemente, il fascino di affermazioni irricevibili da un democristiano o da un socialdemocratico, e forse anche da un comunista nello stile di Berlinguer, che allora era considerato troppo "a destra". Ciò che si reputava come recuperabile "a sinistra", dunque, erano l'estremismo e l'estetismo, effettivamente incompatibili con la politica parlamentare, con la democrazia, con lo stato di diritto - che allora, incomprensibilmente, molti intellettuali erano portati a vedere come di destra, come semplice espressione della reazione e della conservazione. "Né con lo stato, né con le Br", aveva detto Moravia, e in quello stesso giro d'anni Foucault aveva inneggiato all'ascesa al potere degli Ayatollah in Iran. Non sarebbe la prima volta che si verifica un simile sortilegio, che ricorda la madornale affermazione di Baudelaire "trono e altare, massima rivoluzione!". Andando avanti negli anni, mi è parso necessario fare i conti con queste contraddizioni, anche per venire a capo del mio rapporto con Nietzsche. Sul piano della questione dei testi, poco dopo la pubblicazione di questo libro, nel 1992, proposi sempre da Bompiani, insieme al mio amico Pietro Kobau, una riedizione della Volontà di potenza munita di tavole di concordanza che permettessero di confrontare i testi lì raccolti da Elisabeth e da Gast con quelli pubblicati nei frammenti postumi della edizione Colli-Montinari. L'edizione era accompagnata da una lunghissima postfazione in cui raccontavo la storia della volontà di potenza: come quella idea avesse preso forma nella mente di Nietzsche, già molto presto, al tempo degli studi su Teognide e dell'apprendistato filologico; come si fosse sviluppata nel corso del suo cammino di pensiero; che cosa ne avessero fatto gli eredi. E dicendo "eredi" non parlo solo di Elisabeth e Gast, che avevano composto un'opera apocrifa, per quanto adoperando soltanto testi di Nietzsche e seguendo un suo piano, ma anche di Colli e Montinari i quali, negando l'evidenza, asserivano che a un certo punto Nietzsche, alla fine del 1888, aveva rinunciato alla Volontà di potenza. Il che, a ben vedere, aveva l'aria di un pentimento in extremis, quasi il gesto di Adrian Leverkühn, il Nietzsche di Thomas Mann, il compositore ormai pazzo che nel Doctor Faustus cerca di salvarsi l'anima annegandosi. Rigettando la Volontà di potenza (l'opera e il concetto) Nietzsche si sarebbe scrollato di dosso tutto il male che, nel Novecento, e non solo ad Auschwitz, ma anche a Dresda, a Hiroshima, a My Lai, a Kabul, a Guantanamo... è stato un trionfo della volontà, Trìumph des Willens, proprio come nel film di Leni Riefenstahl del 1935. Già, ma, ammesso e non concesso che Nietzsche avesse rifiutato all'ultimo momento, e avviandosi verso la follia, la volontà di potenza che aveva coltivato quando era nel pieno delle sue facoltà, che cosa sarebbe rimasto del suo pensiero? That is the question. Risolto il problema testuale, almeno per me, appurato (o meglio detto a chiare lettere e non a mezza voce) che le frasi irricevibili di Nietzsche erano farina del suo sacco, restava appunto da fare i conti con il suo pensiero. Ho appena citato Mann, che pressappoco all'epoca del Doctor Faustus pubblicava una raccolta di scritti su Nietzsche intitolata Nietzsches Philosophie im Lichte un-serer Erfahrung, "La filosofia di Nietzsche alla luce della nostra esperienza". Quando Mann diede alle stampe quel libro, aveva alle sue spalle, vista da vicinissimo, l'esperienza del Nietzsche filosofo della vita, mitomane ed eroico letto da Bertram nella Monaco degli anni venti, il tempo in cui Spengler pubblicava Il crepuscolo dell'Occidente, Mann le Considerazioni di un impolitico - e Hitler tentava il Putsch nella birreria. Poi, visto da lontanissimo, dal 1550 di San Remo Drive a Pacific Palisades, dove scrisse il Doctor Faustus, lo spettacolo del crollo della Germania. La mia esperienza è incomparabilmente più modesta, insieme meno avventurosa, meno grande, e assai meno nibelungica. Inizia intorno al 1977 con la lettura - sull'onda dell'Antiedipo di Deleuze e Guattari - di Nietzsche e la filosofia di Deleuze, o di Le parole e le cose e dell 'Archeologia del sapere di Foucault, passa attraverso gli anni di piombo e la Milano da bere e (proprio nell'anno in cui esce questo mio libro, ricordo che ero in Germania e vedevo tutti i giorni alla televisione i segni premonitori) il crollo del muro di Berlino. Il 1989, in un più domestico scenario, è anche l'anno della svolta della Bolognina in cui Occhetto liquidava un Partito comunista che, ben lungi dall'apparire troppo conservatore, risultava, nel mondo nuovo, ancora troppo di sinistra. L'esito di questa storia minore non è stata la catastrofe di Hitler a Berlino, bensì Tangentopoli e il successivo trionfo del populismo mediatico che sembra incarnare un altro dei chiodi fissi di Nietzsche, il sogno della fama, di una politica spettacolo con grandi tirature, e soprattutto costituisce l'attuazione pratica del suo principio secondo cui "non ci sono fatti, solo interpretazioni". Alla luce di questa esperienza di testimone secondario di fatti in gran parte laterali, le convinzioni che mi sono fatto su Nietzsche sono pressappoco quelle che vorrei ora sottoporre al lettore, pregandolo di adoperarle per integrare le analisi svolte nel libro che ha appena finito di leggere. Ci sono filosofi passati alla storia per avere inventato delle teorie, e altri che invece sono famosi per ciò a cui si sono opposti, e per un certo stile che hanno introdotto in filosofia. Nietzsche sembra di gran lunga il rappresentante più illustre della seconda specie, e lo ha teorizzato apertamente: Kant, in fondo, è un "operaio della filosofia", si limita a giustificare i valori esistenti, e così hanno fatto tutti i filosofi che lo hanno preceduto, a incominciare da Platone. Per sé, Nietzsche si immagina altri compiti, quelli, per l'appunto, della creazione di nuovi valori, cioè non solo di una comprensione o descrizione del mondo com'è, ma anche di una trasformazione della realtà. Alla fine del suo percorso, nell'euforia torinese, sembra addirittura deciso a passare a vie di fatto, come quando si propone di regolare il contenzioso franco-tedesco sull'Alsazia-Lorena, di far fucilare il Kaiser, di stabilire la propria residenza al Quirinale. Difficile immaginare Kant intento a baloccarsi con propositi tanto magniloquenti, e con questo il caso sembrerebbe chiuso: Nietzsche è semplicemente un megalomane, un prepotente e, alla fine, un pazzo. Un pazzo si, certamente, alla fine, questo è poco ma sicuro. Così come è difficile, d'altra parte, stabilire quando, esattamente, si incomincia a respirare l'aria della fine, quando la pazzia irrompe nelle opere, e quando invece abbiamo ancora a che fare con il radicalismo filosofico e la voglia di stupire, che è indubbiamente uno dei sentimenti predominanti di Nietzsche. Tuttavia, c'è qualcosa che può far riflettere. Di certo, Nietzsche non parla pro domo sua. I valori che vuol celebrare (la forza, la spregiudicatezza, l'amoralità) lo mettono all'angolo, nel senso che lui sembra l'archetipo di coloro che, alla luce delle sue teorie, avrebbero dovuto soccombere. Un uomo solo, sempre più solo, che ha sbagliato tutto nella vita, si propone di farsi maestro di saggezza per i contemporanei e per i posteri. Un uomo segnato nel profondissimo dalla educazione cristiana (padre pastore, madre bigotta, sorella baciapile, scuola religiosa, un anno di teologia all'università...) si presenta come Dioniso e come l'Anticristo, o addirittura (a suo modo, è anche peggio) come il Crocifisso. Un uomo che ha sopportato oltraggi e soprusi, e che ha mille ragioni per essere risentito, esalta la volontà di potenza, Cesare Borgia, Napoleone, Alessandro Magno. Un uomo la cui vita, da un certo punto in avanti, almeno, è stata tormentata da dolori fisici di ogni sorta, si consola con l'eterno ritorno, ossia la teoria secondo cui ogni singolo istante, con i mal di denti, i mali agli occhi, i mal di testa che possono averlo segnato, tornerà eternamente, in un circolo senza fine. Ecco, questo indubbiamente sembra deporre contro Nietzsche, che vaneggia e comunque pensa contro se stesso. Ma fino a che punto depone contro? In fondo, lui ha dato voce al sentimento forse meglio diffuso tra i moderni: il borghese che se la prende con i borghesi, il tedesco che disprezza i tedeschi, il professore che sbeffeggia i dotti. L'idea che la filosofia sia critica del proprio tempo e del proprio mondo, così corrente da un secolo a questa parte, non sarebbe forse stata possibile senza Nietzsche. Che - rispetto a contestatori più attrezzati e sistematici, come Marx - manifesta anche il tono un po' sgraziato, dell'adolescente scontento di tutto, maligno, e incapace di reagire (in effetti, la sua vita si può ridurre a una adolescenza protratta sino a una crisi della mezza età che gli risultò fatale). Ora, come si arriva a questa situazione, come si diventa quelli che si è? Quando incomincia a fare lo spirito libero, all'incirca alla fine degli anni settanta, dopo il pensionamento da Basilea, Nietzsche si atteggia a illuminista: bisogna guardare senza remore né falsi pudori i pregiudizi morali, bisogna fare l'analista disincantato. Qui si vede bene l'azione di Paul Rèe, suo amico di quegli anni, e, contemporaneamente, la ribellione, a lungo segreta, contro la scuola e l'università, e quasi ancor più contro la madre e la sorella, che di questi pregiudizi erano l'incarnazione. Questo, all'epoca di Umano, troppo umano e di Aurora, in quello che per l'appunto viene chiamato periodo "illuminista" di Nietzsche, per contrapposto all'idealismo romantico-wagneriano che caratterizza l'opera di esordio, La nascita della tragedia. Sulle prime, sembra un elemento lieve e dissacrante, una liberazione dal passato, un tardivo marinare la scuola: dove ci hanno raccontato che c'erano gli ideali sommi, in realtà troviamo vizi, debolezze, inerzie, paure, calcoli e secondi fini. Nel salotto di pensioncine italiane o svizzere, il professore, un po' deluso e un po' pettegolo, si diverte a tagliare i panni addosso ai santi e agli eroi a beneficio di un pubblico di dame anziane e wagneriane, o di militari in pensione. La vicenda, all'inizio e malgrado le arie sublimi che Nietzsche si è sempre dato, ha un aspetto gozzaniano, non stupirebbe di sorprendere, inorridita intorno al fuoco per gli spropositi del professore tedesco, anche la signorina Felicita. Ma se guardiamo a opere di pochi anni dopo, come Al di là del bene e del male, o, ancor più, la Genealogia della morale, questi stessi temi hanno preso un tono torvo e disperato. Che cosa è successo, nel frattempo? Da una parte, il naufragio umano di Nietzsche, il suo crescente isolamento (ha rotto con i wagneriani, gli amici non sopportano più le sue sparate e i suoi paradossi, i libri deve pubblicarli a sue spese), che culmina nel fallimento del progetto di vita comune con Lou Salomé, che ha scelto Paul Rèe. Dal tentativo di medicare questa ferita, nasce, come è tipico in Nietzsche, l'autodivinizzazione di Così parlò Zarathustra, in cui veste i panni del profeta e del fondatore di religioni. Se consideriamo poi che la vicenda con Lou lo aveva messo in urto anche con la madre e la sorella, che avevano pesantemente interferito, non è difficile immaginare la penosa gravità della situazione; tanto più penosa in quanto, persa ogni speranza con Lou, Nietzsche torna all'ovile, con atteggiamento ben poco superumano, e riallaccia i rapporti con mamma e sorella - tranne poi maledirle in extremis, in Ecce homo, nel dicembre del 1888, in pieno crollo, vedendo in loro, definite come "canaille", l'obiezione più pesante e dolorosa all'eterno ritorno. Bastano queste vicende troppo umane a giustificare il tono teso e tetro della Genealogia della morale? Ovviamente no. Già nell'esplosione semireligiosa dello Zarathustra il centro è rappresentato per l'appunto dalla nozione (che non ha più nulla a che fare con la critica della cultura) di "eterno ritorno", una teoria che Nietzsche giustifica con argomenti fisici e metafisici, tratti dal dibattito scientifico dei suoi tempi e da reminiscenze greche: se l'universo è composto da un numero finito di elementi, allora in tempi lunghissimi, ma non infiniti, ogni istante presente dovrà tornare, i morti rinasceranno e torneranno a morire, e tutto sarà consegnato all'eternità. Se la signorina Felicita avesse sentito queste cose, chissà come l'avrebbe presa; quello che è sicuro, tuttavia, è che, quando raccontò la sua teoria a Lou e a Rèe, loro se ne fecero delle matte risate. Perché loro erano dei critici della morale, mentre Nietzsche, nel bene e nel male, stava diventando un filosofo. È ciò che avviene anche nell'altra nozione fondamentale in cui Nietzsche viene a capo intorno alla seconda metà degli anni ottanta, anche lì trafficando con libri di fisica, di chimica, di astronomia (le sue letture predilette sin da quando era professore a Basilea). Mi riferisco ovviamente alla volontà di potenza. L'idea di Nietzsche, che come ho detto incubava sin dai primi studi filologici è che il mondo sia fatto di atomi dotati di una forza interna (una reminiscenza delle monadi di Leibniz), che si scontrano per sopraffarsi. La sola cosa che conta, per le monadi e per Nietzsche, è per l'appunto la lotta, l'aggressione, l'urto, non la felicità, non l'utile, ed evidentemente nemmeno la morale, dal momento che qui stiamo affrontando livelli di realtà che riguardano atomi, corpuscoli, microrganismi, cellule, amebe... Dunque, ciò che all'inizio delle riflessioni di Nietzsche appariva come una riduzione della morale all'utile si trasforma in qualcosa di più sinistro, l'idea che l'umanità, e la natura nel suo insieme, non persegua altro che la potenza, anche a scapito della felicità e della stessa sopravvivenza. C'è un vulcano che esplode e trascina al di là della vita, con la forza di qualcosa di molto potente e insieme di molto basso, di primario. Non è difficile sentire, ricordavo vent'anni fa, l'eco di Schopenhauer. È anche facile riconoscere delle assonanze con il Freud di Al di là del principio di piacere, dove ad avere l'ultima parola nella lotta tra eros e thanatos è la pulsione di morte come destino e desiderio profondo del vivente. Come sappiamo, Freud, con quello che è un bellissimo lapsus da psicoanalista, disse che aveva deciso di non leggere Nietzsche temendo che l'affinità tra le sue dottrine e la psicoanalisi avrebbe compromesso la scientificità di quest'ultima. Ma, attenzione, tra il pessimismo di Schopenhauer e di Freud e quello di Nietzsche c'è una differenza fondamentale. I primi due predicano la rassegnazione, il riconciliarsi con il proprio destino mortale, l'abbandonare, se mai, la volontà. Nietzsche, no. Il suo pessimismo non è una dottrina di rassegnazione, al contrario, sembra trasformarsi in un principio attivo, nella esaltazione della potenza e di quello che comporta. Ecco il punto. Nietzsche, la volontà di potenza, non si è limitato a trovarla e ad analizzarla. A un certo punto, ha pensato di doverla attuare, o ha sperato che qualcuno la attuasse per lui. Lo dice in Ecce homo: verrà un giorno in cui ci saranno delle cattedre destinate all'insegnamento dello Zarathustra. E quel giorno è venuto, nel Terzo Reich, c'è poco da nasconderselo o dire che non era esattamente così. No, è proprio così, è alla lettera così: se c'è stata una nazione e un'epoca in cui Nietzsche sembra essersi realizzato è stata proprio la Germania tra il 1933 e il 1945. Sappiamo che i nazisti non avevano certo bisogno di Nietzsche per fare quello che hanno fatto, che Nietzsche non è affatto antisemita, che semmai è antitedesco ecc. Ecco, tutte queste cose le sappiamo, e non è nemmeno il caso di rinvangarle. Così pure, una politica aggressiva come quella della Germania si potrebbe benissimo spiegare con motivi di utilità, alla faccia della volontà di potenza, per esempio con la necessità di superare attraverso la guerra la crisi economica, con la ricerca dello spazio vitale e così via. Certo, all'inizio è così, ma poi si arriva a un momento cruciale, in cui nella lotta scompare l'utile, e la volontà di potenza mostra il suo volto intero. Se dovessimo immaginare la massima realizzazione della volontà di potenza, quasi calligrafica nella sua perfezione, non dovremmo pensare, poniamo, al vantaggioso Blitzkrieg contro la Francia del 1940, dovremmo piuttosto guardare alla lotta mortale tra la Wehrmacht e l'Armata rossa da Stalingrado in avanti. La Germania che soccombe, le tempeste di acciaio, la guerra totale di Goebbels e poi, il 19 marzo 1945, il cosiddetto "Ordine Nerone" di Hitler, l'ingiunzione di distruggere tutto l'apparato produttivo della Germania per non lasciarlo in mano ai russi, e in fondo anche per punire i tedeschi che non si erano rivelati all'altezza dello scontro. Ecco, alla fine, addirittura, Hitler sembra aver tifato per i russi, in perfetta coerenza con l'idea che, se loro si erano rivelati i più forti, erano necessariamente i migliori. Difficile trovare un giudizio più nietzschiano di questo, una interpretazione più coerente della volontà di potenza. Ovviamente, sarà sempre possibile, e giusto, ricordare come Nietzsche non poteva prevedere niente, non aveva secondi fini, era solo di una sconfinata ingenuità politica e sociale. Inoltre, è facile prevedere che, scontento di ogni governo - con quel fondo anarchico che fa da controcanto ideale alla reale sottomissione a regole di ogni sorta che caratterizzò la sua vita - avrebbe trovato da ridire anche sul nazismo. Insomma, abbiamo a che fare, semmai, con un vaso di coccio tra vasi di ferro, nulla in lui manifesta l'orgoglioso dominio di sé di un nietzschiano come Ernst Junger, che è stato davvero un eroe di guerra, mentre Nietzsche si limitò a prendersi la dissenteria lavorando come infermiere, e che assiste impassibile al crollo della Germania. Chissà come si sarebbe comportato, Nietzsche, sotto un bombardamento, lui che mandava in giro la sua foto in uniforme da artigliere, con uno spadone che tocca per terra. Questo, però, spiega qualcosa, ma non giustifica niente; e dire che Nietzsche non aveva nulla a che fare con il nazismo perché era inetto e impolitico non è certo un argomento. Una volta che si sia riconosciuto questo, non vengono affatto meno le ragioni per leggere Nietzsche, al contrario: sono le contraddizioni che fanno la musica, in questo caso davvero inconfondibile. Così, sarebbe ingenuo chi (e non sono mancati) volesse vedere in lui, per l'appunto, Zarathustra e Superman, dimenticando Clark Kent. Ancora più ingenuo, d'altra parte, sarebbe chi (e ce ne sono stati anche di più) volesse riconoscere in lui soltanto uno spirito libero, un decostruttore, una figura innocua, e fruibile solo in termini emancipativi. Ma, una volta che si sia messo a fuoco il caso di un autore così controverso, che letteralmente unisce in sé la volontà di potenza e Fantozzi, l'annuncio della guerra totale e i consigli dietetici, la tragedia e la commedia, allora avremo riconosciuto proprio la specificità che fa di Nietzsche un unicum nella storia della filosofìa, un punto di non ritorno. Come dire: sono tutti capaci, per far inorridire la Signorina Felicita, di dire che dietro agli ideali ci sono dei secondi fini; ma, al di là di questo smascheramento pieno di solido buon senso, Nietzsche è riuscito a scavare tutto un retromondo fantastico e metafisico: la lotta delle monadi e quella degli uomini, il conflitto tra le nazioni e le guerre stellari interpretati come una pura parata di potenza che vuole se stessa, di vita che si cerca sino a trasformarsi nel suo contrario. E, ammettiamolo, Nietzsche è riuscito a battere e ad anticipare tutti sul piano dell'operetta, dichiarando di essere Dio, Caifa, Carlo Alberto e "tutti i nomi della storia", improvvisando arie wagneriane, e alla fine imbarcandosi sul treno che lo portava in manicomio con un berretto da notte in testa e cantando una canzone napoletana. Queste contraddizioni sono il segreto del suo stranissimo destino, quello di un uomo che passò una vita oscura sognando una gloria che lo raggiunse, in maniera planetaria e surreale, ma troppo tardi, quando oramai era pazzo - una gloria che da allora, gli ultimi anni dell'Ottocento, non ha smesso di crescere, anche perché le teorie a cui ha legato il suo nome non hanno cessato di avere conferme spettacolari. Ecco il motivo per cui Nietzsche sembra avere tante cose da dirci, molte più cose che, poniamo, Montaigne o Pascal, per non parlare dei greci e dei romani. In Montaigne chiuso nel suo castello che si prepara a morire già a quarantanni, in Pascal che a Port-Royal medita sull'impotenza dell'uomo, vediamo delle figure alte e altrettanto remote, più o meno come gli stoici e gli epicurei, e con diete di vita non meno implausibili per un uomo moderno. In Nietzsche, invece, vediamo uno che addensa in sé tutto, da Adrian Leverkuhn a Felix Krull, da Hitler a Zelig ("tutti i nomi della storia sono io")- Può suonare semplifìcatorio sostenere che Nietzsche ci è più simpatico dei saggi antichi proprio come si preferisce Paperino a Topolino, eppure è così che io ora lo leggo, dopo essermi riconciliato con lui.
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