Commenti introduttivi ai Quaderni del carcere di Gramsci

di Luigi Anepeta


Quaderno 1

Dall'analisi dei fallimenti al nuovo progetto di rivoluzione

Quando Gramsci appone  la data dell'8 febbraio 1929 sul primo Quaderno ("quaderno scolastico a righe (cm 15 x 20,5), ogni facciata di 22 righe; copertina in cartoncino, di colore rosso-nero, marmorizzata"1) con una doppia sottolineatura che attesta, al tempo stesso, l'indignazione per il ritardo con cui gli è stata concessa l'autorizzazione a scrivere e l'entusiasmo di poter finalmente mettere sulla carta il frutto delle sue riflessioni,  è è detenuto da due anni e mezzo.

L'arresto è avvenuto per un'errata valutazione da parte di Gramsci della situazione politica o meglio per una sorprendente "ingenuità".

 Il 31 ottobre 1926, nonostante il regime fascista sia già uno Stato di polizia, a Bologna si realizza l'ennesimo attentato a Mussolini al quale segue un ulteriore giro di vite autoritaristico: il governo delibera l'annullamento dei passaporti, la soppressione dei giornali antifascisti, lo scioglimento dei partiti ostili al regime e  prepara un disegno di legge che istituisce la pena di morte e la creazione di un Tribunale speciale.

Questo giro di vite, che azzera praticamente qualsivoglia opposizione al regime, completa l'opera avviatasi con la piena assunzione di responsabilità da parte di Mussolini sui crimini del regime, funzionali a realizzare la "rivoluzione" fascista, espressa il 3 gennaio 1925 in un discorso alla Camera («Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto... Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!»).

Sollecitato dai compagni ad espatriare, Gramsci - deputato dal 6 aprile 1924 e Segretario generale del Partito comunista dall'agosto dello stesso anno - decide di rimanere in Italia perché, come il capitano di una nave in tempesta,  sente il dovere  di non abbandonare la classe operaia che, dopo anni di squadrismo fascista, è alle corde, e, confidando sull'immunità parlamentare, intende continuare ad opporsi apertamente al regime mussoliniano.

Il 6 novembre, con una mozione, un esponente fascista propone la revoca del mandato  per i deputati delle opposizioni che, in seguito al delitto Matteotti (10 giugno 1924), si sono ritirati in un'aula di Montecitorio (sala dell'Aventino), disertando il Parlamento. I deputati del gruppo comunista, rientrati da tempo, non sono citati nella mozione. L'8 novembre, quando Gramsci sta preparando il suo intervento per il giorno successivo, Mussolini stesso chiede di aggiungerli all'elenco, attribuendo (verosimilmente) la responsabilità di questa decisione al Re.

Alle 22,30 del 9 novembre 1926 Gramsci viene arrestato.

L'errore di valutazione concernente l'orientamento antidemocratico del Fascismo è tanto più sorprendente se si tiene conto dello scontro intervenuto in Parlamento il 16 maggio 1925 tra Gramsci e Mussolini, che non consente di nutrire dubbio alcuno, se ancora ce ne fosse stato bisogno, sulla volontà repressiva del Fascismo:

"Gramsci: Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre…

Mussolini: Facciamo quello che fate in Russia…

Gramsci: In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi…

Mussolini: Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo!"

L'errore di valutazione di Gramsci, che ha determinato l'arresto, non ha nulla a che vedere con una volontà di martirio (anche se la psicologia gramsciana, benché immune da una concezione eroica della vita, riconosce come un valore assoluto l'estrema coerenza tra i principi e l'azione che, date le circostanze, lo cala suo malgrado nel ruolo dello strenuo dissidente, amplificato.tra l'altro, dalle sue precarie condizioni di salute). A maggior ragione, va sottolineato; non si tratta, infatti, di un errore isolato, dato che si è ripetuto già più volte.

Nel corso del cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), sull'onda dell'occupazione delle fabbriche torinesi, Gramsci ritiene che la rivoluzione comunista in Italia sia imminente e possa realizzarsi secondo le stesse modalità di quella avvenuta qualche anno prima in Russia.

Nel 1921, partecipando alla scissione del Partito comunista da quello socialista, è convinto che essa possa promuovere un massiccio deflusso della classe operaia verso la nuova formazione politica, determinata a promuovere la rivoluzione e non ad aspettare, com’era nella strategia del Partito Socialista, che essa si realizzasse fatalmente sulla base dell'evoluzione storica.

Nel 1922, mentre vive a Mosca come rappresentante del PCI nell'esecutivo dell'Internazionale, venuto a conoscenza della marcia su Roma e dell'avvento al potere di Mussolini, valuta adeguatamente la gravità del pericolo fascista, ma, al tempo stesso, ritiene possibile che il PCI, affrancandosi dallo sterile estremismo di Bordiga, riorganizzandosi e ricucendo il rapporto con le masse popolari, possa riuscire a fronteggiarlo.

Nel 1925, dopo il delitto Matteotti, pensa che il regime mussoliniano abbia i giorni contati e si esalta perché l'Unità ha triplicato la tiratura e il Partito è stato infoltito da numerose adesioni.

L'ingenuità del novembre del 26, insomma, è solo l'ultima di una serie. Essa, tra l'altro, non riguarda solo gli avversari fascisti, ma anche i compagni sovietici.

Dopo la morte di Lenin nell'URSS si avvia un aspro scontro tra fazioni  in seno al gruppo dirigente sovietico. Nell'ottobre del 1926, pochi giorni prima dell'arresto, Gramsci, che pure ha soggiornato in URSS per due anni, scrive una lettera al comitato centrale del PCUS appellandosi al dovere dei compagni di mantenere l'unità in nome del loro essere rappresentanti della rivoluzione comunista agli occhi del proletariato di tutto il mondo. Egli definisce corporativi gli interessi di quelle fazioni e quindi incompatibili con il leninismo e la teoria dell'egemonia del proletariato.

La lettera non giunge a destinazione in conseguenza della censura di Togliatti che, in quel periodo, è il rappresentante del Partito comunista nell'Internazionale. Egli si rende conto, infatti, che, con la scomparsa di Lenin, l'unità del partito bolscevico è venuta meno i e che la lotta tra le fazioni si concluderà inesorabilmente con la sconfitta di una di esse. Il richiamo di Gramsci all'unanimismo è dunque astratto: è fondato sul mito del bolscevismo e non sulla realtà di fatto. E' anche, in una certa misura, politicamente pericoloso perché la logica “manichea” di Stalin, destinata ad esitare in pochi anni in una dimensione "paranoica", comporta (e Togliatti lo sa) solo il riferimento ad amici e nemici: non prevede, insomma, la neutralità.

Il riferimento  alle "ingenuità"  di uno studioso e politico militante come Gramsci, che fa del nesso tra teoria e pratica il fattore fondamentale del marxismo (o filosofia della prassi, come egli lo denomina) è importante preliminarmente alla lettura dei Quaderni poiché esso consente di capirne il significato di fondo.

Si tratta, un ultima analisi, di una lunga riflessione sui "fallimenti" cui Gramsci e il PCI sono andati incontro: fallimenti irrimediabili nell'immediato, dalla cui elaborazione egli però ricava la fiducia in un futuro successo. La riflessione, per alcuni anni, ricava conforto dal fatto che la rivoluzione comunista si è comunque realizzata, anche se in un solo paese. Lentamente, però, intervengono dubbi molteplici sull'evoluzione autocratica del regime stalinista, amplificati dal modello di comunismo che Gramsci sta elaborando, il quale comporta, sulla base di una volontà collettiva consapevole, un salto di qualità - economico, politico, sociale e culturale - atto a portare il mondo a un livello di civiltà superiore.

Estromesso, insomma, dalla vita politica attiva, Gramsci si cala nel ruolo di intellettuale "organico" che lavora per gettare le basi di una futura rivoluzione, destinata a realizzare il "sogno" marxiano di una fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria.

Nel mantenere fermo quest'ultimo obiettivo e nell'articolare una nuova strategia per realizzarlo, che punta sulla crescita culturale delle masse proletarie e contadine sotto la guida di un Partito di intellettuali militanti che promuove nella società la formazione di una volontà collettiva egemone, e quindi capace di sostituire la vecchia classe dirigente, sta l'originalità del pensiero gramsciano, che rimane fedele a quello di Marx ma, al tempo stesso, lo rinnova, perché implica un'articolazione molto più complessa del rapporto reciproco e interattivo tra infrastruttura economica e sovrastruttura culturale.

I Quaderni del carcere sono un work in progress finalizzato a definire sempre meglio quell'obiettivo, che non ha alcunché di fatalistico, e a mettere a fuoco la strategia politica atto a realizzarlo.

La pagina datata l'8 febbraio 1929 fornisce un elenco (il primo) dei temi che rappresentano la "griglia" della ricerca gramsciana. Nel corso degli anni se ne aggiungeranno altri, ma l'essenziale c'è già su un fronte di straordinaria ampiezza: la storia e i criteri metodologici per interpretare i processi storici del passato e del presente; lo sviluppo della società italiana nel corso del Risorgimento e del primo Novecento; il ruolo degli intellettuali (conservatori, opportunisti, progressisti, ecc.) e delle riviste attraverso le quali essi si esprimono e comunicano; la cultura popolare con le sue tradizioni (il folklore) e il suo affacciarsi alla modernità e al mondo della cultura attraverso i romanzi di appendice; il senso comune, che implica l'adesione dei ceti subordinati all'ideologia dominante; l'organizzazione da parte della Chiesa di una sorta di milizia (l'Azione Cattolica) deputata a contrastare il liberalismo, il socialismo e le spinte del modernismo; la situazione del meridione italiano, vale a dire di un vasto territorio integrato nella nazione ma, al tempo stesso, economicamente e culturalmente penalizzato; la questione della lingua nazionale e dei dialetti, che ingabbiano ampie fasce della popolazione in un angusta dimensione concettuale e comunicativa.

Scorrendo i titoli delle rubriche riesce del tutto evidente che, eccezion fatta per le esperienze di vita in carcere, che rappresentano un drammatico riferimento privato, in questo primo periodo (1929-1930), pur se appare già aperto alla suggestione di ciò che accade in altre nazioni (Francia, Germania e Stati Uniti), il pensiero gramsciano è fortemente polarizzato a livello nazionale e contestuale.

Si potrebbe pensare che Gramsci  applichi alla lettera lo "spirito" di Marx, il quale si augurava che i suoi eredi, pur ispirandosi al suo pensiero, non si limitassero a ripetere formule dogmatiche, ma tentassero di analizzare minuziosamente la realtà storica con la quale si confrontavano - necessariamente locale per quanto inserita in un contesto globale - tentando di dare ad essa, ai suoi sviluppi e alle sue contraddizioni, un senso nella cornice del materialismo storico e dialettico atto a promuovere un cambiamento politico radicale.

In realtà non è solo una questione di metodo. La polarizzazione cui ho fatto cenno comporta un interesse, a tratti "ossessivo", per la "rivoluzione mancata" del Risorgimento, e per il protrarsi nel Novecento dei fattori che hanno impedito che essa fosse portata a termine: una polarizzazione che dà ai due paragrafi più lunghi del Quaderno (§§43, 44), scritti con un ricorso continuo al flashback, un carattere quasi convulso.

Tali paragrafi sono un cahier de doléances sulle insufficienze dei partiti progressisti nella storia d'Italia (il Partito d'Azione ottocentesco, il Partito Socialista nel Novecento), dei partiti moderati, che raggiungono l'obiettivo dell'unità nazionale, ma al prezzo di un'irrimediabile scissione tra il Nord e il Sud, degli intellettuali che, quando non conservatori, sono il più spesso velleitari e astratti, dei cattolici, che utilizzano il radicamento popolare della religione per ostacolare la diffusione dei principi liberali e ancor più del socialismo, ecc.

La "rivoluzione mancata" nell'800, quando peraltro non sussistevano neppure i presupposti per cui essa si realizzasse, data l'inesistenza di un partito socialista (costituitosi solo nel 1892) e le condizioni di grave arretratezza economica e culturale della classe proletaria e ancor più delle masse contadine, viene con tutta evidenza letta da Gramsci alla luce della delusione e della frustrazione per la "vera" rivoluzione mancata; quella del primo dopoguerra, alla quale egli ha attivamente partecipato illudendosi, all'epoca del biennio rosso, che  in Italia  potesse avviarsi, sulla base di una presa di potere, la costruzione di una nuova civiltà - il comunismo.

Gramsci non riconoscerà mai del tutto esplicitamente gli errori commessi e la sostanziale ingenuità che li ha resi possibili, riconducibili al mito della Rivoluzione contro il Capitale, che rappresenta l'unico "tradimento" di Gramsci rispetto a Marx, intriso peraltro di un giovanile "giacobinismo" leninista.

Ciò nondimeno, egli di fatto lavora per sormontarli e, nel suo tragitto di ricerca, scopre la potenza della sovrastruttura (tradizioni, ideologia, cultura, senso comune), che realizza, a livello di psicologia individuale e collettiva, soprattutto per quanto concerne i ceti subordinati, l'effetto "stregante" rilevato da Marx ma mai adeguatamente analizzato, che determina in essi un atteggiamento passivo nei confronti della realtà esistente o forme di ribellione caotiche e disorganizzate.

Come porre rimedio a questa situazione, vale a dire come dotare i ceti subordinati di una visione del mondo unitaria e coerente, adeguata a consentire loro di conseguire l'egemonia politica e culturale necessaria per cambiare radicalmente la realtà e avviare la costruzione di una civiltà di livello superiore è il basso continuo dei Quaderni.

Il progetto è politico e culturale, ma esso, inesorabilmente, proprio nella sua tensione verso una filosofia marxista onnicomprensiva e capace concretamente di realizzare la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria, coinvolge ed interseca una serie indefinita di problemi - inerenti la natura umana, l'interazione tra natura e cultura, lo statuto della coscienza individuale e collettiva, la trasmissione delle tradizioni culturali, la produzione e l'attecchimento delle ideologie adattive, ecc. - che Gramsci affronta con coraggio ed acume, giungendo anche a conclusioni di estremo interesse e attualità (per esempio per quanto riguarda il senso comune, che consente agli esseri umani di sapere come si vive in società, ma al prezzo di una mortificazione dello spirito critico).

E' un fatto, però, che, all'epoca di Gramsci, quei problemi possono essere affrontati solo filosoficamente, alla luce di una cultura storico-umanistica, portata al suo massimo sviluppo dall'idealismo hegeliano, e utilizzata da Marx per rimettere con i piedi sulla terra ciò che Hegel ha rovesciato.

Questo rovesciamento, che Gramsci accoglie pienamente, per essere efficace, vale dire per promuovere un processo che porti l'umanità ad un livello di civiltà superiore - identificabile con la fine della violenza e dell'oppressione dell'uomo sull'uomo - postula non solo uno storicismo umanistico e immanente, ma una concezione antropologica dell'essere umano che sia meno approssimativa rispetto a quella delineata da Marx e da Gramsci.

In breve, quello che Gramsci ha fatto con Marx, identificando il punto debole del suo pensiero nella mancata articolazione del rapporto interattivo e reciproco tra infrastruttura economica e sovrastruttura culturale, va fatto con Gramsci.

Non è certo un venir meno all'ammirazione che suscita una delle imprese intellettuali più elevate del Novecento identificare il punto debole del pensiero gramsciano nello storicismo assoluto ("La filosofia della praxis è lo «storicismo» assoluto, la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia" Q11 § 27, ‛immanenza, depurata da ogni traccia di trascendenza e di teologia "Q10 § 8) che, ponendo tra parentesi il problema della natura umana e dell'interazione tra natura e cultura, impedisce ad esso di mettere a fuoco un modello antropologico adeguato al fine che si prefigge.

Non è certo superfluo insistere su quest'ultimo aspetto.

Il pericolo, oggi del tutto evidente, è che l'impresa gramsciana rimanga sospesa nel limbo del dibattito culturale tra specialisti accademici con il rischio, per un verso, di cadere nell'agiografia e, per un altro, di portare avanti aspre polemiche sostanzialmente insignificanti (il rapporto tra Gramsci e Togliatti, la scomparsa di uno dei Quaderni, ecc.).

Una  lettura contemporanea dei Quaderni, a mio avviso, deve affrontare come nodo di fondo la finalità eminentemente pratica che ne ha guidato la produzione: tendere, insomma, a definire ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero gramsciano non solo su di un registro intellettuale ma anche e soprattutto in riferimento al salto di civiltà cui egli, da marxista, teneva e per cui ha lavorato.

Se si ritiene questo salto impossibile, Gramsci va semplicemente archiviato nel museo delle cere dei nobili utopisti. Se, viceversa, lo si ritiene ancora possibile (e ovviamente non in termini di coscienza di classe ma di coscienza di specie), occorre interrogarsi, al di là dei "valori" ormai acquisiti del pensiero gramsciano, vale a dire le tematiche che egli ha affrontato in maniera innovativa (cfr Fusaro, Descrizione dei Quaderni del carcere), sui limiti contro cui è venuto ad urtare e su come essi possano essere oggi sormontati e integrati.

Tali limiti vanno ricondotti ad un'antropologia filosofica che postula di essere arricchita dai dati scientifici maturati successivamente.

Uno di questi limiti è evidente nell'ultima nota del Quaderno 1, il cui titolo è "Animalità e industrialismo".

Gramsci scrive: "§ 158 L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di esattezza, di precisione.". Poco prima, nel § 123 ha scritto: "ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo «attuale» alla sua epoca."

Altrove, e ripetutamente (come vedremo), Gramsci afferma che non esiste una natura umana in sé e per sé. Se questo fosse vero, che senso avrebbe parlare di istinti e dell'educazione come una lotta contro di essi?

L'osservazione può apparire troppo puntigliosa. Gramsci è un politologo militante, un filosofo, uno storico, un critico letterario, non un sociologo e tanto meno uno psicologo (discipline, queste ultime, che aborrisce). Il problema è che per promuovere un tragitto collettivo verso un livello di civiltà superiore, posto che sia possibile, occorre per forza mettere a fuoco nei dettagli un'antropologia, anzi una panantropologia marxista che integri i tre fattori che interagiscono nell'esperienza umana: il biologico, lo psicologico e lo storico-culturale.

All'epoca di Gramsci, e nonostante la sua indubbia genialità, un progetto del genere non era perseguibile perché le scienze umane e sociali non fornivano ancora dati significativi per integrarlo.

Questo spiega il ripiegamento storicistico di Gramsci, che lo porta ad ignorare che anche il cervello umano ha una sua storia (e una sua struttura), che la cultura, nella misura in cui partecipa a determinare l'aria che si respira, vale a dire il senso comune, scorre in gran parte nella falda più profonda della struttura sociale, vale a dire nell'inconscio sociale, e che ogni individuo ha una sua particolare esperienza del mondo, depositata, tra l'altro, più a livello inconscio che conscio (verità che, ovviamente, vale anche per Gramsci...).

Tenere conto di questi aspetti, e del patrimonio culturale prodotto dalle scienze umane e sociali (dalla neurobiologia alla psicoanalisi e alle ricerche dei nuovi storici francesi sull'inconscio sociale), può consentire, a mio avviso, di riproporre l'utopia gramsciana come utopia concreta che non rinuncia a pensare come possibile la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria e a formulare un progetto atto a promuoverla.

Detto questo, il lettore non si sorprenderà se le note introduttive ai Quaderni avranno spesso una carattere trasversale rispetto al pensiero gramsciano, nel senso che esse, se non trascurano ciò che ha veramente detto (compito degli specialisti, che sono però quasi tutti filosofi e storici), sono rivolte soprattutto a colmare le lacune e le contraddizioni che Gramsci, per i motivi cui si è fatto cenno, non ha potuto colmare o sormontare.

Il pensiero marxista, nella sua dimensione più propria, è riconducibile al principio della critique d'abord...

Note
[1] V. Gerratana, Quaderni del carcere - Einaudi, Torino 1975, vol. IV, p. 2369


Quaderno 2

Psicologia delle folle e bisogno "religioso"

Scritto in un arco temporale piuttosto ampio, dal 1929 al 1933, il Quaderno 2 è una raccolta di materiali bibliografici disparati e eterogenei.

Con esso, composto in gran parte di schede di lettura e riferimenti bibliografici, si entra nel laboratorio gramsciano, laddove le informazioni vengono onnivoramente attinte da libri e riviste per  essere elaborate nei Quaderni ulteriori.

Se c'è un filo che lega i paragrafi, e differenzia il secondo Quaderno dal primo, è l'allargamento degli orizzonti della ricerca, che pur concedendo ancora spazio e attenzione al Risorgimento e agli eventi del primo Novecento,  si estende ormai a livello globale nel tempo e nello spazio.

Gramsci ricostruisce le vicissitudini degli inquieti rapporti tra le nazioni europee, l'entrata in campo degli Stati Uniti con la loro formidabile potenza, il problema ancora del tutto aperto delle imprese coloniali, gli esiti dello smantellamento dell'Impero turco, ecc.

L'allargamento degli orizzonti della ricerca produce intuizioni formidabili.

Nel §78 Gramsci avanza l'ipotesi che l'asse del mondo è destinato a spostarsi nel Pacifico se la Cina e l'India dovessero decollare sul piano industriale. Previsione avveniristica che, di recente, si sta realizzando.

Il §90,  dedicato alla nuova evoluzione dell'Islam, affronta il problema del contatto di una civiltà di antichissime tradizioni, che pur non essendo mai stata isolata, è rimasta fedele (fin troppo) a se stessa, con la frenetica civiltà occidentale. Anche al riguardo, Gramsci anticipa avveniristicamente che tale contatto  di fatto produrrà sempre di più il motivo del ritorno alle "origini". Intuisce, insomma, l'inesorabile "scontro di civiltà" che si sta oggi realizzando.

E' vero. Gramsci trae gran parte delle informazioni dalle riviste, ma le interpreta spesso in maniera estremamente creativa; legge in esse più di quanto dicano.

Aver ricavato dalla mediocre esperienza di Luigi Cadorna (§121) una categoria militare e politica di significato universale - il cadornismo - è un colpo di genio. Tanto più se si tiene conto che, in altro paragrafo (§75) l'analisi della teoria dei partiti politici di R. Michels focalizza il tema del capo carismatico.

L'intimo nesso tra i paragrafi è evidente. Essi fanno capo a due diversi tipi di potere: quello burocratico, che prevale nell'Esercito, la cui organizzazione  gerarchica implica una selezione dall'alto, e quello carismatico, che implica invece una selezione dal basso, vale a dire la capacità del capo di catturare il consenso popolare.

Nè Cadorna né Mussolini sono chiamati in gioco come persone, ma come metafore del potere (il cadornismo e il fascismo).  Il cadornismo è un modo burocratico di rapportarsi alla realtà, che implica l'adozione di schemi astratti che fanno violenza ad essa e producono sacrifici umani. Esso si realizza più facilmente a livello militare (nel corso della prima guerra mondiale al Cadorna italiano corrisponde il generale francese Neville), ma può riguardare anche la politica allorché un capo, infatuato dei suoi schemi astratti, porta alla rovina un'intera nazione.

Il fascismo, invece, fa leva sul bisogno delle masse, non giunte ancora ad un livello  sufficiente di  maturità e di consapevolezza, di affidare il loro destino ad una figura idealizzata e  investita di caratteristiche onnipotenti.

Di questo secondo fenomeno Gramsci fornisce un'interpretazione  politica. Scrive: "il cosiddetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze; tanto più avviene questo fenomeno, quanto più il partito nasce e si forma non sulla base di una concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi perché espressione di una classe storicamente essenziale e progressiva, ma sulla base di ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di sentimenti ed emozioni che non hanno raggiunto ancora il punto terminale di dissolvimento, perché le classi (o la classe) di cui è espressione, quantunque in dissoluzione, storicamente, hanno ancora una certa base e si attaccano  alle glorie del passato per farsene scudo contro l’avvenire)."

C'è, ovviamente, del vero in questa interpretazione. Le masse sperimentano facilmente il bisogno di un capo carismatico quando, nel rapporto con una realtà storica turbolenta o in troppo rapida evoluzione, si sentono smarrite e tendono a regredire sul registro di un affidamento passivo (o addirittura cieco) a chi le rassicura e indica loro obbiettivi dotati di una forte carica emozionale.

E' fuori di dubbio che Mussolini, per conseguire il potere opera una scelta "tattica" di classe: si fa carico delle preoccupazioni degli industriali del Nord e dei proprietari agrari del Sud, che sentono il loro potere minacciato dall'avanzata del socialismo e dall'attività del Partito comunista. E' altrettanto fuori dubbio, però, che egli cattura il consenso popolare ponendosi come un "papa infallibile" destinato a guidare una nazione lacerata dai conflitti e sostanzialmente caotica verso la terra promessa dell'ordine, della rinascita economica e della potenza internazionale sia pure sulla base di un'ideologia confusa e approssimativa.

Il problema, di cui Gramsci non ha che una vaga consapevolezza, è che in Unione Sovietica, laddove la classe dirigente ispira il suo operato ad una concezione del mondo unitaria e coerente - quella marxista, esplicitamente atea -   sta accadendo qualcosa di analogo: si sta affermando, cioè, un capo carismatico, che promuoverà addirittura il culto della sua personalità, e un regime dittatoriale.

L'interpretazione politica del fenomeno, dunque, non basta. Occorre tenere conto, infatti, dell'intreccio tra la politica e la psicologia delle masse che rimane, in profondità, contrassegnata da una lunga tradizione religiosa (forse ancora più viva nell'URSS che in Italia) in conseguenza della quale l'affidamento a un capo carismatico in situazioni critiche è una sorta di automatismo. Si tratta di un automatismo che passivizza le masse e le pone quasi in uno stato di "ipnosi" collettiva.

In un saggio farraginoso e criticabile per il suo impianto positivistico, G. Le Bon ha descritto questo aspetto, nel IV capitolo, con indubbia efficacia:

"Esaminando da vicino le convinzioni delle folle, tanto nei movimenti religiosi quanto nei sollevamenti politici, come quelli dell'ultimo secolo, si può constatare che queste convinzioni presentano sempre una forma speciale, che non possono determinarsi meglio di così: dando loro il nome di sentimento religioso.

Questo sentimento ha delle caratteristiche semplicissime: adorazione di un essere ritenuto superiore, timore del potere che gli si attribuisce, sottomissione cieca ai suoi comandi, impossibilità di discutere i suoi dogmi, desiderio di divulgarli, tendenza a considerare come nemici tutti quelli che rifiutano di accettarli. Che un tale sentimento sia rivolto a un Dio invisibile, a un idolo di pietra, a un eroe o a un'idea politica, resta sempre essenzialmente religioso. Il soprannaturale e il miracoloso vi si riscontrano sempre. Le folle rivestono dello stesso potere misterioso la formula politica o il capo vittorioso che le affascina momentaneamente.

Non si è religiosi soltanto quando si adora una divinità, ma anche quando si mettono tutte le risorse dei proprio spirito, tutte le sottomissioni della volontà, tutti gli ardori del fanatismo, al servizio d'una causa o d'un uomo diventato lo scopo e la guida dei sentimenti e degli atti...

E un'inutile banalità ripetere che alle folle è necessaria una religione. Le credenze politiche, divine e sociali si radicano nelle folle soltanto quando rivestono forma religiosa, che le mette al sicuro da ogni discussione...

Non si possono ben capire, lo ripeto, certi avvenimenti storici - e precisamente i più importanti - se non ci si è reso conto della forma religiosa che sempre rivestono le opinioni delle folle."

Per un marxista è sicuramente doloroso riconoscere che le cose stanno così. Anche prescindendo infatti dal riferimento a presunti "istinti primordiali" (ipotesi positivistica di Le Bon), è fuor di dubbio che la persistenza, nelle falde profonde dell'inconscio individuale e collettivo, del bisogno religioso, dilata smisuratamente i tempi dell'evoluzione dell'umanità verso un livello di civiltà superiore, affrancato sia dalla trascendenza, sia dall'affidamento cieco ad un capo investito di qualità straordinarie.

Non è un caso che Gramsci non cita Le Bon se non (Q 9 § 78) per ricordare che Mussolini ha esplicitamente affermato di avere studiato a fondo e utilizzato la sua opera. Oggi è noto che Le Bon è stato studiato meticolosamente anche da Hitler e da Stalin.

L'opera di Le Bon è analizzata anche da Freud in Psicologia Collettiva e Analisi dell'Io, che è del 1921, ed è in qualche modo implicita ne Il disagio della civiltà, pubblicato nel 1929.

Sia Le Bon che Freud insistono a sottolineare l'irrazionalità e l'infantilismo delle masse, ma il bisogno religioso in questione, sia esso riferito ad una sorta di primitivismo atavico o al legame originario con il padre, postula, a livello politico, che un individuo sappia farsene carico, manipolarlo e soddisfarlo. E' importante, dunque, interrogarsi sulla psicologia del capo carismatico nell'epoca moderna, che sembra in contrasto con la desacralizzazione del potere intervenuta con la Rivoluzione francese.

En passant non è superfluo rilevare che Michels ha avviato la sua carriera politica come socialista, partecipando anche all'Internazionale, si è poi avvicinato alla teoria elitista e al pensiero weberiano, e si è infine aggregato al carro del nazionalismo giungendo ad aderire al Fascismo.

Anche gli intellettuali, insomma, corrono il rischio di cedere al fascino del capo carismatico. Ma di che ordine è tale fascino?

Posto che le masse, fin quando non raggiungono un certo livello culturale, hanno una tendenza ad affidarsi a qualcuno dotato ai loro occhi di un potere quasi onnipotente, il capo carismatico è anzitutto colui che favorisce quella tendenza sulla base di una valutazione megalomanica di se stesso.

La megalomania comporta poi l'identificazione del proprio sogno di grandezza con quello della nazione.

Questo aspetto è del tutto evidente in Mussolini e nella sua parabola politica che si avvia sulla base di un socialismo anticapitalistico ed esita nel fascismo, caratterizzato da una sorta di anticomunismo viscerale.

Il comunismo, secondo Mussolini, "appiattisce" l'individuo, il capitalismo lo imborghesisce e lo rende mediocre. Egli ha bisogno di sfuggire all'appiattimento e alla mediocrità: ha bisogno di calarsi nel ruolo dell'eroe, del novello Mosè che guida un intero popolo nella terra promessa.

Carismatico Mussolini lo è, ma ciò nulla toglie al fatto che, applicando alla realtà schemi astratti che identificano la sua grandezza nell'assunzione da parte dell'Italia del ruolo di grande potenza, egli agisce - mutatis mutandis - come Cadorna.

Il problema è che Cadorna viene contestato dai subordinati, mentre Mussolini, con la sua mediocre filosofia e la sua claudicante cultura, compensate dall'attivismo bellicistico, viene idealizzato.

La ribellione al capo carismatico sopravverrà (anni dopo la morte di Gramsci), ma essa rivelerà la brusca fluttuazione dall'idealizzazione alla demonizzazione: un altro tratto tipico della psicologia delle folle.

Mettendo da parte il primitivismo della psicologia popolare, cui fanno riferimento Le Bon e Freud, il funzionamento dell'inconscio sociale, nel quale si radica il bisogno "religioso" di affidamento ad un capo, è un problema di grande portata per il marxismo.

Oggi possiamo misurare la potenza di tale bisogno alla luce dell'esperienza sovietica, che ha adottato l'ateismo di Stato. Dopo settanta anni di pratica educativa e culturale rigorosamente (anche se rozzamente) atea, il crollo del regime è coinciso con un ritorno in massa della popolazione alla Chiesa ortodossa.

Fornendo un'interpretazione meramente politica del fenomeno del capo carismatico, che peraltro si riconduce alla categoria più ampia del populismo, Gramsci semplifica il problema. E' vero che la filosofia marxista fornisce, in teoria, una risposta specifica al bisogno religioso affrancandolo dalla trascendenza e offrendo ad esso un nuovo oggetto: la “religione” dell'umanità, che implica, tra l'altro, il riscatto della specie da un terribile passato.

L'affrancamento dalla trascendenza, però, sembra impossibile se, al di là del conforto di una società fatta a misura d'uomo, all'interno della quale la solidarietà sociale si pone come un valore assoluto, gli uomini non accettano la loro condizione di esseri gettati casualmente nel mondo, la cui vicenda, sia sotto il profilo individuale che di specie, è destinata comunque a finire

La religione dell'umanità marxista, che può sradicare il bisogno religioso ed impedirne una realizzazione "mitologica", è una consapevole, esaltante ma anche inesorabilmente disincantata “religione”.


Quaderno 3

Logica individuale, Logica sovraindividuale

Davide Lazzaretti, Federico Confalonieri, i martiri di Belfiore (don Tazzoli, Carlo Poma, Tito Speri)...

I nobili milanesi che strisciano ai piedi di Francesco Giuseppe alla vigilia dell'esecuzione dei martiri di Belfiore...

I fenomeni storici e i personaggi  che Gramsci analizza nel Quaderno 3 sono eterogenei. Davide Lazzaretti è un mistico che pretende, in pieno Ottocento, di fare la rivoluzione all'interno della Chiesa, rigenerandola. Viene barbaramente trucidato.

Gli altri personaggi sono tutti "eroi" risorgimentali e coprono un arco di tempo che va dai moti del '21 a quelli del '48-'49, con le sequele degli arresti,  i brutali interrogatori, le condanne al carcere, le esecuzioni, ecc.

Gramsci contesta il metodo dell'analogia avanzato dal Ciccotti (§ 15), che, negando l'individualità dei fatti storici, i quali vanno interpretati nel contesto in cui si realizzano, giunge all'anonima conclusione per cui «tutto il mondo è paese». E' fuor di dubbio, però,  che tra il passato e il presente si danno alcuni punti di contatto sia per quanto riguarda la durezza del regime austriaco e quella del fascismo, sia soprattutto in rapporto ai "martiri" che si sacrificano per i loro ideali: categoria quest'ultima cui Gramsci appartiene.

Gli ideali per cui si sacrificano gli "eroi" risorgimentali - sostanzialmente liberal-democratici - sono profondamente diversi da quelli - comunisti - per i quali si sacrifica Gramsci.

A maggior ragione, questa diversità porta a chiedersi che cosa spinge alcuni esseri umani ad opporsi allo status quo fino al punto di porre a rischio la propria esistenza?

Si può tentare di fornire una risposta partendo dalla classe di appartenenza degli "eroi" risorgimentali che egli cita.

Confalonieri è un conte, don Tazzoli un sacerdote, Carlo Poma un medico, Tito Speri un giovane patriota con un diploma classico. Essi "tradiscono" i doveri impliciti nella loro classe di appartenenza e nel loro ruolo sociale.

L'elenco dei "traditori" di questo genere, però,   potrebbe allungarsi molto al di là degli esempi citati nel quaderno: vi rientrerebbero (alla rinfusa) Marx stesso, Engels, Mazzini, Bakunin, Kropotkin, Blanqui, Jaurès,  Pisacane, ecc.

 Cosa spinge a tradire la classe di appartenenza e i doveri che essa implica? Certamente un ideale, sia pure diversamente concepito. Ma perché alcuni individui sono sensibili a tale ideale mentre tanti altri individui appartenenti alla loro classe rimangono indifferenti e conniventi con lo stato di cose esistente, anche laddove esso contrasta con i diritti e i bisogni umani?

Il discorso può essere generalizzato

In qualunque contesto storico, la maggioranza delle persone tende ad accettare lo status quo: per interesse di classe per quanto concerne i ceti dominanti e per passività o incapacità di organizzarsi per quanto concerne quelli subordinati. In ogni contesto, però, si danno individui che si ribellano allo status quo. Di questi alcuni appartengono ai ceti subordinati: la loro ribellione attesta una più viva coscienza delle ingiustizie rispetto agli altri che le subiscono. Altri, però, appartengono per nascita ai ceti dominanti e, ciò nonostante, operano scelte di vita che comportano spesso la perdita dei privilegi di nascita, l'emarginazione, l'esilio, il carcere e talora la perdita della vita.

E' evidente che in essi il riferimento a determinati valori - la libertà, l'uguaglianza,  la giustizia sociale, ecc. - realizza una pressione motivazionale che trascende gli interessi privati e particolari.

In tali casi, la logica ego-centrica, che comporta il  prendersi cura di se stessi e dei propri interessi particolari (con il rischio di scivolare nell'egoismo individuale e di classe), sembra sormontata da una logica, che si può definire sovraindividuale, la quale sovrappone alla prima valori e ideali che spingono l'individuo a sacrificare e mortificare quegli interessi.

Per spiegare tale circostanza, si può ammettere che essa si realizzi sulla base di un tragitto di esperienza che allarga la coscienza fino al punto di far vibrare in essa valori e motivazioni che trascendono l'interesse individuale. Ma basta pensare ad un tragitto esperienziale o non bisogna ammettere che alla  base di esso si dia una predisposizione "naturale"? E, se ciò fosse vero, quale sarebbe questa predisposizione?

La psicologia evolutiva ha posto in luce il fatto che fin dall'età di 4-5 anni i bambini valutano ciò che accade (soprattutto in riferimento alle punizioni che vengono ad essi impartire) come giuste o ingiuste. Si dà dunque un senso innato di giustizia, che si esprime sotto forma di un giudizio preriflessivo e precognitivo.

E' evidente che si tratta di un senso di giustizia ego-centrico, che fa cioè riferimento alla vera o presunta violazione dei propri diritti o bisogni. In alcuni bambini, però, il senso di giustizia sembra configurarsi originariamente come socio-centrico o universale: essi si indignano o si risentono anche quando vedono altri coetanei trattati ingiustamente (da altri bambini o dall'autorità).

Sulla base di un senso di giustizia "universale", la storia personale, che lo corrobora e lo arricchisce di contenuti culturali, può facilmente portare l'individuo ad assumere atteggiamenti critici, dissenzienti e contestatari nei confronti dell'ordine di cose esistente sia esso riconducibile all'esercizio arbitrario e repressivo di un'autorità o all'ingiustizia subita da alcune persone in conseguenza della struttura stessa del sistema socio-economico in cui vivono.

Gli eroi risorgimentali si battono contro il regime austriaco in nome di un ideale patriottico. I socialisti e i comunisti si battono contro la violenza del sistema capitalistico (e, all'epoca di Gramsci, contro il Fascismo) in nome dei bisogni e dei diritti degli appartenenti a classi subordinate.

Marx ha affermato che un scelta del genere è obbligatoria se non si è un bue. In realtà è obbligatoria solo allorché l'individuo non va incontro ad un processo di anestetizzazione della sensibilità sociale.

Oggi si può affermare questo con certezza perché le ricerche di psicologia evolutiva hanno permesso di verificare che intorno a tre anni tutti gli esseri umani sperimentano l'empatia, tendono cioè ad aiutare un loro coetaneo che soffre. L'empatia, dunque, si può ritenere un attributo universale della natura umana dato che le ricerche hanno riguardato contesti socio-culturali diversi.

Se lo stesso esperimento viene realizzato con bambini di 5-6 anni, i dati si diversificano. Alcuni bambini continuano a manifestare quello che si definisce un bisogno prosociale, di aiuto all'altro, che si riconduce all'attivazione dell'empatia. Altri manifestano, invece, una minore sensibilità rispetto al passato, se non addirittura una sorta di indifferenza o di fastidio.

E' evidente che nei primi occorre ammettere una predisposizione naturale, vale a dire un tasso di empatia che, per essere superiore alla media, oppone resistenza alle influenze ambientali. In questi casi, l'empatia rappresenta la premessa perché l'individuo, coltivandola e arricchendola attraverso un tragitto culturale, possa giungere ad una coscienza universale.

Sia Marx che Gramsci presumono che l'umanità possa pervenire ad uno stato di coscienza del genere. Essi ritengono, però, che i valori che essa implica sono un prodotto della storia, destinati progressivamente ad affermarsi via via che si realizza l'adesione alla filosofia marxista che tende a realizzarli.

Nè più né meno questa convinzione ha sotteso la teoria della coscienza di classe universale della classe operaia: un mito che, ormai, si può ritenere per molti aspetti superato.

Il presupposto dell'antropologia marxista, però, non sembra infondato alla luce delle recenti ricerche neurobiologiche e psicologiche sui neuroni specchio e sull'empatia (temi che saranno approfonditi nel saggio).

Rimane il fatto che la logica sovraindividuale sembra "naturalmente" attiva in una minoranza dell'umanità, mentre nella maggioranza essa si pone come una potenzialità che, per essere mantenuta attiva o arricchita, postula una programmazione pedagogica,  socio-culturale e politica.


Quaderno 4

Le "insufficienze" della filosofia marxista

"§3 L’affermazione che il marxismo è una filosofia nuova, indipendente, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi delle relazioni sociali."

"§ 11 In sede teorica, il marxismo non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia: esso non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma è originale specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia."

"§ 14 Ritenere che il materialismo storico non sia una struttura di pensiero completamente autonoma significa in realtà non avere completamente tagliato i legami col vecchio mondo."

L'orgogliosa rivendicazione da parte di Gramsci di una totale autonomia della filosofia marxista, che interviene proprio nel periodo in cui lo sviluppo delle scienze naturali per un verso e di quelle umane e sociali per un altro comporta l'intuizione che nessuna filosofia potrà pretendere di porsi come una visione totalizzante della realtà prescindendo da esse, riconosce cause estrinseche e cause intrinseche.

Le cause estrinseche sono agevoli da capire. Mentre in Unione Sovietica il marxismo si va trasformando, soprattutto per opera di Stalin, in uno sterile dogmatismo economicistico, che vanamente Bucharin tenta di flessibilizzare introducendo in esso principi di sociologia positivista (che Gramsci nei Quaderni sottopone ad un'aspra critica), in Occidente si delineano le correnti revisionistiche e riformistiche destinate ad esitare nella socialdemocrazia.

Tali correnti contestano proprio l'assolutismo del materialismo storico-dialettico e propongono con Kautsky la sua integrazione con il positivismo evoluzionistico e con l'austromarxismo la sua integrazione con l'etica kantiana. Per quanto questi tentativi abbiano una loro ragione d'essere, riconducibile al fatto che le masse operaie occidentali sembrano sempre più orientate a rivendicare un miglioramento immediato delle loro condizioni di vita e sempre meno inclini ad impegnarsi sul terreno di una rivoluzione radicale, essi in realtà sono teoricamente mediocri: il primo perché trascura l'incompatibilità tra il gradualismo darwiniano e il riferimento, intrinseco al marxismo, di salti di qualità rivoluzionari nel corso della storia; il secondo perché integra nel marxismo una massima morale che, in sé e per sé, è del tutto astratta.

Rispetto al revisionismo e al riformismo socialdemocratico, Gramsci assume giustamente il ruolo (attribuito notoriamente a Kautsky) di defensor fidei. Egli riconosce la necessità di integrare il pensiero di Marx con una riflessione più profonda sul rapporto tra infrastruttura e sovrastruttura, ma senza stravolgerne l'impianto globale storicistico.

La convinzione di Gramsci della completa autonomia della filosofia marxista si fonda, come accennato in un'altra note (ed è questo il fattore intrinseco), sullo storicismo assoluto, vale a dire sulla valorizzazione al massimo grado dell'attività dell'uomo che trasforma il mondo, adattandolo alle sue esigenze, trasforma se stesso attraverso l'evoluzione dei processi storici e, alla fine, intuita la possibilità di creare un mondo fatto a  misura d'uomo, ribalta e sormonta il sistema sociale capitalistico che, pur avendo prodotto i presupposti atti a crearlo, per le sue contraddizioni intrinseche tende a mantenere uno status quo che viola i bisogni e i diritti di una parte significativa della popolazione.

Che il marxismo, eliminando qualunque riferimento alla trascendenza, e impegnando l'uomo a utilizzare l'enorme ricchezza sociale (materiale e "spirituale") prodotta nel corso della storia al fine di promuovere un salto sulla via di una civiltà superiore, sia una filosofia teorico-pratica del tutto originale è indubbio.

Certo, la storia della cultura, come Gramsci ricorda più volte nei quaderni, ha riconosciuto parecchie utopie filosofiche - dalla Citta di Dio di Agostino di Ippona alla Città del Sole di T. Campanella, all'Utopia di T. Moore, a Erewhon di S. Butler, ecc.-, ma si è trattato di "plastici" immaginari senza alcuna conseguenza pratica. La filosofia marxista, invece, promuove invece concretamente la realizzazione del "sogno" che Marx ha identificato come presente da sempre al fondo della mente umana.

Gramsci ha perfettamente ragione nel sostenere che, se il pensiero di Marx postula di essere integrato nelle sue inevitabili lacune, l'integrazione non deve snaturarne il nucleo essenziale, vale a dire il riferimento ad una dialettica storica che, per effetto del costituirsi di una volontà collettiva, possa esitare in un salto di qualità rivoluzionario che avvia la costruzione di una civiltà di livello superiore.

Che la filosofia marxista, però, possa perseguire tale progetto sulla base di uno storicismo umanistico assoluto è, oggi, del tutto contestabile.

Almeno per due aspetti, infatti, essa va necessariamente integrata in quanto intrinsecamente carente.

Per un verso, infatti, se è vero che l'uomo nasce dal momento in cui comincia a trasformare il mondo per adattarlo ai suoi singolari bisogni, e quindi a lavorare e a produrre beni, non è meno vero che sia il suo essere carente in rapporto agli altri animali (tal che egli non può vivere sulla base di un corredo istintivo che si è drammaticamente depotenziato) sia il suo essere dotato di potenzialità atte a sopperire a tale carenza dipendono dall'evoluzione naturale e non da quella culturale, che le utilizza.

Che l'uso di tali potenzialità abbia poi determinato, ad un certo punto dell'evoluzione storica, con la rivoluzione neolitica, un surplus di beni che ha prodotto la divisione del lavoro intellettuale da quello materiale e una determinata stratificazione sociale (la nascita delle classi) è un fatto che, in sé e per sé e nei suoi sviluppi, va indagato alla luce della filosofia marxista.

Nulla, però, rende meglio l'idea del rapporto tra natura umana (struttura del cervello) e cultura del fatto che il cervello umano, con le sue potenzialità specifiche, è affiorato evolutivamente da 200000 a 150000 anni fa, ma un salto di qualità sulla via della realizzazione di esse (attestato da manufatti di una certa complessità e da raffigurazioni artistiche) sia intervenuto solo 50000-30000 anni fa.

La biologia, insomma, ha preceduto la cultura. Questo dato, se non contrasta con la storicità dei processi sociali e la storicità dell'esperienza dei singoli individui immersi nel flusso della storia, non è in alcun modo compatibile con lo storicismo assoluto.

Il secondo aspetto è legato  al fatto che il  funzionamento del cervello produce, in conseguenza dell'immersione in un contesto sociale, un'esperienza mentale specificamente umana, vissuta cioè dal soggetto, almeno a livello cosciente, come sua particolare esperienza.

Il marxismo è nato sulla base di una conoscenza della mente quasi esclusivamente riferita alla coscienza. Ancora Lenin, in pieno Novecento, avanza l'ipotesi della teoria del rispecchiamento, che si basa sulle seguenti  affermazioni: "La prima è quella dell'oggettività o esteriorità del reale, cioè dell'essere materiale e sensibile, rispetto al pensiero. La seconda è l'affermazione della piena conoscibilità del reale da parte del pensiero: cioè che il pensiero può, in via di principio, penetrare interamente la realtà, perché infinito al pari di essa. La terza, infine, è l'affermazione dell'inesauribilità del reale da parte del pensiero: il che vuoi dire che, se il reale è comprensibile dalla mente, esso tuttavia non si risolve mai interamente nel pensiero, non si identifica con esso, ma lo trascende perennemente, così che la nostra conoscenza è, di volta in volta, solo una conoscenza approssimata, perfettibile, ma mai capace di adeguarsi perfettamente alla realtà." (L. Colletti, http://www.treccani.it/enciclopedia/marxismo).

Oggi, occorre tenere conto che la scoperta freudiana dell'inconscio prima (che Gramsci non ha inteso approfondire), gli sviluppi della psicoanalisi poi e infine il cognitivismo hanno ormai drasticamente ridimensionato il ruolo della coscienza, alla quale si attribuisce la consapevolezza del 5-10% dell'attività mentale. Il resto dell'attività mentale si realizza a livello inconscio laddove si danno processi altamente significativi che in gran parte influenzano e per alcuni aspetti determinano il modo di pensare, di sentire e di agire degli esseri umani.

L'inconscio non è più, però, come lo intendeva il primo Freud, uno sgabuzzino ove si accumulano alla rinfusa memorie, fantasie, desideri di ordine meramente privato. Esso è la dimensione mentale dove attecchiscono le tradizioni culturali, il conformismo, il senso comune, ecc.: i temi, insomma, che Gramsci ha affrontato pionieristicamente.

L'importanza di questo aspetto, per cui la coscienza diventa l'epifenomeno di processi che in gran parte si realizzano al di sotto di essa in virtù dell'interazione con l'ambiente, non può essere minimizzata se si tiene conto che la possibilità di programmare la formazione di una coscienza critica individuale e collettiva, atta a promuovere il salto ad un livello di civiltà superiore, deve fare i conti con il peso che l'attività mentale inconscia esercita sulla coscienza.

In uno dei suoi aforismi più densi, Marx ha scritto: "Il peso di tutte le passate generazioni grava come un incubo sul cervello dei viventi." (Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte). Occorrerebbe prenderlo sul serio, ma, a tal fine, occorre interrogarsi sul rapporto che il singolo soggetto, anche senza rendersene conto, intrattiene con tutte le generazioni che lo hanno preceduto...


Quaderno 5

La manipolazione religiosa dei bambini

Ricco, come sempre, di materiale eterogeneo, il Quaderno 5 si caratterizza per l'attenzione che Gramsci dedica alle religioni: Confucianesimo, Taoismo, Buddismo, Shintoismo, l'Islam. Nulla di sorprendente se si tiene conto della tendenza culturalmente onnivora di Gramsci.

Per quanto concerne la Cina, l'interesse, oltre che culturale, è anche politico. Colà, infatti,  si è realizzato nel 1912 un cambiamento epocale: il crollo della dinastia Qing, durata per quasi tre  secoli, e il passaggio alla repubblica. Dal 1921 poi è attivo un partito comunista che andrà incontro ad una scissione, ma con Mao porterà il comunismo al potere. All'epoca in cui Gramsci scrive, la situazione politica cinese è piuttosto confusa. E' evidente che il suo interessa sta nel capire come il marxismo possa radicarsi e integrarsi in un contesto caratterizzato da un'antica tradizione culturale - quella confuciana - sostanzialmente gerarchica.

Un interesse politico dello stesso genere sottende probabilmente anche le riflessioni di Gramsci sul buddismo, lo shintoismo, l'Islam. Convinto, infatti, che la filosofia marxista sia una visione del mondo autonoma e onnicomprensiva destinata a guidare l'umanità verso un livello di civiltà superiore, egli si pone presumibilmente il problema di capire come essa possa convivere per un certo periodo e poi sormontare visioni del mondo che, nel corso dei secoli, hanno impregnato profondamente la psicologia individuale e collettiva.

L'allargarsi del pensiero gramsciano su frontiere così complesse non lo distoglie dalla sua assidua attenzione nei confronti della Chiesa cattolica e del ruolo che essa svolge all'interno dell'Occidente. Non è forse un caso che nel Quaderno 5 alle correnti interne alla Chiesa (integralisti, gesuiti, modernisti) siano dedicati ben 32 paragrafi.

Gramsci coglie appieno ciò che sta avvenendo alla sua epoca: per combattere i modernisti, le cui critiche minacciano di  sgretolare alcuni principi fondamentali del potere papale ed ecclesiastico, la Chiesa si è spostata troppo a destra. Occorre correggere la rotta, riportarla al centro per assicurare ad essa l'equilibrio tra gli intellettuali e le masse popolari dei credenti, che Gramsci rileva più volte nei Quaderni come il fattore che spiega la lunga sopravvivenza dell'istituzione ecclesiale. L'impresa, però, è sempre più difficile perché il movimento del mondo verso il laicismo, l'agnosticismo e l'ateismo è progressivo.

E' vero che la tradizione cattolica è radicata secolarmente nella cultura e nella società soprattutto italiana, ma non è meno vero che qualsivoglia tradizione culturale - in quanto prodotto della storia - può essere sormontata ed estirpata.

La minaccia è seria perché se la Chiesa stigmatizza l'Illuminismo e la fiducia che l'uomo ha raggiunto, in conseguenza di esso, sul poter fare a meno di Dio, in realtà essa fa capo a sviluppi culturali più recenti. Darwin, Marx, Nietzsche e Freud - queste figure gigantesche nell'evoluzione della cultura occidentale - sono tutti e quattro univocamente atei (con un debole dubbio sull'agnosticismo di Darwin). Freud ha addirittura pubblicato, nel 1927, un saggio - L'avvenire di un'illusione - nel quale, riprendendo di sicuro alcune tematiche nietzschiane, anticipa e dà come scontata la fuoriuscita dell'umanità dall'alienazione religiosa.

La Chiesa è costretta a difendersi: lo fa irrigidendosi dottrinariamente sui dogmi, ma calandosi anche nella realtà, vale a dire accettando di essere rappresentata da un partito politico, alimentando l'attività dell'Azione Cattolica, giungendo a patti con il partito fascista, ecc.

Nel suo aprirsi ad una realtà storico-culturale per alcuni aspetti nuova, in quanto contrassegnata, in gran parte in conseguenza del marxismo, dalla messa in gioco radicale di un orizzonte trascendente, e nel suo compromettersi con essa, nel tentativo di mantenere il controllo su una visione del mondo che da secoli si è trasmessa da una generazione all'altra, la Chiesa rivela appieno le sue contraddizioni, la più clamorosa delle quali è il cieco conservatorismo che ne rappresenta l'anima più profonda: un conservatorismo che non si oppone solo, ovviamente, al marxismo ateo, ma anche al liberalismo.

Delle strategie difensive che la Chiesa adotta per mantenere l'egemonia culturale in rapporto alle visioni del mondo che, esplicitamente o implicitamente, tendono a sormontarla, Gramsci coglie un particolare minuscolo ma di grande significato. Nel § 58 egli annota: "Una delle misure più importanti escogitate dalla Chiesa per rafforzare la sua compagine nei tempi moderni è l’obbligo fatto alle famiglie di far fare la prima comunione ai sette anni. Si capisce l’effetto psicologico che deve fare sui bambini di sette anni l’apparato cerimoniale della prima comunione, sia come avvenimento familiare individuale, sia come avvenimento collettivo: e quale fonte di terrori divenga e quindi di attaccamento alla Chiesa. Si tratta di «compromettere» lo spirito infantile appena incomincia a riflettere."

Perché questo aspetto è particolarmente importante? Perché Gramsci ritiene giustamente che la visione del mondo cattolica, orientata a produrre coscienze che si affidano a Dio e alla Chiesa, e quella marxista, orientata viceversa a produrre coscienze critiche, siano di fatto incompatibili. Il problema è che la dottrina cattolica, nonostante la sua sostanziale complessità, può essere esposta ai bambini sotto forma di racconto catechistico, vale dire sotto forma di una "fiaba" densa di significati simbolici atti a colpire la loro mente (e aggiungerei il loro inconscio), mentre la teoria marxista non si presta ad un uso del genere. Per essere compresa, infatti, richiede un certo livello di sviluppo cognitivo e un'attrezzatura culturale.

Nella prospettiva, alla quale sicuramente Gramsci tiene, di una competizione tra visioni del mondo che non possono coesistere nella stessa mente (se non eventualmente recuperando il significato originariamente comunistico del messaggio cristiano), è evidente che la misura in questione, introdotta da Pio X nel 1908, dà un vantaggio sostanziale alla religione: permette, per l'appunto, ad essa "di «compromettere» lo spirito infantile" quando ancora esso è a mala pena in grado di  riflettere.

In conseguenza di tale compromissione, lo sviluppo di una coscienza critica e laica è oltremodo difficile.

Lo sdegno di Gramsci è del tutto giustificato. Alle origini del Cristianesimo, l'ingresso nella comunità dei credenti attraverso il battesimo è vincolato al Catecumenato, una pratica di iniziazione che non riguarda i bambini, ma gli adolescenti e gli adulti, e in genere dura alcuni anni. Solo dopo alcuni secoli, sopravviene l'usanza di battezzare i bambini, che entrano a far parte pienamente della comunità dei credenti solo in seguito alla Cresima.

La decisione di Pio X segnala l'intuizione di un processo di secolarizzazione che, all'epoca, per via del liberalismo laico, del socialismo e dell'anarchia, si è avviato e sembra incoercibile.

Nell'ambito del "mercato" delle coscienze, la cui competitività è rivolta a farle aderire ad una determinata visione del mondo, si tratta di un gioco "sporco". Gramsci lo coglie con grande chiarezza.

Ma perché parlare di un gioco "sporco" se, come accennato in una nota precedente, il bisogno religioso sembra fare parte dell'inconscio umano? La risposta è semplice.

A livello infantile tale bisogno si esprime e si realizza sotto forma di attribuzione agli adulti (ai genitori anzitutto) di qualità onnipotenti, sotto forma, insomma, di divinizzazione di essi. La funzionalità di questa fase di sviluppo (per alcuni aspetti "ipnotica") è chiara: serve, per un verso, a tutelare il bambino dalla percezione della sua estrema vulnerabilità, e, per un altro, a renderlo influenzabile sotto il profilo educativo, a consentire la trasmissione della cultura di generazione in generazione.

La fase naturalmente "religiosa" dello sviluppo infantile tende ad esaurirsi intorno ai 5-6 anni. Senza un indottrinamento catechistico il bisogno religioso tenderebbe, presumibilmente, ad esaurirsi dando spazio ad un'educazione laica e ponendo i presupposti per la formazione di una coscienza critica affrancata dalla trascendenza.

Se si tiene conto che in Italia, l'insegnamento religioso, introdotto nelle scuole nel 1929, in seguito al Concordato, è stato pressoché di continuo incrementato fino ad introdurlo nelle scuole materne, riesce chiaro in quale misura la Chiesa tende a manipolare la mente dei bambini.

Il conflitto per l'egemonia pedagogica, di cui Gramsci ha colto un indizio importante, è insomma tuttora in atto.


Quaderno 6

L'antiscientismo gramsciano

Il termine "scienza" è usato di continuo nei Quaderni: si parla di scienza  politica, scienza economica, scienza della storia,  scienza del linguaggio, ecc. Esso, evidentemente, è usato con un significato generico, facendo riferimento ad una metodologia di ricerca e ad una disciplina intellettuale in difetto delle quali si producono i fenomeni che Gramsci accomuna sotto l'etichetta di Lorianesimo.

Gramsci però affronta anche il problema della scienza tout court, vale a dire di quell'insieme di discipline  (fisica, chimica, biologia) nate sulla base dell'adozione del metodo sperimentale le quali, in virtù di questo metodo, si sono differenziate dalle altre branche del sapere.

Che cosa è "scientifico"? è la domanda che egli  si pone nel §180 e tornerà ripetutamente in altri quaderni. La risposta è netta:

"L’equivoco intorno ai termini «scienza» e «scientifico» è nato da ciò che essi hanno assunto il loro significato da un gruppo determinato di scienze e precisamente dalle scienze naturali e fisiche. Si chiamò «scientifico» ogni metodo che fosse simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali, divenute le scienze per eccellenza, le scienzefeticcio. Non esistono scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, «un metodo in sé». Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato, una propria logica, la cui generalità e universalità consiste solo nell’essere «conforme al fine»."

L'asserzione anticipa sorprendentemente le conclusioni dell'epistemologo "anarchico" Paul Feyerabend, la cui opera principale dal titolo Contro il metodo (1975) contesta, per l'appunto, che vi siano regole metodologiche costantemente applicate dagli scienziati, e che quindi la scienza sia una disciplina a se stante, nettamente differenziata da tutte le altre.

All'epoca, l'intento di Gramsci non è però, se non in senso lato, epistemologico, ma critico e polemico. La polemica riguarda anzitutto il positivismo, la "religione della scienza" avviata nell'Ottocento da A. Comte, contestata immediatamente e puntualmente da Marx come una forma di idealismo, la cui influenza è, però, ancora attiva all'epoca di Gramsci (basta pensare al positivismo giuridico, alla criminologia di Lombroso, ecc.).

Essa però investe anche il marxismo che, soprattutto con Kautsky, ha tentato di integrare la filosofia marxista con l'evoluzionismo darwiniano giungendo a negare la dialettica in nome di un'estensione alla storia delle leggi dell'evoluzione naturale, che comporta un lento, graduale e fatalistico processo di cambiamento della struttura sociale e della cultura.

La polemica gramsciana ha anche un carattere radicale: parlando di "scienze feticcio" e contestando che esse godano di un primato culturale in conseguenza del metodo che adottano, Gramsci tende ad invalidare quel primato in nome, evidentemente, dell'estensione del criterio di scientificità a qualunque ricerca portata avanti con metodo adeguato e conforme al fine che essa si prefigge.

E' agevole capire che questa estensione concerne anzitutto la filosofia marxista intesa come storicismo assoluto, capace quindi di integrare nella sua cornice di riferimento tutti i fenomeni e i processi culturali che si realizzano nel corso del processo storico, comprese quindi le scienze naturali.

Nell'ottica gramsciana anche le scienze, insomma, nella misura in cui sorgono e si sviluppano in un determinato contesto storico hanno e non possono non avere un significato sovrastrutturale, ideologico. Le verità che esse producono, dunque, non hanno un carattere assoluto, in quanto si intrecciano con l'evoluzione dei processi socio-storici e possono essere interpretate in maniera tale da avallare interessi particolari, di classe.

Se si tiene conto della parabola dell'evoluzionismo darwiniano che, attraverso la mediazione di H. Spencer, ha prodotto verso la fine dell'800 il darwinismo sociale, che è stata una delle matrici dell'elitismo politico del primo Novecento, del nazionalismo e del razzismo, la critica di Gramsci sembra del tutto attendibile.

Alla stessa conclusione si giunge tenendo conto del fatto che la teoria della relatività all'epoca di Gramsci è già pervenuta, attraverso peraltro l'elaborazione di intellettuali di formazione filosofica, ad esiti di un relativismo assoluto così marcato da contestare l'esistenza del mondo reale, oggettivo (contestazione cui Gramsci dedica grande attenzione nei successivi Quaderni).

La pertinenza della polemica gramsciana concerne, dunque, l'uso ideologico delle scienze naturali nella misura in cui esse vengono assolutizzate per ricavarne conclusioni improprie. Tale pericolo è permanente se si tiene conto che, ancora di recente, il darwinismo sociale, superato sulla carta, è spuntato fuori di nuovo sotto forma di neoliberismo, che l'evoluzionismo ha prodotto la sociobiologia, e che la fisica quantistica ha rappresentato la matrice di riferimento del postmodernismo, che riduce a mera "narrazione" ogni sapere umano.

E' evidente però che la critica  gramsciana rivolta contro il primato delle  scienze naturali è andata fuori misura misconoscendo il carattere comunque rivoluzionario dell'avvento del metodo scientifico e dei risultati da esso conseguito.

La contestazione della prematura integrazione del marxismo con l'evoluzionismo è giusta, come pure la critica del "vezzo" per cui all'epoca, e ancora oggi, tutte le discipline tendono a darsi uno statuto scientifico modellato sull'esempio delle scienze naturali. Croce stesso, per fare un esempio riportato da Gramsci, ha definito la sua filosofia una scienza pura.

Condivisibile è anche il principio gramsciano secondo il quale ogni ricerca condotta seriamente, con metodo e disciplina intellettuale, tanto più se essa fornisce verità atte ad incidere praticamente sulla realtà esistente, si può ritenere in senso lato scientifica.

Il rapporto, però, tra la filosofia marxista e le scienze intese in senso stretto  va riformulato sulla base del fatto che, oggi, alcune di esse - e in particolare la genetica e la neurobiologia - offrono dati importanti (plasticità cerebrale, neotenia, neuroni specchio, empatia) che, nel loro complesso, confermano i presupposti impliciti nell'antropologia di Marx, radicalmente incentrata sulla socialità dell'uomo come orizzonte ultimo della sua esperienza, mentre confutano altrettanto radicalmente quelli impliciti nell'antropologia borghese, che si riconduce a Hobbes e periodicamente ricade nella tentazione del darwinismo sociale.

Certo, come per ogni prodotto culturale, si dà il pericolo di un imperialismo delle neuroscienze, ma è un pericolo che può essere scongiurato riconducendole nella cornice di una panantropologia che assegna al pensiero di Marx (e ai contributi di Gramsci) il valore di una matrice fondativa.

La panantropologia oggi si può definire nei termini di un umanesimo assoluto scientifico e storico (non storicistico). I due aggettivi non sono in contraddizione tra loro se si tiene conto che la vicenda umana, la quale riconosce il suo primo movens nell'esigenza di trasformare l'ambiente naturale in modo da renderlo adeguato ai bisogni umani, va comunque ricondotta alla molteplicità delle interazioni tra il pool genetico umano, rappresentato nei singoli corredi individuali, e l'ambiente naturale e storico-culturale.

In questa ottica, il marxismo può essere assunto non già solo come filosofia che rivela i fattori  reali (infra- e sovrastrutturalei) che sottendono i processi storici, bensì come l'interpretazione di uno sviluppo fenotipico delle potenzialità intrinseche al genoma umano - quello capitalistico - che non esclude altri possibili sviluppi, uno dei quali sarebbe l'umanizzazione della natura e la naturalizzazione dell'uomo, vale a dire la realizzazione del "sogno" marxista.


Quaderno 7

Egemonia e Conformismo

Due note, implicitamente correlate tra loro, danno la misura dell'evoluzione del pensiero gramsciano riguardo al problema del cambiamento sociale. Si tratta del § 10, dedicato al problema della struttura e della sovrastruttura, e del § 12, dedicato al conformismo, il cui titolo è L’uomo-individuo e l’uomo-massa.

Nel primo l'analogia tra guerra militare e lotta politica, ricorrente nei Quaderni, dà luogo alla distinzione tra guerra manovrata e guerra di posizione.

A lungo, la strategia marxista in Occidente ha assunto come modello di riferimento della rivoluzione l'esempio della presa di potere di Lenin in Russia. Anche Gramsci, nella sua fase militante giovanile (dal 17 al 20) ha ceduto al fascino di quell'evento epocale.

La riflessione in carcere lo porta a capire qual è stato l'errore a riguardo: aver considerato l'elemento economico - vale a dire la situazione di disagio degli operai e dei contadini - come "l'artiglieria campale nella guerra il cui ufficio era quello di aprire un varco nella difesa nemica, sufficiente perché le proprie truppe vi facessero irruzione e ottenessero un successo strategico definitivo o almeno nella linea necessaria del successo definitivo." Aperto il varco, sarebbe occorso, sul piano politico, "di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; di creare fulmineamente la concentrazione dell’ideologia e dei fini da raggiungere."

L'errore, insomma, consiste nel non avere tenuto conto che "per ciò che riguarda gli Stati più avanzati [...] la «società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.): le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna."

Per riproporre un progetto rivoluzionario "si tratta dunque di studiare, con profondità, quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione."

Il discorso al riguardo è, ovviamente, complesso perché i sistemi di difesa della società capitalistica sono molteplici. Gran parte delle riflessioni di Gramsci sull'ideologia liberale, sui partiti politici che la sostengono, sul ruolo della Chiesa cattolica, sulla funzione degli intellettuali moderati o conservatori, sulla stampa, ecc. si possono ritenere orientate ad illuminare e ad analizzarli.

Nel Quaderno 7, l'attenzione di Gramsci si concentra, per l'appunto, su uno di essi, forse il più inquietante: la  "tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel passato" in conseguenza della quale "la standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali".

Tale tendenza è riconducibile sostanzialmente, secondo Gramsci, ai nuovi  processi che investono il mondo della produzione - "grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione ecc." - la cui incidenza sulla psicologia individuale è tale da dare luogo all'uomo-collettivo, il cui modo di sentire, di pensare e di agire è conforme ai fini del sistema.

Gramsci afferma giustamente che "il  conformismo è sempre esistito". Di fatto, ogni società tende a produrre gli individui di cui ha bisogno per mantenere la sua identità, la sua coesione, il suo modo di produzione, e per perpetuarsi (riproduzione sociale).

E' pur vero, però che il conformismo proprio di una società di massa, qual era già quella all'epoca dei primi decenni del Novecento, presenta caratteristiche differenziali rispetto al passato. Esso, infatti, è caratterizzato da una maggiore pressione normativa operata dal modello dominante borghese che, in una certa misura, orienta tutti i membri della società ad acquisire l'etica del lavoro e a sforzarsi di raggiungere se non uno status una mentalità piccolo-borghese, incentrata sul valore supremo della rispettabilità e foriera di ulteriori avanzamenti nella scala sociale.

All'epoca di Gramsci, però, quel modello è andato in crisi per la pressione esercitata per un verso dal socialismo e dal comunismo - con le loro valenze comunitaristiche universali - e, per un altro, dal fascismo - con le sue valenze comunitaristiche ma nazionalistiche.

Scrivendo che il problema è da ricondurre alla "lotta tra «due conformismi» cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile", Gramsci semplifica un po' le cose. Tanto più che egli riconduce la crisi al fatto che : "I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro «prediche» sono diventate appunto «prediche», cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi."

In realtà i "vecchi dirigenti intellettuali e morali della società" con il loro  conformismo borghese non solo riescono ad arginare la spinta del socialismo alleandosi con il fascismo, ma riescono anche ad inquinare le istanze di questo a loro originariamente ostili, e a sopravvivere ad esso (cosa che Gramsci ovviamente non può sapere).

Esclusa una rivoluzione sotto forma di guerra manovrata, il superamento del conformismo borghese si pone come un problema estremamente arduo. Di sicuro si tratta di una lotta per l'egemonia, ma, a ben vedere, tra un'egemonia profondamente radicata nel sistema socio-economico e politico e nella psicologia individuale e collettiva, e un'egemonia - quella legata al marxismo - che fa presa sostanzialmente su di una minoranza della popolazione.

La lotta per l'egemonia, all'epoca come in parte ancora oggi, è impari. All'inizio del Novecento, il capitalismo ha già alle spalle due secoli. Ha avuto tutto il tempo, dunque, di mascherare la sua logica intrinseca sotto il velo di valori -  proprietà, libertà, merito individuale - che sono immediatamente suggestivi. Il marxismo, invece, eccezion fatta per il concetto di sfruttamento, è una filosofia piuttosto complessa, che postula l'affrancamento da diverse forme di alienazione - economica, politica, religiosa - che non sono immediatamente vissute dai soggetti.

Il conformismo borghese alimenta la cura da parte dell'individuo dei suoi interessi privati, corrobora, insomma, come accennato in un'altra nota, una logica ego-centrica se non addirittura egoistica, mentre il marxismo promuove la subordinazione di tale logica alla logica sovraindividuale del bene comune.

Sventolare il vessillo della proprietà e della libertà - valori che hanno un'immediata risonanza nella mente umana e comportano anche la possibilità di ascendere socialmente (in gran parte teorica o comunque limitata solo a pochi membri dei ceti subordinati) -, è molto più facile che far capire cosa significa sul piano individuale e collettivo un tragitto di liberazione individuale e collettivo dall'alienazione.

Il presupposto di tale tragitto, infatti, è la consapevolezza dell'alienazione stessa, che il conformismo tende ad inibire.


Quaderno 8

Il controllo umano sui processi storici

"§61 Machiavelli. La quistione: che cosa è la politica, cioè quale posto l’attività politica deve avere in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in una filosofia della praxis, è la prima quistione da risolvere [...] perché è la quistione della filosofia come scienza."

Il marxismo nasce sulla base della scoperta della subordinazione della politica all'economia e comporta come suo fine il rovesciamento di questo rapporto in nome del primato del bene comune, del quale il partito comunista deve farsi carico, sugli interessi particolari.

Da questo punto di vista, è vero che l'attività politica è efficace solo se essa si fonda su "una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente)" che trova sul terreno della praxis la possibilità di realizzarsi e che tale realizzazione postula un Partito (il novello Principe) che organizza e guida una volontà collettiva.

Il problema è quanto il mondo, sia pure inteso come un prodotto storico, sia governabile e pianificabile.

Il discorso deve partire da lontano.

L'intuizione che il mondo storico è un sistema complesso è  implicita in parecchi pensatori del passato.

A ben vedere, essa si ritrova anche in A. Smith e nella sua teoria della mano invisibile, secondo la quale nel sistema economico che prende l'avvio con la rivoluzione industriale, l'agire di indefiniti agenti che perseguono univocamente i propri interessi dà luogo misteriosamente ad un equilibrio sistemico. La teoria smithiana pone in luce l'emergere di un certo ordine sullo sfondo di un caos apparente.

Marx ha buon gioco nel rilevare: primo, che la mano invisibile sembra incline a favorire un certo ordine che coincide con gli interessi della classe dominante; secondo, che essa non scongiura affatto crisi ricorrenti sistemiche, che impongono una ristrutturazione del sistema stesso.

Marx, come Gramsci, non pone in dubbio il carattere complesso del sistema capitalistico: anticipando la sua inevitabile globalizzazione, anzi, lo accentua. Adottando la dialettica, che comporta l'emergere della qualità dalla quantità, come chiave di comprensione della realtà storica, Marx di fatto anticipa la teoria dei sistemi complessi.

Di cosa si tratta?

Un sistema complesso è un qualunque insieme di elementi o parti diversi tra loro e numerosi che evolve nel corso del tempo. Una società rientra pienamente in questa categoria.

Un sistema dinamico può essere lineare o non lineare; nel primo caso esso è deterministico, vale a dire governato da leggi di causa-effetto che si possono rappresentare matematicamente; nel secondo è indeterministico, vale a dire non governato da leggi che consentono di operare previsioni certe, ma, al tempo stesso, caratterizzato da un'evoluzione che può comportare repentinamente discontinuità qualitative (catastrofi, le quali danno luogo alla destrutturazione del sistema e alla sua ristrutturazione in una nuova forma).

L'applicazione di questi principi all'evoluzione dei processi storici e dei sistemi sociali è problematica solo per un aspetto. Nei sistemi fisici e biologici le variabili che determinano lo stato del sistema sono di ordine meccanico (sono "forze"), mentre nei sistemi sociali esse si riconducono all'agire, consapevole o inconsapevole, di esseri umani dotati di volontà.

Non è certo una piccola differenza, che però viene ad essere minimizzata nel momento in cui prende atto che nella sua espressione comportamentale più rilevante, che concerne la distribuzione del potere e della ricchezza sociale, lo stato di un sistema sociale è di fatto determinato dal rapporto di "forze" che si dà tra le classi o gli agenti sociali aggregati da una visione del mondo comune (sia essa eterogenea o omogenea).

Tenendo conto di questa analogia, è più agevole capire i concetti di conservazione, innovazione e rivoluzione.

Gramsci scrive:

"§ 27 Una determinata corrente storicistica pone a suo fondamento e dichiara solo storicistico un metodo d’azione in cui il progresso storico (lo svolgimento) risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione...

In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva superando il passato, è anche vero che il passato è cosa complessa e che è dato scegliere in questa complessità...

Ciò che sarà conservato nel processo dialettico sarà determinato dal processo stesso, sarà un fatto necessario, non un arbitrio di così detti scienziati e filosofi."

L'orientamento politico conservatore ritiene lo stato del sistema realizzato, se non ottimale, il migliore possibile. Esso non esclude la necessità che debbano darsi dei cambiamenti, ma li programma e li realizza in termini minimali, tali dunque da non alterare l'equilibrio sistemico.

L'orientamento riformistico accetta che, nella forma storicamente raggiunta, il sistema debba essere mantenuto, ma pone l'accento su cambiamenti indispensabili, e talora anche rilevanti, atti ad impedire che esso raggiunga uno stato di instabilità, foriero di possibili destrutturazioni "catastrofiche".

L'orientamento rivoluzionario, infine, fa riferimento alla necessità di cambiamenti radicali del sistema resi necessari dalle crisi di instabilità cui esso periodicamente va incontro e cerca di utilizzarle al fine di produrre un salto di qualità (una catastrofe) che dia luogo ad una nuova formazione economico-sociale.

Gramsci non è un rivoluzionario fanatico. Uomo di cultura, egli sa che nel patrimonio della civiltà occidentale - ricchissimo dal punto di vista filosofico, artistico, letterario,  scientifico, ecc. - c'è molto da conservare, ma sa anche che  tale patrimonio potrà essere fruito da tutti gli esseri umani solo in virtù di un nuovo sistema socio-economico che lo ponga al servizio del loro sviluppo.

In ciò, nell'essere determinato ma non fanatico e nel pensare che un cambiamento radicale del sistema sociale debba avvenire solo per effetto di una volontà collettiva orientata consapevolmente a produrlo, egli è un degno erede di Marx, del Marx secondo il quale il comunismo è la riappropriazione da parte della società della ricchezza sociale (materiale e "spirituale") prodotta nel corso della storia, che viene finalmente posta sotto il controllo e al servizio dell'uomo.

Alla luce della teoria dei sistemi complessi, che, tra l'altro comporta il riferimento alla possibilità che una rivoluzione intervenga a partire da qualsivoglia stato del sistema in questione (quindi anche da uno stato di apparente equilibrio), rimane il problema se agenti consapevoli possano e in quale misura incidere su dinamiche sistemiche caratterizzate da indefinite variabili, se sia possibile, in pratica, che gli esseri umani giungano a prendere il controllo sul loro destino.

Escludere tale possibilità, significa relegare il marxismo nell'ambito delle utopie senza senso.

E' vero, però, che il riferimento alla teoria dei sistemi complessi porta a ritenere improbabile, se non impossibile, una rigida pianificazione centralizzata.

Posto che si dia una volontà collettiva dotata di una coscienza universale (che va prodotta politicamente e culturalmente), consapevolmente orientata verso l'umanizzazione del mondo, il controllo va, forse, ricondotto alla metafora di una grande imbarcazione a vela che si mantiene in rotta nonostante le fluttuazioni di indefinite variabili che, in sé e per sé, si sottraggono al controllo volontario del capitano e dell'equipaggio.


Quaderno 9

Nazionalismo e Internazionalismo

"§ 89 È certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la prospettiva e mettere al fuoco l’Italia e non l’Europa...

Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia della penisola italiana, non esiste nella storia dell’Europa e del mondo; in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione francese e del liberalismo."

Gramsci è del tutto consapevole che il Risorgimento  è un evento storico che ha un valore meramente nazionale non epocale come la Rivoluzione francese (per quanto  si intrecci con molteplici influenze esercitate su di esso da parte di altre nazioni europee).

Sulla base di questa consapevolezza, però, come giustificare l'enorme mole di appunti che egli dedica al Risorgimento?

La risposta è fornita nel § 107, laddove si legge:

"Se scrivere storia significa fare storia presente, è grande libro di storia quello che nel presente crea forze in isviluppo più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive."

La storia presente con cui Gramsci si confronta  è caratterizzata dal nazionalismo fascista che, rievocando i fasti della Roma imperiale crea un canovaccio interpretativo retorico:

"§104 [2]. Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è legato alla «pretesa» di trovare un’unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi."

Tale interpretazione ha come conseguenza di identificare nel Fascismo un nuovo Risorgimento in rapporto alla "vittoria mutilata", che mira ad assegnare all'Italia il ruolo di grande potenza, e quindi implica un'espansione nazionalistica.

Al riguardo Gramsci scrive:

"§127 Il moto nazionale che condusse all’unificazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo nazionalistico e militare? Questo sbocco è anacronistico e antistorico; esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche...

Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata."

Questa forma più avanzata è legata, secondo Gramsci, ai ceti subordinati e ai suoi intellettuali:

"§127 Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà.

Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. E popolo italiano è quello che «nazionalmente» è più interessato all’internazionalismo. Non solo l’operaio ma il contadino e specialmente il contadino meridionale."

Scritte in un periodo di imperante nazionalismo, queste affermazioni di Gramsci, che implicano una straordinaria fiducia nei ceti subordinati e negli intellettuali che operano per portarli a sviluppare una visione del mondo unitaria, omogenea e affrancata dai particolarismi e dal nazionalismo deteriore, sono sorprendenti, tanto più se si tiene conto che, all'epoca in cui sono state messe sulla carta, la Terza Internazionale, istituita a Mosca nel 1919,  è "degenerata" per effetto dello stalinismo e in pratica subordina le esigenze dei partiti comunisti dei vari stati agli interessi nazionali sovietici.

L'Internazionalismo, insomma, è già un sogno: ritenerne depositario il popolo lavoratore italiano (l'operaio, il contadino e in particolare il contadino meridionale) non ha alcun fondamento.

Il carattere utopistico del pensiero gramsciano al riguardo è paradossale data l'insistenza con cui, nei Quaderni, si fa presente di continuo che il carattere differenziale della filosofia marxista è la sua "concretezza", l'analizzare cioè, con i suoi strumenti, il processo reale delle cose, identificare le forze che lo sottendono e organizzarle in maniera da far prevalere quelle capaci di risolverne le contraddizioni.

Nel caso in questione, la famosa formula "pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà" sembra rovesciata: il giudizio che Gramsci esprime sull'internazionalismo dei ceti subordinati italiani è radicalmente ottimistico.

Come si spiega questa contraddizione? Nella maniera più semplice. Considerando che, in carcere, Gramsci non ha alcuna possibilità di agire che non si riduca a scrivere i Quaderni e le lettere. E' la situazione di impotenza che lo spinge a ricostruire una situazione sociale del tutto inattendibile.

Il suo ritenere le masse operaie e contadine eredi del cosmopolitismo romano e medievale fa il paio con l'affermazione di Marx secondo il quale i proletari sono gli eredi della filosofia classica tedesca.

Anche i Grandi ogni tanto vaneggiano, ma mai senza costrutto. Per quanto concerne Gramsci, l'intuizione che il nazionalismo è anacronistico, tanto più che l'economia è in via di internazionalizzazione, e che dunque per evitare il dominio del capitale transnazionale sui governi locali, è necessario un soggetto politico che abbia un orizzonte internazionale e una coscienza universale, non è solo fondata, ma avveniristica. Essa, infatti, ha anticipato gli sviluppi della globalizzazione capitalistica che hanno di fatto, se non esautorato, limitato in maniera drastica il potere dei governi nazionali, i quali sono stati costretti a confluire in raggruppamenti (G7, G8, G20) che tentano di mettere a fuoco misure di controllo del libero flusso dei capitali finanziari risultate finora poco efficaci.

Si tratta comunque di strategie verticistiche, che vengono adottate da capi i quali, in misura più o meno rilevante sono coinvolti nel sistema capitalistico e hanno i loro interessi (e quelli della classe di appartenenza) da difendere.

Il soggetto politico cosmopolita cui fa riferimento Gramsci, e che egli vede già in via di formazione alla sua epoca, di fatto non esiste.


Quaderno 10 e 10b

Che cosa è l'uomo

In una nota precedente, ho fatto presente che il problema antropologico - vale a dire, nei termini gramsciani, di che cosa è l'uomo? - si ripresenta spesso nei Quaderni. Non è un caso che esso sia affrontato dettagliatamente nel Quaderno 10 dedicato alla filosofia di Benedetto Croce. Il modello antropologico gramsciano, la cui matrice è marxista, di fatto si pone come antitetico a quello idealistico implicito nel pensiero crociano.

E' riduttivo ricondurre il primo al primato dell'azione e il secondo al primato del pensiero.

La concezione antropologica gramsciana si può ricavare dalle seguenti citazioni:

"Q 10 § 17 La maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia."

"Q 10 § 54  Che cosa è l’uomo?..

ponendoci la domanda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita...

Occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura...

Se la propria individualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti...

Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato ecc.)."

"Q 10 § 54 La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa...

Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo...

Ma l’esistenza delle condizioni obiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire.

L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa.

L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso.

Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano."

Questi attributi antropologici, per essere compresi appieno, vanno inseriti in una cornice filosofica che rifiuta qualunque tipo di trascendenza, di spiritualismo e di idealismo. Tale rifiuto è espresso in maniera radicale in una nota del Quaderno 10b:

"Q 10 b § 8

La filosofia della praxis deriva certamente dalla concezione immanentista della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo...

Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come «soggettività storica di un gruppo sociale», come fatto reale, che si presenta come fenomeno di «speculazione» filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di «apparenza», non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua «storicità», del suo essere «mortevita», del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola «vita», come sola «realtà» in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo.

La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa."

Fedele allo spirito di Marx, radicalmente materialistico, Gramsci non sembra consapevole del fatto che, negando qualsivoglia forma di trascendenza, gli esseri umani devono acquisire anzitutto consapevolezza del loro essere "gettati" nel mondo dal caso.

Il marxismo anticipa la "morte di Dio" nietzschiana e, senza forse considerare adeguatamente le conseguenze di questo passaggio epocale nella storia umana, sopperisce ad essa assegnando agli esseri umani un nuovo compito. Esclusa la salvezza, l'immortalità, ecc., essi devono prendere atto della storicità della loro esperienza, di essere cioè soggetti perpetuamente interagenti con altri soggetti entro un determinato sistema socio-economico e culturale i quali devono prendere posizione e agire. In nome di che?

In nome della libertà:

"Q 10b § 10

La storia è libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione, lotta in cui la libertà e la rivoluzione continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione."

La libertà in questione non è un valore astratto, non è un diritto (se non in senso formale): è una conquista che il soggetto può realizzare tenendo conto delle circostanze ambientali e agendo su di esse al fine, per quanto possibile, di modificarle.

In questa concezione della libertà riecheggia il messaggio di Marx: "chi libera sé libera gli altri."

Un miglioramento etico puramente individuale è un'illusione: l'autorealizzazione individuale non può avvenire che in virtù di un conflitto con le istanze di conservazione intrinseche ad ogni sistema sociale. La conquista della libertà individuale implica l'agire atti di volontà che la realizzano ma, al tempo stesso, incidono sul contesto storico in cui l'individuo è immerso: "la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni."

Posta in questi termini, la libertà non è solo un bisogno ma un dovere che l'individuo ha nei propri confronti e nei confronti degli altri. Il divenire, da ultimo, è libertà.

Questa nobile concezione antropologica, che dà ad ogni esperienza umana il carattere di un tragitto di liberazione, riconosce un solo limite. Per liberarsi l'uomo deve sapere ciò che lo opprime e limita  il suo divenire sul registro oggettivo e su quello soggettivo. Ora, sul primo registro questa consapevolezza, se non immediata, è senz'altro possibile. Sul registro interiore le cose sono più complesse perché, come già accennato, la coscienza umana ha un potere di controllo molto limitato sul mare dell'inconscio su cui galleggia e nel quale sono comunemente presenti spinte motivazionali conservatrici (frutto in gran parte delle tradizioni e dell'eredità culturale) e spinte innovative. Le prime tendono a subordinare l'individuo alla volontà altrui e ad adattarlo allo status quo: fine perseguito insistentemente dalle pratiche pedagogiche e culturali. Le seconde spingono nella direzione della conquista della libertà individuale, che, di fatto, è un tragitto di liberazione che non implica solo la consapevolezza dei fattori oggettivi che la limitano o la reprimono, ma anche di quelli soggettivi.

L'esistenza di tali spinte a livello inconscio rende il tragitto di liberazione ben più complesso di quanto appaia nel pensiero gramsciano.


Quaderno 11

Il problema della falsa coscienza (1)

Gramsci ha un'acuta consapevolezza, in gran parte intuitiva, dell'insufficienza dell'antropologia marxista per quanto concerne la soggettività individuale.

Egli è lucidissimo nell'affermare che ogni uomo ha una visione del mondo, ed è dunque, lo sappia o no, un filosofo:

"§12 Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici.

Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi», definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tutto il mondo."

La filosofia spontanea di un singolo individuo è il prodotto dell'appartenenza ad un gruppo familiare (dato che è la famiglia che trasmette ai figli la sua visione del mondo) e ad un gruppo sociale (o classe):

"§ 12 Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un determinato aggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi sociali che condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uominimassa o uominicollettivi. La quistione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomomassa di cui si fa parte?"

L'omologazione culturale che, in una qualche misura è inevitabile dato che l'individuo viene al mondo sprovvisto di una visione del mondo, ma non è insormontabile. Essa, almeno per alcuni aspetti, può essere criticata e sormontata:

"§ 12 Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui è giunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticare tutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni consolidate nella filosofia popolare."

Come si passa dallo stato di coscienza omologato a quello di coscienza critica? Gramsci scrive:

"L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario."

E aggiunge:

"Non esiste infatti la filosofia in generale: esistono diverse filosofie o concezioni del mondo e si fa sempre una scelta tra di esse. Come avviene questa scelta? È questa scelta un fatto meramente intellettuale o più complesso? E non avviene spesso che tra il fatto intellettuale e la norma di condotta ci sia contraddizione? Quale sarà allora la reale concezione del mondo: quella logicamente affermata come fatto intellettuale, o quella che risulta dalla reale attività di ciascuno, che è implicita nel suo operare?"

Qui Gramsci intuisce un aspetto molto importante della soggettività (in una certa misura anticipato da Marx): tra quello che l'individuo pensa e quello che fa ci può essere uno scarto più o meno rilevante. Quello che fa, il modo cioè in cui oggettiva il suo essere nel mondo, è più importante di quello che pensa; è di fatto la sua identità:

"§ 65 In ogni personalità c’è una attività dominante e predominante: è in questa che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddizione con quello espresso ex professo."

Ma com'è possibile che un soggetto non si renda conto di  questa contraddizione? La risposta gramsciana è estremamente interessante:

"§58 1) Ognuno è indulgente con se stesso, perché quando opera non «conformisticamente» conosce il meccanismo delle proprie sensazioni e dei propri giudizi, della catena di cause ed effetti che l’hanno portato ad operare, mentre per gli altri è rigorista, perché non ne conosce la vita interiore"

Da queste notazioni, riesce chiaro che, sia pure intuitivamente, Gramsci avanza fondati sospetti sul funzionamento della coscienza che, oltre ad essere normalmente mistificata culturalmente, lo è anche per motivi che attengono il desiderio del soggetto di coltivare un'immagine di sé che non corrisponde alla realtà, com'essa si ricava dal suo agire nel mondo.

E' inutile sottolineare l'importanza di questo problema dal punto di vista politico. Esso, infatti, non solo getta più di un'ombra sulla possibilità che un adulto, culturalmente omologato e dotato di una falsa immagine cosciente di sé, possa raggiungere uno statuto critico. Si dà anche la possibilità che un soggetto, convinto di essere marxista, nel suo intimo non lo sia affatto.

Perché questa linea di pensiero non è stata approfondita da Gramsci?

La risposta più semplice fa capo al fatto che dei tre maestri del sospetto - Marx, Nietzsche e Freud - che, sia pure da prospettive e con intenti diversi, hanno gettato dense ombre sul funzionamento della coscienza, Gramsci dà credito solo a Marx, il quale, semplificando un po' le cose, riteneva che la normale alienazione ideologica della coscienza, dovuta all'influenza dell'ambiente e dell'ideologia dominante, fosse facile da sormontare per chi acquisiva l'arma della critica della teoria marxista.

Gramsci, insomma, è giunto sulla soglia di una teoria della falsa coscienza, solo in parte riconducibile all'influenza ideologica dell'ambiente, ma non può sormontarla perché dovrebbe fare i conti con pensatori (Nietzsche, Freud) che non conosce bene e non ama e, ancora peggio, con le correnti irrazionaliste del suo tempo che critica aspramente.


Quaderno 12

Intellettuali conservatori e intellettuali "organici"

Marx è stato tra i primi a rilevare e  a valorizzare il significato epocale della divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale, intervenuto in seguito alla rivoluzione neolitica, che, con l'avvento dell'agricoltura e la scoperta della scrittura, ha contrassegnato l'avvio della storia e la definizione delle classi sociali.

Non è affatto azzardato identificare il comunismo con il superamento definitivo di tale divisione. Se, sotto il profilo economico, tale superamento implica la riappropriazione sociale del lavoro morto - dell'apparato tecnologico che permette lo sfruttamento della manodopera -, sotto il profilo culturale, tenendo conto che per Marx la cultura fa parte della ricchezza sociale, esso non significa solo l'accesso dei ceti subordinati alla cultura alta, la cui espressione più elevata, secondo Gramsci, è la filosofia marxista, ma anche la riacquisizione, da parte degli intellettuali, di un contatto con il mondo sociale e con la vita quotidiana meno astratto.

L'accesso alla cultura alta da parte dei ceti subordinati, però, non può avvenire che in conseguenza di un impegno da parte degli intellettuali che avvertono l'esigenza di favorire la diffusione del patrimonio di cui sono depositari affinché esso funzioni non già più come un fattore discriminativo, bensì come un fattore di progresso collettivo.

Ciò spiega l'interesse elettivo di Gramsci per la storia degli intellettuali. La ricostruzione di tale storia pone di fronte ad un dato indubbio. Si danno intellettuali conservatori, che difendono i loro privilegi e lo status quo sociale da cui essi discendono,  e intellettuali progressisti, che avvertono l'esigenza di una crescita culturale delle masse operaie e contadine al fine di valorizzare il capitale più importante, quello umano.

Il primo gruppo è stato sempre maggioritario e di fatto lo è all'epoca di Gramsci.

Il problema che egli si pone è di promuovere l'adesione crescente di una quota di intellettuali ad un progetto - quello marxista - di cambiamento radicale dell'esistente, che non può prescindere da una cultura di massa e da una partecipazione popolare adeguata al progetto stesso.

A posteriori,  si potrebbe facilmente definire anche questa come un'utopia.

Di quel progetto, infatti,  si è fatto carico nel secondo dopoguerra il PCI con risultati sulla carta eccellenti. Di fatto negli anni '70 gli intellettuali che hanno aderito al partito sono divenuti maggioritari rispetto a quelli moderati e conservatori (fino al punto di indurre qualcuno a parlare di una "dittatura" della cultura marxista). Ciò ha inciso senz'altro (in quale misura è arduo quantificare) sulla crescita elettorale del PCI, che, comunque, non ha mai superato la soglia di un terzo della popolazione italiana.

L'arretramento del PCI, che ha preceduto la sua dissoluzione, intervenuto con l'avvento del neoliberismo, ha posto poi di fronte ad una verità amara: quella per cui, nonostante l'attività degli intellettuali "organici" al progetto della rivoluzione comunista, il 60% della popolazione italiana è attestata ideologicamente e culturalmente su posizioni di centro e di destra.

Il tentativo di mettere in atto il progetto di Gramsci da parte del PCI  si può ritenere dunque fallito. Lo scarto tra intellettuali e cultura popolare o media (piccolo-borghese) rimane rilevante.

Tra le ragioni atte a permettere di comprendere tale scarto occorre considerare anzitutto la difficoltà degli intellettuali marxisti di adottare un linguaggio accessibile ai più. Basta fare un esempio al riguardo per rendersene pienamente conto. L'Enciclopedia Einaudi, sulla carta, si prefiggeva di definire la mappa del nuovo "sapere" di cui parla spesso Gramsci: un sapere a tutto campo elaborato nella cornice della filosofia marxista. L'esito dell'impresa sono stati venti volumi difficili da leggere anche per gli addetti ai lavori.

Da questo esempio si potrebbe ricavare la conclusione che, per essere intellettuali "organici", non basta certo aderire alla filosofia marxista o politicamente al partito che si ispira ad essa; occorre sperimentare, creare e utilizzare un linguaggio divulgativo che sia, al tempo stesso, chiaro e rigoroso: un obiettivo che sembra ancora oggi arduo da raggiungere.

Posto che esso fosse raggiunto, si pone poi il problema della sua fruizione. Per promuovere un salto di qualità culturale per cui uno o più soggetti riescono, almeno in qualche misura, ad affrancarsi dal senso comune, occorre che essi siano disponibili ad impegnarsi. Senza una partecipazione attiva, il nuovo "sapere" rimane depositato nei libri o nelle riviste.

Purtroppo, questa partecipazione sembra essersi ridotta con l'avvento dei mass media, e della televisione in particolare. Se si considera il ruolo che questo nuovo mezzo ha svolto a livello culturale, si può tranquillamente dire che esso ha contribuito senz'altro all'innalzamento della cultura media della popolazione, ma in stretto riferimento alla cultura borghese: ha prodotto, insomma, nel bene e nel male, l'omologazione culturale di una quota rilevante di cittadini (i cosiddetti moderati) in rapporto ad un sistema di valori che non è in toto negativo, ma di certo tende a conservare l'esistente più che a cambiarlo.

Si danno motivi insomma per ritenere che lo scarto di cui si è parlato, anche se non fa più solo riferimento alla divisione del lavoro intellettuale da quello manuale bensì ad una visione del mondo aperta all'universale o schiacciata sul particolare, non possa essere colmato.

Occorre, però, chiedersi se il fallimento del progetto gramsciano portato avanti dal PCI non sia da ricondurre al fatto che esso è stato portato avanti in rapporto alla classe elettorale degli adulti, e non si sia mai tradotto in un modello di formazione della personalità in fase evolutiva.

Non è un caso che Gramsci abbia raccolto nello stesso Quaderno le riflessioni sugli intellettuali e quelle sulla scuola e la formazione. Riflessioni datate ovviamente perché fanno riferimento ad un contesto storico nel quale si era già avviata l'esperienza della scolarizzazione di massa, la cui finalità era di promuovere l'alfabetizzazione della popolazione e l'interiorizzazione dell'etica del lavoro, ma sulla base di differenze sociali che comportavano una netta scissione tra un tragitto, sostanzialmente umanistico, destinato a produrre il ceto dirigenziale, e un altro orientato verso l'apprendimento professionale, verso cioè l'acquisizione di competenze tecniche specifiche. Scuola oligarchica e scuola di massa, insomma.

A questa separazione, Gramsci contrappone il modello di una scuola unitaria, che dia a tutti una formazione di base umanistica e scientifica al di là della quale le attitudini individuali potranno dispiegarsi sul terreno della specializzazione.

Un modello del genere rimane ancora oggi come un riferimento obbligato per chiunque ritenga che l'ingente patrimonio di sapere che l'umanità ha accumulato nel corso della storia debba essere utilizzato pienamente a livello scolastico al fine di promuovere la formazione di coscienze universali, e dunque critiche.

Se si prescinde, però, dall'utopia di un mondo nel quale tutti i cittadini siano intellettuali enciclopedici, si tratta di capire come un modello del genere possa realizzarsi. Al riguardo c'è poco da dubitare. Per un verso, si tratta di sterilizzare l'insegnamento dai residui idealistici che ancora lo caratterizzano e fanno della cultura, oltre che un potente strumento di integrazione sociale, un attributo narcisistico della personalità. Occorrerà, a riguardo, tenere conto che la cultura ha due potenzialità: essa può di sicuro promuovere lo sviluppo di una personalità nella direzione di una coscienza universale, ma può, nondimeno, alimentare anche una chiusura individualistica ed elitaria.

Per un altro verso, si tratta di inserire nel tragitto di formazione comune due saperi che hanno assunto di recente una straordinaria importanza, ma non fanno parte dei programmi ministeriali: l'Economia, per un verso, e le Scienze umane e sociali (soprattutto la psicoanalisi e la neurobiologia) per un altro.

Non avrebbe senso progettare una scuola marxista. A mio avviso, però, l'integrazione del sapere umanistico con lo studio critico dell'Economia e delle scienze umane e sociali porterebbe"naturalmente" alla formazione di coscienze critiche; avvierebbe, insomma, il superamento della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.


Quaderno 13

Machiavelli e Marx

L'interesse di Gramsci per Machiavelli è attestato dal fatto le citazioni che lo concernono  sono quasi alla pari di quelle di Croce e di Marx.

Tale interesse è sicuramente riconducibile all'influenza del De Sanctis che, in un capitolo della Storia della letteratura italiana (1870), assume Machiavelli come punto di svolta della cultura italiana, portatore dello spirito moderno e precursore dell'Unità italiana (al punto che in riferimento all'ingresso dei bersaglieri a Porta Pia scrive: "«Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli»).

Esso peraltro è  dovuto al fatto che Gramsci identifica nel Partito il moderno Principe e, su questa base, ritiene il Machiavelli il fondatore della scienza politica, vale a dire il precursore di una politica fattuale, capace cioè di incidere concretamente sulla realtà e di dare luogo ad una radicale riforma morale e culturale. In questa ottica, mutatis mutandis, Machiavelli è anche il precursore di Marx.

A riguardo, Gramsci è esplicito: occorrerebbe "uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell‘azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe."

Purtroppo questo studio Gramsci non lo ha mai realizzato. Se lo avesse fatto, si sarebbe imbattuto in due difficoltà. La prima sarebbe stata legata al fatto che se l'avvento del comunismo in Russia corrisponde senz'altro al machiavellismo positivo di Lenin, l'evoluzione stalinista del regime sovietico  si è realizzata sulla base del machiavellismo negativo, vale a dire del famigerato principio per cui "il fine giustifica i mezzi" (qualunque mezzo, omicidio compreso). Comunista rozzo, ma senz'altro in buona fede, Stalin ha sempre giustificato il "terrorismo di Stato" con la necessità di difendere la rivoluzione proletaria dalla minaccia del capitalismo borghese.

La seconda difficoltà è di ordine più complesso. Gramsci ammira profondamente la "concretezza" di Machiavelli, che intende fornire al Principe  gli strumenti per incidere sulla realtà sociale e orientarlo verso il raggiungimento effettivo dei fini che egli si prefigge. Identifica la stessa concretezza in Marx la cui filosofia è intesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Non è per caso che egli definisce  il suo marxismo come Filosofia della prassi, sottolineando il rilievo politico della volontà collettiva, organizzata dal Partito, il nuovo Principe.

Questa ammirazione, però, non tiene conto del fatto che nonostante l'esaltazione comune ad entrambi di un pensiero e di una pratica politica fondata sulla realtà effettuale e capace di incidere su di essa, Machiavelli e Marx sono di fatto due utopisti: in pieno Cinquecento, vale a dire nel corso di un secolo dominato dalla Spagna e dalla Francia e attraversato da terribili guerre di religione, Machiavelli vede possibile un'impresa - quella di unificare l'Italia -, che, di fatto, maturerà solo tre secoli dopo e si realizzerà, peraltro, con il concorso decisivo di una nazione straniera (la Francia).

Marx, a metà dell'800, nell'epoca stessa in cui, superata la crisi del '48, si avvia il trionfo della borghesia, vede imminente la possibilità di una Rivoluzione che instauri la dittatura del proletariato e promuova il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, dal regno dell'oppressione e dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo ad un mondo pacificato e umanizzato (se non addirittura paradisiaco).

Il problema è che, come militante politico, anche Gramsci ha pagato il suo prezzo all'utopia, immaginando possibile una rivoluzione analoga a quella realizzata da Lenin in un contesto - quello italiano - caratterizzato da una forte borghesia e da un orientamento popolare incline a privilegiare l'ordine e la sicurezza rispetto al disordine necessario per realizzare una rivoluzione.

La sua riflessione sul Machiavelli tiene conto della delusione e della sconfitta, e cerca di definire un progetto che possa portare a buon esito le istanze, consapevolmente o inconsapevolmente, rivoluzionarie delle classi subordinate.

Tale progetto verte per l'appunto sull'identificazione nel Partito del nuovo Principe e assegna al Partito stesso l'obiettivo di coalizzare i segmenti storicamente dissociati di quelle classi - gli operai e i contadini - sotto la guida di una classe dirigente intellettuale che sappia fornire ad essi gli strumenti di una maturazione intellettuale, morale e politica. E' questo, secondo Gramsci, il "sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe" che egli auspica.

Se è fuori di dubbio, però, che Machiavelli, con Bodin e Botero, inaugura la scienza della politica, occorre aggiungere che la concezione radicalmente pessimistica dell'uomo che sottende il suo pensiero è del tutto incompatibile con l'antropologia marxista.

Non tanto perché se fosse vero ciò che dice il Machiavelli degli esseri umani ("delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e' figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e' si rivoltano"; "E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l'amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai" Principe, cap. 17), il progetto di una civiltà di livello superiore non avrebbe senso.

Il problema è che, partendo da una concezione antropologica del genere, l'esercizio del potere, se non deve prescindere dal tentativo di catturare il consenso popolare, deve però più spesso ricondursi all'uso della forza:

"Debbe adunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si espetta a chi comanda. Et è di tanta virtù, che non solamente mantiene quelli che sono nati principi, ma molte volte fa li uomini di privata fortuna salire a quel grado; e per avverso si vede che, quando e' principi hanno pensato più alle delicatezze che alle arme, hanno perso lo stato loro. E la prima cagione che ti fa perdere quello, è negligere questa arte; e la cagione che te lo fa acquistare, è lo essere professo di questa arte." Principe, cap. 14

18 Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l'uno con le leggi, l'altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo...

Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro.

 Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch'e' venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato."

Principi del genere, anche se Gramsci non ne è del tutto consapevole, sono adottati quasi alla lettera da Stalin in Unione Sovietica.

Si dirà che una teoria politica rimane valida nei suoi principi, se essa permette di incidere nella realtà storica in termini di progresso, quali che siano i suoi presupposti ideologici. Ma non è vero.

Il liberalismo che fa capo a Hobbes è cosa ben diversa da quello che fa capo a Locke. Analogamente, il marxismo di Stalin, che interpreta Marx attraverso Machiavelli, è cosa del tutto diversa dal marxismo di Gramsci, che interpreta Machiavelli attraverso Marx.

Rimane comunque da chiedersi, al di là dell'indubbio valore storico, politologico e letterario del Machiavelli, la ragione profonda dell'ammirazione di Gramsci. La domanda non può prescindere dalla contraddizione tra umanitarismo e machiavellismo negativo che si riscontra, mutatis mutandis, anche in Marx. Il discorso è lungo, in quanto implica il rapporto tra marxismo e violenza. Pongo tra parentesi un problema psicoanalitico che potrebbe risultare fastidioso: sia Marx che Gramsci erano entrambi incapaci di esercitare una qualunque violenza fisica.

Basterà dire che la contraddizione in questione serve sostanzialmente a differenziare nettamente il comunismo rispetto al socialismo utopistico, marcatamente umanitaristico e imbelle. Se si tiene conto della relativa facilità con cui le "squadracce" fasciste, con la complicità delle forze dell'ordine, sono riuscite, tra il 1920 e il 1924, a debellare le resistenze dei socialisti che, pure, con le loro cooperative e Case del popolo, erano profondamente radicati nel territorio, quell'ammirazione diventa più comprensibile.


Quaderno 14

Libertà e disciplina

Ho fatto cenno all'avversione neppure celata che Gramsci ha nei confronti della psicologia e della sociologia (per quanto riguarda la psicoanalisi se ne parlerà ulteriormente). L'avversione si spiega facilmente tenendo conto che, all'epoca, entrambe le discipline hanno una matrice positivistica.

La necessità, però, di integrare nella filosofia marxista il livello di esperienza soggettiva e psicosociale (che è quello immediatamente vissuto dagli esseri umani) è ben presente a Gramsci. Non per caso, nei Quaderni, si trovano riflessioni al riguardo di notevole interesse.

Nel Quaderno 14, per esempio, si legge:

"§61 Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C’è dell’originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia.

C’è conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità».

Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende più difficile la cosa.

È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità.

Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo."

Poniamo tra parentesi l'infelice affermazione sui carceri e sui manicomi (tanto più infelice se si tiene conto che Gramsci è in carcere e sta attraversando una crisi che lo porterà ad intravedere la possibilità di impazzire).

Il nodo del discorso verte sul conformismo e sull'originalità. I termini, se si assume il conformismo nell'accezione comune di omologazione, sembrano antitetici.

Gramsci però ritiene che il conformismo sia una dimensione costitutiva di ogni essere umano perché  definisce l'appartenenza stessa dell'individuo alla società o a un gruppo sociale: è il frutto, insomma, dell'educazione e dell'interazione sociale che lo inducono, più o meno inconsapevolemente, ad adottare modi di sentire, di pensare e di agire conformi alla cultura del gruppo stesso. Questo tributo dell'uomo all'appartenenza sociale è inevitabile perché, in difetto di esso, egli rimarrebbe un "idiota".

Il "contagio" che l'individuo ricava dal suo essere radicalmente sociale, costretto cioè ad interagire perpetuamente con gli altri e a condividere culturalmente qualcosa con essi (a partire dalla lingua), non è però una iattura, non gli impedisce, cioè, di differenziare la sua personalità quanto basta a dare ad essa un carattere di originalità, spontaneità e sincerità.

Giustamente Gramsci rileva che l'originalità non ha nulla a che vedere con l'anticonformismo di maniera, con il voler essere anticonformisti a tutti i costi, come nei primi decenni del secolo accadeva ai futuristi, ai nietzschiani d'accatto, a D'Annunzio e ai dannunziani e a tutti coloro che denunciavano il modo di essere borghese come mediocre.

Egli intende per originalità autentica il dotarsi di una visione del mondo e il praticare uno stile di vita che trascende l'orizzonte ideologico del proprio tempo in nome di un modello di socialità più elevato, affrancato dal perbenismo, dal moralismo, dall'individualismo,  dall'anticonformismo di maniera, ecc.

E' evidente che, nel fare riferimento ad un'originalità autentica, Gramsci ha presente il concetto marxiano dell'individuo universale, vale a dire pienamente realizzato nelle sue potenzialità individuali e, al tempo stesso, dotato di una coscienza universale che gli consente di vivere come un impegno attivo la sua appartenenza alla storia e a un determinato contesto sociale; l'individuo che, nel coltivare se stesso, si sente sempre più sociale e partecipe del mondo.

Attribuendo implicitamente all'uomo due bisogni - che oggi possono essere definiti di appartenenza sociale e di individuazione (che non ha nulla a che vedere con l'individualismo) -, Gramsci raggiunge un livello di verità molto profondo.

Una società fatta a misura d'uomo dovrebbe partire da questa verità e concedere ad ogni individuo di realizzare al massimo grado entrambi i bisogni. L'appartenenza, infatti, non significa solo interiorizzazione del senso comune, ma anche partecipazione a tutto il patrimonio culturale che l'umanità ha prodotto nel corso della sua vicenda storica. L'individuazione è, in questa ottica, null'altro che l'uso che il soggetto fa di tale patrimonio per migliorare se stesso e porsi nel mondo come un valore aggiunto.

Che questo sia possibile Gramsci lo afferma con estrema chiarezza, anche se l'affermazione è preceduta dal riferimento agli impulsi e agli istinti animaleschi:

"§ 21 In realtà ognuno tende, a suo modo, sia pure, a crearsi un carattere, a dominare certi impulsi e istinti, ad acquistare certe forme «sociali» che vanno dallo snobismo, alle convenienze, alla correttezza, ecc. Ora cosa significa: «ciò che si è realmente» e da cui si cerca di apparire «diversi?»

«Ciò che si è realmente» sarebbe l’insieme degli impulsi e istinti animaleschi e ciò che si cerca di apparire è il «modello» socialeculturale, di una certa epoca storica, che si cerca di diventare; mi pare che ciò «che si è realmente» è dato dalla lotta per diventare ciò che si vuol diventare."

In difetto di questa lotta, che implica impegno e autodisciplina, gli esseri umani cadono nella trappola della dissociazione tra teoria e pratica, che genera irrequietezza:

"§58  Perché gli uomini sono irrequieti? Da che viene l’irrequietezza? Perché l’azione è «cieca», perché si fa per fare. Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa «immobilità». Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione."

C'è indubbiamente del vero in queste affermazioni. La loro apoditticità però cela un problema. Gramsci rifiuta il confronto con il nichilismo filosofico che caratterizza il suo tempo. Vedremo ulteriormente perché.


Quaderno 15

Il problema della falsa coscienza (2)

Il problema centrale che Gramsci affronta nei Quaderni riguarda la possibilità di creare una volontà  collettiva orientata verso il superamento della realtà esistente, che, al di là dell'appropriazione delle risorse da parte dei capitalisti, si mantiene sulla base  del dominio ideologico dei valori borghesi, assunti come universali, e, a livello di società civile, dal senso comune ricavato da essi.

In Gramsci il solo cambiamento della struttura economica, non associato ad un profondo cambiamento di mentalità, non approssima l'umanità ad un livello di civiltà superiore perché esso, tutt'al più, può promuovere una diversa distribuzione della ricchezza sociale ma non necessariamente il suo uso ai fini della costruzione di un uomo nuovo, che richiede condizioni oggettive adeguate di sviluppo ma anche l'impegno individuale.

Questo problema porta Gramsci a elaborare analisi e strategie che possano produrre un nuovo senso comune, ma anche ad interessarsi degli ostacoli che possono ostacolarlo o impedirlo. Pur se la sua ottica privilegia gli ostacoli di natura politica e ideologica, non di rado si imbatte in altri che denuncia senza riuscire ad analizzarli perché fanno capo al funzionamento dell'apparato mentale umano.

Uno di questi è il seguente:

"§21 Passato e presente. Se si domanda a Tizio, che non ha mai studiato il cinese e conosce bene solo il dialetto della sua provincia, di tradurre un brano di cinese, egli molto ragionevolmente si meraviglierà, prenderà la domanda in ischerzo e, se si insiste, crederà di essere canzonato, si offenderà e farà ai pugni.

Eppure lo stesso Tizio, senza essere neanche sollecitato, si crederà autorizzato a parlare di tutta una serie di quistioni che conosce quanto il cinese, di cui ignora il linguaggio tecnico, la posizione storica, la connessione con altre quistioni, talvolta gli stessi elementi fondamentali distintivi.

Del cinese almeno sa che è una lingua di un determinato popolo che abita in un determinato punto del globo: di queste quistioni ignora la topografia ideale e i confini che le limitano."

Se gli uomini, come afferma ripetutamente Gramsci nei Quaderni, sono tutti filosofi, occorre aggiungere che essi lo sono di un genere particolare (peraltro rappresentato anche tra i filosofi di professione): sono tuttologi.

Sotto quale categoria si iscrive un fenomeno del genere? La categoria adeguata sembra quella del "non sapere di non sapere", diversa dall'ignoranza, che spesso porta a tacere. L'ignorare di ignorare promuove la tendenza ad affermare comunque qualcosa, e spesso con la convinzione di essere nel giusto.

Può sembrare un fenomeno marginale, ma invece è fondamentale nell'ottica di una filosofia - quella marxista - che non può prescindere da uno stato di coscienza critica - individuale e collettiva.

Il non sapere di non sapere è con tutta evidenza l'ostacolo maggiore sulla via dell'assunzione, da parte della coscienza, di uno statuto critico.

Per spiegarlo occorre un breve excursus.

La condizione dell'uomo è caratterizzata dalla sua sprovvedutezza originaria, vale a dire da un bagaglio di istinti, vale a dire di preconoscenze e di moduli comportamentali automatici ereditati, ridotto al minimo. Egli in pratica deve apprendere tutto. La dipendenza dall'ambiente culturale e l'interazione con esso sopperisce in parte alla sprovvedutezza. Dall'ambiente l'individuo riceve un sapere già strutturato - su ciò che è vero e falso, buono e cattivo, giusto e ingiusto, ecc. - che gli fornisce un primo orientamento su come egli deve sentire, pensare ed agire. Il sapere in questione è ciò che Gramsci definisce senso comune: un insieme di nozioni teorico-pratiche che si acquisiscono con l'aria che si respira.

Ma il senso comune funziona meglio in società ristrette, i cui scambi con l'esterno sono ridotti, che non in società di massa inserite in un flusso storico che tende alla globalizzazione. In queste ultime società, l'essere umano ha una percezione intuitiva della straordinaria complessità della realtà in cui è immerso.

La reazione alla complessità dovrebbe essere il dubbio, la volontà di informarsi, di studiare, di capire, di prendere posizione. La reazione comune, invece, è il colmare le lacune delle proprie conoscenze con argomentazioni casuali, più o meno logiche, più o meno fondate, ecc. che danno all'individuo la falsa convinzione di avere un qualche controllo sulla realtà.

A ciò occorre aggiungere un ulteriore fattore di scala.

In società ristrette, l'individuo, nel corso della fase evolutiva, accumula - sotto forma di senso comune - un insieme di informazioni che corrispondono abbastanza puntualmente alla cultura del gruppo nella quale egli assume un ruolo adulto.

In una società di massa, l'esperienza del soggetto, invece, è microcontestuale: egli interagisce con un campione del mondo - la famiglia, la scuola, il quartiere - che è debolmente rappresentativo. Accumula insomma un patrimonio di informazioni minimo in rapporto alla realtà sociale totale. Ciò comporta il fatto che, affacciandosi alla realtà stessa, dovrebbe sviluppare la consapevolezza della sua complessità, che trascende di gran lunga il sapere di cui dispone.

Ciò che avviene, invece, a livello del tutto inconscio, è che le informazioni accumulate nella fase evolutiva vengono generalizzate e si trasformano in una visione del mondo totale con tutte le approssimazioni, le lacune, le contraddizioni che ciò comporta.

Nello stesso Quaderno Gramsci accenna ad un fenomeno che pone in luce in maniera ottimale il problema del non sapere di non sapere.

Egli analizza la crisi economica avviatasi nel 1929, che è ancora in atto all'epoca in cui scrive.

Nel § 5 si legge:

"1) Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un’origine unica. Si tratta di un processo, che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Dunque: processo complesso, come in molti altri fenomeni, e non «fatto» unico che si ripete in varie forme per una causa ad origine unica...

3) La crisi ha origine nei rapporti tecnici, cioè nelle posizioni di classe rispettive, o in altri fatti? Legislazioni, torbidi ecc.? Certo pare dimostrabile che la crisi ha origini «tecniche» cioè nei rapporti rispettivi di classe, ma che ai suoi inizi,, le prime manifestazioni o previsioni dettero luogo a conflitti di vario genere e a interventi legislativi, che misero più in luce la «crisi» stessa, non la determinarono, o ne aumentarono alcuni fattori. Questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i tre primi punti da chiarire con esattezza.

Altro punto è quello che si dimenticano i fatti semplici, cioè le contraddizioni fondamentali della società attuale...

Una delle contraddizioni fondamentali è questa: che mentre la vita economica ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo, la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del «nazionalismo», «del bastare a se stessi» ecc. Uno dei caratteri più appariscenti della «attuale crisi» è niente altro che l’esasperazione dell’elemento nazionalistico (statale nazionalistico) nell’economia: contingentamenti, clearing, restrizione al commercio delle divise, commercio bilanciato tra due soli Stati ecc. "

L'impostazione dell'analisi gramsciana della crisi è perfetta, soprattutto per quanto riguarda il conflitto tra il capitalismo che tende alla globalizzazione e i vincoli economici che le nazioni e i governi nazionali pongono ad esso.

Ma quanta di questa complessità può essere colta dal cittadino comune per il quale la crisi significa tout court aumento dei prezzi, riduzione del suo potere d'acquisto, disoccupazione, miseria, ecc.?

La complessità, però, e soprattutto una complessità che si pone come oscura e indecifrabile,  è intollerabile per la mente umana. Sicché si può stare certi che il cittadino comune dirà la sua sulla crisi, la interpreterà in qualche modo, dando la colpa agli speculatori, ai governanti, ai socialisti, ecc.

Il problema del marxismo è come mettere in grado la coscienza individuale e collettiva di confrontarsi con la complessità del reale interpretandola senza fare ricorso a formule semplificate e a dogmi.

Un'impresa che, ardua ai tempi di Gramsci, lo è ancora oggi.


Quaderno 16

Naturale e artificiale

Gramsci è consapevole che la filosofia marxista, nonostante le sue vicissitudini, non è arrivata a configurarsi come un sapere adatto a diffondersi presso le masse popolari mantenendo la sua specificità e la sua originalità.

Egli scrive:

"§ 9  La filosofia della praxis aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata, per poter costituire il proprio gruppo di intellettuali indipendenti, e educare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, dato il carattere della nuova filosofia, ha assorbito tutte le forze, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente; per ragioni «didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era proprio nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo."

Di fatto dopo la pubblicazione dei tre libri del Capitale (gli ultimi due elaborati con un'estenuante fatica da Engels) è accaduto che gli intellettuali marxisti si sono resi immediatamente conto della difficoltà di tradurre la teoria marxiana in un sapere accessibile alle masse proletarie. La diffusione del marxismo è avvenuta in gran parte sulla base del Manifesto, testo straordinario nella sua sinteticità, ma inevitabilmente, incline ad un certo dogmatismo.

Sul piano teorico, poi si sono definiti diversi orientamenti. In Unione sovietica, il marxismo si è trasformato, nella rozza versione materialistica fornita da Stalin, in una religione di Stato. In Occidente Kautsky ha cercato di integrare marxismo e evoluzionismo, ricavandone un orientamento storicamente deterministico e fatalistico. L'austromarxismo ha fornito un'interpretazione etica del marxismo riconducendola al kantismo. Bernstein, infine, cui Gramsci fa cenno nel § 26, ha contestato la teoria dell'inevitabile crollo del capitalismo, inaugurando la corrente socialdemocratica che punta al graduale miglioramento del tenore di vita delle classi operaie e contadine.

In breve, una gran confusione, rispetto alla quale Gramsci cerca di fare chiarezza, intanto assumendo il marxismo come il prodotto di una lunga evoluzione culturale (oltre che ovviamente sociale):

"La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione moderna della vita.

La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura."

Per rendere pratico sul piano oggettivo tale movimento, occorre sormontare lo scarto tra alta cultura e cultura popolare. ma ciò non è semplice perché "suscitare un gruppo di intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo, con azioni e reazioni, con adesioni e dissoluzioni e nuove formazioni molto numerose e complesse."

Ciò nondimeno, Gramsci non esita a scrivere:

"L’affermazione che la filosofia della praxis è una concezione nuova, indipendente, originale, pur essendo un momento dello sviluppo storico mondiale, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali."

Per quanto riguarda la previsione, a distanza di decenni, la cultura in questione continua a rimanere in uno stato di incubazione.

Per quanto riguarda l'indipendenza e l'autonomia della filosofia marxista, si tratta, come ho già accennato, di un'ossessione gramsciana. Giustificata all'epoca dall'inquinamento positivistico ed etico, oggi essa va sormontata. In quanto teoria che cerca di spiegare in toto l'avventura della specie umana sulla faccia della terra, prescindendo da qualsivoglia orizzonte trascendente, la filosofia marxista ha bisogno di integrare nella sua cornice molteplici dati forniti dalle scienze umane e sociale.

Uno dei vantaggi di tale integrazione è di riproporre in termini più articolati il rapporto tra natura umana e cultura.

Nel Quaderno, Gramsci affronta per l'ennesima volta questo problema alla luce del pregiudizio storicistico scrivendo:

"Al concetto di «naturale» si contrappone quello di «artificiale», di «convenzionale». Ma cosa significa «artificiale» e «convenzionale» quando è riferito ai fenomeni di massa? Significa semplicemente «storico», acquisito attraverso lo svolgimento storico e inutilmente si cerca di dare un senso deteriore alla cosa, perché essa è penetrata anche nella coscienza comune con l’espressione di «seconda natura»."

In precedenza si legge:

"Cosa significa dire che una certa azione, un certo modo di vivere, un certo atteggiamento o costume sono «naturali» o che essi invece sono «contro natura»? Ognuno, nel suo intimo, crede di sapere esattamente cosa ciò significhi, ma se si domanda una risposta esplicita e motivata si vede che la cosa non è poi così facile come poteva sembrare.

Occorre intanto fissare che non si può parlare di «natura» come di alcunché di fisso, immutabile e oggettivo. Ci si accorge che quasi sempre «naturale» significa «giusto e normale» secondo la nostra attuale coscienza storica, ma i più non hanno coscienza di questa attualità determinata storicamente e ritengono il loro modo di pensare eterno e immutabile...

La «natura» dell’uomo è l’insieme dei rapporti sociali che determina una coscienza storicamente definita; questa coscienza solo può indicare ciò che è «naturale» o «contro natura». Inoltre: l’insieme dei rapporti sociali è contradditorio in ogni momento ed è in continuo svolgimento, sicché la «natura» dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi."

E' fuori di dubbio che la definizione della natura umana - vale a dire di una dimensione che non può essere osservata e oggettivata, in quanto si manifesta solo in conseguenza dell'interazione con l'ambiente - riconosce costantemente nel corso della storia una valenza ideologica. Basta pensare, per fare degli esempi, all'istituzione della schiavitù, che si fondava sull'attribuzione ad alcuni soggetti di una natura deficitaria rispetto agli uomini liberi, alla teoria hobbesiana dell'homo homini lupus, che identifica un tratto specifico della natura umana in un surplus di aggressività innata, alla teoria dell'homo oeconomicus, che fa dell'interesse privato l'espressione elettiva di un egoismo innato, ecc.

E' proprio per togliere validità alla teoria hobbesiana e a quella dell'homo oeconomicus che, con l'avvento del capitalismo, hanno generato una nuova forma di schiavitù - quella dell'operaio salariato, che vende la sua vita rimanendo formalmente libero - che Marx ha avvertito l'esigenza di negare l'esistenza di una natura umana fissa e immutabile.

Ma, a ben vedere, questa negazione è in contraddizione con il giudizio di disumanità del capitalismo che viene espresso a chiare lettere nei Manoscritti del 1844 e risuona nello straordinario capitolo del Capitale sulla giornata lavorativa. Il giudizio di disumanità non è moralistico: esso fa riferimento al fatto che, incatenato alla macchina e reso una semplice appendice di essa, trattato cioè come una cosa dotata di energia produttiva, l'uomo si degrada, degenera, giunge a vivere in maniera infraumana.

Un'analisi del genere non avrebbe senso se non si ammettesse che il bisogno dell'uomo di lavorare per produrre i mezzi della sua sussistenza e per soddisfare i suoi desideri riconosce un vincolo naturale.

Oggi la questione si pone in termini ancora più chiari. Il sistema capitalistico si fonda sulla taylorizzazione dell'attività lavorativa, vale a dire sul richiedere ai lavoratori  di riversare tutte le loro energie nella produzione, non fosse altro che per scampare al pericolo della disoccupazione. Che, avendo un contratto, un dipendente assuma come "normale" lo sfruttamento delle sue energie è un fatto culturalmente determinato. Nella misura in cui, il regime lavorativo taylorizzato fa affiorare molteplici fenomeni di stress psicosomatico (che sono misurabili), ci si trova di fronte ad una reazione dell'organismo psico-fisico che può senz'altro fare riferimento a istanze culturali di giustizia, ma esprime anche la reazione del cervello a richieste eccessive di prestazioni.

Lo stress lavorativo, che si può ormai valutare e quantificare oggettivamente (per quanto riconosca anche aspetti soggettivi) è la prova che l'uomo, per quanto concerne l'amministrazione delle sue risorse, sia essa dovuta a prestazioni che egli si impone o che gli vengono richieste dall'esterno, non è padrone ma amministratore di se stesso.

I vincoli che l'amministrazione delle risorse devono rispettare perché l'uomo non manifesti fenomeni di stress sono per l'appunto inerenti la sua natura: riconducibili cioè a meccanismi automatici di regolazione delle prestazioni presenti nella struttura del suo cervello.

Su questa base, si può ipotizzare un sistema sociale e un'organizzazione del lavoro che sia al tempo stesso più "naturale" (più conforme all'organismo psicofisico) e culturalmente più avanzata (in rapporto ad una cultura fatta a misura d'uomo).


Quaderno 17

L'ombra del nazismo

Scritto nello stesso periodo in cui Hitler giunge al potere e avvia la rapida evoluzione di un regime dittatoriale, il Quaderno 17, anche se non fornisce un'analisi critica del Nazismo, comporta una serie di note che, anche apparentemente slegate tra loro, lasciano pensare che Gramsci abbia oscuramente intuito ciò che stava accadendo e ciò che sarebbe accaduto.

Ben due  paragrafi (§ 10 e §14), fanno riferimento alle discussioni su una guerra futura, la cui probabilità è attestata dal fatto che la "letteratura in proposito" è "ormai imponente in tutti i paesi".  A Gramsci interessa soprattutto l'aspetto politico, vale a dire il conflitto tra vecchie e nuove strutture militari. Queste ultime, però, sono legate allo sviluppo dell'aviazione, che lascia presagire un cambiamento radicale di strategia, destinato a soppiantare i grandi eserciti di leva che, nel corso della Prima Guerra mondiale, si sono impantanati nelle trincee. L'intuizione, insomma, è quella della guerra-lampo che la Germania realizzerà effettivamente qualche anno dopo con il ricorso all'aviazione e ai mezzi corazzati come forze di sfondamento.

In altri due paragrafi (§42 e 50), Gramsci fa riferimento a Clausewitz, il generale prussiano autore di un saggio (Della guerra) divenuto la Bibbia degli strateghi, la cui pubblicazione per la prima volte in Italia nel 1933 è un segno dei tempi.

Nel § 51, Gramsci cita, per criticarla, una frase di Hitler tratta dal Mein Kampf. Come rileva Gerratana nell'apparato critico, si tratta probabilmente di una citazione di seconda mano. Non c'è prova che Gramsci abbia letto il terribile libercolo hitleriano. Anche al riguardo l'approccio gramsciano è di ordine politico. Ciò che sta accadendo, a suo avviso,  sulla base di un antico conflitto svoltosi nella Francia della Restaurazione tra l’elemento gallico originario  e quello germanico sovrappostosi alla antica nazionalità, è l'affermarsi della tendenza "del razzismo e della superiorità della razza germanica, che, da elemento polemico dell’aristocrazia francese per giustificare una Restaurazione più radicale, un ritorno integrale alle condizioni del regime prerivoluzionario, divenne, attraverso Gobineau e Chamberlain, un elemento della cultura tedesca (d’importazione francese) con sviluppi nuovi e impensati."

Perché impensati? Perché, appena qualche anno prima, quasi in contemporaneità con il biennio rosso italiano, cui Gramsci ha partecipato, la Germania sembrava la nazione occidentale più vicina ad un'esplosione rivoluzionaria comunista. Com'è possibile - sembra chiedersi tra le righe Gramsci - che una nazione del genere, nella quale la classe proletaria aveva raggiunto quasi il potere, sia precipitata in una spirale regressiva?

Per quanto isolato dal mondo, insomma, Gramsci respira ciò che vi è di tragico nell'aria. Non ha, ovviamente sufficienti informazioni, sul nazismo, anche se ne intuisce la pericolosità.

Fare storia contemporanea, del resto, è estremamente difficile.

Queste intuizioni gramsciane, per essere apprezzate,  vanno correlate alle numerose note, dedicate, nel Quaderno stesso, all'Umanesimo e al Rinascimento. Sono questi temi costanti della riflessione gramsciana, ma qui assumono un significato particolare.

Gramsci ha sempre interpretato l'Umanesimo e il Rinascimento come l'avvio di un processo storico-culturale affrancato dalla trascendenza e incentrato sulla valorizzazione dell'uomo (ovvero sul " distacco da tutti i legami medioevali di fronte alla religione, all’autorità, alla patria, alla famiglia") destinato ad esitare nell'affermazione del marxismo come umanesimo e storicismo integrale.

I tempi però sembrano attestare che quel processo non solo non è giunto a compimento, ma è andato incontro ad un'inversione.

Che tale inversione si sia realizzata in Italia non è sorprendente per Gramsci dato che il Rinascimento italiano è esitato nella Controriforma,  la rivoluzione risorgimentale è rimasta incompiuta e  il biennio rosso è andato incontro ad un fallimento.

Lo sorprende, invece, che l'inversione abbia investito l'Europa e, in particolare, la nazione che nell'800 ha raggiunto il massimo sviluppo culturale, ha fornito con la sua filosofia una delle matrici del marxismo e ha visto la classe operaia, con la Lega di Spartaco, giungere ad un soffio dalla presa del potere.

Se si tiene conto che, nello stesso arco di tempo della scrittura del Quaderno 17, Gramsci intuisce che anche la Rivoluzione sovietica si sta avviando in un vicolo cieco, non si stenta a capire la difficoltà che in quegli anni egli incontra nel contrapporre al pessimismo dell'intelligenza l'ottimismo della volontà.


Quaderno 18

Utopia e realismo

Si è già accennato al singolare interesse che Gramsci riserva a Niccolò Machiavelli. Tale interesse è riferito soprattutto al realismo politico del Machiavelli, che ha il culto della realtà effettuale, della realtà concreta, storica, e con il Principe, tenta di analizzare le strategie attraverso le quali si possa incidere su di essa al fine di raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge. Commisurare i mezzi ai fini e organizzare una volontà collettiva che li persegua consapevolmente è la trasposizione contemporanea che Gramsci opera del pensiero del Machiavelli: trasposizione che comporta la sostituzione del Principe con il Partito.

Il problema, come già detto, è che il Machiavelli non è affatto un realista, ma un utopista. Questa di fatto è la critica che gli viene rivolta, sul piano della contemporaneità, dal Guicciardini.

L'evento storico che Gramsci ricostruisce nel § 3 è, per l'appunto, espressivo del conflitto tra una visione utopistica - quella del Machiavelli che, su sollecitazione del Papa, intende avviare l'unificazione dell'Italia a partire dalla Romagna - e una visione realistica e scettica - quella del Guicciardini, consapevole del discredito di cui la Chiesa gode in Romagna e della presenza di un forte gruppo di ghibellini, dare armi ai quali per indurli a lottare contro l'Imperatore è un'assurdità.

Al di là dell'evento storico, è la psicologia dei personaggi che interessa. L'orientamento utopistico del Machiavelli è attestato da un altro episodio riportato nel Quaderno 14. Machiavelli ha scritto un trattato minuzioso sull'Arte della guerra, ma, nel momento in cui tenta di applicare i suoi principi ad una moltitudine di soldati fallisce, mentre Giovanni delle Bande Nere ci riesce in un batter d'occhio.

Gramsci giustifica Machiavelli facendo presente che egli non era un militare di professione. Il problema è che non era neppure un politico di professione, bensì un diplomatico che, estromesso dalla sua carica, si trasforma in un teorico della politica.

Anche il Guicciardini è un diplomatico, che giunge però a ricoprire cariche di governo (governatore di Modena, Reggio e Parma; commissario generale dell'Esercito della Chiesa; Presidente della Romagna). E' un diplomatico e un politico disincantato, calato nel presente, che non crede, come il Machiavelli, alla possibilità di sovrapporre regole alla storia, di orientarla, di dare ad essa degli obiettivi.

Entrambi muovono da un'antropologia sostanzialmente pessimistica, ma il Machiavelli sovrappone ad essa l'ottimismo della volontà, vale a dire la convinzione che gli esseri umani possano agire ed incidere sull'evoluzione della realtà, mentre il Guicciardini è scettico a riguardo. Egli ritiene che la realtà storica sia determinata da una serie indefinita di variabili tal che l'agire umano non può andare al di là di un ragionevole e vantaggioso adattamento: una navigazione a vista, verrebbe da dire..

Utopista il Machiavelli, realista disincantato, e a dire il vero un po' gretto il Guicciardini. Non ci vuole molto a capire perché Gramsci parteggi per l'uno, e non manifesti alcuna predilezione per l'altro.

Il problema, attuale ancora oggi, è se il realismo e l'utopia siano dimensioni antitetiche o non possano essere integrate dialetticamente. Si può insomma vivere ed agire calati nel proprio tempo, senza sovrapporre alla realtà effettuale alcun illusione, e, al tempo stesso, coltivare un orizzonte previsionale che fa riferimento ad un mondo possibile migliore di quello attuale?

Il marxismo non può rinunciare a pensare che questo sia possibile.

Ma ciò significa, né più né meno, riconoscere nella realtà esistente l'oggettivazione di una quota di potenzialità inerenti la natura umana e nell'utopia il riferimento ad altre potenzialità umane, rimaste finora inespresse, che potranno ulteriormente oggettivarsi.

Non è improprio, a questo punto, fare riferimento ad un termine coniato da un biologo evoluzionista, peraltro di formazione marxista se non marxista tout court. Si tratta di S. Y. Gould. Il termine è exaptation. Esso fa riferimento al fatto che, mentre nella cornice dell'ortodossia darwiniana, le potenzialità cerebrali sono state selezionate per il loro significato adattivo originario, nella cornice di Gould il cervello umano è carico di potenzialità ridondanti, vale a dire prodotte dall'evoluzione per puro caso, senza che esse abbiano mai avuto un significato adattivo. Quali siano tali potenzialità è difficile stabilirlo.

La suggestione dell'ipotesi gouldiana è, però, molto elevata per chiunque pensi che se la storia dell'umanità non è destinata ad approdare ad un livello di civiltà superiore, che essa si estingua, con il suo carico di tragedie e di miserie, è l'augurio migliore che si possa fare.


Quaderno 19

Politica e comunicazione

Tra i Quaderni scritti in carcere e quelli scritti dopo la liberazione si danno spesso concordanze e ripetizioni quasi letterali di interi paragrafi contenuti nei primi. Le concordanze e le ripetizioni non corrispondono solo all'esigenza gramsciana di riordinare il materiale in maniera tale da averlo sotto mano  per dedicarsi alla stesura dei vari saggi che si proponeva di scrivere. Esse corrispondono anche all'importanza che Gramsci assegna a determinati argomenti.

Non c'è da sorprendersi dunque se nel Quaderno 19 si trova riprodotto quasi alla lettera nel §24 il § 44 del Quaderno 1, che verte sul problema della direzione politica prima e dopo l'Unità di Italia, e, nel § 26, ampi estratti del § 43  per la parte che concerne il rapporto città-campagna.

Sono problemi strettamente correlati perché la rivoluzione risorgimentale è rimasta incompiuta proprio perché nessun movimento politico è riuscito a saldare lo scarto tra il Nord, già in via di sviluppo industriale, e un Sud rimasto vincolato al latifondo e al potere dei grandi proprietari agrari, con la conseguenza che l'Unità di Italia è avvenuta all'insegna di una frattura economica, sociale e culturale irrimediabile.

Frattura, tra l'altro, che si è perpetuata anche nel Novecento destinando al fallimento il tentativo, cui Gramsci ha attivamente partecipato, di porre in essere una rivoluzione comunista. All'organizzazione dei proletari del Nord, che sono giunti all'occupazione e al tentativo di gestire le fabbriche, sono corrisposti al Sud moti di protesta anche violenti ma incentrati sulla rivendicazione dei contadini delle terre, del passaggio cioè dal bracciantato alla piccola proprietà.

Gramsci stigmatizza duramente l'incapacità del Partito d'azione ottocentesco di farsi carico e di portare a soluzione il problema della scissione tra Nord e Sud. Di fatto, però, il problema non è stato risolto né dal Partito socialista (che, tra l'altro, era contrario alla piccola proprietà contadina) né da quello comunista, nonostante il loro radicamento sociale avesse dato luogo, soprattutto al Nord, alla nascita delle cooperative rosse, che rappresentarono i bersagli favoriti dallo squadrismo fascista.

A posteriori, si capisce meglio che il problema era (come giustamente afferma Gramsci) politico, ma non solo politico. Il consenso collettivo in rapporto ad un progetto rivoluzionario postula la diffusione delle idee, e quindi canali di comunicazione sociali. Nell'800 tali canali, per quanto riguarda i contadini, erano pressoché inesistenti, soprattutto al Sud.

In una fabbrica non è arduo raccogliere gli operai in assemblea e renderli partecipi di un progetto politico. In un'area agricola, laddove gli uomini sono distribuiti su di una vasta superficie, la difficoltà di un assemblamento è enorme e si può realizzare quasi solo sotto forma di sciopero.

Ciò non significa che, nell'800, i contadini siano rimasti abbandonati a se stessi. La creazione delle cooperative e delle Case del popolo, cui hanno contribuito a pari merito socialisti e anarchici, è stata un'impresa di vasta portata, che spiega, tra l'altro, il successo elettorale del partito socialista nei primi del Novecento.

Più di tanto, però, non si poteva fare sulla base dell'attivismo.

Non è un caso che, con il venire meno del non expedit, e potendo utilizzare l'istituzione ecclesiale (le Parrocchie), alla fine dell'Ottocento e nei primi del Novecento, si sia affermato, in opposizione con quelle rosse, il fenomeno delle leghe e delle cooperative bianche (democristiane), che si sono potute avvalere del sostegno logistico delle parrocchie distribuite su tutto il territorio nazionale.

Al di là delle incertezze e dei contrasti politici, per analizzare il persistente scarto tra città e campagna all'epoca di Gramsci , occorre dunque considerare un fattore tecnologico. Le idee, allora, potevano diffondersi solo attraverso la propaganda orale, la stampa, gli opuscoli, i libri. Questi ultimi mezzi, però, avevano un'incidenza limitatissima perché gran parte della popolazione contadina (e anche una parte di quella proletaria) era ancora analfabeta o semi-analfabeta.

L'insistenza con cui Gramsci, nei Quaderni, insiste sulla necessità di una crescita culturale dei ceti subordinati e sulla necessità che essa sia favorita da intellettuali "organici" ad essi riconosce la sua matrice nella consapevolezza dell'arretratezza culturale di tali ceti e nella difficoltà tecnologica di comunicare con essi al di là della propaganda orale.

Oggi ci si può rendere meglio conto dell'incidenza che quest'ultimo fattore ha giocato nella storia del marxismo, che è stato sempre svantaggiato da quel gap culturale e dall'esigenza di colmarlo nel vivo della lotta politica.

Lenin ha affermato che il socialismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese.

In realtà, il vero problema del marxismo è stato sempre l'acculturazione, vale a dire il promuovere nelle masse una nuova visione del mondo rispetto a quella tradizionale. da questo punto di vista, un ruolo centrale è stato svolto dai mezzi di comunicazione, che sono rimasti a lungo carenti.

Non sarebbe irragionevole ricostruire la storia del capitalismo come storia di un sistema socio-economico che ha sviluppato una capacità produttiva di beni sempre maggiore ma senza farsi carico, se non marginalmente, dell'acculturazione delle masse.

L'aspetto della comunicazione politica oggi si può analizzare meglio tenendo conto della diffusione della televisione e del computer che, sul piano della circolazione delle informazioni, azzerano quasi lo scarto tra città e campagna. Il problema è che essi possono essere utilizzati come strumenti di propaganda da chiunque, sicché si ripropone ad un altro livello, lo scontro tra conservatorismo e progressismo...


Quaderno 20

La dottrina sociale della Chiesa

Coerentemente con il suo approccio marxista ai fenomeni storici, le analisi che Gramsci dedica alle vicissitudini del Cattolicesimo sono di ordine politico non dottrinario.

La Chiesa identifica se stessa come l'Istituzione deputata a preservare la verità del messaggio rivelato ad essa affidato da ogni possibile contaminazione e a diffonderlo nell'attesa che il mondo tutto giunga a riconoscerlo e ad accettarlo. Di fatto, storicamente si tratta di un'Istituzione la cui forma è quella di un assolutismo monarchico, radicato tra l'altro nel contesto di una nazione - l'Italia - che essa ha a lungo dominata.

L'unica caratteristica differenziale dell'assolutismo monarchico cattolico rispetto agli altri è il cosmopolitismo della sua dottrina, che è ecumenica. Tale caratteristica, associata alla convinzione di essere depositaria di una verità rivelata da Dio,  consente alla Chiesa di porsi come un'Istituzione fuori del tempo.

Le riflessioni di Gramsci sono importanti perché egli contesta proprio questo aspetto.

La Rivoluzione francese prima, con l'avvio del liberalismo e l'avvento del movimento socialista  sottopongono l'Istituzione ecclesiale ad un'enorme tensione e fanno incombere su di essa il rischio dello sradicamento sociale e dell'estinzione.

In rapporto a tali pericoli, la Chiesa reagisce dapprima con un irrigidimento totale. Preso atto che il contrapporsi frontalmente all'evoluzione storica accresce la portata di quel rischio, essa va incontro ad un processo adattivo che, fermo restando un rifiuto radicale della modernità (l'integralismo) produce nel suo seno altri due orientamenti -  il gesuitismo e il modernismo  -, che, pur diversi tra loro, tentano di alimentare l'esigenza di un confronto sia pure critico con la modernità.

Su questo sfondo, politico perché esso incarna l'opposizione tra conservatorismo e innovazione che caratterizza ogni fenomeno storico, si organizzano poi movimenti che tendono ad incidere sulla realtà sociale in senso proprio, che cioè fanno politica: l'Action française, l'Azione Cattolica, il Partito popolare.

Gramsci è tra i primi a cogliere la novità dell'ingresso in campo di un partito democristiano, che non ha difficoltà a recepire le istanze del liberalismo moderato, mentre è in competizione e in opposizione radicale rispetto al socialismo e a maggior ragione al comunismo.

Egli comprende che, dato il radicamento culturale e territoriale della Chiesa, la competizione risulterà molto impegnativa per il comunismo.

Non è per caso, dunque, che, nel § 3, egli riassume la dottrina sociale della Chiesa in quattro punti che segnano l'irreversibile distanza e l'incompatibilità tra essa e il marxismo.

Di questi punti il più importante è il quarto. Nell'ottica della Chiesa, la giustizia sociale non si pone nei termini di una ristrutturazione del sistema che ponga in discussione l'appropriazione arbitraria da parte di pochi di una quota rilevante della ricchezza sociale prodotta dal lavoro umano, bensì di una ridistribuzione caritatevole e misericordiosa di essa.

In un certo senso, la giustizia compassionevole fa parte da sempre della struttura della Chiesa, che per via delle elargizioni, delle donazioni e in passato la vendita delle indulgenze, accumula enormi capitali che utilizza anche per mantenere servizi sociali e assistenziali. Che cosa in questo modello è incompatibile con il marxismo? Primo il fatto che esso riconosce come bisogni da soddisfare quelli che sono diritti degli individui, il cui referente istituzionale è lo Stato. Secondo che esso rimedia (parzialmente) alle disfunzioni del sistema socio-economico impedendo che vengano a galla le contraddizioni il cui superamento implica un cambiamento radicale.

Apparentemente, la dottrina sociale della Chiesa è in concorrenza, oltre che con il comunismo, anche con il liberalismo nella misura in cui esso produce una quota, variabile nel corso del tempo, di poveri, disoccupati, emarginati, ecc. e se ne disinteressa. In realtà, essa, di fatto, è alleata del liberalismo, da cui ricava non pochi vantaggi, contro il comunismo. Sicuramente perché è ateo, ma non meno perché mira a promuovere un ordine sociale, incentrato sui bisogni e sui diritti dei cittadini, all'interno del quale essa perderebbe di fatto ogni potere.

Nel Quaderno non si dà un solo cenno al Concordato, ormai in atto da alcuni anni, che ha prodotto una sorta di alleanza tra la Chiesa e il Fascismo - tema che Gramsci affronta più volte negli altri Quaderni. C'è però un cenno al rapporto della Chiesa con l'hitlerismo, che non può essere approvato da essa ma neppure scomunicato. Fuggevole cenno, che, però, basta a capire in quale misura, nonostante le sue pretese atemporali e cosmopolitiche, la Chiesa di fatto, immersa nel flusso dei processi storici, è sempre e comunque costretta a fare politica.


Quaderno 21

La dimensione esistenziale

Il lungo catalogo di questioni che Gramsci stila nel § 1, che gravita intorno alla "non esistenza di una letteratura popolare in senso stretto (romanzi d’appendice, d’avventure, scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità» persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere", non contiene la più importante, che pure è implicita: a che serve la letteratura  popolare?

Nel tentativo di rispondere a tale domanda, egli contesta l'ipotesi che "tutta la letteratura e la poesia sarebbe [...] uno stupefacente contro la banalità quotidiana?".  Se questo fosse vero, infatti, la letteratura popolare, date le condizioni di vita dei ceti subordinati, dovrebbe avere  un carattere di evasione e di fuga dalla realtà ancora più marcato.

Di fatto all'epoca così è, ma Gramsci fornisce di questo fenomeno un'interpretazione sociologico-politica. Posto, infatti, che "il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non «prevedibilità del domani», dalla precarietà della propria vita quotidiana, cioè da un eccesso di «avventure» probabili", essi, fruendo della letteratura popolare (scritta per il popolo non dal popolo), aspirerebbe "all’avventura «bella» e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa libera, contro l’avventura «brutta» e rivoltante, perché dovuta alle condizioni imposte da altri e non proposte."

L'interpretazione è condivisibile, ma riduttiva.

All'epoca in cui il Quaderno è scritto, il Fascismo ha già varato una legislazione assistenziale e previdenziale che riduce i rischi della precarietà per i lavoratori e ha avviato un ambizioso programma di lavori pubblici per sostenere l'occupazione. Al tempo stesso, il modello dell'economia corporativa rimane in gran parte sulla carta per la resistenza opposta dai proprietari agrari e dagli industriali. I salari degli operai italiani rimangono i più bassi d'Europa (dopo la Spagna), e quelli dei contadini vengono compressi ai fini di reggere la concorrenza straniera favorita dall'alto corso della lira.

La precarietà, dunque, c'è, associata al risentimento per le promesse populistiche non mantenute. Ma c'è già, ancor più, nell'aria il presagio di una guerra che si prepara, la peggiore delle avventure per le masse popolari, che hanno già dato un pesantissimo contributo a quella che è alle spalle da pochi anni.

Questo sfondo storico rende persuasiva l'analisi gramsciana, che, ovviamente, demistifica l'imperante trionfalismo fascista. Ma in che senso la si può ritenere riduttiva?

Discutendo, in una nota precedente, del modo in cui Gramsci analizza l'irrequietezza dei cittadini ho già fatto cenno alla sua difficoltà di tenere conto, al di là dei riflessi psicologici delle circostanze sociali, ad aspetti della psicologia umana che fanno capo alla struttura dell'essere: aspetti affiorati, sul finire del secolo XIX, con il nichilismo di Nietzsche, con l'annuncio della morte di Dio, con le filosofie irrazionalistiche, con la psicoanalisi e con l'esistenzialismo (Essere e tempo di Heidegger è pubblicato nel 1927).

Gramsci ha buon gioco nell'iscrivere questi orientamenti filosofici nell'ambito della decadenza della civiltà borghese. Ha difficoltà, invece, nel comprendere che essi pongono in luce un nodo di problemi inerenti l'esperienza umana che sono giunti storicamente a maturazione.

L'uomo è un animale naturalmente ansioso: gettato nel mondo dal caso, egli acquisisce inesorabilmente con il crescere la consapevolezza intuitiva d'essere vulnerabile, precario, finito e destinato a finire. Si dà insomma, al fondo della mente umana, una fragilità emozionale costitutiva del suo essere che fluttua senz'altro in conseguenza della situazione sociale, ma che non potrebbe essere presumibilmente azzerata neppure in una società comunista.

Tutta la cultura moderna, avviando un processo di irreversibile secolarizzazione e di disgregazione delle comunità preesistenti, ha contribuito ad inattivare le difese adottate secolarmente: la fede religiosa e l'appartenenza ad un gruppo parentale.

Da questo punto di vista, il marxismo ha funzionato come una peste (il materialismo immanentista) e un vaccino (la riorganizzazione della società sotto forma comunitaristica, solidale e universale). Il vaccino, però, stenta a funzionare, e gli esseri umani, all'epoca di Gramsci come nella nostra, si ritrovano ad essere nel loro intimo preda del caso e della necessità (la realtà storica).

La condizione esistenziale dell'uomo non è incompatibile con la filosofia marxista. Occorrerebbe però riconoscerla come un dato ontologico, discendente dalla struttura stessa dell'apparato mentale umano che comporta un orizzonte previsionale esteso all'infinito in rapporto al quale l'individuo acquisisce, voglia o non voglia, consapevolezza del suo essere.

La minimizzazione di questo aspetto risale a Marx che, nel regno della libertà comunista, intravede una sorta di "paradiso terrestre". Gramsci non riprende esplicitamente questo tema, ma dall'approccio aspramente critico nei confronti di alcuni autori che cercano di introdurre in Italia una sorta di velato nichilismo (per es. G. Rensi) è evidente che egli ritiene la problematica esistenziale espressiva solo della decadenza della cultura borghese.

Questo è tanto più sorprendente se si tiene conto che, proprio negli anni in cui è stato scritto il Quaderno 21, egli è impegnato a fronteggiare una grave crisi esistenziale, che lo porta sull'orlo della disperazione. Certo, la crisi fa capo a circostanze oggettive ben note (la detenzione, la difficoltà di comunicazione con l'esterno, i lunghissimi silenzi della moglie, l'intuizione di essere stato abbandonato, se non addirittura tradito dai compagni, ecc.). ma la disperazione umana, la disperazione che solo esseri umani possono sperimentare, al di là delle motivazioni oggettive, tocca sempre corde più profonde.


Quaderno 22

Razionalità del sistema e parassitismo

Il Quaderno 22  fornisce la prova che il marxismo gramsciano, pur non rinunciando al riferimento all'importanza dell'infrastruttura economica, può integrare tale riferimento con un'analisi sottile della sovrastruttura ideologica e dei suoi riflessi sul comportamento collettivo e sulla psicologia individuale.

Al centro della riflessione gramsciana è il fordismo, vale a dire il nuovo modello di produzione avviatosi negli Stati Uniti sulla base di una "razionalizzazione" dell'organizzazione del lavoro. Sostanzialmente, la razionalizzazione, all'epoca, è la catena di montaggio che, nonostante gli alti salari, aumentando la produttività degli operai riduce i costi dei prodotti, e avvia l'estensione della base dei consumi (la civiltà, insomma, dei consumi di massa).

Per quanto incentrata su di un modello teorico (il taylorismo) e realizzata da un imprenditore (Ford) ideologicamente conservatore, il fordismo - e Gramsci lo capisce in largo anticipo rispetto ad altri studiosi sociali - è un passaggio obbligato del sistema capitalistico che, proprio estendendo la fascia dei consumatori, mira ad evitare le crisi di sovrapproduzione.

Al di là di questo aspetto infrastrutturale, c'è però quello sovrastrutturale, che è ancora più importante.

Muovendo dall'etica del lavoro e dell'ascesi, analizzata da Marx come tratto tipico della nascente classe imprenditoriale borghese e da Weber come conseguenza dell'intreccio tra capitalismo e calvinismo, il fordismo mira a trasformare radicalmente la psicologia e lo stile di vita degli operai portandoli sul registro di un puritanesimo astinente per quanto riguarda l'alcol e estremamente continente e moderato (oltre che monogamico) per quanto riguarda la sessualità.

Esso, per Gramsci, è un'ulteriore espressione di un conflitto perenne  tra "animalità" e industrialismo: " La storia dell’industrialismo è sempre stata (e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l’elemento «animalità» dell’uomo, un processo ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti (naturali, cioè animaleschi e primitivi) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell’industrialismo."

I nuovi metodi produttivi, di fatto, "domandano una rigida disciplina degli istinti sessuali (del sistema nervoso), cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non di questa o quella forma del sistema famigliare), della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali."

Questa sorta di pedagogia o psicagogia puritana, però, strumentale nella misura in cui essa non ha come fine l'umanità del lavoratore, ma solo la sua efficienza come fattore di produzione, se funziona consentendo la crescita dei profitti, determina un effetto paradossale a livello della classe dominante: "L’uomoindustriale continua a lavorare anche se miliardario, ma sua moglie e le sue figlie diventano sempre più «mammiferi di lusso»... Le donne, oziose, viaggiano, attraversano continuamente l’oceano per venire in Europa, sfuggono al proibizionismo patrio e contraggono «matrimoni» stagionali ... : la prostituzione reale dilaga, appena larvata da fragili formalità giuridiche."

Sembra di leggere alcune pagine di Veblen e della sua Teoria della classe agiata del 1899...

Le riflessioni di Gramsci muovono dal fatto che in America il nuovo modello si è imposto sulla base della non esistenza, colà, della classe e della tradizione  parassitaria presente in Europa, come espressione di una lunga storia sociale e istituzionale. L'inevitabile estensione del fordismo a tutto il mondo industrializzato, vanamente contrastato dal corporativismo, è colta da Gramsci con grande acutezza. Al tempo stesso, egli vede nel seno stesso del fordismo i germi del riproporsi del parassitismo, del vivere di rendita da parte di una minoranza sulla base dello sfruttamento della classe operaia.

A distanza di quasi un secolo, la previsione sembra del tutto fondata.


Quaderno 23

La lotta per una nuova cultura

Convinto che il presupposto per una rivoluzione è la crescita culturale dei ceti subordinati, che non può avvenire, però, senza la partecipazione attiva di intellettuali la cui attività libera e creativa sia finalizzata a promuoverla, Gramsci si impegna di continuo a riflettere sul loro ruolo nella storia e nella contemporaneità.

Molte riflessioni sono dedicate agli intellettuali italiani. A riguardo egli scrive:

"§8 Per quali forme di attività hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l’attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d’arte si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del «dominio», del «comando» di un «eroe» sui produttori che interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi motivo di volate oratorie.

La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò la «contadina» ha ancora più spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto più esterno e romantico e perché la donna con la sua bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori.

Il lavoro dell’impiegato è fonte inesausta di comicità: in ogni impiegato si vede l’Oronzo E. Marginati del vecchio «Travaso».

Il lavoro dell’intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua espressione di «eroismo» e di «superumanismo», con l’effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano «genii» della loro propria taglia e, si sa, se un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi intelligente."

Il bilancio è piuttosto deprimente. Ma perché le cose stanno così? Gramsci ha risposto più volte, nei Quaderni precedenti, a questo quesito. Gli intellettuali italiani, anche quelli di estrazione popolare, vivono distaccati dal popolo, vivono in un loro mondo di forme retoriche funzionali a catturare l'attenzione delle classi medio-alte borghesi. Nonostante la diffusione della letteratura popolare straniera, soprattutto francese, essi insistono sprezzantemente a ritenere che i membri dei ceti subordinati leggano poco, e quindi non hanno interesse né ad assumere le loro esperienze come oggetto di narrazione né a scrivere per essi.

Gramsci è del tutto consapevole che "lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali" e che ciò "è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti."

Ciò nondimeno "si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d’arte possibili».

Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso."

E' evidente che scrivendo queste affermazioni, Gramsci ha in mente un precedente storico: l'illuminismo che ha preparato il terreno e posto i presupposti per l'avvento della Rivoluzione francese. Se questo è vero, c'è da chiedersi perché egli limiti le sue analisi alla critica letteraria. E' la narrativa che può promuovere la crescita culturale dei ceti subordinati? Non sarebbe più opportuno scrivere ottimi libri divulgativi di storia, di filosofia, di scienze?

La verità è che Gramsci, nel suo intimo, è un letterato (autodidatta) che si è dato alla politica. Nella passione politica ha investito le sue energie migliori, ma rimane pervicacemente attratto dai suoi interessi originari.

La passione politica incide sulla valutazione critica delle opere degli intellettuali italiani, dando ad essa spesso un timbro di particolare asprezza che va al di là del "sarcasmo" e diventa tout court disprezzo.

Nella critica letteraria, di cui il Quaderno 23 rappresenta una summa, affiora un orientamento che non è solo critico, ma moralistico: gli intellettuali italiani vengono giudicati, insomma, in riferimento a ciò che dovrebbero essere e a ciò che dovrebbero fare - porsi al servizio di una nuova cultura popolare -, e non per ciò che  riescono a fare.

Il rimproverare ad essi di non mettere il loro operare a servizio delle masse popolari è temperato, peraltro, da una riflessione realistica:

"§ 36 Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l’attività critica normale non può non avere prevalentemente carattere «culturale» ed essere una critica di «tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.

E in questo caso, come scegliere l’opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all’arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell’organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di «non poesia» e non di «poesia», diventerebbe stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una caccia all’uomo, oppure potrebbe essere ritenuta «casuale» e quindi irrilevante.

Pare certo che l’attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell’opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale."

Nonostante questo riferimento metodologico, nelle sue valutazioni critiche Gramsci salva solo Abba, Jahier e Stuparich. Tutti gli altri (Papini, Gallarati Scotti, Panzini, Répaci, Malaparte, Ojetti, Bontempelli, Puccini, Cicognani, Soffici, Salvator Gotta, Umberto Fracchia, ecc.) li "massacra".

La categoria nella quale iscrive la tendenza che essi rappresentano (il "brescianesimo") è sostanzialmente squalificante quando non infamante.

C'è indignazione nei giudizi di Gramsci: giusta, ma impietosa indignazione, che si può comprendere solo tenendo conto che gran parte degli autori citati hanno aderito al fascismo...


Quaderno 24

Il giornalismo "integrale"

Il giornalismo "integrale" cui fa cenno Gramsci nel § 1, un giornalismo orientato alla crescita culturale del suo pubblico, presuppone "che esista, come punto di partenza, un aggruppamento culturale (in senso lato) più o meno omogeneo, di un certo tipo, di un certo livello e specialmente con un certo orientamento generale e che su tale aggruppamento si voglia far leva per costruire un edificio culturale completo, autarchico, cominciando addirittura dalla... lingua, cioè dal mezzo di espressione e di contatto reciproco."

Esso postula un "indirizzo redazionale [che] dovrebbe essere fortemente organizzato in modo da produrre un lavoro omogeneo intellettualmente."

L'impostazione del giornale o della rivista in questione comporterebbe:

1) l'"esame analitico di opere, fatto dal punto di vista dei lettori della rivista che non possono, generalmente, leggere le opere stesse.

2) "un dizionario enciclopedico politico-scientificofilosofico, in questo senso: in ogni fascicolo sono da pubblicarsi una (o più) piccola monografia di carattere enciclopedico su concetti politici, filosofici, scientifici che ricorrono spesso nei giornali e nelle riviste e che il lettore medio difficilmente comprende o addirittura travisa."

3) una "rubrica delle biografie"

4) una rubrica "delle autobiografie politicointellettuali"

5) "uno spoglio sistematico di giornali e riviste per la parte che interessa le rubriche fondamentali"

6) "recensioni di libri"

7)  "uno spoglio critico bibliografico, ordinato per argomenti o gruppi di quistioni, della letteratura riguardante gli autori e le quistioni fondamentali per la concezione del mondo che è alla base delle riviste pubblicate

8) un Annuario che  "potrebbe essere dedicato a un solo argomento oppure essere diviso in sezioni e trattare una serie organica di quistioni fondamentali"

9) una sezione dedicata all'informazione scientifica "sia come notiziario scientifico-tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche più importanti (la parte igienicosanitaria dovrebbe costituire una rubrica a sé)."

Il progetto è indubbiamente affascinante, ma non tiene conto del fatto che un giornale-rivista del genere richiede un pubblico che non ha fame di informazioni (e di distrazioni...), ma di sapere, di allargare gli orizzonti della propria coscienza, di nutrirsi di cultura, di partecipare attivamente alla vita del mondo e all'evoluzione storica; un pubblico di parte, ma che non sia fazioso; un pubblico, infine, già in qualche misura critico e acculturato.

La fiducia che Gramsci ha nella cultura come strumento di liberazione dal senso comune, dalle tradizioni, dai pregiudizi, ecc. è assolutamente commovente.

La realtà, però, è che, tranne poche eccezioni, gli esseri umani, posto che sviluppino nelle fasi evolutive, una determinata visione del mondo, funzionale a promuovere la loro integrazione nel mondo così com'è, tendono inconsapevolmente ad alimentarla e a difenderla adottando, in rapporto al flusso delle informazioni, meccanismi selettivi tali per cui le informazioni che la corroborano vengono acquisite, mentre quella che la pongono in tensione e rischiano di mandarla in crisi (quelle che creano insomma uno stato di dissonanza cognitiva) vengono estinte o rimosse.

Il progetto gramsciano insomma deve fare i conti con modalità di funzionamento dell'apparato mentale umano che sono naturalmente orientate verso la conservazione che non verso l'innovazione. Questa predisposizione naturale al conservatorismo della visione del mondo acquisita rende gli esseri umani facili prede di coloro che hanno interesse a che essa si perpetui.


Quaderno 25

La storia dei gruppi sociali subalterni

Nei Quaderni Gramsci affronta una varietà tanto ampia di tematiche che spesso le sue intuizioni non hanno modo di svilupparsi. La storia dei gruppi sociali subalterni è una di queste.

Il fascino di questa tematica può essere apprezzato oggi più che all'epoca in cui Gramsci scriveva, quando la storia era sostanzialmente narrazione di eventi politici e militari, dominata dalla figura dei capi detentori del potere. Solo negli anni '40 del Novecento, con l'avvio della scuola storica francese de Les Annales, è affiorata alla ribalta della cultura una verità elementare e ovvia, ma formidabile, quella per cui la storia vera, quella su cui si definiscono i giochi di potere, è la storia di masse di uomini che vivono in cono d'ombra, la storia per l'appunto dei ceti subordinati.

Da marxista, Gramsci ha anticipato quella verità. Se anche la scuola de Les Annales non ha mai riconosciuto il suo debito nei confronti di Gramsci, non è un caso che, tra i suoi maggiori esponenti, alcuni siano dichiaratamente marxisti, dediti soprattutto allo studio delle ideologie sociali, e quindi sostanzialmente gramsciani.

Il nodo del discorso di Gramsci è questo:

"§ 2 I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata."

Per sormontare questa condizione, i gruppi subordinati devono non solo giungere al potere, conseguire cioè l'egemonia, ma essere anche dotati di una visione unitaria e coerente della realtà storica che li affranchi dall'ideologia dominante.

Il tragitto è ovviamente difficile e accidentato:

"§ 5 Le classi subalterne, per definizione, non sono unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare «Stato»: la loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una funzione «disgregata» e discontinua della storia della società civile e, per questo tramite, della storia degli Stati o gruppi di Stati."

Sulla via del superamento della subordinazione politica e ideologica, non c'è da sorprendersi che le aspirazioni popolari ad un mondo nuovo, fatto a misura d'uomo, trovi espressione nelle "Utopie" e nei "romanzi filosofici", siano pure essi prodotti dal "cervello di intellettuali dominati da altre preoccupazioni."

Gramsci scrive:

"§ 7 Le Utopie sono dovute a singoli intellettuali, che formalmente si riattaccano al razionalismo socratico della Repubblica di Platone e che sostanzialmente riflettono, molto deformate, le condizioni di instabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari dell’epoca; sono, in fondo, manifesti politici di intellettuali, che vogliono raggiungere l’ottimo Stato."

La letteratura utopistica è significativa perché essa dà spazio ad un "sogno" latente nell'inconscio umano, fortemente rappresentato nei ceti subordinati, ma esprime anche il disagio di certi intellettuali nei confronti dello stato di cose esistente.

Essa, insomma, prefigura la possibilità che tra intellettuali "critici" e ceti subordinati si realizzi un'alleanza che, alla luce del marxismo, promuoverà, entro certi limiti, la realizzazione dell'utopia.


Quaderno 26

La politica tra ragione e passione

Il paragrafo § è dedicato ad un singolare problema: qual è la tipologia di personalità di un capo politico "ideale? in quale misura egli deve "essere sopra alle passioni pur provandole?"

La risposta di Gramsci è la seguente:

"Il capo suscita e dirige le passioni, ma egli stesso ne è «immune» o le domina per meglio scatenarle, raffrenarle al momento dato, disciplinarle, ecc.; deve più conoscerle, come elemento obbiettivo di fatto, come forza, che «sentirle» immediatamente, deve conoscerle e comprenderle, sia pure con «grande simpatia»"

In opposizione al Croce e alla sua formula  «politica = passione», Gramsci specifica:

"la caratteristica del capo come tale non è certo la passionalità, ma il calcolo freddo, preciso, obiettivamente quasi impersonale, delle forze in lotta e dei loro rapporti (tanto più ciò vale se si tratta di politica nella sua forma più decisiva e determinante, la guerra o qualsiasi altra forma di lotta armata)."

Il problema affrontato da Gramsci porta su di un terreno che è stato finora decisivo per il marxismo. E' stato scritto più volte che con la sua ansia radicale di giustizia, che implica l'identificazione con i deboli, gli oppressi, gli sfruttati, il marxismo è l'erede moderno del Cristianesimo primitivo, ed è alle sue origini, impregnato dell'umanitarismo radicale intrinseco al socialismo ottocentesco.

Su questa base, la lotta contro le ingiustizie sociali, pur portata avanti con estrema determinazione, non dovrebbe dimenticare che anche coloro che commettono ingiustizie sono esseri umani condizionati dalle vicende storiche.

Quando Marx scrive nel Capitale che anche il capitalista è una pedina dell'ingranaggio raggiunge il massimo della comprensione critica. L'ingranaggio va cambiato radicalmente, fermo restando il suo potere intrinseco di assegnare ruoli che costringono a fare o a subire ingiustizie.

Su questo sfondo umanitaristico, il marxismo, come riesce chiaro dalle citazioni gramsciane, è evoluto privilegiando progressivamente "il calcolo freddo, preciso, obiettivamente quasi impersonale, delle forze in lotta e dei loro rapporti". Il venire meno della comprensione critica nei confronti di tutti gli esseri umani ha prodotto una mutazione giacobina che ha identificato nei nemici della classe operaia non solo soggetti da espropriare dei loro ingiusti privilegi, bensì individui da eliminare.

La tragedia del comunismo è di aver tradito le sue origini umanitaristiche e di avere impostato, soprattutto nell'Unione Sovietica di Stalin, la lotta politica sul "calcolo freddo, preciso, obiettivamente quasi impersonale."

E' improbabile che, nel descrivere la tipologia del capo politico ideale (comunista), Gramsci avesse in mente Stalin, la cui personalità, però, corrisponde puntualmente alla tipologia in questione. Uomo d'acciaio, dotato di un rigidissimo controllo sulle emozioni, Stalin agisce sempre con una sorprendente freddezza e ponderatezza, che viene meno solo in alcuni momenti in cui è preda di accessi di rabbia incontenibile. Calcolatore nato, riesce sempre a valutare adeguatamente le forze in campo e ad avere la meglio in tutti i conflitti politici che affronta.

Ma Stalin è emotivamente sterilizzato: manda a morte senza battere ciglio anche gli amici o i collaboratori di antica data.

Non solo il capo comunista ma l'uomo comunista deve avere uno spessore umano e culturale tale per cui la lotta contro le ingiustizie diventa un'esigenza sistemica e non implica la "demonizzazione" di chi le commette.


Quaderno 27

Il folclore tra conservazione e innovazione

Gramsci, come risulta chiaro della lettura del testo pubblicato in Mat. Bibl., non è stato certo il primo ad avviare una riflessione seria sulla cultura popolare o folklore. Il recupero e la valorizzazione del suo pensiero nella cornice dei cosiddetti Cultural Studies attestano però che le sue intuizioni non sono caduche.

Il motivo di fondo per cui Gramsci dedica un interesse crescente al folclore non è, come accade oggi sempre più spesso, di ordine meramente intellettuale, bensì politico.

All'epoca della sua attiva militanza politica, Gramsci aderisce al punto di vista marxiano secondo il quale il ribellismo delle masse proletarie e contadine contiene un potenziale rivoluzionario che si può tradurre agevolmente in una coscienza di classe, posto che ad esso sia fornita l'arma della critica, vale a dire una chiave per interpretare il corso della storia e orientarla consapevolmente nella direzione di un mondo affrancato dall'oppressione e dallo sfruttamento.

Egli, però, in seguito alla delusione della rivoluzione mancata del biennio rosso, è tra i primi a capire che la teoria marxiana della coscienza di classe ha delle straordinarie lacune. Nonostante Marx, infatti, avesse a tal punto consapevolezza dell'incidenza delle tradizioni culturali sulle masse popolari da avere scritto che "il peso di tutte le generazioni passate grava come un incubo sul cervello dei viventi", le esigenze di vedersi avviare finalmente una rivoluzione proletaria lo hanno indotto, se non a trascurare, a minimizzare tale incidenza.

La prima, grande intuizione gramsciana sta nel sottolineare che la cultura popolare, con le sue contraddizioni, i suoi pregiudizi, le sue convinzioni spesso prive o quasi di fondamento, svolge la funzione indispensabile di una visione del mondo che, comunque, dà un qualche senso alla realtà e consente di orientarsi in essa, sia pure alla luce del senso comune. Data tale funzione, essa è anche una gabbia o un recinto mentale che tende ad ostacolare il tragitto delle coscienze verso un modo di vedere e di agire aperto al cambiamento.

Non è superfluo rilevare che questa intuizione gramsciana è la stessa che, negli anni '40 del Novecento, ha presieduto alla fondazione della scuola de Les Annales. Identificando nella cultura popolare un quadro di mentalità la cui trasmissione avviene sotterraneamente di generazione in generazione, gli storici francesi l'hanno per l'appunto definita come un recinto mentale a tal punto ingabbiante che esso persiste, nella struttura profonda di una società, anche quando le coscienze pensano di essersi affrancate da essa.

In virtù della sua intuizione, Gramsci prende atto che il passaggio ad una coscienza critica o a una coscienza di classe universale è ben più arduo di quanto Marx stesso e i suoi eredi ortodossi potessero immaginare.

L'altra grande intuizione gramsciana è che la cultura popolare, con tutti i suoi limiti, comporta un'opposizione, consapevole e più spesso inconsapevole, alla cultura ufficiale, che all'epoca è la cultura borghese. Grazie al folklore, infatti, "gli «strati inferiori» della piramide sociale si rendono parzialmente in grado di resistere alle influenze delle filosofie «superiori» e di formularne una critica «rozza»." tale resistenza, secondo Gramsci, pone le premesse di un superamento della cultura popolare in una direzione che non sia l'omologazione all'ideologia e al modo di vivere borghese.

Mentre la prima intuizione gramsciana è del tutto attuale (anche se, per essere approfondita, richiede di fare ricorso all'inconscio sociale, vale a dire ad un concetto ostico per la filosofia marxista), la seconda è datata.

L'omologazione culturale dei ceti subordinati si è, negli ultimi decenni, realizzata quasi compiutamente, al punto che i Cultural Studies prescindono quasi dall'indagare il potenziale critico presente nel folklore e si dedicano sempre più ad esplorare i residui (simbolici e materiali) sopravvissuti all'omologazione borghese della società.

Gramsci giustamente ha identificato nel folklore l'ostacolo maggiore nella direzione di una presa di coscienza critica dei ceti subordinati sullo stato di cose esistente nel mondo. Questo è il senso del suo richiamo accorato agli intellettuali "organici" perché, anziché perdersi nei cieli astratti dell'accademia o delle elucubrazioni prive di senso, si decidessero ad assumere il ruolo di guida e oserei dire di Maestri delle masse popolari. Senza, ovviamente, alcuna suggestione paternalistica.

La sua sollecitazione, fino ad oggi, non ha funzionato. Il problema del superamento del folklore e dell'omologazione si pone in termini ancora più seri che alla sua epoca.


Quaderno 28

La fragilità della civiltà moderna

Criticare sarcasticamente gli "avversari", vale a dire gli studiosi che avanzano ipotesi e teorie strampalate, incompatibili con la filosofia marxista, è una qualità che Gramsci di sicuro ha mutuato da Marx, dal Marx della Miseria della filosofia e della , i cui bersagli sono Proudhon, Bauer, Stirner, ecc.

Per quanto di statura minore, Loria e i suoi "discepoli" si prestano magnificamente al sarcasmo: accanto a cose non del tutto prive di senso, essi, infatti, esibiscono, per smania di originalità e abbandono alla fantasia poco vigilata dalla riflessione razionale, vere e proprie bizzarrie. Come accade a Marx, anche Gramsci mette da parte le prime e focalizza le secondo.

D'acchito, il Quaderno appare come una sorta di divertissement, che stigmatizza, per un verso, la scarsa disciplina intellettuale di un numero rilevante di studiosi italiani e, per un altro, - aspetto che a Gramsci sta particolarmente a cuore - l'abissale distanza delle loro bizzarrie dalla necessità (che nell'ottica gramsciana è un dovere) di produrre una cultura che possa essere fruita e utilizzata dalle masse popolari per sgombrare il campo dalle superstizioni, dalle tradizioni retrive, dalla religione, ecc.

Intellettuali del tutto "disorganici", i loriani, oltre a riversare nelle loro opere, un infondato narcisismo, pongono in luce i difetti storici di una cultura, quella italiana, che, pur avendo conosciuto fasi di straordinario sviluppo (Rinascimento, Galileo), è rimasta di fatto arretrata, a partire dal Settecento, perché non è stata penetrata e arricchita dall'Illuminismo e si è attestata, in gran parte, sul culto della retorica, dell'enfasi, del gusto di épater le bourgeois.

Ma il Lordassimo, inteso come tendenza a costruire ideologie prive di valore alle quali, però, gli autori (e non solo loro) finiscono con il credere, ha in Gramsci un significato che trascende la cultura italiana. Esso è un vero e proprio vicolo cieco dell'attività intellettuale umana, nel quale si finisce facilmente "in tempi anormali, di passioni scatenate", allorché risulta "facile a dei Loria, appoggiati da forze interessate, di traboccare da ogni argine e di impaludare per decenni un ambiente di civiltà intellettuale ancora debole e gracile."

Sulla scorta di questa considerazione, nel contesto di un divertissement sarcastico, compaiono due rapidi accenni all'hitleriano "lordassimo mostruoso" che, con le sue "manifestazioni di brutalità e d'ignominia inaudita" ha dimostrato, la fragilità della civiltà moderna.

Gramsci scrive queste righe nel 1935, quando il peggio (del nazismo e del fascismo) deve ancora venire. Ormai libero dal carcere, egli ha avuto modo di capire meglio ciò che nel mondo è avvenuto nel corso della sua detenzione. Al di là delle dolorose vicissitudini della storia sovietica (la collettivizzazione forzata delle terre, l'assassinio di Kirov e l'inizio della liquidazione del comitato centrale), egli coglie immediatamente la pericolosità dell'ideologia nazista, che, pur ispirandosi al fascismo, fa entrare nel campo della lotta politica una nazione di straordinaria potenza e determinazione.

Al riguardo, Gramsci non potrà scrivere altro nonostante la sua morte sia avvenuta quando si era già avviata la guerra civile in Spagna, vera e propria prova generale della Seconda Guerra Mondiale.

L'identificazione dell'hitleriano con una mostruosa forma di Lordassimo consente però di spiegare la durezza spietata dei suoi attacchi ai loriani. Le bizzarie di menti "malate" - sembra intendere - possono rimanere prive di qualunque incidenza sulla realtà, ma possono anche avviare l'umanità verso la catastrofe.