Autobiografia

1924

Molti dei collaboratori a questa raccolta di Autobiografie hanno aperto il loro contributo con alcuni rilievi dubbiosi circa la particolarità e la difficoltà del compito che avevano intrapreso. Credo di poter affermare che il mio compito sia ancora più difficile, poiché ho già pubblicato diverse volte esposizioni simili a quella che qui mi è stata richiesta e per la natura della materia è sempre accaduto che ho parlato del mio personale ruolo più del consueto, o di ciò che sembrava necessario.

La prima esposizione dello sviluppo e del contenuto della psicoanalisi fu da me redatta nel 1909 in cinque conferenze che tenni presso la Clark University di Worcester (Massachusetts), che in quell'anno celebrava il ventesimo anniversario della sua fondazione1. Poco tempo fa ho ceduto alla tentazione di partecipare a un'opera collettanea americana sugli inizi del ventesimo secolo con un contributo di contenuto analogo, poiché questa pubblicazione aveva riconosciuto l'importanza della psicoanalisi riservandole un intero capitolo2. Intanto, nel 1914, avevo scritto il saggio Storia del movimento psicoanalitico, che in vero contiene tutto l'essenziale di ciò che oggi posso dire in proposito. Dal momento che non posso contraddirmi, né intendo semplicemente ripetermi, devo tentare di trovare qui un nuovo rapporto tra l'aspetto soggettivo e quello oggettivo dell'esposizione, tra l'interesse biografico e quello storico.

Sono nato il 6 maggio 1856 a Freiberg (Moravia), una piccola città dell'attuale Cecoslovacchia. I miei genitori erano ebrei, anch'io sono rimasto ebreo. Quanto ai miei ascendenti del ramo paterno, credo di poter affermare che abbiano vissuto per molti anni sul Reno (a Colonia), siano emigrati verso l'Est nel quattordicesimo o quindicesimo secolo a causa di una persecuzione contro gli ebrei, e nel corso del diciannovesimo secolo abbiano intrapreso il viaggio di ritorno dalla Lituania, attraverso la Galizia, verso l'Austria. A quattro anni giunsi a Vienna, dove feci tutte le scuole. Al ginnasio fui il migliore per sette anni consecutivi, la mia posizione nella classifica era eccellente e non venivo quasi mai interrogato. Sebbene vivessimo in grandi ristrettezze, mio padre desiderava che nella scelta della professione seguissi unicamente le mie inclinazioni. In quegli anni giovanili non sentivo alcuna particolare predilezione per la professione medica, come del resto neppure in seguito. Piuttosto ero mosso da una specie di brama di sapere che si riferiva però più ai fenomeni umani che agli oggetti naturali, e che inoltre non aveva ancora riconosciuto il valore dell'osservazione come suo principale mezzo di appagamento. Lo studio precoce e approfondito della storia biblica, iniziato appena ebbi imparato a leggere, ha avuto, come potei riconoscere molto tempo dopo, un peso considerevole nel determinare l'indirizzo dei miei interessi. Sotto l'influenza potente di un'amicizia con un compagno di ginnasio un po' più vecchio di me (che in seguito è diventato famoso come uomo politico) mi ero messo in mente di intraprendere anch'io gli studi giuridici e di occuparmi di problemi sociali. Allo stesso tempo, però, mi attraeva enormemente la teoria di Darwin, allora molto in voga, perché faceva sperare in uno straordinario progresso nella comprensione del mondo, e so che l'illustrazione del bel saggio di Goethe La natura in una conferenza divulgativa tenuta da Carl Brühl a cui assistetti poco prima dell'esame di maturità mi fece decidere a iscrivermi alla facoltà di medicina.

L'Università, alla quale mi iscrissi nel 1873, mi procurò all'inizio forti delusioni. Prima di tutto mi feriva l'idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri. Rifiutavo assolutamente l'idea d'inferiorità. Non ho mai capito perché avrei dovuto vergognarmi della mia origine, o, come già allora si cominciava a dire, della mia razza. Rinunciai anche, senza gran dispiacere, alla nazionalità, che mi veniva negata. Pensavo che un lavoratore instancabile, pur privo di una identità nazionale, avrebbe trovato comunque un posticino all'interno dell'umanità. Ma queste prime impressioni dei tempi dell'università ebbero in seguito la conseguenza importante di abituarmi fin da principio al destino di stare meglio nelle file dell'opposizione e all'ostracismo della "maggioranza compatta". In tal modo si preparava una certa mia indipendenza di giudizio. Inoltre, nei primi anni di università, dovetti rendermi conto che la peculiarità delle mie doti naturali e la loro limitatezza mi impedivano di ottenere qualsiasi successo in molte materie scientifiche sulle quali mi ero gettato con giovanile e presuntuoso entusiasmo. Imparai così a riconoscere la verità dell'avvertimento di Mefistofele:

Addentrarsi in indagini scientifiche non serve: Ognuno impara solamente quel che può5.

Nel laboratorio di fisiologia di Ernst Brücke trovai finalmente tranquillità e piena soddisfazione, e incontrai persone che potevo rispettare e prendere a modello: Brücke stesso, il maestro, e i suoi assistenti Sigmund Exner e Ernst Fleischl von Marxow. Quest'ultimo, che era un uomo molto brillante, mi onorò persino della sua amicizia. Brücke mi affidò un lavoro di istologia del sistema nervoso che con sua soddisfazione potevo affrontare e portare avanti autonomamente. Lavorai nell'istituto dal 1876 al 1882, con brevi interruzioni, e tutti mi ritenevano designato a ricoprire il primo posto di assistente che si fosse liberato.

Le discipline propriamente mediche - ad eccezione della psichiatria - non mi attraevano. Portai avanti gli studi di medicina in modo molto negligente e infatti conseguii il titolo di dottore solo nel 1881, dunque con un certo ritardo.

La svolta avvenne nel 1882, quando il venerato maestro decise di porre rimedio alla magnanima avventatezza di mio padre e, richiamando con urgenza la mia attenzione alla nostra cattiva situazione economica, mi esortò ad abbandonare l'attività puramente teorica. Seguii i suoi consigli, abbandonai il laboratorio di fisiologia ed entrai come Aspirant all'Ospedale generale. Lì, dopo un po' di tempo, fui nominato Sekundararzt interno e prestai servizio in diversi reparti, passando più di sei mesi in quello di Meynert, la cui opera e personalità mi avevano affascinato fin dai tempi in cui ero studente.

In un certo senso rimasi comunque fedele all'orientamento dei miei primi lavori scientifici. A suo tempo Brücke mi aveva indicato come oggetto di ricerca il midollo spinale di un pesce inferiore (Ammoco-tes Petromyzon); a questo punto passai allo studio del sistema nervoso centrale umano, sulla cui complicata struttura fibrillare e sulla cui formazione in tempi differenti le scoperte di Flechsig cominciavano allora a gettare viva luce. Anche il fatto che avessi scelto come oggetto dei miei studi solo ed esclusivamente la medulla oblongata derivava dai miei iniziali interessi. In totale contrasto con il carattere dispersivo dei miei studi nei primi anni universitari, sviluppai ora una tendenza a concentrare in modo esclusivo il lavoro su un singolo argomento o problema. Tale tendenza mi è rimasta e mi ha procurato in seguito l'accusa di unilateralità.

Nell'Istituto di anatomia cerebrale ero adesso un lavoratore instancabile come in precedenza all'Istituto di fisiologia. E comunque anche in quegli anni di attività ospedaliera portai avanti piccole ricerche sul decorso delle fibre e sulle origini dei nuclei del midollo allungato che furono notate da Edinger. Un giorno Meynert, che mi aveva aperto le porte del suo laboratorio, prima ancora che andassi a lavorare da lui, mi propose di dedicarmi esclusivamente all'anatomia del cervello, promettendomi di succedere alla sua cattedra perché diceva di sentirsi troppo vecchio per usare i nuovi metodi. Spaventato dall'imponenza del compito declinai l'offerta; è possibile che già allora intuissi che quell'uomo geniale non era affatto ben disposto nei miei confronti.

Dal punto di vista pratico l'anatomia cerebrale non costituiva certo un progresso rispetto alla fisiologia. Iniziai a tener conto delle esigenze pratiche quando intrapresi lo studio delle malattie nervose. Allora, a Vienna, questa specialità medica veniva praticata da poche persone, il materiale d'osservazione era disseminato in diversi reparti dell'ospedale, e siccome non vi erano buone possibilità di formarsi, bisognava diventare maestri di se stessi. Lo stesso Nothnagel, che poco prima aveva avuto una cattedra per il suo libro sulle localizzazioni cerebrali, non distingueva la neuropatologia dalle altre branche della medicina interna. Poiché era giunta sino a me la fama del grande Charcot, mi proposi di prendere a Vienna la docenza in malattie nervose e di andare poi a Parigi per proseguire la mia formazione.

Negli anni che seguirono, in cui lavoravo come giovane aiuto dell'ospedale, pubblicai molte osservazioni di casi di malattie organiche del sistema nervoso. Mi impadronii a poco a poco della materia e riuscii a localizzare un focolaio morboso del midollo allungato con tale precisione che l'anatomopatologo non ebbe nulla da aggiungere alle mie osservazioni. Fui il primo a Vienna a mandare nella sala delle autopsie un caso diagnosticato come "polineurite acuta". La fama delle mie diagnosi, confermate dalle autopsie, fece sì che si rivolgessero a me un certo numero di medici americani, ai quali in un pessimo inglese tenni un corso sui pazienti del mio reparto. Delle nevrosi, però, non capivo nulla. Quando una volta presentai ai miei uditori un nevrotico affetto da cefalea persistente come un caso di meningite cronica circoscritta, essi si ribellarono giustamente contestando la mia diagnosi, e così ebbe fine la mia precoce attività didattica. A mia discolpa si può dire che a quel tempo, a Vienna, persino grandi autorità nel campo della scienza medica diagnosticavano abitualmente la nevrastenia come tumore cerebrale.

Nella primavera del 1885 conseguii la docenza in neuropatologia per i miei lavori istologici e clinici. Poco dopo, grazie alla calorosa intercessione di Brücke mi fu assegnata una considerevole borsa di studio. Nell'autunno di quell'anno partii per Parigi.

Entrai come élève alla Salpètrière, dove ricevetti inizialmente poca attenzione, essendo uno dei tanti visitatori stranieri. Un giorno udii Charcot esprimere il suo rincrescimento per non aver più avuto notizie, dall'ultima guerra, del traduttore tedesco delle sue lezioni. Sarebbe stato lieto se qualcuno si fosse assunto l'impegno di tradurre in tedesco le sue Nuove lezioni. Mi proposi per iscritto come traduttore e ricordo ancora che nella lettera dissi di essere affetto da aphasie motrice, ma non da aphasie sensorielle du franĉais. Charcot accettò la mia offerta e mi accolse nella cerchia delle persone a lui più vicine; da allora in poi presi parte pienamente a tutto ciò che avveniva nella clinica.

Mentre scrivo questo testo, mi giungono dalla Francia numerosi saggi e articoli di giornale che manifestano una violenta opposizione nei confronti della psicoanalisi e che spesso formulano tesi del tutto inesatte circa il mio rapporto con la scuola francese. Così leggo ad esempio che avrei usato il mio soggiorno a Parigi per impadronirmi delle teorie di P. Janet e poi fuggire con il bottino. Voglio perciò dire espressamente che non ho mai udito il nome di Janet durante il mio soggiorno alla Salpètrière.

Di tutto quello che vidi nel corso della mia permanenza nella clinica dove lavorava Charcot, ciò che mi impressionò maggiormente furono le sue ultime ricerche sull'isteria, che in parte si svolsero sotto i miei occhi quando ancora ero a Parigi. Egli dimostrò, ad esempio, che i fenomeni isterici sono fenomeni autentici e conformi a uno scopo ("Introite et hic dii sunt"), che l'isteria è frequente negli uomini, che paralisi e contratture isteriche possono essere prodotte dalla suggestione ipnotica e che tali prodotti artificiali manifestano, fin nei minimi dettagli, gli stessi caratteri dei casi di isteria spontanea che spesso sono provocati da un trauma. Alcune dimostrazioni di Charcot suscitarono inizialmente, in me e in altri osservatori, stupore e una tendenza a confutarle che tentavamo di supportare facendo riferimento a una delle teorie allora dominanti. Charcot liquidò tali dubbi in modo sempre cortese e paziente, ma anche molto determinato. In una di queste discussioni egli pronunciò una frase che mi è rimasta impressa in modo incancellabile: «Ca n'empèche pas d'exister».

Com'è noto, non tutto ciò che allora Charcot ci insegnava è valido ancora oggi. Alcune sue tesi sono rimaste incerte, altre non hanno superato evidentemente la prova del tempo. Ma una buona parte di esse è rimasta ed è considerata patrimonio durevole della scienza. Prima di lasciare Parigi concordai con il maestro il progetto di un lavoro sul confronto tra paralisi isteriche e organiche. Volevo dimostrare la tesi che nell'isteria le paralisi e le anestesie si ripartiscono nelle singole parti del corpo secondo la rappresentazione comune (non quella anatomica) che gli uomini hanno del proprio corpo. Charcot era d'accordo con la mia ipotesi, ma era evidente che in fondo non nutriva un particolare interesse per un ulteriore approfondimento della psicologia delle nevrosi. Del resto, egli proveniva dall'anatomia patologica.

Prima di tornare a Vienna mi fermai alcune settimane a Berlino per acquisire nozioni generali sulle malattie infantili. Kassowitz, che dirigeva un ospedale pubblico per le malattie infantili a Vienna, mi aveva promesso che vi avrebbe istituito per me un reparto di malattie nervose dei bambini. A Berlino trovai presso Baginsky accoglienza cordiale e incoraggiamento. Nel corso degli anni successivi, mentre lavoravo all'ospedale di Kassowitz, pubblicai numerosi lavori importanti sulle paralisi cerebrali monolaterali e bilaterali dei bambini. Anche per questo Nothnagel mi affidò in seguito, nel 1897, la trattazione di tale argomento nel suo grande Handbuch der allgemeinen und speziellen Therapie [Manuale di terapia generale e speciale].

Nell'autunno del 1886 aprii uno studio medico a Vienna e sposai la ragazza che per più di quattro anni mi aveva aspettato in una città lontana. Posso dire, a posteriori, che fu a causa della mia fidanzata se non divenni famoso già in quegli anni giovanili. Un interesse estraneo al mio campo, ma profondo, mi aveva indotto nel 1884 a commissionare presso Merck una certa quantità di cocaina, alcaloide allora poco noto, per studiarne gli effetti fisiologici. Nel bel mezzo di questo lavoro mi si presentò la possibilità di fare un viaggio per rincontrare la mia fidanzata che non vedevo da due anni. Terminai velocemente la mia ricerca sulla cocaina, formulando nella mia pubblicazione la previsione che presto si sarebbero scoperte ulteriori applicazioni di quella sostanza. Raccomandai al mio amico oculista, il dottor Leopold Königstein, di verificare in quale misura fossero applicabili le proprietà anestetiche della cocaina all'occhio malato. Una volta tornato dalla vacanza, scoprii che non Königstein, bensì un altro amico, Carl Koller (che ora si trova a New York), al quale pure avevo parlato della cocaina, aveva portato a termine gli esperimenti decisivi sull'occhio degli animali, e li aveva quindi presentati al Congresso di oculistica di Heidelberg. A ragione, dunque, Koller viene considerato lo scopritore dell'anestesia locale per mezzo della cocaina, che è diventata così importante nella chirurgia locale. In ogni caso, non serbai rancore alla mia fidanzata per l'interruzione che allora subì la mia carriera.

Ma torno ora a quando, nel 1886, mi stabilii a Vienna come specialista in malattie nervose. Ero tenuto a riferire alla Società di medicina su ciò a cui avevo assistito e avevo imparato nella clinica di Charcot. Le mie relazioni però non furono ben accolte. Persone autorevoli, come il dottor Bamberger, presidente della Società, affermarono che ciò che avevo illustrato era inattendibile. Meynert mi invitò a cercare anche a Vienna casi simili a quelli che avevo descritto e a presentarli alla Società. Tentai di farlo, ma i primari, nei cui reparti trovai i malati che corrispondevano a quei casi clinici, me ne impedirono sia l'osservazione, sia il trattamento. Un anziano chirurgo esclamò: «Ma, collega, come può affermare tali assurdità! Hysteron (sic!) significa "utero". Come può dunque un uomo essere isterico?». Invano replicai che volevo soltanto avere la possibilità di lavorare sui casi clinici e non pretendevo che le mie diagnosi fossero accettate. Infine trovai, al di fuori dell'ospedale, un caso classico di emianestesia isterica in un uomo, che potei presentare davanti alla Società di medicina. Questa volta fui applaudito, ma ciò non suscitò ulteriore interesse. L'impressione che le grandi autorità avessero rifiutato le mie novità rimase inalterata; mi trovai dunque relegato all'opposizione per le mie opinioni sull'isteria maschile e sulla produzione di paralisi isteriche per mezzo della suggestione. Quando, poco dopo, mi furono chiuse le porte del laboratorio di anatomia cerebrale e per più di un semestre non potei avere un'aula in cui fare lezione, mi ritirai dalla vita accademica e da quella della Società. È da una vita che non metto più piede alla Società di medicina.

Per poter vivere con il trattamento dei malati di nervi, si doveva chiaramente essere in grado di fare qualcosa per loro. Il mio arsenale terapeutico era fornito di due sole armi, l'elettroterapia e l'ipnosi, poiché mandare i pazienti dopo un'unica consultazione in un istituto idroterapico non era una fonte di reddito sufficiente. Per l'elettroterapia mi affidavo al manuale di W. Erb, nel quale si trovano prescrizioni dettagliate per il trattamento di qualsiasi sintomo di malattia nervosa. Purtroppo dovetti rendermi conto ben presto che seguire tali prescrizioni non serviva a nulla, poiché ciò che ritenevo fosse il risultato di precise osservazioni era soltanto una costruzione della fantasia. La scoperta che l'opera del più insigne nome della neuropatologia tedesca non aveva alcuna relazione con la realtà, e che era qualcosa di simile a uno di quei libri dei sogni "egizi" che si vendono nelle nostre librerie popolari, fu dolorosa, ma mi aiutò a demolire una parte di quell'ingenua fiducia nelle autorità dalla quale non ero ancora del tutto immune. Fu così che misi da canto il dispositivo elettrico ancor prima che Möbius si pronunciasse definitivamente sull'argomento, affermando che i successi del trattamento elettrico nelle malattie nervose erano dovuti - laddove si verificassero - alla suggestione del medico.

Andò meglio con l'ipnosi. Avevo partecipato, ancora studente, a una pubblica dimostrazione del "magnetizzatore" Hansen e avevo notato come uno dei soggetti dell'esperimento, giunto alla rigidità catalettica, fosse diventato mortalmente pallido e tale fosse rimasto per tutta la durata dell'esperimento. Ciò contribuì a fondare saldamente la mia convinzione circa l'autenticità dei fenomeni ipnotici. Poco tempo dopo tale tesi trovò in Heidenhain il proprio rappresentante scientifico, cosa che però non impedì ai professori di psichiatria di considerare ancora per molto tempo l'ipnosi come una specie di imbroglio e di guardare sprezzantemente gli ipnotizzatori dall'alto in basso. A Parigi avevo avuto modo di vedere che l'ipnosi veniva impiegata senza esitazione come metodo per produrre nel malato determinati sintomi e farli poi scomparire. Venimmo a sapere, in seguito, che a Nancy era stata creata una scuola nella quale veniva impiegata a fini terapeutici la suggestione, con o senza ipnosi, su un gran numero di persone e con particolare successo. È naturale dunque che nei primi anni della mia attività medica, a prescindere da metodi psicoterapeutici più casuali e sistematici, la suggestione ipnotica fu il mio mezzo principale di lavoro.

Ciò comportava la rinuncia al trattamento delle malattie nervose organiche, ma non si trattava di una gran rinuncia. Infatti, da un lato la terapia di questi stati non offriva prospettive rallegranti, e dall'altro nello studio di un medico privato il numero esiguo di coloro che soffrivano di queste malattie scompariva di fronte alla gran massa di nervosi, i quali per giunta si moltiplicavano poiché correvano da un medico all'altro senza riuscire a liberarsi del loro male. Invece la pratica dell'ipnosi era qualcosa di veramente seducente. Per la prima volta si aveva la sensazione di aver sconfitto la propria impotenza; la fama di compiere miracoli era molto lusinghiera. Quali fossero i limiti di tale procedimento avrei dovuto scoprirlo in seguito. Al momento potevo lamentarmi soltanto di due cose: in primo luogo, che non tutti i malati si lasciavano ipnotizzare; in secondo luogo, che non sempre si riusciva a indurre i singoli pazienti in un'ipnosi così profonda quanto si desiderava.

Volendo perfezionare la mia tecnica ipnotica, mi recai nell'estate del 1889 a Nancy, dove trascorsi diverse settimane. Lì vidi il vecchio e commovente Liébeault al lavoro su donne povere e sui bambini della classe operaia, fui testimone dei sorprendenti esperimenti di Bernheim sui suoi pazienti ospedalieri e fui profondamente impressionato dalla possibilità dell'esistenza di potenti processi psichici, che restano però nascosti alla coscienza dell'individuo. Al fine di approfondire le mie conoscenze convinsi una delle mie pazienti a seguirmi a Nancy. Era una donna distinta, affetta da isteria, dotata di un'intelligenza brillante, che mi era stata affidata perché nessuno era riuscito a far nulla per lei. Mediante la suggestione ipnotica ero riuscito a renderle possibile un'esistenza dignitosa, poiché più volte avevo potuto tirarla fuori dal suo miserevole stato. Il fatto che ogni volta, dopo qualche tempo, la donna ricadesse nelle sue sofferenze lo attribuivo, nella mia ignoranza di allora, alla sua ipnosi che mai aveva raggiunto il grado di sonnambulismo accompagnato da amnesia. Anche Bernheim la ipnotizzò più volte, ma neppure lui riuscì a fare di meglio. Egli mi disse con franchezza di aver ottenuto i suoi grandi successi terapeutici mediante la suggestione ipnotica solo con i suoi malati ospedalieri, e mai con i pazienti privati. Ebbi con lui molte conversazioni interessanti e mi assunsi il compito di tradurre in tedesco le sue due opere sulla suggestione e sui suoi effetti curativi.

Nel periodo di tempo tra il 1886 e il 1891 ho lavorato poco sotto il profilo scientifico e non ho pubblicato quasi nulla. Ero assorbito dall'impegno nella mia nuova attività professionale e dalla necessità di assicurare la mia esistenza materiale e quella della mia famiglia che stava rapidamente crescendo. Nel 1891 venne pubblicato il primo dei miei lavori sulle paralisi cerebrali infantili che avevo redatto insieme al mio amico e assistente dottor Oskar Rie. Nello stesso anno mi fu chiesto di collaborare a un manuale di medicina con uno scritto sulla teoria dell'afasia, la quale allora era dominata dalle concezioni di Wernicke e Lichtheim che si basavano esclusivamente sulle localizzazioni cerebrali. Frutto di questo mio studio fu un breve saggio critico-speculativo La concezione delle afasie. Ma a questo punto devo illustrare come accadde che la ricerca scientifica divenne nuovamente l'interesse principale della mia vita.

2.

A completamento della mia precedente esposizione devo aggiungere che fin dall'inizio ho esercitato l'ipnosi per uno scopo diverso da quello della suggestione ipnotica. Ho usato l'ipnosi per interrogare il malato sulla genesi dei suoi sintomi, genesi sulla quale nello stato di veglia egli non era spesso in grado di dire nulla o solo qualcosa di molto lacunoso. Tale procedimento non solo sembrava più efficace del mero ordine o divieto suggestivo, ma soddisfaceva anche la brama di sapere del medico, il quale aveva pur diritto di conoscere qualcosa dell'origine di quel fenomeno che si sforzava di eliminare mediante la monotona procedura della suggestione.

Ero giunto a quest'altro impiego dell'ipnosi per la via seguente. Quando ancora lavoravo nel laboratorio di Brücke avevo conosciuto il dottor Josef Breuer, uno dei medici di famiglia più stimati di Vienna, che però aveva anche un passato scientifico poiché aveva scritto molti lavori importanti sulla fisiologia della respirazione e sull'organo dell'equilibrio. Breuer era un uomo d'intelligenza superiore, di quattordici anni più vecchio di me; la nostra relazione divenne ben presto molto stretta; egli diventò mio amico e mi fu d'aiuto nei momenti difficili della mia vita. Prendemmo l'abitudine di condividere tutti gli interessi scientifici. Naturalmente in questo rapporto ero io la parte che ci guadagnava di più. In seguito, lo sviluppo della psicoanalisi mi costò la sua amicizia. Non fu facile pagare tale prezzo, ma non potei farne a meno.

Già prima del mio viaggio a Parigi, Breuer mi aveva parlato di un caso d'isteria che negli anni dal 1880 al 1882 aveva trattato in un modo particolare, riuscendo a indagare in profondità la causazione e il significato dei sintomi isterici. Ciò accadeva dunque in un tempo in cui i lavori di Janet erano ancora di là da venire. Breuer mi aveva letto diverse volte brani di questo caso clinico, dai quali trassi l'impressione che non ci si era mai spinti tanto avanti nella comprensione delle nevrosi. Mi riproposi dunque di riferire a Charcot di queste scoperte, una volta giunto a Parigi, e lo feci. 11 maestro però non mostrò interesse ai miei primi accenni in proposito, perciò non tornai più sull'argomento e io stesso smisi di pensarci.

Tornato a Vienna, mi interessai nuovamente delle osservazioni di Breuer e me le feci da lui raccontare meglio. La paziente era una ragazza di cultura e intelligenza non comuni che si era ammalata mentre accudiva il padre malato che ella amava teneramente. Quando Breuer l'aveva presa in cura, la paziente manifestava un quadro sintomatico multiforme composto di paralisi con contratture, inibizioni e stati di confusione psichica. Grazie a un'osservazione casuale il medico scoprì che la paziente poteva essere liberata da una tale afflizione della coscienza se veniva indotta a dare espressione verbale alle fantasie affettive da cui era dominata in quel momento. Da questa scoperta Breuer ottenne un metodo terapeutico. Sottoponeva la paziente a una profonda ipnosi e ogni volta la induceva a raccontare ciò che tormentava il suo animo. Dopo che in tal modo erano stati dominati gli attacchi di confusione depressiva [depressiver Verworrenheit], usò lo stesso procedimento per eliminare le inibizioni e i disturbi somatici. Nello stato di veglia la ragazza, come ogni altro malato, sapeva dire ben poco sull'origine dei suoi sintomi e non trovava alcun legame fra questi ultimi e le impressioni della sua vita. Nell'ipnosi, invece, ella scopriva immediatamente il nesso cercato. Risultò che tutti i suoi sintomi si ricollegavano a impressioni molto forti provate nel periodo in cui la giovane aveva accudito il padre infermo, e che dunque tali sintomi erano del tutto sensati e corrispondevano a residui o reminiscenze di quelle situazioni affettive. In genere le cose si erano svolte così: al capezzale del padre la ragazza era stata costretta a reprimere un pensiero, o un impulso, al cui posto come suo sostituto era comparso in seguito un sintomo. Di regola, però, il sintomo non era il sedimento [Niederschlag] di un'unica scena "traumatica", ma il risultato della sommazione [Summation] di numerose situazioni simili. Quando dunque nell'ipnosi la malata ricordava in modo allucinatorio una di tali situazioni e portava a compimento l'atto psichico a suo tempo represso manifestando liberamente i suoi affetti, il sintomo veniva meno e non si ri presentava più. Mediante questo procedimento Breuer riuscì, con un lavoro lungo e faticoso, a liberare la paziente da tutti i suoi sintomi.

La malata fu guarita e da allora non solo stette bene, ma diventò capace di fare grandi cose. Ma il modo in cui era terminato il suo trattamento ipnotico rimase avvolto in un mistero che Breuer non volle mai chiarirmi; non riuscivo neppure a comprendere perché avesse tenuto nascosta così a lungo quella che mi sembrava una conoscenza di valore inestimabile invece di renderla pubblica al fine di arricchire la scienza. La successiva domanda era però se fosse legittimo generalizzare un fatto che si era verificato in un unico caso clinico. I rapporti causali scoperti da Breuer mi sembravano di natura così fondamentale che ero convinto che se erano stati dimostrati validi in quell'unico caso si sarebbero riscontrati in qualunque caso di isteria. Ma solo l'esperienza avrebbe deciso in proposito. Cominciai dunque a ripetere le indagini di Breuer sui miei malati, e in pratica non feci altro, soprattutto dopo che il soggiorno presso Bernheim nel 1889 mi aveva mostrato i limiti di efficacia della suggestione ipnotica. Dopo che per molti anni non trovai altro che conferme alle scoperte di Breuer in qualunque caso di isteria accessibile a tale trattamento, e potendo disporre di un cospicuo materiale simile al suo, gli feci la proposta di scrivere e pubblicare insieme un lavoro sull'argomento, cosa che inizialmente rifiutò con forza. Infine acconsentì, poiché nel frattempo i lavori di Janet avevano anticipato una parte dei suoi risultati, in particolare il riferimento dei sintomi isterici a determinate impressioni vissute dal malato e la possibilità di eliminarli mediante la riproduzione ipnotica in statu nascendi. Pubblicammo così una comunicazione preliminare intitolata Meccanismo psichico dei fenomeni isterici, alla quale seguì nel 1895 il nostro libro Studi sull'isteria.

Se la presente esposizione ha dato l'idea ai lettori che gli Studi sull'isteria, nel loro contenuto essenziale, siano il frutto della mente di Breuer, ebbene questo è ciò che io ho sempre sostenuto e intendo affermare anche stavolta. Non è più possibile determinare oggi la misura del mio contributo alla teoria che in quel libro viene delineata. Tale teoria è priva di pretese, non va molto oltre l'esposizione immediata delle osservazioni compiute. Non pretende di individuare la natura dell'isteria, ma solo di chiarire la formazione dei suoi sintomi. Essa accentua il significato della vita affettiva, l'importanza della distinzione tra atti psichici inconsci e consci (o meglio, capaci di divenire coscienti), introduce un fattore dinamico, in quanto sostiene che il sintomo trae origine da un ingorgo [Aufstauung] affettivo, e un fattore economico, in quanto considera lo stesso sintomo come il risultato della trasformazione di una quantità di energie utilizzata normalmente in modo diverso (ed. conversione).

Breuer chiamò il nostro procedimento catartico e ne affermò l'intento terapeutico: il mantenimento dell'ammontare d'affetto utilizzato per la formazione del sintomo - che avendo preso un falso binario era rimasto in esso per così dire incapsulato - per poi ricondurlo alla sua strada normale dove sarebbe potuto giungere a una scarica adeguata (abreazione). I risultati pratici del metodo catartico furono eccellenti. I difetti che emersero in seguito erano gli stessi di qualunque trattamento ipnotico. Ancora oggi esistono molti psicoterapeuti che sono rimasti fermi alla catarsi in senso breueriano e che la considerano un ottimo metodo. Durante l'ultima guerra se ne è servito di nuovo Simmel, ad esempio, per abbreviare la terapia dei nevrotici di guerra dell'esercito tedesco. Nella teoria della catarsi si parla poco di sessualità. Nei casi clinici che costituiscono il mio contributo agli Studi svolgono un certo ruolo fattori tratti dalla vita sessuale, ma sono valutati quasi alla stregua di altri eccitamenti affettivi. Della sua prima paziente divenuta poi celebre, Breuer racconta che l'elemento sessuale era in lei sorprendentemente poco sviluppato. Dagli Studi sull'isteria difficilmente si sarebbe potuto intuire il significato della sessualità per l'eziologia delle nevrosi.

Ho descritto così tante volte e in modo talmente dettagliato la parte successiva dello sviluppo, ossia il passaggio dalla catarsi alla psicoanalisi vera e propria, che mi sembra difficile poter dire qui qualcosa di nuovo. L'avvenimento che diede inizio a questo passaggio fu il recesso di Breuer dalla nostra collaborazione, sicché fui costretto ad amministrare da solo la sua eredità. In passato vi erano già state tra noi divergenze di opinioni che però non avevano portato a un dissidio irreparabile. Riguardo alla questione del momento in cui un processo psichico diviene patogeno, cioè del momento in cui esso rimane escluso da un compimento normale, Breuer preferiva una teoria per così dire "fisiologica"; egli riteneva che alcuni processi si sottraggono al loro normale destino, e che essi trarrebbero origine da stati psichici anomali {ipnoidi). Con ciò si poneva un nuovo interrogativo, da dove traessero origine tali ipnoidi. Di contro, io supponevo l'esistenza di un gioco di forze, dell'effetto di intenzioni e tendenze simili a quelle osservabili nella vita normale. Così l'"isteria ipnoide" [Hypnoidhysterie] si contrapponeva alla "nevrosi di difesa" [Abwehrneurose]. Ma né questo contrasto, né altri simili avrebbero probabilmente distolto Breuer dall'oggetto delle nostre indagini, se non si fossero aggiunti altri fattori. Uno di questi era il fatto che Breuer era molto impegnato in qualità di internista e medico pratico e non poteva, come me, dedicare tutte le sue forze al lavoro catartico. Inoltre, egli fu influenzato dalla cattiva accoglienza che il nostro libro ricevette sia a Vienna che in Germania. La sua fiducia in se stesso e la sua capacità di resistenza non erano all'altezza delle sue capacità intellettuali. Quando, ad esempio, Strümpell stroncò duramente gli Studi, mentre io risi di questa critica che rivela una mancanza di comprensione dell'argomento, Breuer ne rimase ferito e si perse d'animo. Più di ogni altra cosa contribuì però alla sua decisione il fatto che i miei lavori successivi avevano preso una direzione alla quale Breuer aveva tentato invano di avvicinarsi.

La teoria che avevamo tentato di costruire negli Studi era ancora molto incompleta, in particolare non avevamo quasi per nulla affrontato il problema dell'eziologia, cioè della domanda su quale terreno avesse origine il processo patogeno. Ora, la mia esperienza, che si accresceva velocemente, mi mostrò che dietro le manifestazioni nevrotiche non erano attivi eccitamenti affettivi di tipo generico, ma regolarmente eccitamenti di natura sessuale: o conflitti sessuali attuali o esiti [Nachwirkungen] di esperienze sessuali passate. Non ero pronto a un simile risultato, né le mie aspettative erano in tal senso poiché mi ero avvicinato alle ricerche sui nevrotici privo di preconcetti. Quando, nel 1914, scrissi Storia del movimento psicoanalitico, mi tornarono alla memoria alcune affermazioni di Breuer, Charcot e Chrobak dalle quali già in precedenza avrei potuto trarre determinate conclusioni. Allora però non avevo capito ciò che quelle autorità intendessero sostenere, mi avevano detto di più di quello che sapessero e fossero disposti a difendere. Ciò che avevo udito da loro sonnecchiò in me senza produrre alcun effetto finché, in occasione delle mie ricerche sulla catarsi, riaffiorò nella forma di una scoperta originale. A quell'epoca, inoltre, non sapevo ancora che riconducendo l'isteria alla sessualità mi ero riallacciato alle epoche più antiche della medicina e alla concezione di Platone. Lo scoprii solo in seguito da un saggio di Havelock Ellis.

A questo punto, sotto l'influsso della mia sorprendente scoperta feci un passo carico di conseguenze. Andai oltre l'isteria e iniziai a svolgere ricerche sulla vita sessuale dei malati cosiddetti nevrastenici che, di solito, si presentavano numerosi nel mio studio professionale. Questo esperimento, sebbene mi costò la popolarità medica, mi procurò alcuni convincimenti che ancora oggi, quasi a trent'anni di distanza, non si sono attenuati. Si dovevano superare molti equivoci e ipocrisie, ma, una volta aggirati, si scopriva che in tutti questi malati vi erano pesanti abusi della funzione sessuale. Data l'estrema frequenza di tali abusi da un lato, e dei casi di nevrastenia dall'altro, il fatto che queste due circostanze ricorressero insieme non era ovviamente molto probante, ma non poteva neppure essere considerato un fatto qualunque.

A un esame più approfondito mi accorsi che, nella serie variegata dei quadri patologici che sono raccolti sotto il nome di nevrastenia, si potevano individuare due tipi fondamentalmente distinti che si presentavano nelle più diverse commistioni, ma che talvolta si presentavano anche in forma pura. In uno di questi due tipi il fenomeno centrale era l'attacco d'angoscia [Angstanfall] con i suoi equivalenti, le sue forme rudimentali e i suoi sintomi sostitutivi [Ersatzsymptomen] cronici. Chiamai dunque questo tipo di sintomatologia nevrosi d'angoscia [Angstneurose]. All'altro tipo riservai la denominazione di nevrastenia. Ora era facile stabilire che ad ognuno di questi tipi corrispondeva, come fattore eziologico, una diversa anomalia della vita sessuale {coitus interruptus, eccitamento frustraneo, astinenza sessuale in un caso, masturbazione eccessiva e polluzioni molto frequenti nell'altro). In alcuni casi particolarmente istruttivi, nei quali aveva avuto luogo un sorprendente trapasso del quadro clinico di un tipo a quello dell'altro, si riuscì a dimostrare che alla base di tale trasformazione c'era stato un cambiamento corrispondente del regime sessuale. Se riuscivo a far cessare l'abuso e a farlo sostituire da un'attività sessuale normale, lo stato del soggetto migliorava sensibilmente.

Così fui portato a considerare le nevrosi in generale come disturbi della funzione sessuale, e in particolare le cosiddette "nevrosi attuali" come espressione tossica diretta, le psiconevrosi come espressione psichica di questi disturbi. La mia coscienza medica era soddisfatta di questo risultato. Speravo di aver colmato una lacuna della medicina, la quale allora non voleva ammettere, in relazione a una funzione biologica così importante, disturbi diversi da quelli provocati da processi infettivi o da comuni lesioni organiche. Inoltre, concordava con la concezione medica il fatto che la sessualità, secondo la mia tesi, non sia una faccenda che interessa soltanto la psiche. Essa ha anche un suo aspetto somatico, per cui è legittimo attribuirle un particolare chimismo e far derivare l'eccitamento dalla presenza di certe sostanze ancora sconosciute. Doveva avere la sua buona ragione anche il fatto che le nevrosi autentiche e spontanee non mostrassero tante analogie con nessun altro gruppo di malattie come con i fenomeni di intossicazione e di astinenza provocati dall'introduzione o dalla privazione di certe sostanze tossiche, o con il morbo di Basedow, di cui è nota la dipendenza dal prodotto della ghiandola tiroidea.

In seguito non ho mai più avuto occasione di ritornare sulle ricerche circa le nevrosi attuali. Neppure altri studiosi hanno proseguito questa parte del mio lavoro. Osservando oggi i miei risultati di allora, li posso considerare come una prima, grossolana schematizzazione di uno stato di cose probabilmente molto più complesso. Ma nell'insieme quei risultati mi sembrano ancora oggi esatti. Più volentieri avrei sottoposto a esame psicoanalitico qualche altro caso di nevrastenia giovanile pura, ma purtroppo non me ne sono più capitati. Per evitare fraintendimenti, vorrei sottolineare che è lungi da me negare l'esistenza del conflitto psichico e del complesso nevrotico nella nevrastenia. Ritengo soltanto che i sintomi di questi malati non siano determinati psichicamente né possano essere liquidati mediante l'analisi, ma debbano essere concepiti come conseguenze tossiche di un chimismo sessuale disturbato.

Una volta giunto, negli anni successivi alla pubblicazione degli Studi, a queste concezioni sul ruolo eziologico della sessualità nelle nevrosi, tenni sul tema alcune conferenze in associazioni scientifiche, incontrando però solo incredulità e opposizioni. Breuer tentò ancora qualche volta di mettere sul piatto della bilancia in mio favore il peso della sua personale autorità, ma non servì a nulla, ed era facile capire che il riconoscimento dell'eziologia sessuale andava anche contro le sue inclinazioni. Breuer avrebbe potuto attaccarmi o fuorviarmi richiamando l'attenzione del pubblico sul caso della sua prima paziente in cui il fattore sessuale sembrava non aver svolto alcun ruolo. Ma non lo fece mai; cosa che non capii per lungo tempo, finché non riuscii a interpretare correttamente il suo caso e a ricostruire, in base ad alcune osservazioni fatte in precedenza dallo stesso Breuer, l'esito di quel trattamento. Dopo che il trattamento catartico sembrava terminato, si era instaurato improvvisamente nella ragazza uno stato di "amore transferiale" [Übertragungsliebe]; Breuer non lo mise in relazione con la malattia della paziente e, sconcertato, troncò ogni relazione con lei. Egli era visibilmente imbarazzato quando qualcuno gli ricordava questo episodio, che secondo lui era stato uno spiacevole contrattempo. Nel suo atteggiamento nei miei confronti oscillò per un po' tra riconoscimento e aspre critiche, fin quando alcuni incidenti fortuiti, che non mancano mai in tali situazioni di tensione, non provocarono la rottura definitiva tra noi.

A questo punto il mio lavoro con forme di nervosismo in generale ebbe un ulteriore esito; mutai la tecnica catartica. Abbandonai l'ipnosi e cercai di sostituirla con un altro metodo, poiché volevo superare il trattamento riservato alle forme morbose di tipo isterico. Inoltre con l'accrescersi della mia esperienza sorsero in me due importanti dubbi sull'impiego dell'ipnosi nella stessa catarsi. Il primo consisteva nel fatto che persino i migliori risultati svanivano improvvisamente nel nulla quando il rapporto personale del medico col paziente veniva turbato. Essi si ristabilivano - è vero - non appena veniva trovata la via della riconciliazione, ma intanto avevamo imparato che la relazione personale affettiva tra paziente e medico aveva più potere di qualsiasi lavoro catartico, e che proprio tale fattore non si lasciava dominare. Un giorno, poi, ebbi la prova evidente di ciò che avevo supposto da molto tempo. Una delle mie pazienti più duttili, con la quale l'ipnosi aveva dato risultati eccezionali, una volta in cui la liberai dalla sua sofferenza riconducendo l'attacco doloroso ai motivi che l'avevano provocato, svegliandosi dal sonno ipnotico mi gettò le braccia al collo. L'entrata inaspettata di una domestica ci risparmiò una chiarificazione che sarebbe stata penosa, ma rinunciammo, da quel momento in poi, per un tacito accordo, alla prosecuzione del trattamento ipnotico. Avevo abbastanza buon senso per non attribuire tale accadimento alla mia personale irresistibilità e ritenni di aver capito quale fosse la natura dell'elemento mistico che agiva al di là dell'ipnosi. Per eliminarlo, o quanto meno per isolarlo, dovevo rinunciare all'ipnosi.

Ma l'ipnosi aveva reso servizi straordinari al trattamento catartico, in quanto ampliava il campo della coscienza dei pazienti e metteva a loro disposizione un sapere che nella vita vigile non conoscevano. Sostituire in questo l'ipnosi non sembrava facile. In questa situazione imbarazzante mi venne in aiuto il ricordo di un esperimento al quale avevo assistito spesso nel corso del mio soggiorno presso Bernheim. Quando la persona sottoposta all'esperimento si svegliava dal sonnambulismo, sembrava aver perso il ricordo di tutto ciò che era accaduto durante quello stato. Ma Bernheim sosteneva che invece egli ricordava, e se poggiando una mano sulla sua fronte lo invitava a ricordare, assicurandogli che sapeva tutto e doveva solo parlare, ecco che i ricordi dimenticati cominciavano a riaffiorare, prima solo titubanti, poi sempre più numerosi e nitidi. Decisi di fare altrettanto. Anche i miei pazienti dovevano "sapere" ciò che normalmente gli era reso accessibile solo mediante ipnosi, e le mie assicurazioni e insistenze, forse anche con l'aiuto della pressione delle mani, dovevano avere il potere di spingere nella loro coscienza i fatti e i nessi dimenticati. Tale procedimento appariva ovviamente più faticoso di quello ipnotico, ma era forse più istruttivo. Abbandonai dunque l'ipnosi, di cui conservai solo la posizione del paziente supino su un divano, mentre io stavo seduto alle sue spalle, in modo da vederlo senza essere visto.

3.

Le mie speranze si realizzarono, mi liberai dell'ipnosi, ma il cambiamento della tecnica comportò anche un mutamento del lavoro catartico nel suo insieme. L'ipnosi aveva nascosto un gioco di forze che ora veniva scoperto, e la cui conoscenza dava alla nostra teoria un fondamento sicuro.

Da dove derivava il fatto che i malati avessero dimenticato così tanti eventi sia della vita esterna che interna, e che però potevano ricordarli quando si applicava su di loro la tecnica appena descritta? A queste domande l'osservazione dava risposte esaurienti. Tutto ciò che era stato dimenticato era in qualche modo penoso, temibile, doloroso, o vergognoso per ciò che la personalità del soggetto esigeva. Ero spinto a concludere che proprio per questo tali cose erano state dimenticate, cioè non erano rimaste coscienti. Per renderle nuovamente coscienti, si doveva vincere qualcosa che nel paziente si opponeva, e per ottenere tale risultato il medico doveva impegnarsi in un'opera di convincimento pressante. A seconda dei casi lo sforzo richiesto al medico era di grandezza variabile, aumentava in rapporto diretto con le difficoltà che il malato aveva a ricordare. L'impiego di forze da parte del medico era chiaramente la misura della resistenza del malato. A questo punto bisognava solo tradurre in parole ciò che si era avvertito: fu così che ne ricavai la teoria della rimozione.

Il processo patogeno poteva ora essere facilmente ricostruito. Per fermarmi all'esempio più semplice, supponiamo che nella vita psichica si produca una certa tendenza, alla quale altre tendenze più forti si oppongano. Il conflitto psichico che ne è derivato, secondo le nostre aspettative, dovrebbe svolgersi in modo tale che le due grandezze dinamiche - che chiamiamo per i nostri scopi "pulsione" e "resistenza" - lottino per un po' tra loro con una partecipazione della coscienza estremamente forte, fin quando la pulsione sia respinta e alla tendenza che ad essa si riferisce sia tolto l'investimento energetico [Energiebesetzung]. Questo sarebbe lo svolgimento normale. Nella nevrosi però - per ragioni ancora sconosciute - il conflitto trova un altro esito. L'Io, per così dire, si è ritirato al primo incontro col moto pulsionale sconveniente, gli sbarra l'accesso alla coscienza e alla scarica motoria diretta, allo stesso tempo però il moto pulsionale mantiene intatto il proprio investimento energetico.

Chiamai questo processo "rimozione"; era una novità, nulla di simile era mai stato scoperto fino ad allora nella psichica. Era chiaramente un meccanismo di difesa primario, paragonabile a un tentativo di fuga, solo un precursore di quella che in seguito sarebbe diventata la normale attività giudicante. Dal primo atto della rimozione derivavano ulteriori conseguenze. In primo luogo l'Io doveva difendersi dalla pressione costante esercitata dal moto rimosso mediante un dispendio permanente di energia, con un controinvestimento dunque, e nel far ciò s'impoveriva; in secondo luogo, il rimosso, che era ora inconscio, poteva scaricarsi e ottenere soddisfacimenti sostitutivi per vie traverse, facendo così naufragare gli intenti della rimozione stessa. Nell'isteria di conversione tale strada indiretta portava all'innervazione somatica, l'impulso rimosso irrompeva in un punto qualsiasi [del corpo] creando i sintomi, i quali erano quindi risultati di compromesso, e precisamente soddisfacimenti sostitutivi, deformati però e deviati rispetto alle loro mete a causa della resistenza dell'Io.

La teoria della rimozione divenne un elemento fondamentale per la comprensione delle nevrosi. Il compito terapeutico doveva ora essere concepito in modo diverso, il suo scopo non era più di far "abreagire" l'affetto che era indirizzato su un falso binario, ma di scoprire le rimozioni, sostituendole con un'opera di giudizio da cui scaturisse o l'accettazione o la condanna di ciò che a suo tempo era stato respinto. Tenni conto di questo nuovo stato di cose che si era delineato e chiamai il mio metodo di indagine e di terapia psicoanalitica non più catarsi, ma psicoanalisi.

Si può considerare la rimozione come punto di partenza centrale al quale ricollegare poi tutte le altre parti della teoria psicoanalitica. Prima di procedere però desidero fare una considerazione di contenuto polemico. Secondo l'opinione di Janet, la donna isterica è una povera persona, che a causa di una debolezza costituzionale è incapace di tenere insieme i suoi atti psichici. Essa è soggetta perciò alla scissione psichica e alla restrizione della sfera cosciente. In base ai risultati delle ricerche, invece, tali fenomeni sono il risultato di fattori dinamici, di un conflitto psichico e di un'avvenuta rimozione. Ritengo che questa divergenza sia già abbastanza grande da mettere a tacere la vecchia favola sempre ripetuta secondo la quale la psicoanalisi avrebbe tratto i suoi contenuti più significativi e più validi dalle concezioni di Janet.

La mia esposizione, fin qui, dovrebbe già aver mostrato al lettore che la psicoanalisi è del tutto indipendente dalle scoperte di Janet sotto il profilo storico e che se ne discosta anche sotto il profilo del contenuto, e ha una portata molto più ampia. Non sarebbe mai stato possibile trarre dalle ricerche di Janet le conclusioni che la psicoanalisi ha tratto, conclusioni così importanti per le scienze dello spirito al punto da attirare sulla psicoanalisi l'interesse generale. Da parte mia, ho sempre trattato Janet con rispetto, poiché le sue scoperte coincidevano in buona parte con quelle di Breuer che, pur essendo state compiute prima, furono pubblicate dopo. Invece, quando anche in Francia si è cominciato a discutere di psicoanalisi, Janet si è comportato in modo scorretto, non solo dimostrando di avere conoscenze minime della materia, ma anche usando argomenti sleali. Egli si è così rivelato, infine, ai miei occhi per quello che è, e anche la sua opera ha perso valore per me, poiché egli stesso ha dichiarato che quando parlava di atti psichici "inconsci", questo non significava nulla per lui, poiché tale espressione era soltanto «une façon de parler»7.

La psicoanalisi invece fu costretta, dallo studio delle rimozioni patogene e di altri fenomeni di cui parleremo più avanti, a prendere sul serio il concetto di "inconscio". Per la psicoanalisi tutto ciò che è psichico è inizialmente inconscio, e la qualità dell'essere cosciente può aggiungersi in seguito, oppure mancare del tutto. Tali affermazioni incontrarono evidentemente l'opposizione dei filosofi, per i quali "cosciente" e "psichico" sono la stessa cosa, in quanto per essi i concetto di "psiche inconscia" è un'assurdità inimmaginabile. Ma ciò non serviva a nulla, la psicoanalisi dovette procedere senza badare a questa idiosincrasia dei filosofi. Le esperienze tratte dal materiale patologico - del tutto sconosciuto ai filosofi - sulla frequenza e potenza di impulsi di cui il soggetto non sapeva nulla, e di cui bisognava ammettere l'esistenza come per un qualsiasi fenomeno del mondo esterno, non lasciavano scelta. Potevamo inoltre sostenere che non stavamo facendo altro che applicare alla nostra stessa vita psichica le rappresentazioni che avevamo sempre usato per la vita psichica altrui. Avevamo ascritto ad altre persone atti psichici di cui queste non avevano diretta conoscenza, ma che noi avevamo potuto intuire basandoci sulle loro manifestazioni e sulle loro azioni.

Ma ciò che era valido per gli altri doveva valere anche per noi. Se avessimo proceduto oltre con tale argomento, desumendone che gli atti di cui siamo autori, pur ignorandoli, appartengono appunto a una seconda coscienza, ci saremmo trovati di fronte al concetto di una coscienza di cui non si sa nulla, di una coscienza inconscia, cosa che non so quale vantaggio avrebbe arrecato rispetto all'ipotesi di una psiche inconscia. Se invece avessimo detto, con altri filosofi, di voler sì riconoscere l'importanza dei fenomeni patologici, ma che gli atti sui quali tali fenomeni si basano non possono essere qualificati come psichici, ma devono invece essere chiamati psicoidi, avremmo soltanto esposto questa differenza a una sterile disputa terminologica; perciò ci sembrò più adatto conservare l'espressione "psiche inconscia". La domanda su cosa questo inconscio sia di per sé non è né più intelligente, né più ricca di prospettive dell'altra, che in passato è stata posta, su cosa sia il conscio [das Bewufite].

Più difficile sarebbe descrivere in breve come la psicoanalisi sia giunta ad articolare ulteriormente l'inconscio di cui aveva riconosciuto l'esistenza, scomponendolo in un preconscio e in un inconscio vero e proprio. È sufficiente osservare che sembrò legittimo completare le teorie che si presentavano come la diretta espressione dell'esperienza empirica con ipotesi capaci di rendere più facile la padronanza della materia, nonché di stabilire rapporti con fenomeni che non potevano essere oggetto di osservazione diretta. Anche nelle scienze più antiche si procede in modo simile. L'articolazione dell'inconscio è collegata al tentativo di rappresentarci l'apparato psichico come composto di una serie di istanze o sistemi, delle cui relazioni reciproche parliamo servendoci di una terminologia spaziale che tuttavia non indica un riferimento all'anatomia cerebrale vera e propria (è questo il cosiddetto punto di vista topico). Queste e idee simili appartengono alla sovrastruttura speculativa della psicoanalisi; non v'è parte di tale sovrastruttura che, nel caso in cui risultasse inadeguata per qualche motivo, non possa essere sacrificata o sostituita senza danni né rimpianti. Restano comunque da descrivere parecchie cose che sono più vicine all'osservazione diretta.

Ho già accennato a come la ricerca delle cause e dei fondamenti della nevrosi portasse sempre più frequentemente ai conflitti che sorgono nell'individuo tra impulsi sessuali e resistenze contro la sessualità. Nel tentativo di ricercare le situazioni patogene che avevano provocato le rimozioni della sessualità dando origine ai sintomi, quali formazioni sostitutive del rimosso, si veniva spinti verso epoche sempre più remote della vita del malato, per giungere infine ai primi anni della sua infanzia. Risultò così quello che i poeti e gli psicologi avevano sempre detto, ossia che le impressioni di quella prima epoca della vita, sebbene siano soggette per lo più all'amnesia, lasciano tracce indelebili nello sviluppo dell'individuo, in particolare determinando la sua disposizione alle future malattie nevrotiche. Ma poiché queste esperienze infantili riguardavano sempre eccitamenti sessuali e reazioni contro gli stessi, ci trovammo di fronte al dato di fatto della sessualità infantile, che ancora una volta rappresentava una novità, in opposizione a uno dei pregiudizi più potenti che gli uomini abbiano mai concepito. Si dice che l'infanzia sia "innocente", libera dai desideri del sesso, e che solo la tempesta della pubertà dia inizio alla lotta contro il demone della "sensualità". Quelle attività sessuali che si erano dovute riconoscere nei bambini venivano considerate segni di degenerazione, di una corruzione precoce, oppure un fatto curioso, frutto di una natura bizzarra. Poche affermazioni della psicoanalisi hanno incontrato un rifiuto, e un impeto di sdegno così generalizzati come quelli suscitati dall'affermazione che la funzione sessuale comincia con l'inizio stesso della vita, manifestandosi già nell'infanzia con fenomeni importanti. Eppure nessun'altra scoperta analitica può essere dimostrata con altrettanta facilità e completezza.

Prima di procedere oltre nell'indagine della sessualità infantile, devo ricordare un errore del quale fui vittima per un certo periodo e che per poco non compromise definitivamente tutto il mio lavoro. Spinta dal procedimento tecnico che allora usavo, la maggior parte dei miei pazienti riproduceva scene della propria infanzia che avevano come contenuto la loro seduzione sessuale da parte di una persona adulta. Le donne attribuivano sempre il ruolo del seduttore al proprio padre. Facendo affidamento su tali comunicazioni dei miei pazienti, supposi di aver trovato l'origine delle successive nevrosi in questi episodi di seduzione sessuale risalenti all'età infantile. Alcuni casi, nei quali tali relazioni con il padre, lo zio, o un fratello maggiore, si erano protratte fino ad anni di cui il ricordo era rimasto vivo, rafforzarono il mio convincimento. Se qualcuno, di fronte alla mia credulità, scuotesse il capo in segno di diffidenza, non potrei dargli del tutto torto, ma vorrei far notare che tutto ciò accadeva in un'epoca in cui io stesso costringevo il mio senso critico ad essere imparziale e ricettivo di fronte alle molte novità che quotidianamente scoprivo. Quando, in seguito, dovetti riconoscere che tali scene di seduzione in realtà non erano mai avvenute, ma non erano altro che fantasie create dall'immaginazione dei miei pazienti, alle quali forse io stesso li avevo indotti, rimasi per un certo periodo del tutto disorientato.

La fiducia che riponevo nella mia tecnica e nei suoi risultati subì un duro colpo; avevo rintracciato quelle scene mediante un procedimento tecnico che ritenevo ineccepibile e il contenuto di esse era incontestabilmente legato ai sintomi da cui era partita la mia indagine. Non appena mi ripresi dalla scoperta, fui in grado di trarre dalla mia esperienza le giuste conclusioni: i sintomi nevrotici non erano direttamente collegati a episodi realmente avvenuti, ma a fantasie di desiderio; per la nevrosi la realtà psichica era più importante della realtà materiale. Neppure oggi credo di aver spinto i miei pazienti a quelle fantasie di seduzione, di avergliele "suggerite". Fu quella la prima volta che mi imbattei nel complesso d'Edipo, destinato ad assumere in seguito un'importanza capitale; ma non fui ancora in grado di riconoscerlo in quel travestimento fantastico. In ogni caso, gli atti di seduzione verificatisi nell'età infantile hanno conservato un certo ruolo, sebbene in misura più ridotta, nell'eziologia delle nevrosi. In questi casi i seduttori sono però quasi sempre bambini un po' più grandi.

Il mio errore era stato dunque simile a quello di colui che volesse assumere come verità storica la narrazione leggendaria fatta da Livio dell'epoca dei re di Roma, invece di prenderla per quello che è, e cioè una formazione reattiva contro il ricordo di condizioni e tempi quanto mai miseri e probabilmente non sempre gloriosi. Dopo aver chiarito questo errore la strada verso lo studio della vita sessuale infantile era aperta. Si giunse così alla possibilità di applicare la psicoanalisi a un altro ambito del sapere, e di dedurre dai suoi dati una parte ancora ignota dell'accadere biologico.

Avevo accertato quindi che la funzione sessuale è presente fin dall'inizio e, in un primo tempo, si appoggia alle altre funzioni vitali fondamentali da cui a poco a poco si rende indipendente. Essa ha un lungo e complicato sviluppo da compiere per giungere alla vita sessuale normale della persona adulta, così come la conosciamo. La funzione sessuale si manifesta inizialmente come attività di un'intera serie di componenti pulsionali che dipendono da determinate zone erogene del corpo e che in parte appaiono sotto forma di coppie antitetiche (sadismo-masochismo, pulsione di guardare-piacere di esibirsi). Queste pulsioni parziali tendono alla conquista del piacere indipendentemente l'una dall'altra e trovano per lo più il proprio oggetto nel corpo stesso del soggetto. Dunque, la funzione sessuale inizialmente non è centralizzata ed è prevalentemente autoerotica. In seguito si attuano in essa diverse sintesi; il primo stadio dell'organizzazione sessuale è dominato dalle componenti orali, segue quindi una fase sadico-anale, e solo dopo, con la terza fase, si giunge al primato dei genitali, con il quale la funzione sessuale entra al servizio della procreazione. Nel corso di questo sviluppo alcune pulsioni parziali, inservibili per la meta finale, vengono messe da canto o destinate ad altri usi, altre vengono distolte dalle loro mete e convogliate nell'organizzazione genitale. Io ho denominato libido l'energia delle pulsioni sessuali - e solo quella. Ho dovuto supporre che non sempre lo sviluppo libidico appena descritto si compia in modo ineccepibile. A causa dell'intensità eccessiva di alcune componenti pulsionali, o di precoci esperienze di soddisfacimento, può aver luogo xm&fissazione della libido a determinati punti del suo sviluppo, ai quali in seguito, in casi di rimozioni, tende a tornare {regressione); a partire da essi inoltre l'energia libidica irrompe e dà luogo ai sintomi. Ricerche successive mi portarono ad accertare che la localizzazione del punto di fissazione è decisiva anche per la scelta della nevrosi, ovvero per la forma che la malattia nevrotica assumerà in seguito.

Contemporaneamente all'organizzazione della libido si svolge il processo del rinvenimento dell'oggetto [Prozefi der Objektfindung], processo al quale è riservato un rulo importante nella vita psichica. Dopo lo stadio dell''autoerotismo, il primo oggetto d'amore diventa, per entrambi i sessi, la madre; infatti il bambino probabilmente non distingue all'inizio dal proprio corpo l'organo materno che lo nutre. In seguito, ma comunque nei primi anni di vita, si instaura la relazione del complesso edipico, in cui il bambino maschio concentra tutti i suoi desideri sulla persona della madre e sviluppa impulsi ostili nei confronti del padre che avverte come un rivale. In modo analogo si comporta la bambina8. Tutte le variazioni e le conseguenze del complesso edipico assumono grande importanza, compresa la costituzione bisessuale innata degli esseri umani che incrementa il numero delle tendenze che si presentano allo stesso tempo. Ci vuole ancora molto tempo prima che il bambino si renda conto con chiarezza della differenza tra i sessi; in questo periodo di esplorazione sessuale egli si crea alcune tipiche teorie sessuali che, a causa della sua incompleta organizzazione corporea, mescolano vero e falso e non possono risolvere i problemi della vita sessuale (l'enigma della Sfinge: da dove vengono i bambini). La prima scelta oggettuale del bambino è quindi incestuosa.

Tutto il processo di sviluppo fin qui descritto si compie rapidamente. Il carattere più singolare della vita sessuale umana è il suo inizio in due tempi, con in mezzo una pausa. Essa raggiunge il suo punto massimo nel quarto e quinto anno di vita; dopo questo periodo tale precoce fioritura della sessualità perisce; le tendenze sessuali fino a quel momento attive sono soggette alla rimozione e ha inizio il periodo di latenza che dura sino alla pubertà, durante il quale nascono le formazioni reattive della morale, del pudore e della ripugnanza9. Sembra che tale sviluppo sessuale in due tempi appartenga, fra tutti gli esseri viventi, solo agli uomini, e che dunque rappresenti forse il presupposto biologico della disposizione umana alla nevrosi.

Con la pubertà si rianimano gli impulsi e gli investimenti oggettuali della prima età, compresi i legami emotivi del complesso d'Edipo. Nella vita sessuale della pubertà lottano tra loro le sollecitazioni della prima età e le inibizioni del periodo di latenza. Già quando lo sviluppo sessuale infantile aveva raggiunto il suo massimo si era istituita una specie di organizzazione genitale, nella quale però svolgeva un ruolo solo il genitale maschile, non essendo stato ancora scoperto quello femminile (il cosiddetto primato fallico). L'opposizione tra i sessi non è data in questo periodo dal contrasto tra maschile e femminile, ma da quello tra il possedere un pene e l'essere castrati; il complesso di castrazione, che è collegato a questa fase, è altamente importante per la formazione del carattere e della nevrosi.

In questa breve esposizione delle mie scoperte sulla vita sessuale umana ho messo insieme, per una migliore comprensione, un insieme di fatti che appartengono a epoche diverse e che sono stati aggiunti, come integrazione o rettifica, nelle successive edizioni dei miei Tre saggi sulla teoria sessuale. Spero che sia facile desumere da essi in cosa consista l'ampliamento del concetto di sessualità che così spesso è stato discusso e contrastato. Tale ampliamento è duplice. In primo luogo la sessualità viene sciolta dalle sue relazioni troppo strette con i genitali, è definita come una funzione corporea più estesa che tende al piacere, la quale, solo in via secondaria, si pone al servizio della riproduzione. In secondo luogo abbiamo indicato tra gli impulsi sessuali anche tutti quegli impulsi puramente affettuosi e amichevoli, per i quali impieghiamo nell'uso linguistico comune la parola ambivalente "amore". Ritengo però che tali ampliamenti non costituiscano alcuna innovazione, ma rappresentino il ripristino del concetto di sessualità; essi significano l'eliminazione di inadeguate restrizioni concettuali che abbiamo finito lentamente con l'accettare.

L'aver reso la sessualità indipendente dai genitali ha il vantaggio di permetterci di considerare l'attività sessuale dei bambini e dei perversi sotto il medesimo punto di vista dell'attività sessuale degli adulti normali; mentre la prima era stata finora del tutto trascurata, l'altra era stata sì presa in considerazione, ma tale considerazione era accompagnata da una indignazione morale che non permetteva di comprenderne la natura. Le tesi psicoanalitiche chiariscono che anche le perversioni più singolari e ripugnanti sono spiegabili in quanto manifestazioni di pulsioni parziali sessuali che si sono sottratte al primato dei genitali cercando di ottenere il piacere in modo indipendente come nelle primissime fasi dell'organizzazione libidica. La più importante tra queste perversioni, l'omosessualità, quasi non merita tale nome. Essa è riconducibile alla bisessualità costituzionale di tutti gli individui e all'effetto ritardato del primato fallico. Mediante la psicoanalisi è possibile individuare in ciascuno una parte di scelta oggettuale omosessuale. Quando abbiamo denominato i bambini "perversi polimorfi", ci siamo limitati a usare un'espressione del linguaggio comune a fini descrittivi; non volevamo con ciò esprimere una valutazione morale. In ogni caso la psicoanalisi è estranea a tali giudizi di valore.

L'altro ampliamento del concetto di sessualità a cui si aveva accennato è giustificato dal riferimento a quel settore della ricerca psicoanalitica che dimostra che tutti i più affettuosi moti dell'animo sono stati originariamente impulsi pienamente sessuali e che solo in seguito sono stati "inibiti nella meta" o "sublimati". A questa possibilità di influenzare e deviare le pulsioni sessuali è legata anche la loro utilizzabilità per le più varie opere della civiltà, alle quali esse portano un importantissimo contributo.

Le mie scoperte sorprendenti sulla sessualità dei bambini furono fatte inizialmente mediante l'analisi di persone adulte; in seguito però, a partire dal 1908 circa, esse poterono essere confermate, in tutti i dettagli e su vasta scala, grazie all'osservazione diretta di bambini. In realtà è così facile convincersi che i bambini hanno un'attività sessuale regolare che ci dovremmo domandare stupiti come gli uomini abbiano potuto trascurare questi dati di fatto, mantenendo in vita per così lungo tempo la leggenda ispirata al desiderio della asessualità infantile. Tale fatto deve dipendere dall'amnesia che hanno quasi tutti gli adulti circa la propria infanzia.

4.

Le teorie della resistenza e della rimozione, dell'inconscio, del significato eziologico della vita sessuale e dell'importanza delle esperienze infantili rappresentano le componenti essenziali dell'edificio dottrinale della psicoanalisi. Mi dispiace di aver descritto qui tali elementi solo uno alla volta, e di non essere anche riuscito a descrivere come essi si riuniscano e si condizionino l'un l'altro. È giunto però il momento di descrivere i mutamenti che lentamente sono intervenuti nella tecnica del procedimento analitico.

La pressione esercitata sul paziente e le rassicurazioni tese al superamento delle sue resistenze erano state indispensabili al medico per poter disporre di un primo orientamento su ciò che doveva aspettarsi. Tuttavia, col passare del tempo, tale tecnica si dimostrava estenuante per entrambe le parti e dava adito a dubbi sulla sua efficacia. Essa fu dunque sostituita con un altro metodo, che in un certo senso si presentava come il suo opposto. Invece di spingere il paziente a dire qualcosa su un determinato argomento, lo si invitava ora a lasciarsi andare alle "libere associazioni", cioè a dire tutto ciò che gli passava per la mente, astenendosi da qualsiasi rappresentazione finalizzata cosciente. Il paziente doveva impegnarsi a comunicare assolutamente tutto quello che si presentava alla sua autopercezione, e a non cedere ad alcuna obiezione critica tesa a mettere da canto le singole idee spontanee con la motivazione che esse non erano abbastanza importanti, non riguardavano l'argomento di cui si stava parlando, o addirittura erano del tutto prive di senso. Riguardo alla raccomandazione di comunicare ogni cosa con la massima sincerità, non era necessario ripeterla espressamente, dal momento che questo era il presupposto della cura analitica.

Il fatto che questo procedimento della libera associazione, condotto nell'osservanza della regola psicoanalitica fondamentale, dovesse dare i risultati che da esso ci si attendeva, e cioè che riuscisse a far giungere alla coscienza il materiale rimosso e tenuto lontano dalle resistenze, può meravigliare. Dobbiamo ricordare però che la libera associazione non è, di fatto, libera: il paziente rimane sotto l'influsso della situazione analitica, pur non dirigendo la sua attività mentale su un determinato tema. Si ha il diritto di supporre che gli vengano in mente soltanto cose che sono in relazione con quella situazione. La sua resistenza a riprodurre il rimosso si manifesta in un duplice modo. In primo luogo, mediante le obiezioni critiche contro le quali è diretta la regola psicoanalitica fondamentale. E se invece, osservando la regola, supera tali obiezioni, la resistenza troverà un'altra forma di espressione. Essa farà in modo che all'analizzato non venga mai in mente il rimosso in sé e per sé, ma eventualmente soltanto qualcosa che ad esso si avvicini mediante un'allusione, e maggiore è la resistenza tanto più lontana sarà l'associazione sostitutiva comunicata dal malato rispetto ai contenuti autentici che il medico ricerca. L'analista che ascolta tutto ciò che gli viene comunicato attentamente, ma senza fare sforzi e che, inoltre, grazie alla propria esperienza, si è fatto un'idea generale di quel che lo aspetta, può usare in due modi il materiale che il paziente gli porta. Se la resistenza è debole, egli può rintracciare, a partire dalle allusioni del paziente, il rimosso in quanto tale; se invece la resistenza è piuttosto forte, egli può comprendere, in base alle associazioni che sembrano allontanarsi molto dal tema, la natura di questa resistenza che in seguito comunicherà al paziente. La scoperta della resistenza è il primo passo verso il suo superamento.

Nell'ambito del lavoro analitico si sviluppa così un'arte interpretativa, che per essere esercitata con successo richiede di certo tatto ed esercizio, ma non è difficile da imparare. Il metodo della libera associazione presenta grandi vantaggi rispetto al precedente, non solo quello di essere meno faticoso. Esso esercita la minima costrizione sull'analizzato, non perde mai il contatto con il presente e offre le massime garanzie che in nessun momento il medico possa perdere di vista la struttura della nevrosi inserendovi qualcosa che corrisponde alle sue aspettative. Con tale procedimento è il paziente essenzialmente a stabilire il corso dell'analisi e l'ordinamento del materiale, per cui risulta impossibile l'elaborazione sistematica dei sintomi e dei complessi presi singolarmente. Proprio al contrario di ciò che accade col trattamento ipnotico o con quello di sollecitazione, cose appartenenti al medesimo contesto si manifestano in epoche e stadi diversi del trattamento. Per un ascoltatore estraneo - che in realtà non può essere mai presente -la cura analitica sarebbe del tutto incomprensibile.

Un altro vantaggio del metodo è che in vero esso non può mai fallire. Deve essere sempre possibile, in teoria, produrre un'associazione, se ci si astiene dall'avere delle pretese sul tipo di associazione prodotta. Tuttavia esiste un caso in cui si verifica regolarmente un fallimento del genere, ma proprio per il suo carattere eccezionale tale caso è interpretabile.

Mi sto avvicinando alla descrizione di un elemento che aggiunge un tratto essenziale al quadro della psicoanalisi e che può legittimamente pretendere la massima considerazione sotto il profilo sia tecnico che teorico. In ogni trattamento analitico si stabilisce, senza alcun intervento del medico, un'intensa relazione emotiva del paziente nei confronti della persona dell'analista, relazione che non è giustificata in alcun modo dalle circostanze reali. Essa può avere natura positiva o negativa, varia dall'innamoramento più appassionato e sensuale alle espressioni estreme del risentimento, dell'esasperazione e dell'odio. Tale relazione, che per brevità chiameremo "transfert", ben presto prende nel paziente il posto del desiderio di guarire e, finché è affettuosa e misurata, rappresenta un sostegno per il comune lavoro analitico. In seguito, quando diventa passionale o si tramuta in ostilità, diventa lo strumento principale della resistenza. Può avvenire dunque che il paziente smetta di produrre associazioni, mettendo così in pericolo l'esito del trattamento. Sarebbe comunque privo di senso pretendere di eludere tale fenomeno: non c'è analisi senza transfert. Ma non si deve ritenere che l'analisi crei il transfert e che questo compaia solo in essa.

L'analisi non fa altro che mettere allo scoperto e isolare il transfert, il quale è un fenomeno universalmente umano, che decide delle sorti di qualsiasi influsso medico e addirittura domina tutte le relazioni che gli individui hanno tra loro. Non è difficile riconoscere nel transfert lo stesso fattore dinamico che gli ipnotizzatori hanno chiamato "suggestionabilità"; questo fattore costituisce il fondamento del rapporto ipnotico e manifesta quella imprevedibilità che era proprio il difetto del metodo catartico. Laddove tale tendenza al transfert degli affetti manchi o sia diventata completamente negativa, come nella demetia praecox o nella paranoia, viene meno anche la possibilità di un influenzamento psichico del malato.

È del tutto vero che anche la psicoanalisi, come tutti gli altri metodi psicoterapeutici, agisce mediante suggestione. La differenza però consiste nel fatto che nel nostro caso l'esito del trattamento terapeutico non è affidato interamente alla suggestione o al transfert, il quale è usato invece per indurre il malato a compiere un lavoro psichico - il superamento delle sue resistenze di transfert - che significherà un mutamento durevole nella sua economia psichica. Il transfert è reso cosciente al malato dall'analista, e viene risolto quando si riesce a convincere il paziente che nel suo comportamento, determinato dal transfert, egli rivive relazioni emotive che derivano dai suoi primissimi investimenti oggettuali risalenti al periodo rimosso della sua infanzia. Mediante un tale impiego il transfert diventa, da arma potentissima della resistenza, lo strumento migliore della cura analitica. Il suo uso resta comunque la parte più difficile e insieme la più importante della tecnica analitica.

Con l'aiuto del procedimento della libera associazione e dell'arte interpretativa che ad esso corrisponde, la psicoanalisi giunse a un risultato che, a prima vista, non sembrava molto significativo dal punto di vista pratico. Esso però, in realtà, avrebbe conferito alla psicoanalisi un significato e un'importanza completamente nuovi nel campo della scienza. Fu possibile dimostrare che i sogni hanno un senso, e tale senso fu scoperto. Fin dall'antichità classica i sogni erano stati altamente apprezzati come premonizioni dell'avvenire; la scienza moderna invece non voleva saperne del sogno, lo aveva lasciato alla superstizione, ritenendolo un atto puramente "corporeo", una specie di convulsione della vita psichica per il resto del tutto immersa nel sonno. Sembrava assolutamente impossibile che chiunque avesse compiuto seri lavori scientifici potesse poi presentarsi come "interprete dei sogni". Ma prescindendo da tale condanna del sogno, che fu trattato alla stregua di un sintomo nevrotico incompreso, un'idea delirante o ossessiva, non tenendo conto del suo contenuto apparente e sottoponendo ogni sua singola immagine alla libera associazione, si giunse a un altro risultato. Grazie alle numerose associazioni del sognatore si prese conoscenza di una struttura ideativa [Gedankengebilde], la quale non poteva più essere considerata assurda o confusa, in quanto corrispondeva a una attività psichica pienamente valida, della quale il sogno manifesto era semplicemente la traduzione deformata, abbreviata e mal compresa; si tratta per lo più di una traduzione in immagini visive. Tali pensieri onirici latenti contenevano il vero significato del sogno, mentre il contenuto onirico manifesto era solo un'illusione, una facciata, a cui poteva riferirsi l'associazione, ma non l'interpretazione.

A questo punto ci si trovava di fronte a tutta una serie di interrogativi, tra i quali i più importanti erano quelli che ponevano in questione l'esistenza o meno di un motivo per la formazione onirica, in quali condizioni essa si effettuasse, e quali fossero le strade che portano dai pensieri onirici, che hanno sempre un senso, al sogno che appare spesso privo di senso.

Nella mia opera L'interpretazione dei sogni, pubblicata nel 1900, ho tentato di risolvere tutti questi problemi. Qui può trovar spazio solo un resoconto estremamente breve di tali ricerche. Esaminando i pensieri onirici latenti di cui abbiamo appreso l'esistenza attraverso l'analisi del sogno, troviamo che un elemento si distingue nettamente dagli altri elementi perfettamente comprensibili che il soggetto conosce, come i residui della vita vigile (residui diurni). In questo singolo elemento, invece, si riconosce un moto di desiderio spesso molto sconveniente, del tutto estraneo alla vita vigile del soggetto, il quale dunque, stupito o indignato, lo rinnega. Tale impulso è l'autentica forza motrice del sogno, esso ha fornito l'energia necessaria per la sua produzione, servendosi come materiale dei residui diurni; il sogno che così si forma rappresenta per questo impulso una situazione di soddisfacimento, ne è l'appagamento di desiderio. Tale processo non sarebbe stato possibile se qualcosa che riguarda la natura dello stato di sonno non lo avesse favorito. Il presupposto psichico dello stato di sonno è che l'Io si sottometta al desiderio di dormire e ritiri gli investimenti da tutti gli interessi della vita; poiché allo stesso tempo sono interdetti gli accessi alla motilità, l'Io può anche diminuire il dispendio di energia con cui mantiene le rimozioni. L'impulso inconscio approfitta di tale rilassamento notturno della rimozione per spingersi, attraverso il sogno, fino alla coscienza. Tuttavia, la resistenza rimovente [Verdràngungswiderstand] dell'Io non è del tutto abolita neppure durante il sonno, essa è solo attenuata. Un suo residuo permane come censura onirica e proibisce ora al moto di desiderio inconscio di manifestarsi nelle forme che gli sarebbero proprie.

A causa della severità della censura onirica i pensieri onirici latenti devono essere sottoposti a modifiche e attenuazioni tali da rendere irriconoscibile il significato proibito del sogno. In tal modo si spiega la deformazione onirica, alla quale il sogno manifesto deve i suoi caratteri più vistosi. Su ciò si basa la tesi: il sogno è l'appagamento (mascherato) di un desiderio (rimosso). Già da ora notiamo che il sogno è costruito come un sintomo nevrotico, esso è una formazione di compromesso tra le pretese di un moto pulsionale rimosso e la resistenza di una forza censurante che si trova nell'Io. A causa della medesima genesi, il sogno è tanto incomprensibile quanto il sintomo e, come quest'ultimo, necessita di un'interpretazione.

È semplice scoprire quale sia la funzione generale del sogno. Esso serve a respingere - facendoli acquietare - gli stimoli esterni o interni che tenderebbero a svegliare il soggetto, e così il sogno protegge il sonno dai disturbi. Lo stimolo esterno viene respinto travisando il suo significato e includendolo in qualche situazione innocua; lo stimolo interno proveniente dalla pretesa pulsionale si fa valere invece presso colui che dorme, il quale gli concede soddisfacimento mediante la formazione onirica, sempre che i pensieri onirici latenti non si sottraggano al controllo della censura. Se, però, il pericolo pulsionale incombe minacciosamente e il sogno si fa troppo nitido, il soggetto smette di sognare e si sveglia improvvisamente, spaventato (sogno d'angoscia). Un fallimento analogo della funzione onirica si presenta quando lo stimolo esterno è così forte che non è più possibile respingerlo (sogno di risveglio).

Ho chiamato lavoro onirico il processo che, con il concorso della censura onirica, consente il passaggio dai pensieri latenti al contenuto onirico manifesto. Esso consiste in un particolare trattamento a cui viene sottoposto il materiale ideativo preconscio: le diverse parti di tale materiale vengono condensate, ne vengono spostati gli accenti psichici, il tutto viene trasposto in immagini visive, drammatizzato, e quindi integrato in un'elaborazione secondaria equivoca. Il lavoro onirico è un esempio eccellente dei processi che si svolgono negli strati inconsci profondi della vita psichica, processi che si differenziano nettamente da quelli ideativi normali che conosciamo. Esso inoltre mostra un certo numero di tratti arcaici, come ad esempio l'uso di un simbolismo (qui prevalentemente sessuale) che è poi stato riscontrato anche in altre sfere dell'attività spirituale. Quando il moto pulsionale inconscio del sogno si collega con un residuo diurno, cioè con un interesse irrisolto della vita vigile, il sogno che esso crea assume per il lavoro analitico un duplice valore. Dopo che è stato interpretato, il sogno si rivela da un lato l'appagamento di un desiderio rimosso, e dall'altro può proseguire l'attività mentale preconscia del giorno precedente riempiendola di un contenuto qualsiasi, dando espressione a un proposito, un avvertimento, una riflessione o, ancora una volta, un appagamento di desiderio.

L'analisi utilizza il sogno in entrambe le direzioni, sia per conoscere i processi consci, sia per scoprire i processi inconsci dell'analizzato. Essa approfitta anche del fatto che il sogno ha accesso al materiale dimenticato della vita infantile del soggetto; accade spesso che l'amnesia infantile venga superata in riferimento all'interpretazione di certi sogni. In questo caso il sogno fa ciò che in passato era riservato all'ipnosi. Invece non ho mai affermato la tesi, che spesso mi è stata attribuita, che dall'interpretazione onirica risulterebbe che tutti i sogni hanno un contenuto sessuale o si lasciano ricondurre a forze motrici sessuali. E facile vedere come la fame, la sete o altre necessità corporali possano anch'esse dar luogo a sogni di soddisfacimento, come un qualsiasi impulso rimosso, sessuale o egoistico. Una comoda prova dell'esattezza della nostra teoria è data dai sogni dei bambini piccoli. In questi ultimi, non essendosi ancora ben differenziati i diversi sistemi psichici, e non essendosi ancora attuate profonde rimozioni, si riscontrano di frequente sogni che non sono altro che evidenti appagamenti di moti di desiderio irrisolti del giorno precedente. Spinti da bisogni impellenti anche gli adulti possono produrre simili sogni di tipo infantile10.

Così come si serve dell'interpretazione dei sogni, l'analisi si serve anche dello studio dei piccoli atti mancati e delle azioni sintomatiche che sono così frequenti negli uomini. A questa tipologia di atti ho dedicato una ricerca che è stata pubblicata per la prima volta nel 1904 in un volume intitolato Psicopatologia della vita quotidiana. Il contenuto di questo saggio, che è stato letto da molti, dimostra che questi fenomeni non hanno nulla di casuale, che non possono essere spiegati su basi puramente fisiologiche, che hanno un significato ben preciso e possono essere interpretati, e che, in conclusione, derivano da impulsi e intenti trattenuti o rimossi. Il valore eccellente dell'interpretazione dei sogni, e di questo studio, non consiste però nel sostegno da essi offerto al lavoro analitico, ma in un'altra particolarità. Sinora la psicoanalisi si era occupata unicamente di trovare una spiegazione per alcuni fenomeni patologici, per chiarire i quali era stata spesso costretta a formulare ipotesi la cui portata era del tutto sproporzionata rispetto all'importanza del materiale trattato. Il sogno, invece, di cui la psicoanalisi si interessò da un certo momento in poi, non era un sintomo patologico: esso era un fenomeno della vita psichica normale che poteva riscontrarsi in ogni persona sana.

Se il sogno è costruito come un sintomo e se la sua spiegazione necessita delle stesse ipotesi (quella della rimozione dei moti pulsionali, della formazione sostitutiva e di compromesso, dei differenti sistemi psichici in cui si dispongono il conscio e l'inconscio), allora la psicoanalisi non è più soltanto una scienza ausiliaria della psicopatologia, ma è piuttosto il fondamento di una nuova e più approfondita scienza della psiche, indispensabile anche per la comprensione dei processi psichici normali. È legittimo trasferire i presupposti e i risultati della psicoanalisi ad altri campi degli accadimenti psichici e spirituali; le si apre davanti una strada molto lunga verso campi di ricerca di interesse universale.

5.

Interrompo l'esposizione dello sviluppo interno della psicoanalisi e mi rivolgo ai suoi destini esterni. Ciò che fin qui ho riferito riguardo alle sue conquiste è stato, a grandi linee, frutto del mio lavoro, tuttavia ho incluso nella trattazione anche scoperte successive, senza distinguere i miei contributi da quelli dei miei discepoli e seguaci.

Per oltre dieci anni, a partire dalla mia rottura con Breuer, non ebbi neppure un seguace e rimasi nel più completo isolamento. A Vienna venivo evitato e all'estero nessuno mi conosceva. L'interpretazione dei sogni, pubblicata nel 1900, ebbe pochissime recensioni nelle riviste specializzate. Nel mio saggio Storia del movimento psicoanalitico ho riferito, come esempio di quello che era allora l'atteggiamento nei miei confronti dei circoli psichiatrici viennesi, una conversazione che ebbi con un'assistente [della clinica dove lavoravo]: questi aveva scritto un libro contro le mie teorie, pur non avendo mai letto L'interpretazione dei sogni. In clinica gli avevano detto che non ne valeva la pena. Divenuto poi professore straordinario, costui si è addirittura permesso di negare il contenuto di quella conversazione e di mettere in dubbio l'attendibilità della mia memoria in generale. Dal canto mio ci tengo a ribadire che il mio racconto di allora corrisponde, parola per parola, alla verità.

Quando capii le inevitabili conseguenze di ciò che stavo scoprendo, la mia suscettibilità diminuì. Lentamente anche il mio isolamento terminò. In un primo tempo si raccolse intorno a me, a Vienna, un piccolo gruppo di allievi; dopo il 1906 venni a sapere che gli psichiatri di Zurigo, E. Bleuler, il suo assistente C.G. Jung e altri avevano mostrato un vivo interesse perla psicoanalisi. Si strinsero relazioni personali e nel 1908, a Pasqua, gli amici della giovane scienza si diedero convegno a Salisburgo, stabilirono che tali congressi privati si ripetessero periodicamente e che venisse pubblicata una rivista dal titolo «Jahr-buch fiir psychoanalytische und psychopathologische Forschungen», redatta da Jung e diretta da Bleuler e da me; le pubblicazioni dello «Jahrbuch» terminarono con l'inizio della prima guerra mondiale. Contemporaneamente all'adesione della Svizzera, anche in Germania si era risvegliato ovunque l'interesse per la psicoanalisi, che divenne oggetto di numerose interpretazioni letterarie e di vivaci discussioni nei congressi scientifici. Da nessuna parte però l'accoglienza fu benevola o piena di aspettative favorevoli. La scienza tedesca, dopo una velocissima conoscenza della psicoanalisi, fu unanime nel ripudiarla.

Naturalmente non posso sapere oggi quale sarà il giudizio definitivo dei posteri sul valore della psicoanalisi per la psichiatria, per la psicologia e per le scienze dello spirito in genere. Sono convinto però che lo storico del periodo che ci riguarda dovrà ammettere che la condotta dei suoi antenati non ha fatto di certo onore alla scienza tedesca. Non mi riferisco con ciò al fatto che la psicoanalisi sia stata rifiutata, né alla determinazione con cui ciò è avvenuto; entrambe queste cose sono facili da capire, corrispondono perfettamente alle aspettative e non possono gettare alcuna ombra sul carattere dei nostri avversari. Ma per l'estrema arroganza e il disprezzo assoluto di ogni logica, per la grossolanità e il cattivo gusto con cui la psicoanalisi è stata attaccata, non ci sono scusanti. Qualcuno potrebbe tacciarmi di infantilismo per il fatto che a distanza di ben quindici anni continuo a dare libero sfogo alla mia suscettibilità; non lo farei, in realtà, se non avessi qualche altra cosa da aggiungere. Molti anni dopo, quando durante la [prima] guerra mondiale si levò un coro di voci contro la nazione tedesca, che fu accusata di barbarie, accusa nella quale venivano ricomprese tutte le cose che ho appena detto, fu per me estremamente doloroso non poter smentire quelle voci in base alla mia esperienza.

Uno dei miei avversari si vantava di chiudere la bocca ai suoi pazienti quando cominciavano a parlare di cose sessuali, e riteneva che tale tecnica gli desse evidentemente il diritto di valutare il ruolo della sessualità nell'eziologia delle nevrosi. A prescindere dalle resistenze affettive, che in base alla teoria psicoanalitica si spiegano con tale facilità da non permetterci di esserne fuorviati, ebbi l'impressione che l'ostacolo principale alla comprensione della psicoanalisi consistesse nel fatto che i miei avversari vedevano in essa un prodotto della mia fantasia speculativa e non erano disposti a credere alle lunghe, pazienti e spregiudicate ricerche necessarie a quella elaborazione. Poiché ritenevano che l'analisi non avesse nulla a che fare né con l'osservazione né con l'esperienza, si sentirono perciò autorizzati a rifiutarla senza aver fatto alcuna esperienza in merito. Altri, le cui opinioni su questo tema erano meno salde, ripeterono la classica strategia della resistenza, consistente nel non guardare nel microscopio per non vedere ciò di cui avevano contestato l'esistenza. È assolutamente sorprendente che la maggior parte delle persone si comportino in modo scorretto quando sono poste di fronte al compito di esprimere un proprio giudizio su un fatto nuovo. Per molti anni, e a volte anche tuttora, ho dovuto udire la critica dei cosiddetti "benevoli" secondo cui la psicoanalisi avrebbe ragione sino a un certo punto, al di là del quale però cominciano i suoi eccessi e le sue arbitrarie generalizzazioni. Al contempo, so benissimo che non c'è cosa più difficile che stabilire simili linee di demarcazione, e che questi critici della psicoanalisi fino a pochi giorni o poche settimane prima non ne sapevano nulla.

L'anatema ufficiale contro la psicoanalisi ebbe come conseguenza il rinsaldarsi dei legami che gli analisti avevano stretto tra loro. Durante il secondo Congresso di Norimberga del 1910, fu costituita, su proposta di Ferenczi, una Associazione psicoanalitica internazionale, suddivisa in gruppi locali e diretta da un presidente. Questa associazione è sopravvissuta alla guerra mondiale, è tuttora esistente e comprende i gruppi locali che hanno sede a Vienna, Berlino, Budapest, Zurigo, Londra, Olanda, New York, Pan-America, Mosca e Calcutta". Feci in modo che come primo presidente fosse eletto C.G. Jung e questa mia iniziativa si rivelò in seguito davvero infelice. In quel periodo venne dedicata alla psicoanalisi una seconda rivista, il «Zentralblatt tur Psy-choanalyse», redatta da Adler e Stekel; ad essa seguì ben presto un terzo periodico, «Imago», che gli analisti non medici Hanns Sachs e Otto

Rank decisero di dedicare alle applicazioni dell'analisi alle scienze dello spirito. Poco dopo Bleuler pubblicò il suo scritto in difesa della psicoanalisi12. Per quanto mi facesse piacere che nella disputa fossero entrate, per una volta, l'equità e l'onesta logica, il lavoro di Bleuler non riusciva a soddisfarmi pienamente. Era troppo teso ad apparire imparziale; non è un caso che proprio a Bleuler dobbiamo l'introduzione, nella nostra scienza, dell'importante concetto di "ambivalenza". In lavori scritti successivamente Bleuler assunse un atteggiamento talmente contrario all'edifico teorico della psicoanalisi e ne mise in dubbio o rifiutò elementi talmente essenziali che mi dovetti domandare meravigliato cosa ne fosse stato della sua adesione. Tuttavia egli non mancò di esprimere in seguito i suoi più sentiti apprezzamenti per la "psicologia del profondo", sulla quale fondò persino il suo grande lavoro sulla schizofrenia. In ogni caso, Bleuler non rimase a lungo nella Associazione psicoanalitica internazionale; egli l'abbandonò in seguito ad alcune divergenze con Jung e il "Burghölzli" andò perduto per l'analisi.

L'opposizione ufficiale non riuscì ad impedire che la psicoanalisi si diffondesse in Germania come in altri paesi. Altrove13 ho descritto le tappe di questo progresso e ho indicato gli uomini che lo hanno promosso. Nel 1909, Jung e io fummo invitati da G. Stanley Hall nella Clark University di Worcester, di cui lo stesso Hall era rettore, a tenere alcune conferenze in lingua tedesca durante la settimana di festeggiamenti con cui l'università celebrava il ventesimo anniversario della propria fondazione. Hall era uno psicologo e un pedagogista giustamente stimato, il quale da alcuni anni aveva incluso nei suoi corsi universitari l'insegnamento della psicoanalisi; in lui c'era qualcosa del "facitore di sovrani", poiché si dilettava a portare alle stelle nuove autorità per poi, magari, farle precipitare.

Incontrammo lì anche James J. Putnam, il neurologo di Harvard, che nonostante l'età avanzata mostrò grande entusiasmo per la psicoanalisi e ne sostenne con tutto il peso della sua personalità universalmente rispettata il valore culturale e la purezza di intenti. In quest'uomo insigne, che per reazione a una disposizione nevrotico-ossessiva era orientato prevalentemente in senso etico, ci disturbava soltanto l'idea di voler collegare la psicoanalisi a un determinato sistema filosofico, mettendola al servizio di aspirazioni morali. Anche l'incontro con il filosofo William James mi lasciò un'impressione indelebile. Non potrò mai dimenticare il seguente episodio che avvenne durante una passeggiata insieme: improvvisamente James si fermò, mi consegnò la cartella e mi pregò di andare avanti da solo; mi avrebbe raggiunto non appena superato l'attacco di anginapectoris che sentiva imminente. Morì di questa malattia un anno dopo; da allora ho sempre desiderato di poter dimostrare, all'avvicinarsi della morte, una forza d'animo simile alla sua.

Allora avevo 53 anni, mi sentivo giovane e sano e il mio breve soggiorno nel Nuovo Mondo accrebbe la mia fiducia in me stesso; in Europa mi sentivo come un proscritto, mentre in America ero accolto dai migliori come un loro pari. Fu come la realizzazione di un incredibile sogno a occhi aperti quando a Worcester salii in cattedra per tenere le mie Cinque conferenze sulla psicoanalisi. La psicoanalisi dunque non era più una costruzione delirante, ma era divenuta una parte della realtà dotata di un proprio valore. A partire dalla nostra ultima visita essa non ha perso terreno in America, anzi è diventata popolarissima tra i profani e molti psichiatri di chiara fama l'hanno riconosciuta come elemento essenziale per la formazione professionale del medico. Ma purtroppo in America la psicoanalisi ha subito anche un forte annacquamento e in suo nome sono stati commessi svariati abusi; è mancata infatti in America l'opportunità di conseguire una preparazione approfondita riguardante la tecnica e la teoria psicoanalitiche. Inoltre la psicoanalisi si scontra qui con il behaviorismo, che nella sua ingenuità si vanta di aver eliminato del tutto il problema psicologico.

Tra il 1911 e il 1913 nacquero in Europa due movimenti di rottura rispetto alla psicoanalisi, guidati da persone (Alfred Adler e Cari Gustav Jung) che fino a quel momento avevano svolto un ruolo importante all'interno della giovane scienza. Entrambi questi movimenti sembravano molto pericolosi e si conquistarono rapidamente un gran numero di seguaci. La loro forza però non era dovuta al rispettivo contenuto, bensì alla promessa allettante di potersi liberare dei risultati sgradevoli della psicoanalisi, pur senza rinnegarne il materiale effettivo. Jung tentò una reinterpretazione dei dati analitici in senso più astratto, impersonale e astorico, volendo evitare per questa via il riconoscimento della sessualità infantile e del complesso edipico, e dunque la necessità dell'analisi dell'infanzia. Adler sembrò allontanarsi ancor più dalla psicoanalisi, e rinnegò del tutto l'importanza della sessualità facendo risalire la formazione del carattere e della nevrosi esclusivamente alla volontà di potenza degli esseri umani e al bisogno che essi hanno di compensare le loro inferiorità costituzionali. Così egli ha vanificato tutte le nuove acquisizioni della psicoanalisi; ma ciò che egli aveva rifiutato finì per entrare ugualmente, sotto altro nome, nel suo angusto sistema: la "protesta virile" adleriana non è altro che la rimozione, illegittimamente sessualizzata. La critica fu molto benevola nei confronti di entrambi gli eretici; da parte mia ottenni soltanto che Adler e Jung rinunciassero a chiamare "psicoanalisi" le loro teorie. Oggi, a distanza di dieci anni, si può constatare che nessuno dei due tentativi è stato dannoso per la psicoanalisi.

Quando una comunità si fonda sull'accordo su alcuni punti cardine, è naturale che da tale comunità siano esclusi coloro che hanno abbandonato questo terreno comune. Tuttavia l'allontanamento dei miei antichi discepoli è stato spesso attribuito alla mia intolleranza, o l'espressione di un destino particolarmente avverso che mi perseguitava.

Per dimostrare che le cose non stanno così basterà rilevare che a fronte dei pochi che mi hanno abbandonato - Jung, Adler, Stekel e qualcun altro - cresce il gran numero di coloro, come Abraham, Eitingon, Ferenczi, Rank, Jones, Brill, Sachs, il pastore Pfister, van Emden, Reik e altri, che da circa quindici anni hanno con me un rapporto di collaborazione scientifica e per lo più di non turbata amicizia. Qui ho citato solo i più vecchi tra i miei allievi, quelli che si sono già fatti un nome nella letteratura psicoanalitica; non averne citati altri non significa una mancanza di stima nei loro confronti, poiché proprio fra i miei discepoli più giovani e recenti vi sono dei talenti sui quali si possono riporre grandi speranze. In ogni caso, posso dire a mio favore che un uomo intollerante e dominato dalla presunzione della propria infallibilità non avrebbe mai potuto legare a sé una così grande schiera di personalità intellettuali importanti, in particolar modo non potendo offrire - come nel mio caso - grandi allettamenti di tipo materiale.

La guerra mondiale, che ha distrutto tante altre organizzazioni, nulla ha potuto contro la nostra "internazionale". La prima riunione che tenemmo dopo la guerra ebbe luogo in terreno neutrale (L'Aia, 1920). Fu commovente la calorosa ospitalità che gli olandesi riservarono a noi cittadini della Mitteleuropa, affamati e impoveriti. Per quanto ne so, fu questa la prima volta che, dopo il disastro, tedeschi e inglesi sedettero amichevolmente allo stesso tavolo a causa di interessi scientifici. La guerra aveva fatto addirittura aumentare, in Germania e negli altri paesi dell'Europa occidentale, l'interesse per la psicoanalisi. Di fronte alle nevrosi di guerra i medici avevano finalmente aperto gli occhi sull'importanza che ha la psicogenesi nelle perturbazioni nevrotiche e alcuni dei nostri concetti psicologici, come quello di "vantaggio della malattia" e di "fuga nella malattia", divennero presto popolari.

Nel 1918 a Budapest, durante l'ultimo Congresso psicoanalitico prima del crollo, i governi dell'Europa centrale avevano mandato propri rappresentanti ufficiali che presero accordi per la fondazione di ambulatori psicoanalitici da adibire al trattamento delle nevrosi di guerra; il progetto però non fu attuato. Neppure le intenzioni di uno dei membri più eminenti della nostra Associazione, il dottor Anton von Freund, il quale aveva deciso di creare a Budapest un centro per l'insegnamento e per la terapia analitiche, poterono realizzarsi a causa dei sopraggiunti sconvolgimenti politici e per la prematura scomparsa di quell'uomo insostituibile. Una parte delle sue proposte fu attuata in seguito da Max Eitingon, che nel 1920 fondò a Berlino un Policlinico psicoanalitico.

Durante il breve periodo di dominazione bolscevica in Ungheria, Ferenczi riuscì ancora a sviluppare un'efficace attività didattica in quanto rappresentante ufficiale della psicoanalisi all'Università di Budapest. Una volta terminata la guerra i nostri avversari si affrettarono ad annunciare che l'esperienza aveva fornito argomenti schiaccianti contro l'esattezza delle tesi psicoanalitiche. Le nevrosi di guerra avrebbero offerto la prova che i fattori sessuali non hanno alcuna importanza nell'eziologia delle affezioni nevrotiche. Ma questo fu soltanto un trionfo sconsiderato e prematuro. Infatti, da un lato, nessuno era riuscito ancora a portare a termine un'analisi completa di una nevrosi di guerra, non si sapeva dunque nulla di sicuro circa la motivazione di tali nevrosi né si poteva trarre da tale mancanza di conoscenza alcuna conclusione. D'altro lato, però, la psicoanalisi aveva formulato già da tempo il concetto di narcisismo e di nevrosi narcisistica, il cui contenuto è determinato dal fatto che la libido del soggetto si àncora al proprio Io invece che a un oggetto esterno. Ciò significa che alla psicoanalisi veniva rimproverato, in generale, di aver ampliato indebitamente il concetto di sessualità; ma se per amor di polemica si reputava opportuno dimenticare questa sua colpa, ecco che la sessualità le veniva nuovamente rinfacciata nel suo significato più ristretto.

La storia della psicoanalisi si divide per me in due periodi, se si prescinde dalla sua preistoria catartica. Nel primo, che va dal 1895-96 al 1906-07, ero completamente solo e dovevo portare avanti in prima persona tutto il lavoro. Nel secondo periodo, che da quella data arriva fino ai giorni nostri, i contributi dei miei discepoli e collaboratori hanno acquisito un'importanza sempre maggiore; per tale ragione, adesso che una grave malattia mi annuncia l'approssimarsi della fine, posso pensare con animo sereno al termine della mia opera. Pertanto non mi è possibile in questa Autobiografìa soffermarmi sui progressi della psicoanalisi nel secondo periodo con la stessa ricchezza di particolari con cui ho parlato dei suoi inizi e del suo progressivo sviluppo nel primo periodo, basato esclusivamente sulla mia attività. Mi sento autorizzato a menzionare qui soltanto le nuove acquisizioni cui io stesso ho dato un contributo determinante, in primo luogo dunque le scoperte che si riferiscono al narcisismo, alla teoria delle pulsioni, e all'applicazione della psicoanalisi alle psicosi.

Ho da aggiungere che, con il crescere della nostra esperienza, il complesso edipico si è rivelato sempre più chiaramente il nucleo della nevrosi. Esso rappresenta il culmine della vita sessuale infantile e al tempo stesso il punto di snodo da cui prendono avvio tutti i successivi sviluppi. Con tale scoperta venne meno però la speranza di trovare, mediante l'analisi, un fattore specifico della nevrosi. Dovevamo riconoscere, come Jung aveva detto così bene all'epoca dei suoi esordi analitici, che la nevrosi non ha un suo contenuto particolare ed esclusivo, e che i nevrotici falliscono di fronte alle stesse circostanze e agli stessi problemi che le persone normali riescono invece a padroneggiare. Questa concezione non rappresentò per noi una delusione, poiché si accordava perfettamente con un'altra concezione, quella secondo cui la "psicologia del profondo" scoperta dalla psicoanalisi era proprio la psicologia della vita psichica normale. Ci era capitata la stessa cosa che era accaduta ai chimici, i quali hanno dimostrato che le grandi differenze qualitative fra i prodotti sono riconducibili alle modificazioni quantitative che si verificano nelle diverse combinazioni e proporzioni degli stessi elementi.

Nel complesso edipico la libido si era mostrata legata alla rappresentazione delle figure parentali. Su ciò si era fondata una concezione fondamentale per la nostra teoria della libido, quella che afferma che vi è una situazione in cui la libido si concentra sull'Io del soggetto, assumendolo come proprio oggetto. Tale stato poteva essere chiamato "narcisismo" o "amore di sé". Un'ulteriore riflessione mostrò che essa non viene mai completamente eliminata; per tutta la vita l'Io resta il grande "serbatoio della libido" [Libidoreservoir], dal quale vengono inviati gli investimenti oggettuali e nel quale la libido, partendo dagli oggetti, può tornare a rifluire. La libido narcisistica si trasforma quindi incessantemente in libido oggettuale e viceversa. Un eccellente esempio del livello che può raggiungere questa trasposizione è l'innamoramento (sessuale o sublimato), per il quale si può arrivare persino al sacrificio di sé. Mentre, fino a quel momento, del processo di rimozione ci aveva interessato soprattutto il rimosso, queste rappresentazioni resero possibile che anche il rimovente venisse valutato correttamente. Si sapeva già che la rimozione era operata dalle pulsioni di autoconservazione che agiscono nell'Io (le "pulsioni dell'Io") e si rivolgeva contro le pulsioni libidiche. Poiché adesso si ammetteva che anche le pulsioni di autoconservazione sono di natura libidica, il processo di rimozione si mostrò come un processo che si svolge all'interno della libido; la libido narcisistica si oppone alla libido oggettuale e l'interesse dell'autoconservazione si difende dalle pretese della libido oggettuale, e dunque anche da quelle della sessualità in senso stretto.

Nella psicologia nulla sarebbe più necessario e urgente di una teoria delle pulsioni solidamente fondata, sulla quale si potesse continuare a costruire. Ma nulla di simile esiste, e la psicoanalisi è stata costretta a elaborare faticosamente, con successivi tentativi, una propria teoria delle pulsioni. In un primo tempo, essa stabilì una contrapposizione tra pulsioni dell'Io (l'autoconservazione, la fame) e pulsioni libidiche (l'amore), sostituendola poi con una nuova contrapposizione tra libido narcisistica e libido oggettuale. Con ciò ovviamente non era stata detta l'ultima parola; considerazioni di natura biologica impedivano alla psicoanalisi di accontentarsi della tesi di un'unica specie di pulsioni.

Nei lavori dei miei ultimi anni (Al di là del principio del piacere, Psicologia collettiva e analisi dell'Io, L'Io e l'Es) ho dato libero corso alla mia tendenza alla speculazione, così a lungo contenuta, tentando anche di dare una soluzione al problema delle pulsioni. Ho riunito nel concetto di Eros la pulsione di autoconservazione e di conservazione della specie, e ad esse ho contrapposto la pulsione di morte o di distruzione che opera silenziosamente. La pulsione in genere è concepita in queste opere come una sorta di elasticità della materia vivente, come una spinta irresistibile al ripristino di una situazione che prima c'era e poi è stata abolita a causa di un disturbo esterno. Tale natura fondamentalmente conservatrice delle pulsioni è resa evidente dalla comparsa della coazione a ripetere. L'immagine dell'esistenza ci è offerta dalle continue convergenze e divergenze tra Eros e pulsione di morte.

Resta ora da dimostrare che questa costruzione è utilizzabile. Di certo, essa è nata dal desiderio di dare una formulazione precìsa ad alcune rappresentazioni psicoanalitiche della massima importanza, ma si spinge molto oltre la psicoanalisi. Ancora una volta, in questo frangente, ho dovuto sentir dire con disprezzo che non si può aver fiducia in una scienza i cui concetti fondamentali sono tanto indeterminati come i concetti psicoanalitici di libido e pulsione. Ma tale accusa si fonda su un totale fraintendimento dei fatti. Concetti fondamentali chiari e definizioni rigorosamente delimitate sono possibili soltanto nelle scienze dello spirito, nel caso in cui esse intendano far rientrare un ambito complesso di fenomeni in un sistema razionale. Nelle scienze della natura, di cui fa parte la psicologia, tale chiarezza dei concetti fondamentali è superflua e persino impossibile. La zoologia e la botanica non hanno cominciato con definizioni precise ed esaurienti di cosa siano un animale e una pianta, né la biologia sa ancora oggi che contenuto preciso dare al concetto di essere vivente; per non parlare della fisica, che non si sarebbe sviluppata come in effetti si è sviluppata se avesse dovuto attendere che i concetti di materia, forza, gravità ecc., con i quali opera, ottenessero la precisione che sarebbe auspicabile.

Le rappresentazioni fondamentali, o concetti essenziali delle discipline scientifiche, sono sempre, in un primo tempo, lasciati nel vago, e illustrati in modo provvisorio mediante il riferimento all'ambito di fenomeni dai quali scaturiscono; solo con il progressivo esame del materiale d'osservazione essi diventano pregnanti ed esenti da contraddizioni. Da sempre considero massimamente ingiusto il rifiuto di trattare la psicoanalisi come una qualsiasi altra scienza naturale. Tale rifiuto si è espresso in critiche durissime. Si sono rimproverate alla psicoanalisi le sue numerose incompiutezze e imperfezioni, senza considerare che una scienza basata sull'osservazione non può fare a meno di elaborare gradualmente i suoi risultati e risolvere i problemi a mano a mano che si presentano. Ma v'è di più: quando tentammo di ottenere per la funzione sessuale il riconoscimento che così a lungo le era stato negato, la teoria psicoanalitica venne accusata di "pansessualismo", e quando sottolineammo il ruolo fino allora trascurato delle esperienze dei primi anni di vita, ci toccò sentire che la psicoanalisi rinnegava i fattori della costituzione e dell'ereditarietà, cosa che non era affatto vera. Ci volevano contestare ad ogni costo e con ogni mezzo.

Già in fasi precedenti della mia produzione avevo tentato di raggiungere, a partire dall'osservazione psicoanalitica, punti di vista più generali. In un piccolo saggio del 1911, intitolato Precisazioni sui due princìpi dell'accadere psichico, misi in rilievo in un modo certamente non originale la preminenza del principio di piacere-dispiacere nella vita psichica e la sua sostituzione con il cosiddetto "principio di realtà". In seguito provai a elaborare una "metapsicologia". Chiamai così un modo di considerare tutti i processi psichici in funzione di tre coordinate: la dinamica, la topica e Veconomia. Nella considerazione meta-psicologica individuavo il fine ultimo che la psicologia potesse attingere. Questo progetto rimase incompiuto, poiché fu interrotto dopo pochi saggi {Pulsioni e loro destini, La rimozione, L'inconscio, Lutto e melanconia ecc.). Probabilmente feci bene a non proseguirlo, perché non erano ancora maturi i tempi per una puntualizzazione teorica di tal genere. Nei miei ultimi lavori speculativi ho stabilito un'articolazione del nostro apparato psichico basata sulla valutazione analitica di fenomeni patologici e ho scomposto l'apparato stesso in un Io, un Es e un Super-io15. Il Super-io è l'erede del complesso edipico e il rappresentante delle aspirazioni etiche dell'umanità.

Non vorrei aver suscitato l'impressione che in questi miei ultimi lavori abbia voltato le spalle all'osservazione paziente per dedicarmi completamente alla speculazione. È vero piuttosto che sono sempre rimasto in intimo contatto con il materiale analitico e non ho mai smesso di occuparmi di temi ben precisi, di natura clinica o tecnica. Anche quando mi sono allontanato dall'osservazione ho sempre evitato con cura di avvicinarmi alla filosofia vera e propria. Un'incapacità costituzionale mi ha reso molto più facile questa astensione. Tuttavia sono stato sempre attratto dalle idee di G.T. Fechner, al cui pensiero, in effetti, mi sono riferito per alcuni punti importanti della mia teoria. Le grandi concordanze tra la psicoanalisi e la filosofia di Schopenhauer, il quale non solo ha sostenuto il primato dell'affettività e l'importanza capitale della sessualità, ma ha conosciuto persino il meccanismo della rimozione, non possono essere attribuite alla mia conoscenza delle sue teorie. Ho letto Schopenhauer molto tardi nella mia vita, e per un lungo periodo di tempo ho evitato di leggere Nietzsche, l'altro filosofo le cui intuizioni e scoperte coincidono spesso, in modo sorprendente, con i risultati raggiunti faticosamente dalla psicoanalisi; più che la priorità mi interessava conservarmi libero da ogni influenza esterna.

Le nevrosi furono il primo e per lungo tempo l'unico oggetto dell'indagine analitica. Per ogni analista è del tutto evidente che la pratica psicoanalitica commette un errore quando separa queste affezioni dalle psicosi e le avvicina alle malattie neurologiche di natura organica. La teoria delle nevrosi appartiene alla psichiatria: di essa non si può fare a meno se ci si vuole introdurre in questa disciplina. Ebbene, lo studio analitico delle psicosi sembrerebbe impossibile perché privo di prospettive dal punto di vista terapeutico. In generale, manca al malato di mente la capacità di sviluppare un transfert positivo, il che significa che ci viene a mancare il mezzo principale della tecnica analitica; ma, a volte, esistono altre vie di accesso. Di frequente accade che il transfert non sia del tutto assente e ciò ci consente di procedere con esso per un certo tratto; in effetti, in alcuni casi di depressioni cicliche, di lievi alterazioni paranoiche e di schizofrenie parziali, si sono ottenuti, mediante l'analisi, risultati indiscutibili. Per la scienza, comunque, è stato certamente un vantaggio il fatto che in molti casi la diagnosi oscillasse per molto tempo tra l'ipotesi di una psiconevrosi e quella di una dementia praecox. In tal modo riuscimmo ad ottenere importanti risultati scientifici in relazione a tentativi terapeutici che poi furono interrotti. In tale contesto ciò che più importa è che nelle psicosi risultano evidenti a tutti molte cose che nelle nevrosi riusciamo a far affiorare solo con grande fatica. Per tale motivo molte affermazioni della psicoanalisi trovano la conferma migliore grazie ai pazienti delle cliniche psichiatriche.

Inevitabilmente, dunque, l'analisi ha trovato la strada che porta agli oggetti dell'osservazione psichiatrica. Già nel 1896 ebbi modo di constatare, in un caso di demenza para-noide, la presenza dei medesimi fattori eziologici e dei medesimi complessi affettivi riscontrabili nelle nevrosi. Jung ha spiegato alcune enigmatiche stereotipie dei dementi mediante il riferimento alla loro storia personale passata. Bleuler ha scoperto, in diverse psicosi, gli stessi meccanismi che l'analisi ha rivelato nei nevrotici. Da allora non sono più cessati gli sforzi degli analisti per giungere a una comprensione delle psicosi. In particolare, da quando lavoriamo con il concetto di narcisismo siamo riusciti, ora qui ora lì, a gettare uno sguardo oltre il muro. Abraham è colui che più di ogni altro è andato avanti su questa strada, con la sua spiegazione delle melanconie. In questo campo non tutto il sapere si tramuta in possibilità terapeutiche; ma anche le semplici acquisizioni teoriche non sono da sottovalutare e possiamo attendere senza fretta che esse si rivelino in futuro utilizzabili nella pratica. Col passare del tempo gli stessi psichiatri non riusciranno a opporsi alla forza probante del materiale clinico che hanno sotto mano.

I punti di vista analitici stanno operando una specie di "pénétration pacifique" anche nella psichiatria tedesca; nonostante le ripetute assicurazioni di non voler essere considerati psicoanalisti, di non appartenere alla scuola "ortodossa" di cui non condividono gli eccessi, e soprattutto di non credere alla potenza superiore del fattore sessuale, la maggior parte dei ricercatori più giovani fanno propria questa o quella parte della teoria analitica, applicandola a modo loro al materiale di cui dispongono. Tutto fa dunque ritenere che in futuro vi saranno ulteriori sviluppi in tal senso.

6.

Osservo ora da lontano i sintomi di reazione all'introduzione della psicoanalisi in Francia, un Paese che si è dimostrato per molto tempo refrattario ad essa. Tale reazione, pur essendo in un certo qual modo una riproduzione di cose già vissute, ha però i suoi tratti peculiari. Si sollevano obiezioni incredibilmente ingenue, come quella secondo cui la rozzezza e la pedanteria della terminologia psicoanalitica susciterebbero orrore alla raffinata sensibilità dei francesi (si ricordi un immortale personaggio di Lessing come il cavaliere Riccaut de la Marlinière!).

Un'altra obiezione sembra più seria, e non è stata disdegnata neppure da un professore di psicologia della Sorbona: il Genie latin non può sopportare il modo di pensare della psicoanalisi. Con ciò è evidente che si vogliono denigrare alcuni alleati anglosassoni che vengono considerati suoi seguaci. Chi sente una tale affermazione deve naturalmente pensare che il Genie teutonique si sia stretta al cuore la psicoanalisi come la figlia più cara non appena essa è venuta al mondo.

Inizialmente, in Francia l'interesse per la psicoanalisi è stato manifestato dai letterati. Per comprendere ciò bisogna tenere a mente che la psicoanalisi, con l'interpretazione dei sogni, ha superato i limiti di un puro fatto medico. Nel periodo che va dalla sua comparsa in Germania all'attuale introduzione in Francia si sono sviluppate infatti molteplici applicazioni delle nostre teorie nei campi della letteratura e dell'arte, della storia delle religioni e della preistoria, della mitologia, della pedagogia ecc. Tutte queste cose hanno poco a che fare con la medicina, poiché sono legate ad essa unicamente dalla mediazione psicoanalitica. Non ho alcun diritto quindi di approfondire qui questo genere di argomenti. Non posso però neppure tralasciarli del tutto, poiché da un lato essi sono indispensabili per dare l'esatta rappresentazione del valore e della natura della psicoanalisi, e dall' altro non posso sottrarmi all'impegno che mi sono assunto di raccontare la storia della mia vita. La maggior parte delle applicazioni ha tratto inizialmente spunto dai miei lavori. In qualche occasione io stesso ho fatto qualche passo in direzioni diverse dal mio sentiero abituale, per soddisfare un interesse estraneo alla medicina. Altri studiosi, non solo medici, ma anche specialisti in diversi altri campi, hanno seguito le mie orme approfondendo le rispettive discipline. Ma, poiché secondo il mio programma ho intenzione di esporre soltanto il mio contributo alle applicazioni della psicoanalisi, posso presentare al lettore soltanto un quadro assolutamente incompleto della vastità e dell'importanza di tali applicazioni.

Ho ricevuto una serie di sollecitazioni dal complesso edipico, di cui a poco a poco ho riconosciuto il carattere ubiquitario. Se la scelta, la terribile creazione del tema era sempre sembrata enigmatica, così come lo era l'effetto scioccante della sua raffigurazione poetica e l'essenza della tragedia del destino in genere, tutto ciò poteva essere spiegato nel modo seguente: nella tragedia di Edipo era stata colta una legge generale dell'accadere psichico nella pienezza del suo significato affettivo. Fato e oracolo erano unicamente materializzazioni di una necessità interiore. Il fatto che l'eroe si fosse macchiato di una colpa senza saperlo e contro la sua volontà fu interpretato come la giusta espressione della natura inconscia delle sue tendenze criminali. Da tale interpretazione della tragedia del destino bastava solo un passo per giungere alla spiegazione di quella grande tragedia del carattere che è l'Amleto, un'opera che da trecento anni era ammirata da tutti senza che nessuno fosse riuscito a esprimerne il significato né a indagare i moventi del poeta. Era proprio singolare il fatto che questo nevrotico creato dal poeta fallisse miseramente di fronte al complesso d'Edipo, così come tanti suoi simili nella vita reale. Infatti Amleto era stato posto di fronte al compito di vendicare su una terza persona i due fatti che costituiscono il contenuto essenziale del complesso edipico, ma un oscuro senso di colpa gli aveva paralizzato il braccio impedendogli di compiere la sua vendetta. L'Amleto fu scritto da Shakespeare poco dopo la morte del padre16.1 miei suggerimenti per l'analisi di questo dramma trovarono in seguito un'approfondita elaborazione da parte di Ernest Jones. Nella stessa direzione si mosse Otto Rank, che fece di essi il punto di partenza delle sue indagini riguardanti la scelta dei contenuti della poesia drammatica. Nel suo grande volume sul "motivo dell'incesto" egli potè mostrare con quale frequenza i poeti scelgano per le loro raffigurazioni proprio i motivi della situazione edipica e seguì poi le trasformazioni, le alterazioni e le attenuazioni subite da questo tema nella letteratura mondiale.

Fu naturale procedere da qui all'analisi della creazione poetica e artistica in genere. Si riconobbe che il regno della fantasia è una specie di "territorio protetto", istituito al momento del passaggio doloroso dal principio di piacere al principio di realtà, per consentire la creazione di un sostituto del soddisfacimento pulsionale al quale si è dovuto rinunciare nella vita reale. Così come il nevrotico, l'artista si ritirerebbe in tale mondo della fantasia fuggendo da una realtà che non lo soddisfa, ma, diversamente dal nevrotico, egli sarebbe in grado di trovare la strada capace di riportarlo coi piedi per terra nel mondo reale. Le sue creazioni, le opere d'arte, sarebbero soddisfacimenti fantastici di desideri inconsci, proprio come i sogni, con i quali avrebbero in comune anche il carattere di formazioni di compromesso, poiché le creazioni poetiche, come i sogni, dovrebbero essere capaci di evitare un conflitto aperto con le forze della rimozione. Ma, a differenza delle asociali e narcisistiche produzioni oniriche, le opere d'arte sono destinate a suscitare l'interesse e la partecipazione di altre persone, nelle quali possono risvegliare e soddisfare gli stessi inconsci moti di desiderio. Inoltre esse si servono del piacere percettivo che suscita la bellezza formale come di un "premio di allettamento".

Partendo dalle relazioni reciproche tra le impressioni dell'infanzia dell'artista, le vicende occasionali della sua vita e le sue opere, la psicoanalisi è riuscita a costruire in questo campo i lineamenti essenziali della sua personalità, i moti pulsionali che in lui sono attivi, tutto ciò che c'è quindi di universalmente umano in lui. Con tale intento io stesso intrapresi, ad esempio, uno studio su Leonardo da Vinci, basato unicamente su un ricordo d'infanzia trasmessoci dal pittore, ed essenzialmente con il fine di dare una spiegazione del dipinto Sant'Anna, la Vergine e il Bambino. I miei amici e discepoli hanno poi intrapreso numerose analisi, simili alla mia, di artisti e delle loro opere. Non è mai accaduto che il godimento estetico di fronte a un'opera d'arte venisse rovinato dalla comprensione analitica che ne avevamo ricavato. Ai profani, che però in questo caso si aspettano troppo dalla psicoanalisi, dobbiamo ammettere che essa non getta alcuna luce su due problemi che per loro probabilmente sono i più interessanti. L'analisi non può spiegare in alcun modo il talento artistico, né può assumersi il compito di scoprire i mezzi con cui l'artista lavora, ossia non può risolvere il problema della tecnica artistica.

Con riguardo a una novella di non particolare valore, la Gradiva di W. Jensen, ho potuto dimostrare che i sogni inventati dai poeti consentono un'interpretazione identica a quella dei sogni reali, e che dunque nella produzione del poeta sono attivi gli stessi meccanismi inconsci che conosciamo nel lavoro onirico.

Anche il mio libro Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio ( 1905) è una diretta derivazione della mia Interpretazione dei sogni (1900). L'unico amico che allora si interessava ai miei lavori mi aveva fatto osservare che le mie interpretazioni oniriche risultavano spesso "spiritose". Per chiarire questa impressione intrapresi lo studio del vizio e scoprii che la sua essenza sta nei mezzi tecnici che utilizza. Questi ultimi, a lroo volta, sono gli stessi del "lavoro onirico", sono cioè la condensazione, lo spostamento, la raffigurazione mediante l'opposto o mediante particolari insignificanti ecc. A questo seguì uno studio economico inteso a scoprire perché mai coloro che ascoltano i motti di spirito ne ricevano un intenso piacere, e la risposta fu: a causa della temporanea eliminazione del dispendio impiegato per la rimozione, dato l'allettamento rappresentato dalla promessa di un premio di piacere (o piacere preliminare).

Ma io stesso attribuisco maggior valore e interesse ai miei contributi I alla psicologia della religione; essi presero avvio nel 1907 dalla constatazione di un'analogia sorprendente tra le azioni ossessive e le pra-I tiche o i rituali religiosi. Pur non conoscendo ancora altri nessi più profondi, definii la nevrosi ossessiva come la caricatura di una religione privata, e la religione come una specie di nevrosi ossessiva universale. In seguito, quando nel 1912 Jung fece riferimento esplicitamente alle grandi analogie tra le produzioni mentali dei nevrotici e quelle dei primitivi, ciò mi diede motivo di rivolgere la mia attenzione a questo tema. Nei quattro saggi che sono contenuti nel libro dal titolo Totem e tabù ho dimostrato che presso i popoli primitivi l'orrore dell'incesto è molto più sviluppato che presso i popoli civilizzati e ha dato luogo a misure di difesa molto particolari. Ho indagato inoltre i rapporti tra i divieti derivanti da tabù, che rappresentano la prima forma di restrizione morale, e l'ambivalenza emotiva, e ho scoperto nella visione del mondo dei primitivi, nell'animismo, il principio della sopravvalutazione della realtà psichica, quell'"onnipotenza dei pensieri" su cui è basata anche la magia. Ho portato avanti in ogni direzione il parallelismo con la nevrosi ossessiva e ho dimostrato come molti dei presupposti della vita psichica dei primitivi sono ancora attivi in questa singolare affezione. In particolare, però, mi attraeva il totemismo, la prima forma di organizzazione delle tribù primitive, in cui gli inizi dell'ordinamento sociale coincidevano con una forma rudimentale di religione e col dominio inesorabile di alcuni tabù. L'entità "adorata" è qui originariamente sempre un animale, da cui il clan ritiene di discendere. Da diversi segni ho potuto dedurre che tutti i popoli, anche quelli maggiormente civilizzati, sono passati attraverso questo stadio del totemismo.

La fonte letteraria principale dei miei lavori sull'argomento furono le note opere di J.G. Frazer (Totemism and Exogamy, The Golden Bough), le quali costituiscono una miniera inesauribile di dati e punti di vista molto interessanti. Ma, per chiarire il problema del totemismo, le opere di Frazer servono a poco; egli infatti mutò più volte e in modo radicale le sue opinioni sul tema; del resto, anche gli altri etnologi e studiosi della preistoria si mostrarono altrettanto incoerenti e discordi in proposito. Il mio punto di partenza fu l'evidente concordanza tra i due precetti tabù del totemismo - non uccidere il totem e non unirsi sessualmente con donne dello stesso clan totemico - e i due contenuti del complesso d'Edipo: eliminare il padre e prendere in moglie la madre. Ciò mi portò a equiparare l'animale totemico al padre, cosa che del resto i primitivi già facevano adorando in modo manifesto il totem proprio in quanto progenitore del clan. Da parte psicoanalitica due dati di fatto mi furono d'aiuto: una fortunata osservazione di Fe-renczi su un bambino, la quale ci permise di parlare di un ritorno del totemismo nei bambini, e l'analisi delle prime zoofobie dei bambini, la quale così spesso dimostra che l'animale è un sostituto del padre sul quale è stata spostata la paura derivante dal complesso edipico. Non mancava ora molto per giungere al riconoscimento che l'uccisione del padre è il nucleo del totemismo e il punto di partenza della formazione delle religioni.

Ciò mi fu reso possibile dalla conoscenza dell'opera di W. Robertson Smith, The Religion ofthe Semites, in cui quest'uomo geniale, che fu al tempo stesso fisico ed esegeta della Bibbia, sostiene che il cosiddetto "pasto totemico" rappresenta una parte essenziale della religione totemistica. Una volta all'anno, l'animale totem, che in ogni altra occasione è considerato sacro, viene ucciso, mangiato e compianto; a questa solenne cerimonia partecipano tutti i membri del clan. Al lutto fa seguito una grande festa. Collegai a questi dati l'ipotesi di Darwin che gli uomini vivevano originariamente in orde, ciascuna delle quali si trovava sotto il dominio di un unico maschio, forte, violento e gelosissimo, e così ricavai da tutti questi elementi l'ipotesi, o preferirei dire la visione seguente: il padre dell'orda primordiale aveva ottenuto, quale despota incontrastato, il possesso esclusivo di tutte le donne, uccidendo e cacciando i propri figli che riteneva pericolosi rivali. Un giorno però i figli, che si erano riuniti insieme, presero il sopravvento, uccisero il padre - che era al tempo stesso il loro nemico e ideale - e ne divorarono insieme il corpo. Dopo questo crimine nessuno di loro potè assumersi l'eredità paterna, poiché ciascuno lo impediva all'altro. Sotto l'influenza dello scacco subito e del rimorso per l'azione commessa i figli impararono a tollerarsi a vicenda, si unirono in un clan fraterno retto dai dettami del totemismo, i quali assicuravano che una simile azione non si sarebbe più ripetuta, e rinunciarono di comune accordo al possesso delle donne, a causa delle quali avevano ucciso il padre. Essi potevano ora unirsi soltanto alle donne estranee al clan. È questa l'origine dell'esogamia e del suo intimo legame col totemismo. Il banchetto totemico rappresentava la solenne commemorazione dell'impresa mostruosa dalla quale era derivato l'umano senso di colpa (o peccato originale), punto di partenza, al tempo stesso, dell'organizzazione sociale, della religione e delle restrizioni etiche.

A prescindere dall'ammissibilità storica di tale interpretazione, in ogni caso essa colloca la formazione delle religioni sul terreno del complesso paterno e su quello dell'ambivalenza, che in esso predomina. Dopo che l'animale totemico cessò di fungere da sostituto paterno, il padre primordiale, temuto e odiato, ma anche adorato e invidiato, divenne egli stesso il prototipo della divinità. Nei figli la lotta tra ribellione e nostalgia nei riguardi del padre continuò a infuriare assumendo sempre nuove forme di compromesso, tese, da un lato, a espiare l'assassinio e, dall'altro, a consolidarne i vantaggi. Tale concezione della religione getta una luce particolarmente chiara su ciò che riguarda il fondamento psicologico del cristianesimo, nel quale addirittura la cerimonia del banchetto totemico sopravvive, lievemente deformata, nel sacramento dell'eucarestia. Voglio sottolineare che quest'ultima annotazione non è dovuta a me, ma si trova già in Robertson Smith e in Frazer.

In molti lavori interessanti Theodor Reik e l'etnologo Géza Róheim si sono ricollegati alle idee espresse in Totem e tabù (1912-13) per portarle avanti, approfondirle o rettificarle. Io stesso, in seguito, sono tornato più volte sull'argomento, quando ho indagato l'"inconscio senso di colpa" al quale si deve attribuire una grande importanza anche fra i motivi della sofferenza nevrotica, e quando ho tentato di stabilire un legame più stretto tra la psicologia sociale e la psicologia dell'individuo (nei saggi L'Io e l'Es e Psicologia collettiva e analisi dell'Io). Anche per chiarire la suggestione ipnotica ho fatto riferimento all'eredità arcaica che deriva dall'antica organizzazione umana in orde.

Estremamente piccolo è invece il mio contributo diretto ad altre applicazioni della psicoanalisi, che pure meritano l'interesse più generale. Partendo dalle fantasie dei singoli nevrotici si apre un'ampia strada verso le creazioni fantastiche delle masse e dei popoli, così come essi si presentano nei miti, nelle leggende e nelle fiabe. La mitologia è divenuta il campo d'indagine di Otto Rank: l'interpretazione dei miti, il loro riferimento genetico agli inconsci complessi infantili che ci sono noti, la sostituzione di spiegazioni astrali con motivazioni umane sono stati in molti casi il risultato dei suoi sforzi analitici. Anche il tema del simbolismo ha trovato numerosi amatori nella mia cerchia di discepoli. Il simbolismo però ha procurato alla psicoanalisi anche molti avversari; alcuni studiosi davvero insulsi non hanno mai saputo perdonarle di aver riconosciuto il simbolismo dei sogni così come emerge dall'interpretazione. Ma l'analisi non può essere incolpata di aver scoperto il simbolismo, esso era già da lungo tempo conosciuto in altri campi e svolge lì (nel folklore, nella leggenda e nel mito) un ruolo ancora più importante che nel "linguaggio del sogno".

Non ho contribuito personalmente, in alcun modo, all'applicazione della psicoanalisi alla pedagogia; ma è naturale che le comunicazioni psicoanalitiche sulla vita sessuale e sullo sviluppo psichico dei bambini abbiano attirato l'attenzione degli educatori e posto i loro compiti sotto una nuova luce. Infaticabile pioniere di questo orientamento nella pedagogia è stato il pastore protestante Oskar Pfister di Zurigo, il quale riuscì a conciliare l'esercizio della psicoanalisi con una forte religiosità, invero sublimata. Oltre a lui la dottoressa Hermine von Hug-Helluth, il dottor S. Bernfeld, entrambi di Vienna, e molti altri17. Dall'applicazione dell'analisi al fine di educare in via preventiva i bambini sani e per correggere tempestivamente la personalità di bambini non ancora nevrotici, ma già sviati nel loro sviluppo, è risultata una conseguenza molto importante dal punto di vista pratico. Non è più possibile riservare ai medici l'esercizio dell'analisi ed escluderne i non medici. In realtà il medico che non si sia sottoposto a uno speciale processo di formazione e preparazione è, malgrado il suo titolo, un profano per la psicoanalisi, mentre il non medico può, con un'adeguata preparazione e appoggiandosi all'occasione a un medico, svolgere il compito di un trattamento analitico delle nevrosi.

Per uno di quegli sviluppi alle cui conseguenze sarebbe vano opporsi, il termine "psicoanalisi" ha assunto infine più di un significato. Mentre in origine tale parola indicava un determinato procedimento terapeutico, ora essa è divenuta anche il nome di una scienza, la scienza dell'inconscio psichico. Quest'ultima raramente riesce da sola a risolvere perfettamente un problema; ma essa sembra destinata a offrire importanti contributi ai più diversi campi del sapere. Il campo di applicazione della psicoanalisi è vasto quanto quello della psicologia, alla quale offre un completamento di fondamentale importanza.

Così, voltandomi indietro e guardando al lavoro che finora ho svolto, posso dire di aver iniziato molte cose e di aver offerto molte sollecitazioni che di certo in futuro potranno essere sviluppate. Io stesso non posso sapere se tali sviluppi saranno molti o pochi. Ma mi sia consentito esprimere la speranza di aver aperto la strada a un importante progresso delle nostre conoscenze.

Note

1 Le conferenze furono pubblicate per la prima volta in lingua inglese nell'«American Journal of Psychology» (1910); il testo originale tedesco apparve con il titolo Uber Psy-choanalyse.

2 II volume collettivo è intitolato These Eventful Years: The Twentieth Century in the Making as Told by Many ofits Makers, 1 voli., Encyclopaedia Britannica Company, 1924; il mio saggio, tradotto in inglese dal dottor A. A. Brill, compare al capitolo 73 del voi. 2. [Si veda il Breve compendio di psicoanalisi, in questo volume].

3 [Goethe, Faust, parte prima, Studio].

4 [Nota aggiunta nei 1935] Le conoscenze sulla sessualità infantile erano state acquisite studiando l'uomo, e dunque la teoria che ne derivò fu applicata al bambino maschio. L'aspettativa di un perfetto parallelismo tra i due sessi, pur essendo abbastanza naturale, si rivelò però infondata. Successive ricerche e considerazioni permisero di scoprire differenze molto profonde tra lo sviluppo sessuale maschile e quello femminile. Anche per la bambina la madre rappresenta il primo oggetto sessuale, ma per raggiungere la meta dello sviluppo sessuale normale, la donna deve mutare non solo l'oggetto sessuale, ma anche la zona genitale dominante. Da ciò derivano difficoltà e possibilità di inibizioni che mancano per l'uomo.

5 [Nota aggiunta nel 1935] Il periodo di latenza è un fenomeno fisiologico. Tuttavia esso compie una completa interruzione della vita sessuale solamente nelle organizzazioni della civiltà umana che hanno assunto tra i propri compiti la repressione della sessualità infantile. Questo non si verifica nella maggior parte dei popoli infantili.

6 [Nota aggiunta nel 1935] Dal momento che la funzione onirica fallisce molto di frequente, si può caratterizzare adeguatamente il sogno definendolo un tentativo di appagamento di desiderio. Inconfutabile rimane l'antica definizione del sogno data da Aristotele come l'attività psichica di chi si trova nello stato di sonno. Non a caso ho intitolato il mio libro non Il sogno, ma L'interpretazione dei sogni.

7 E. Bleuler, Die Psychoanalyse Freuds, 1910.

8 Nel mio scritto Storia del movimento psicoanalitico.

9 Vedi il mio scritto L'Io e l'Es (1922).

10 [Nota aggiunta nel 1935] Questa è una costruzione che intendo espressamente ritirare. Non credo più che l'attore William Shakespeare di Stratford sia l'autore dell'opera che a lui è stata attribuita per così tanto tempo. Da quando è stato pubblicato il libro di J.Th. Looney, "Shakespeare". Identifìedin Edward de Vere, the EarìofOxford (1920), mi sono convinto quasi del tutto che il nome di Shakespeare sia uno pseudonimo che copre Edward de Vere.

11 [Nota aggiunta nel 1935] Da allora proprio l'analisi infantile ha avuto un forte sviluppo grazie ai lavori della dottoressa Melanie Klein e di mia figlia Anna Freud.