Da Sociobiologia e natura umana

Einaudi, Torino 1980

Che cos’è la sociobiologia? (pp. 3-17)

di Edward O. Wilson


Sono rimasto sorpreso – anzi, meravigliato – dalla reazione iniziale a Sociobiologia: La nuova sintesi. Quando, nel 1975, il libro venne pubblicato, mi attendevo una reazione favorevole da parte di altri biologi. Dopo tutto, i miei colleghi e io non avevamo fatto che estendere il neodarwinismo allo studio del comportamento sociale e delle società animali, e i principi biologici fondamentali impiegati erano in gran parte convenzionali. In effetti, la risposta fu favorevolissima. Dagli studiosi di scienze sociali non mi aspettavo assolutamente una gran reazione. Davo per scontato che la specie umana è suscettibile di analisi sociobiologica non meno che di analisi genetica o endocrinologica; l’ultimo capitolo del mio libro non faceva che completare l’elencazione delle specie sociali aggiungendovi Homo sapiens. Speravo di offrire un contributo alle scienze sociali e umane delineando in forma immediatamente accessibile i metodi e i principi più rilevanti della biologia di popolazioni, della teoria evoluzionistica e della sociobiologia. Prevedevo che molti studiosi di scienze sociali, già convinti della necessità di un fondamento biologico per la propria materia, sarebbero stati tentati di raccogliere gli strumenti e metterli alla prova. Ciò si è in parte verificato, ma vi è stata anche una ferma resistenza. Comprendo ora di avere del tutto sottovalutato sia la tradizione di autonomia delle scienze sociali stabilita da Durkheim-Boas che la forza e il potere del pregiudizio antigenetico che ha prevalso come dogma di fatto dalla caduta del darwinismo sociale.

Non avevo nemmeno pensato ai marxisti. Quando la sociobiologia venne attaccata da Science for the People, il gruppo alla guida della sinistra radicale nel mondo

scientifico americano, ero impreparato a un dibattito in larga misura ideologico. Ora mi è chiaro che avevo inavvertitamente toccato qualcosa di fondamentale: la mitologia. La teoria evoluzionistica applicata ai sistemi sociali è un’estensione delle grandi tradizioni occidentali di materialismo scientifico. In quanto tale essa minaccia di trasformare le supposizioni sulla natura umana formulate da alcuni filosofi marxisti in ipotesi suscettibili di verifica. Il suo primo ordine di testimonianze non è favorevole a tali supposizioni in quanto gran parte dei marxisti tradizionalisti aderisce ad una visione della natura umana come fenomeno relativamente privo di struttura, trascinato da forze economiche estranee alla biologia umana. In precedenza il marxismo e altre ideologie laiche stavano al sicuro come incontrastate satrapie del materialismo scientifico; ora hanno corso il rischio di venire soppiantate da altre spiegazioni biologiche meno governabili. La reazione eccezionalmente aspra di Science for the People è un esempio di ciò che Hans Kung ha chiamato la collera dei teologi.

La sociobiologia fraintesa.

Gran parte della confusione, tuttavia, è scaturita da un semplice malinteso sui contenuti della sociobiologia. Questa viene definita come lo studio sistematico delle basi biologiche di tutte le forme di comportamento sociale, compresi il comportamento sessuale e parentale, in tutte le specie di organismi, compreso l’uomo. Come tale è una disciplina – una disciplina imprescindibile, poiché deve pur esistere uno studio sistematico del comportamento sociale. L’elemento costitutivo della sociobiologia è in gran parte la zoologia. Circa il 90% del suo materiale corrente riguarda gli animali, sebbene il 90% dell’attenzione dedicata alla sociobiologia dai non scienziati, e specialmente dai giornalisti, sia dovuto alle sue possibili applicazioni allo studio del comportamento sociale umano. Non vi è nulla d’insolito nel derivare principi e metodi, e persino la terminologia, dallo studio assiduo degli organismi inferiori, e nell’applicarli allo studio degli esseri umani. Gran parte dei principi fondamentali della genetica e della biochimica applicati alla biologia umana si basano sui batteri del colon, sulle mosche delle frutta e sui topolini bianchi. Dire che la stessa scienza può venire applicata agli esseri umani non significa ridurre l’umanità alla condizione di queste creature piùsemplici.

Non vi è nemmeno nulla di nuovo o sorprendente nell’annoverare tale disciplina nell’ambito della famiglia delle scienze biologiche. Il termine di sociobiologia venne usato indipendentemente da John P. Scott nel 1946 e da Charles F. Hockett nel 1948, ma il vocabolo non venne subito ripreso da altri. Nel 1950 Scott, che aveva prestato servizio come segretario del piccolo ma autorevole Comitato per lo studio del comportamento animale propose che il vocabolo «sociobiologia» venisse usato in maniera più ufficiale come termine per «la scienza interdisciplinare situata fra il campo della biologia (particolarmente ecologia e fisiologia) e quello della psicologia e della sociologia». Dal 1956 fino al 1964 Scott e altri fondarono una Sezione per lo studio del comportamento animale e la sociobiologia della Società ecologica americana che divenne l’attuale Società per lo studio del comportamento animale. Durante il periodo dal 1950 al 1970 «sociobiologia» venne saltuariamente impiegato in articoli tecnici, un uso evidentemente ispirato dalla sua attuale posizione quasi ufficiale. Ma furono impiegate anche altre espressioni quali « biosociologia » e « sociologia animale». Quando scrissi l’ultimo capitolo di The Insect Societies [trad. it. Le società degli insetti, Einaudi, Torino 1976], intitolato Prospetto per una sociobiologia unificata e Sociobiology: The New Synthesis [trad. it. Sociobiologia: La nuova sintesi, Zanichelli, Bologna 1979] nei quali affermavo che era venuto il momento di costituire una disciplina separata sui fondamenti della genetica e della biologia di popolazioni, scelsi il termine di «sociobiologia» invece che altre e insolite espressioni perché ritenevo che sarebbe già stato familiare a gran parte degli studiosi del comportamento animale, e avrebbe avuto quindi maggiori probabilità di venire accettato.

Capacità biologica.

La teoria sociobiologica pura, essendo indipendente dalla biologia umana, non implica di per sé che il comportamento sociale umano sia determinato dai geni. Essa ammette tre possibilità. Una è che il cervello umano si sia evoluto fino al punto di diventare una macchina per apprendere equipotenziale, interamente governata dalla cultura. La mente, in altri termini, è stata emancipata dai geni. Una seconda possibilità è che il comportamento sociale umano sia vincolato dai geni, ma che l’intera variabilità genetica nell’ambito della specie umana si sia esaurita. Di conseguenza il nostro comportamento è in qualche misura influenzato dai geni, ma tutti possediamo esattamente il medesimo potenziale. Una terza possibilità, analoga alla seconda, è quella che la specie umana sia in certa misura programmata, pur rivelando alcune differenze genetiche fra individui. Di conseguenza le popolazioni umane serbano la capacità di evolversi ulteriormente nella propria attitudine biologica al comportamento sociale.

Ritengo praticamente certo che la terza alternativa sia quella esatta. Poiché la dimostrazione è stata adeguatamente esaminata in altre opere recenti, e soprattutto in quelle a cura di Napoleon Chagnon e William Irons, di B. I. Devore e nell’opera di Daniel G. Freedman, non mi impegnerò né in esemplificazioni né in un riesame dettagliato. Mi sia concesso invece di delinearne il contenuto.

Specificità del comportamento sociale umano. Sebbene la variazione delle culture appaia enorme all’osservatore antropocentrico la totalità del comportamento umano non è costituita che da un piccolissimo sottoinsieme dei sistemi sociali realizzati delle migliaia di specie sociali sulla terra. I coralli e altri invertebrati coloniali, gli insetti sociali, i pesci, gli uccelli e i mammiferi non umani esibiscono fra loro una serie di assetti che gli esseri umani hanno difficoltà anche a comprendere, e ancor più a imitare. Anche se dovessimo tentare di riprodurre intenzionalmente alcuni di questi comportamenti sociali ci metteremmo in una situazione inestricabile che probabilmente ci condurrebbe al collasso nervoso e a una rapida vanificazione dello sforzo.

Rapporti filo genetici. I nostri assetti sociali sono estremamente simili a quelli delle scimmie e delle scimmie antropomorfe che per motivi anatomici e biochimici sono i nostri piü stretti parenti viventi. Questo è un risultato scontato se ammettiamo di condividere la nostra discendenza con tali primati, il che sembra essere un fatto assodato, e se il comportamento sociale umano è ancora governato in qualche misura da predisposizioni genetiche nello sviluppo comportamentale.

Conformità con la teoria sociobiologica. Nell’ipotesi di vincoli genetici al comportamento sociale umano, dovrebbe essere possibile scegliere alcuni dei migliori principi di genetica ed ecologia di popolazioni, che costituiscono il fondamento della sociobiologia, e applicarli dettagliatamente alle spiegazioni dell’organizzazione sociale umana. L’ipotesi potrebbe allora non solo spiegare molti dei fatti noti in modo pWi convincente che i tentativi precedenti, ma anche individuare la necessità di nuovi tipi di informazione non concettualizzati dalle sole scienze sociali. Il comportamento cosí spiegato dovrebbe essere il più generale e il meno razionale del repertorio umano, il più lontano dall’influenza esercitata anno dopo anno dai mutamenti di mode e convenzioni. Di fatto esiste un considerevole numero di studi antropologici completati o in corso di realizzazione che soddisfano questi esigenti criteri della scienza ipotetico-deduttiva. Fra essi possiamo citare l’opera di Joseph Shepher sul tabù dell’incesto e i ruoli sessuali; di Mildred Dickeman sull’ipergamia e l’infanticidio motivato da prevenzioni sessuali; di Irons sul rapporto fra la idoneità [fitness] genetica globale e i criteri di successo sociale connessi con la stirpe in una società di pastori; di Chagnon sull’aggressione e la competizione riproduttiva fra gli Yanomanö; di William Durham sul rapporto fra idoneità complessiva e guerra nei Mundurucù e in altre società primitive; di Robin Fox sul rapporto fra idoneità e ruoli parentali; di Melvin Konner e Freedman sull’importanza adattativa dello sviluppo infantile; di James Weinrich sul rapporto fra idoneità genetica e i dettagli della pratica sessuale, compresa l’omosessualità; e di altri ancora.

Variazione genetica nell’ambito della specie. Secondo V. A. McKusick e F. H. Ruddie fino al 1977 più di 1200 loci erano stati localizzati su cromosomi umani mediante la prima analisi di mutazioni biochimiche e di altra natura. Molte di queste mutazioni puntiformi, come pure un crescente elenco di aberrazioni cromosomiche, influiscono sul comportamento. Nel più semplice dei casi riducono la capacità mentale e l’abilità motoria, ma almeno due, la sindrome di Lesch-Nyhan basata su un singolo gene, e la sindrome di Turner, causata dalla soppressione di un cromosoma sessuale, alterano il comportamento in un ristretto numero di manifestazioni riconducibili a specifici meccanismi neuromuscolari. La sindrome adrenogenitale, cagionata da un singolo gene recessivo, pare virilizzare le fanciulle mediante una precoce induzione di sostanze adrenocorticali che imitano l’ormone maschile.

Forme più complesse di comportamento umano sono quasi certamente sotto il controllo di poligeni (geni sparsi su più loci cromosomici) i quali, a turno, producono i propri effetti mediante l’alterazione di un’ampia serie di dispositivi intermediari, dal circuito elementare di neuroni alla coordinazione muscolare e alla « disposizione mentale» indotta dai livelli ormonali. Nella maggior parte dei casi il ruolo dei poligeni comportamentali può venire valutato, ma solo quantitativamente, mediante l’attenta utilizzazione di studi su gemelli e ugh adottivi. Il metodo più frequentemente impiegato è quello di confrontare la somiglianza fra gemelli identici, la cui identità genetica è certa, con la somiglianza fra gemelli fraterni, i quali non sono geneticamente più prossimi dei comuni fratelli germani. Quando la somiglianza fra gemelli identici risulta maggiore, la differenza fra le due specie di gemelli viene attribuita all’ereditarietà. Servendosi di queste tecniche e di altre affini, i genetisti hanno addotto le prove di una considerevole quantità di influenza ereditaria sullo sviluppo di una molteplicità di tratti che influiscono sul comportamento sociale, comprendenti l’abilità nel calcolo, la facilità di parola, la memoria, i tempi di acquisizione del linguaggio, la costruzione delle frasi, l’abilità percettiva, l’abilità psicomotoria, l’estroversione-introversione, l’omosessualità, il momento del primo manifestarsi dell’attività sessuale, e certe forme di nevrosi e di psicosi, comprese la sindrome maniaco-depressiva e la schizofrenia.

Nelle opere pubblicate i risultati mostrano un punto debole che li rende per la maggior parte meno che definitivi: ordinariamente i gemelli identici vengono trattati dai genitori in modo più simile che i gemelli fraterni. La loro istruzione è più strettamente parallela, vengono vestiti in modo più simile, e cosi via. In mancanza di verifiche più precise, la maggior somiglianza dei gemelli identici potrebbe, dopo tutto, essere dovuta alle influenze ambientali e non alla loro identità genetica. Tuttavia, per tener conto di questo fattore aggiuntivo, sono stati iniziati nuovi e più complessi studi. J. C. Loehlin e R. C. Nichols, per esempio, hanno analizzato numerosi aspetti degli ambienti e delle prestazioni di 850 gruppi di gemelli che nel 1962 sostennero l’esame per la National Merit Scholarship. Si tenne conto della più remota storia dei soggetti come anche degli atteggiamenti e delle pratiche di allevamento dei genitori. I risultati dimostrarono che il trattamento, generalmente più simile, riservato ai gemelli identici non può spiegare la loro ancor maggiore somiglianza nelle capacità in generale, nelle caratteristiche della personalità, o perfino negli ideali, nelle aspirazioni o negli interessi professionali. E evidente che o le somiglianze si basano in gran parte sull’identità genetica, oppure erano al lavoro altri agenti ambientali che rimasero celati a Loeblin e Nichols.

La conclusione complessiva che posso trarre dalle informazioni esistenti è che l’Homo sapiens è una tipica specie animale in rapporto alla qualità e all’ampiezza della diversità genetica che influisce sul suo comportamento. Ritengo inoltre che presto saremo in grado di localizzare e distinguere geni specifici che alterano le più complesse forme di comportamento sociale. Ovviamente, gli alleli scoperti non determineranno differenti dialetti o modi di vestire. Più probabile che essi operino mutamenti misurabili attraverso i loro effetti sulla phi o meno pronta accettazione delle mode, sulla capacità cognitiva e neuromuscolare e sui tratti della personalità più sensibili alla mediazione degli ormoni. Se gli studiosi di scienze sociali e i sociobiologi sceglieranno in qualche modo di ignorare questa linea di ricerca, assisteranno presto all’inattesa intrusione degli studiosi di genetica umana. L’intenso interesse per la genetica medica, ora alimentato da nuovi metodi quali la separazione elettroforetica delle proteine e la rapida ricombinazione sequenziale degli aminoacidi, ha portato con sé un’accelerazione delle scoperte nel campo dell’ereditarietà umana che avrà certamente profonde conseguenze per la genetica del comportamento sociale.

Geni e riduttivismo metodologico.

Desidero ora discutere da un punto di vista generale i modi in cui parecchie tradizioni di pensiero cosI ben rappresentate dagli altri studiosi che hanno contribuito a questo volume potrebbero venire conciliate con l’approccio biologico relativamente rigido che ho fino a ora adottato.

La prima area di conflitto risolvibile è il rapporto dei geni con la cultura. Molti studiosi di scienze sociali non vedono alcuna utilità nella sociobiologia perché sono persuasi che la variazione fra le culture non abbia una base genetica. La loro premessa è corretta, la conclusione errata. Faremmo bene a ricordare il detto di Rousseau, secondo il quale coloro che vogliono studiare gli uomini dovrebbero restar loro vicini, mentre coloro che vogliono studiare l’uomo dovrebbero osservano da lontano. Lo studioso di scienze sociali è interessato alle variazioni del comportamento, spesso microscopiche ma importanti, che quasi tutti attribuiscono concordemente alla cultura e all’ambiente. Il sociobiologo è interessato agli aspetti più generali della natura umana e alle limitazioni esistenti nella variazione causata dall’ambiente. Egli è particolarmente interessato al fatto che, sebbene tutte le culture considerate assieme costituiscano una notevolissima quantità di variazione, la somma dei loro contenuti è di gran lunga inferiore a quella manifestata dalle restanti specie di animali sociali. Confrontando gli aspetti diagnostici dell’organizzazione umana con quelli di altri primati il sociobiologo mira a ricostruire la più remota storia evolutiva dell’organizzazione sociale e a individuarne i residui generici nelle società contemporanee. Tale approccio completa quello delle scienze sociali e non ne sminuisce in alcun modo l’importanza – tutto il contrario.

Talvolta coloro che stanno immersi nel ricco patrimonio di conoscenze delle scienze sociali rifiutano la sociobiologia umana per il suo riduttivismo. Ma quasi tutti i grandi progressi scientifici sono stati compiuti mediante la riduzione, sotto forma di congetture spesso ardite e momentaneamente premature. La fisica teoretica ha trasformato la chimica, la chimica ha trasformato la biologia cellulare e la genetica, la teoria della selezione naturale ha trasformato l’ecologia – tutte mediante un riduttivismo drastico che all’inizio appariva inadeguato al compito. II riduttivismo è un metodo mediante il quale nuovi meccanismi e processi relazionali vengono portati alla luce. Nelle storie dei casi di maggior successo della scienza ipotetico-deduttiva, le affermazioni sono espresse in forme suscettibili di elaborazione in modelli precisi e sperimentabili. L’altro aspetto della riduzione, l’antitesi della tesi, è la sintesi. Man mano che i nuovi principi e le nuove equazioni vengono convalidati da ripetute sperimentazioni essi vengono impiegati nel tentativo di ricostruire la gamma completa dei fenomeni presentati dalla materia. Karl Popper ha giustamente fatto osservare che il riduttivismo filosofico è errato, ma quello metodologico è necessario al progresso della scienza. Ecco come ho cercato di esporre per sommi capi il ruolo della riduzione sociobiologica in «Daedalus » (autunno 1977):

La spinta a essere riduttivisti è un comprensibile tratto umano. Ernst Mach l’ha sintetizzata nella seguente definizione: «La scienza può venire considerata come un problema molto piccolo consistente nella più completa esposizione dei fatti col minimo dispendio possibile di pensiero».

Questa è l’opinione di un fautore dell’antidisciplina, impaziente di accantonare la complessità e di proseguire nella ricerca di concetti più fondamentali. Le leggi dell’antidisciplina sono necessarie a qualsiasi disciplina; esse costituiscono una sfida e impongono una ristrutturazione mentalmente più efficiente; ma non bastano ai suoi scopi. La biologia è la chiave per interpretare la natura umana, e gli studiosi di scienze sociali non possono permettersi d’ignorare i suoi principi emergenti. Ma le scienze sociali sono potenzialmente ben più ricche di contenuto. Alla fine esse faranno propri i concetti più rilevanti della biologia e, al confronto, questa apparirà sempre più povera.

Basi fisiche della mente.

Il più forte caposaldo della controbiologia sembra essere il mentalismo. E difficile, e per taluni impossibile, immaginare l’esistenza della mente e la creazione del pensiero simbolico mediante processi biologici. La mente umana – si afferma spesso – è una proprietà emergente del cervello non più legata al controllo genetico. Tutto quanto i geni possono determinare è la formazione di un cervello libero da ogni vincolo.

Ma il rapporto fra geni, cervello e mente è solo una difficoltà pratica, e non teoretica. La neurobiologia e la psicologia cognitiva hanno già prodotto modelli che lasciano intravedere quanto meno la possibilità che la mente sia un epifenomeno di circuiti neuronali, complessi ma essenzialmente convenzionali. La coscienza potrebbe consistere senz’altro in un gran numero di astrazioni codificate, alcune alimentate scalarmente mediante una gerarchia di centri di integrazione il cui ordine inferiore è costituito dalle cellule sensitive primarie, mentre altre si formano internamente per assumere l’aspetto di tali gerarchie. Il cervello – che nella metafora di Charles Sherrington (1940) è il « telaio incantato dove milioni di spole lampeggianti tessono una trama che si dissolve » - non solo sperimenta scenari trasmessigli dai canali sensoriali, ma li crea mediante la rievocazione e la fantasia. Nell’esplicare tale attività il cervello dipende sostanzialmente dall’effetto scatenante dei simboli verbali. Esso si basa anche su quelli che sono stati chiamati piani o schemi, configurazioni nell’ambito del cervello, d’origine innata o tratte dall’esperienza, con la quale viene confrontato l’in put delle cellule nervose. Il confronto fra le forme reali o attese può dar luogo a uno o più fra parecchi effetti. Può contribuire alla «disposizione» mentale, il prediligere certi tipi di informazione sensoriale ad altri. Può dar luogo al rilevante fenomeno della percezione gestaltica, nel quale la mente fornisce i dettagli mancanti attingendo all’informazione sensoriale effettiva al fine di completare una forma ed effettuare una classificazione. E può servire come base fisica della volontà: la mente può essere guidata nelle proprie azioni da anelli di retroazione che vanno dagli organi sensori agli schemi del cervello, all’apparato neuromuscolare e agli organi sensori e di nuovo indietro fino a che gli schemi «sono certi » che l’azione corretta è stata compiuta. La mente potrebbe essere una molteplicità di schemi alternativi, programmati per competere per il controllo dei centri decisionali, la cui potenza singola aumenta e diminuisce secondo la relativa urgenza dei bisogni del corpo segnalati attraverso altri collegamenti nervosi che li trasmettono verso l’alto attraverso i centri cerebrali inferiori. La mente potrebbe funzionare più o meno in questo modo, oppure no. Quanto io affermo è la realissima possibilità che tutti i componenti noti della mente, compresa la volontà, abbiano una base neurofisiologica subordinata all’evoluzione genetica per selezione naturale. Non vi è alcun motivo a priori per il quale una qualunque parte dei fondamenti del comportamento sociale umano debba venire esclusa dal campo dell’analisi sociobiologica.

Convergenza.

Alcuni critici hanno sollevato obiezioni contro lo stabilire analogie fra il comportamento animale e quello umano, specialmente quando ciò comporti l’uso della stessa terminologia per descrivere fenomeni comuni alle varie specie. Questa riserva mi ha sempre colpito per la sua inconsistenza. Le definizioni e limitazioni dei concetti di analogia e omologia sono state ampiamente studiate dai biologi evoluzionisti, ed è difficile immaginare perché lo stesso ragionamento non possa essere esteso, con la debita cautela, alla specie umana. Noi già parliamo dell’occhio del polpo e dell’occhio umano, della copulazione in un insetto e della copulazione nell’uomo, dell’apprendimento nel lombrico e dell’apprendimento nell’uomo, anche se in ciascuno di questi casi le due specie si collocano in differenti superphyla e i tratti elencati si sono evoluti indipendentemente. Gli interrogativi interessanti sono, in pratica, i gradi di convergenza e i processi di selezione naturale che resero tale convergenza cosi stretta. Quando i biologi confrontano l’altruismo dell’ape operaia mellifica con l’altruismo umano, nessuno pensa seriamente che essi siano basati su geni omologhi o che siano identici nei dettagli. La schiavitù praticata dalle formiche Polyergus e Strongylognathus assomiglia alla schiavitù umana in alcuni aspetti generali e differisce da essa sia in altri aspetti che in gran parte dei dettagli della sua attuazione. Usando lo stesso termine per tali confronti, il biologo richiama l’attenzione sul fatto che si è dato un certo grado di convergenza, e sollecita un’analisi di tutte le cause di somiglianza e differenza. Esiste un termine ellenistico per la schiavitù fra gli insetti – dulosis – ma il suo uso al di fuori dell’entomologia non solo complicherebbe il linguaggio ma ritarderebbe proprio quell’analisi comparata che riveste il massimo interesse.

Parlare la lingua comune.

Sono estremamente sconcertato dal sentirmi occasionalmente obiettare che la sociobiologia distoglie la nostra attenzione dalle reali necessità del mondo. Ci si domanda: Come possiamo preoccuparci delle origini della natura umana quando la spada nucleare incombe su di noi? Quando la gente muore di fame nel Sahel e nel Bangladesh, e i prigionieri politici marciscono nelle carceri argentine? Per converso, si può rispondere: Vogliamo realmente sapere, in modo approfondito e con un certo grado di sicurezza, perché ci preoccupiamo? E dopo che questi problemi saranno risolti, che cosa avverrà? Ovunque, il più alto obiettivo dichiarato dai governi è la soddisfazione dei bisogni umani al di sopra del livello animale e la realizzazione del potenziale umano. Ma che cos’è un bisogno soddisfatto e fino a quale limite il potenziale può essere esteso? La mia opinione è che solo una più profonda comprensione della natura umana, che deve svilupparsi dalla ricerca neurobiologica sul cervello e dalla ricostruzione filogenetica delle proprietà specifiche del comportamento della specie umana, possa assicurare all’umanità il quadro di cui abbisogna per formulare gli scopi sociali più elevati.

L’interesse destato dalla sociobiologia scaturisce dall’attesa del ruolo che essa ricoprirà in questa nuova ricerca di carattere umanistico. La sua potenziale importanza al di là della zoologia è nella sua posizione logica come disciplina di collegamento fra le scienze naturali da un lato e le scienze sociali e umane dall’altro. Per anni i maggiori esponenti delle scienze naturali nel mondo dell’alta cultura occidentale sono stati i fisici, gli astronomi, i genetisti e gli studiosi di biologia molecolare, studiosi facondi e convincenti la cui comprensione dell’evoluzione del cervello e del comportamento sociale fu, disgraziatamente, minima. La loro percezione dei valori e della condizione umana fu quasi del tutto intuitiva, e quindi appena migliore di quella di un profano intelligente. La biologia è stata impiegata come scienza che spiega il corpo umano; essa si interessa a manifestazioni tecnologiche quali la sconfitta delle malattie, la rivoluzione agricola, il flusso energetico negli ecosistemi e l’analisi costo-benefici della fusione genica. Gli studiosi di scienze naturali, complessivamente, hanno ammesso che il comportamento sociale non è biologicamente strutturato, ed è quindi dominio incontrastato delle scienze sociali. Da parte loro, molti degli studiosi di scienze sociali hanno riconosciuto che la natura umana ha un fondamento biologico, pur considerandolo d’interesse marginale rispetto alla splendente varietà di culture che attrae la loro attenzione professionale.

Affinché il mitico divario fra le due culture venga realmente colmato, la teoria sociale dovrà includere le scienze naturali fra i propri fondamenti e, perché ciò avvenga, la biologia dovrà occuparsi sistematicamente del comportamento sociale. A questa competenza ci stiamo ora avvicinando mediante il duplice progresso compiuto dalla neurobiologia, che spera arditamente di spiegare la base fisica della mente, e dalla sociobiologia, che mira a ricostruire la storia evolutiva della natura umana. La sociobiologia, in particolare, è ancora una scienza rudimentale. La sua pertinenza ai sistemi sociali umani è ancora ampiamente inesplorata. Ma nel consesso delle discipline è quella in cui è riposta la maggior speranza di parlare la lingua comune.


Tra Ereditarietà e Cultura

Un dibattito fra Edward O. Wilson e Marvin Harris. Moderatrice: Ann Carroll pp. 149-163


CARROLL La sociobiologia è stata definita una delle dottrine più incendiarie emerse negli ultimi decenni dal mondo universitario, e sono persuasa che ogni qualvolta si presenta un problema cosi controverso, un problema che ci riguarda tutti tanto ampiamente, sorgono giudizi erronei nell’immaginazione popolare.

Per incominciare, dottor Wilson, vuole darci una definizione di sociobiologia?

WILSON Si tratta di una disciplina, ben radicata nell’ambito della biologia, che esiste da circa venticinque anni. Il mio libro ha contribuito appunto a sintetizzarla e organizzarla come materia di studio in fase di sviluppo. E’ uno studio di tutti gli aspetti del comportamento sociale in ogni genere di organismi fino – e, naturalmente, questa è la parte difficile – agli esseri umani. Fino ad ora si è concentrato sugli animali e sui principi e meccanismi fondamentali dell’organizzazione delle società animali. Non si tratta di una teoria specifica del comportamento umano. Essa è aperta a varie possibilità d’interpretazione fra le tante che concernono il comportamento umano.

C. Ma, per quanto concerne i principi fondamentali, riterrebbe corretto affermare che il comportamento sociale è controllato dai geni?

W. Negli organismi inferiori è proprio cosí. Se lo sia negli esseri umani è ora argomento di accesa discussione.

HARRIS Ritengo che la maggioranza degli zoologi operanti nell’area della sociobiologia pensi che il comportamento umano costituisca solo un piccolissimo sottoinsieme di tutti i sistemi sociali realizzati tra migliaia di specie di animali sociali. E in questo senso considerano vincolato il comportamento umano.

Essi – ed io con loro – ritengono pure che la natura umana, vale a dire le predisposizioni, le costrizioni emotive, i circuiti ormonali di retroazione che influiscono sul comportamento sociale degli esseri umani, sia notevolmente strutturata; e lo sia phi di quanto molti studiosi di scienze sociali abbiano mostrato di comprendere o almeno posto in evidenza nei propri trattati. Tale strutturazione è compatibile con la teoria evoluzionistica.

C. Come antropologo, dottor Harris, qual è la sua reazione?

H. La mia reazione è che abbiamo già introdotto una falsa dicotomia che inevitabilmente confonderà chiunque sia interessato al significato della sociobiologia dal punto di vista dell’antropologia.

Durante gli ultimi cento anni gli antropologi si sono impegnati nella dimostrazione della continuità fra gli animali infraumani e l’animale umano. E nessun antropologo negherebbe l’esistenza di una natura umana. Su questo piano, la nostra disputa si ridurrebbe a questo: quali tratti specifici includere nella natura umana.

Vi è, tuttavia, un’altra dimensione della sociobiologia, quella che cerca di spiegare in qual modo varia il repertorio di risposte sociali di determinate popolazioni. Qui il dottor Wilson non sarà forse d’accordo con molti dei suoi colleghi, avendo egli stesso affermato di ritenere che il fattore più importante nel determinare la vita sociale degli uomini è la cultura piuttosto che i geni. Noi dobbiamo separare queste due specie di sociobiologia, e poi dobbiamo anche renderci conto che gli antropologi concordano ampiamente sull’esistenza di una natura umana. Ritengo però che il dottor Wilson e io non ci troveremmo d’accordo su che cosa rientri nella natura umana.

W. Sono certo che qualora scendessimo ai dettagli di ciò che costituisce la natura umana e dei fattori che la vincolano, vi sarebbe un’area di disaccordo.

Orbene, io sono attratto dall’evoluzionismo culturale del professor Harris e trovo che il suo approccio ad alcuni dei complessi problemi della religione e della gerarchia sociale nelle civiltà in via di sviluppo è coraggioso e originale, specie nel contesto dell’antropologia contemporanea. So che egli vede questo processo esclusivamente come un processo di evoluzione culturale. Troverei difficile discuterne, e ciò che in realtà mi interessa di più è l’aspetto complementare della ricerca che è il fondamento biologico delle predisposizioni nel comportamento umano, quali, diciamo, la propensione a mangiare carne, a costituire una gerarchia, la xenofobia, il territorialismo, l’incesto, i tabù e così via.

H. Vorrei separare queste due nozioni: che cosa abbiamo in comune coi primati in generale, e che cosa caratterizza il biogramma umano – qual è l’aspetto della vita umana controllato dal caratteristico insieme di geni posseduto dagli umani.

W. Mi sembra che vi sia un lungo elenco di questi tratti umani e che un’ampia percentuale di essi sia condivisa dai primati. Per esempio, le espressioni facciali degli esseri umani appaiono davvero strettamente collegate, e in molti casi paragonabili, a quelle osservate negli scimpanzé.

H. D’accordo, consideriamo le espressioni facciali. Non v’è dubbio che, come conseguenza dell’evoluzione della muscolatura facciale, i primati e gli umani hanno un inconsueto grado di mobilità facciale e di abilità nell’esprimere emozioni col viso.

Dato per certo che esiste una base genetica per la gamma delle espressioni facciali, non è forse vero che con pochissimo addestramento sociale gli individui sono capaci in particolari tradizioni culturali – di dissimulare del tutto – vincere, anzi – qualunque predisposizione genetica possa esistere? Non è forse vero che tante differenti culture usano le espressioni facciali in modi opposti? Non possiamo forse imparare rapidamente a dissimulare le nostre emozioni, a controllare le nostre espressioni facciali? Se le cose stanno così, allora la componente genetica sembrerebbe essere – in questo caso – meno importante delle componenti culturali.

W. Penso comunque che la gamma di espressioni sia molto limitata. Senza dubbio essa è modificabile nella misura in cui diviene una parte molto importante del repertorio di comunicazioni, ed è certo possibile rovesciarne il significato con qualche difficoltà. D’altra parte vi sono studi che mostrano come sia passibile la comunicazione transculturale – diciamo tra le culture europee e americane alfabetizzate e le culture prealfabetiche della Nuova Guinea – con una precisione dell’8o%, servendosi delle emozioni fondamentali, inclusi il disgusto, la felicità, la sorpresa, la paura e un paio d’altre.

Perciò, sebbene una certa flessibilità esista, essa è limitata e tendono a emergere moduli fondamentali. In tal modo ritengo che ora possiamo servircene per confrontare i differenti punti di vista del biologo e dell’antropologo.

L’antropologo, com’è ovvio, è propriamente interessato a queste sfumature e ai cambiamenti possibili mediante la formazione culturale. Il biologo tende a ridurli o a ricercare i moduli comuni, e di conseguenza a individuarne le origini in termini di evoluzione genetica. Ritengo che i due approcci siano complementari, nel senso che il biologo compara la specie umana con tutte le altre specie, dove sia opportuno, cioè segue un approccio comparativo, trascurando gran parte dell’importante variazione culturale. L’antropologo è interessato invece all’origine e al significato di tale variazione.

C. Un altro dei principi centrali della sociobiologia che mi interessa è il modo di spiegare l’altruismo affermando che si tratta di egoismo genetico, volto a proteggere la propria stessa specie. Può spiegarlo più diffusamente?

W. Qui tocchiamo una materia riguardo alla quale credo che la sociobiologia biologica – la sociobiologia generale – possa offrire un contributo all’antropologia a livello teorico, concorrendo a definire ciò che ho chiamato altruismo a oltranza in contrapposizione con l’altruismo moderato: il primo è basato su particolarissimi tipi di catena genetica tramite l’aiuto ai parenti e il secondo consiste nella reciprocità – il ben noto contratto sociale che governa tanta parte del comportamento umano.

C. Tu ti curi di me e io di te?

W. Sì. E’ evidente che il mistero dell’evoluzione dell’altruismo a oltranza – l’altruismo unilaterale – è risolto sul piano teorico. I biologi delle popolazioni hanno definito, con crescente precisione, le condizioni in cui tende a presentarsi: quanti parenti devi beneficare e in quale misura; quanti gruppi debbano estinguersi per beneficare altri gruppi che possiedono l’altruismo nel proprio ambito e quindi hanno maggiore coesione, e cose simili. In questo modo è stata costruita una struttura teorica che ritengo possa venire eventualmente applicata allo studio delle popolazioni umane per contribuire alla distinzione fra queste varie componenti dell’altruismo – da una parte L’oltranzismo unilaterale e dall’altra il contratto sociale.

C. So che le è giunta una lettera da un giovane molto turbato il quale aveva ricevuto una medaglia d’oro della Fondazione Carnegie per aver salvato una persona dall’annegamento, ed era molto preoccupato al pensiero che lei o altri sociobiologi poteste giudicare la sua azione come qualcosa di geneticamente predeterminato. Come gli ha risposto?

W. Spiegando che negli esseri umani l’altruismo è basato su impulsi, su ricompense emotive, sebbene comporti decisioni coscienti.

Per esser definito altruista – almeno in senso biologico – è sufficiente impegnarsi in un comportamento che sacrifica se stesso a beneficio di altri. Negli animali inferiori ciò può essere una reazione automatica cui non si collega alcun genere di riflessione associativa conscia. Noi esseri umani, in gran parte del nostro comportamento, siamo consci delle conseguenze e le calcoliamo; tuttavia prendiamo decisioni in base a precetti morali guidati essi stessi in larga misura dalle nostre reazioni emotive.

H. Penso che quando i principi sociobiologici vengono applicati nel modo corrispondente al calcolo del gene egoista al fine di spiegare vari aspetti della vita umana, tali spiegazioni risultino superflue rispetto a spiegazioni molto più semplici a livello socioculturale. Tecnicamente, ciò che qui abbiamo appena fatto viene chiamato riduzionismo. Abbiamo ridotto a livello genetico un fenomeno perfettamente intelligibile e spiegabile a livello culturale. E sebbene possa esservi una corrispondenza fra i due, mi pare che se uno è in grado di spiegare un comportamento quale il salvare una persona che sta annegando, o l’aiutare i vecchi, o uno qualunque dei comportamenti che corrispondono ai nostri codici morali, in termini puramente culturali, egli possiede un sistema molto più efficiente per spiegare perché la gente si comporta come si comporta, che non questa scomoda riduzione al livello generico.

W. Vorrei replicare che entrambe le spiegazioni sono necessarie nello stesso modo in cui, laddove il fisiologo è capace di spiegare la sensazione di dolce in termini di fisiologia sensoriale e di circuito del sistema nervoso centrale che raccoglie quell’informazione, all’evoluzionista, o al genetista, si chiede di spiegare innanzitutto perché lo zucchero sa di dolce. In altri termini, perché abbiamo la predisposizione a mangiare zucchero invece che, diciamo, sali d’ammonio.

Nello stesso modo, si può benissimo cercar di spiegare le sfumature del comportamento morale risalendo alle origini dei precetti nello sviluppo comportamentale degli individui. D’altra parte, ritengo che la predisposizione degli esseri umani ad apprendere una cosa in quanto opposta a un’altra, e le costrizioni emotive che a ciò si accompagnano – inducendo una certa convergenza dei codici morali nelle culture del mondo – richiedano una spiegazione genetica.

Mi pronuncerei quindi a favore di una duplice spiegazione: da un lato ciò che i biologi chiamano spiegazione prossima, i meccanismi diretti, dall’altro la spiegazione ultima che è l’origine genetica. In questo caso il riduzionismo, col suo tentativo di pervenire ai fondamenti genetici, è il metodo mediante il quale sono stati realizzati grandi progressi scientifici ma, si ammette, costituisce solo la metà del processo scientifico. Il riduzionismo, per essere realmente efficace, deve essere accompagnato dalla sintesi e quindi dal tentativo di spiegare i fenomeni in tutta la loro ricchezza.

H. Penso che abbiamo girato intorno al problema centrale sull’essenza della natura umana. Da un punto di vista antropologico (ritengo che la maggior parte degli antropologi concorderebbe) è certo che dobbiamo prendere in considerazione la base genetica. Ma noi abbiamo, come specie, qualcosa che nessun’altra possiede, qualcosa di geneticamente determinato – come dice lo stesso Wilson e cioè la nostra capacità di sviluppare linguaggi simbolici aventi la proprietà dell’universalità semantica.

Noi siamo in grado di parlare di qualunque cosa, passata, presente o futura, o di qualunque posto del mondo, a prescindere dal fatto di esserci stati o no. E, in conseguenza di questa capacità, come specie, abbiamo costruito repertori di reazioni apprese nell’ambito di sistemi sociali che non trovano l’uguale in nessun’altra specie. Questa nostra capacità di avere una cultura è genericamente determinata, e, dal mio punto di vista, tale determinazione genetica è la più importante caratteristica della specie umana.

E io credo che nel corso di tutte le migliaia e i milioni di anni durante i quali ebbe luogo la selezione della capacità di possedere repertori culturali, l’altra programmazione genetica – quella specificamente correlata ai repertori di reazioni sociali – debba aver subito un’ulteriore selezione nella misura in cui interferiva con la capacità degli esseri umani di acquisire repertori di reazioni culturali anziché quelle specificamente programmate da particolari geni.

W. Concordo con Harris su questi punti: che l’essere umano è unico; che la cultura è soverchiante e che perciò, in relazione alla teoria sociobiologica, la specie umana è una carta imprevedibile. E ritengo che la misura in cui questi impulsi sono stati sopraffatti sia una questione empirica insoluta. Il sociobiologo è persuaso che esista una sottostruttura abbastanza rigida, sotto forma di predisposizione emotiva all’apprendimento delle regole che canalizzano l’evoluzione culturale, da giustificare ampiamente l’indagine biologica; ma ammette che l’ipertrofia che ne è conseguita intendo l’eccessivo sviluppo di molti tratti esclusivamente umani come conseguenza dell’unicità della presenza di una cultura – è un processo molto difficile da ricondurre alla teoria sociobiologica.

D’altra parte ho l’impressione che gli esseri umani si trovino su un duplice sentiero evolutivo: che il loro itinerario più rapido sia l’evoluzione culturale e, tuttavia, che essi siano giunti a questo punto attraverso l’evoluzione genetica convenzionale. E che per quanto la cultura possa governarci, i geni, comunque, tengono la cultura allaccio. Vale a dire che esistono determinati limiti alla direzione e alla distanza percorribile dall’evoluzione culturale prima che gli imperativi genetici la interrompano. E ritengo ancora che l’estensione e la portata della direzione sia una questione d’interesse empirico.

H. Quando Wilson formula i concetti in questo modo, è impossibile obiettare perché dovremmo tutti convenire di possedere una precisa eredità da primati: abbiamo l’andatura bipede, abbiamo l’eredità dei mammiferi, e tutto ciò confluisce nella costituzione dell’organismo umano. Così, quando Wilson afferma che il nostro comportamento è tenuto al laccio – un laccio genetico – quando il problema è posto in questa forma generica, penso che dovrei concordare con lui. Vorrei che avessimo più tempo per parlare dei particolari, perché, parlando in generale, non è possibile sollevare obiezioni.

C. Ecco un punto sul quale desideravo proprio richiamare l’attenzione, poiché la sociobiologia ha sollevato grandi timori. Wilson ne menziona uno- il timore del dominio maschile – ed anche quello di rivelare che le razze alcune razze – sono inferiori, e che il progresso sociale è impossibile a causa dell’influsso genetico. Dalla sua spiegazione della sociobiologia arguisco che lei non appartiene a quella frangia più radicale che intravede queste possibilità.

W. No, questa non è assolutamente la mia interpretazione dell’evidenza disponibile. La mia interpretazione dell’evidenza – relativa alle differenze fra i sessi, per esempio – è che fra femmine e maschi all’inizio dello sviluppo vi sia mediamente una leggera differenza di predisposizione. Esaminando l’intera gamma delle prove, mi pare di poter sostenere con fermezza l’esistenza di una leggera predisposizione dei maschi al comportamento individualistico: vagare di più, essere più disposti a impegnarsi in giochi violenti dai primi stadi del gioco sociale in poi.

Così, si potrebbe dire che il ramoscello è fin dall’inizio leggermente piegato.

C. Ma lei lascia un bel po' di spazio.

W. Dico che il ramo è piegato solo un po’, e ritengo che l’evidenza dimostri ampiamente che quella leggera curvatura può venire rettificata senza eccessiva pressione culturale, rendendo possibile fare qualcosa che aprirebbe la strada a società realmente egualitarie sul piano sessuale.

H. Mi è piaciuto il paragone col ramoscello piegato che lei ha appena fatto. Il ramoscello è leggermente piegato in un modo o nell’altro, ma in questo caso potrebbe essere raddrizzato senza problemi di sorta. Penso che quasi tutti i casi specifici da lei menzionati nel suo libro, Sociobiologia, e nei suoi articoli più recenti, siano dello stesso ordine. In altre parole, potrebbe esservi qualche leggera curvatura in una direzione, ma le culture non hanno alcuna difficoltà a piegare i ramoscelli nell’altro senso se vi sono sufficienti motivi ecologici, materiali e pratici perché ciò si debba fare.

Incidentalmente, su questo particolare problema delle caratteristiche infantili dei due sessi, viene ora pubblicato del materiale interessantissimo, il quale indicherebbe che nell’infanzia i maschi sono più attivi e mostrano una maggiore aggressività che le femmine.

Ritengo che l’accento – ai fini della strategia di ricerca – non debba essere posto nel tentare di trovare le determinanti genetiche, bensì nell’isolare quelle culturali e comportamentali prima di passare al livello genetico.

W. Perché non entrambe contemporaneamente?

H. Perché le risorse sono limitate. Io ritengo che una volta che si inizi a distogliere lo studio degli esseri umani da questo mondo infinitamente complesso dei prodotti culturali per avvicinano al livello genetico, in un certo senso si pongano ostacoli sulla via d’una spiegazione delle cause che determinano differenze e somiglianze culturali. Sono queste, secondo me, che al momento dovrebbero essere il nostro principale obiettivo.

W. Penso che abbiamo trovato il punto di disaccordo. Voglio anche esprimere il mio dissenso sulla sua affermazione che queste predisposizioni possono essere annullate senza alcun inconveniente.

H. Qual è la sua opinione sulla poliginia?

W. Penso che sia facilmente correggibile. Ma ritengo, vede, che si tratti di una questione empirica, e che sarebbe prematuro affermare che queste cose si sistemano facilmente. Per esempio, l’esperienza nei kibbutzim indica che forse non sono così facilmente superabili. In questo caso, sa, la tendenza verso...

H. L’incesto?

W. No, mi riferivo alla differenziazione dei ruoli sessuali.

H. Sì, d’accordo, ma c’è anche la tendenza a non accoppiarsi fra consanguinei, che perciò sono esogami.

W. Una tendenza molto forte. Penso che lei abbia richiamato l’attenzione proprio su un caso in cui non si potrebbe piegare il ramoscello senza che...

H. E’ piegato da sempre.

W. Sì, ma con conseguenze catastrofiche.

H. D’accordo, è ovvio che laddove l’incesto sia praticato continuamente si verificherà una deleteria retroazione biologica.

W. Ed anche psicologica.

H. Ma l’affermazione che questo sia sotto controllo generico viene a cadere dinanzi all’impressionante quantità di prove riguardanti l’altissimo tasso di incesto riferito dagli assistenti sociali, i quali parlano dì due milioni di casi all’anno. L’interrogativo è come mai non vi sia stata alcuna società che abbia sviluppato regole atte a promuovere l’incesto. E ciò, penso, ci indirizzerebbe verso un motivo culturale piuttosto che genetico. Se vi fosse stato motivo di approvare una legge, un qualche motivo culturale per approvare una legge che rendesse obbligatorio l’incesto, penso che il ramoscello sarebbe stato completamente raddrizzato, o piegato dall’altra parte.

W. Ne dubito. Ritengo che esistano irresistibili ragioni genetiche per evitarlo. Penso anche che nei primi stadi di sviluppo esista una fortissima predisposizione intesa a evitarlo automaticamente. E se uno tentasse di superarla con mezzi culturali, è probabile che si imbatterebbe in questa fortissima resistenza che gli esseri umani oppongono nelle loro prime fasi di sviluppo, oltre a collezionare disastri in termini di difetti generici.

H. Si, sarei d'accordo su questo. Ma il disastro che si verificherebbe avrebbe una retroazione a livello culturale, non a livello generico.

In altri termini, la prima cosa che accadrebbe sarebbe che...

W. Cambierebbero idea.

H. Certo, cambierebbero idea. In altri termini, sarebbe questa una predisposizione forse presente, ma suscettibile dl venire completamente rivolta nell'altro senso; ma in questo caso avrebbe conseguenze deleterie a livello culturale. Cosicché, presumibilmente, il motivo per cui non abbiamo società che caldeggiano leggi a favore dell'accoppiamento incestuoso è che quando ciò venne tentato ebbe conseguenze fortemente deleterie, alcune delle quali genetiche, e molte altre psicologiche.

In questo modo l'adattamento sarebbe avvenuto a livello culturale, e non vedo la necessita di ipotizzare un gene che controlli se uno vuole o no compiere incesto.

W. Sennonché vi sono regole d'apprendimento evidentemente programmate, ciò che gli psicologi chiamano apprendimento preparato. La norma inibitrice dell'incesto, mirante a evitare che la gente lo compia, con la quale uno è cresciuto a stretto contatto nei primi sei annidi vita, sembra essere un esempio di tali regole di apprendimento. Ogni qualvolta uno ha una forte predisposizione irrazionale ad apprendere una cosa che è l'opposto di un'altra, ciò induce a pensare che l'evoluzione abbia costruito una protezione al di là del mero calcolo razionale a livello pienamente culturale.

H. Se questa protezione c'è mi sembra debolissima, visto che deve essere sostenuta dalle durissime punizioni e sanzioni imposte dalla cultura. Mi è difficile credere all'esistenza di un insieme di geni che definiscono i limiti dell'accoppiamento degli esseri umani, dato che abbiamo una così enorme varietà di comportamenti sessuali, di attività copulatorie e di forme di matrimonio. Trovo molto difficile accettare l'ipotesi dell'esistenza di un insieme di geni per la sua ridondante complessità. Una delle difficoltà dell'approccio sociobiologico a questi problemi è il dover parlare di geni ipotetici. Non sono il tipo di geni di cui veniamo a conoscenza quando ci occupiamo ad esempio di gruppi sanguigni. Il problema col quale ci stiamo confrontando qui è se possiamo ragionevolmente pensare che fenomeni quali l'accoppiamento, l'incesto e l'organizzazione sociale, i vari sistemi politici e simili, siano controllati da un insieme di geni la cui frequenza dovrebbe differire all'interno delle popolazioni.