Ian Tattersal

Il Cammino dell’uomo

Garzanti, Milano 2004

Dal capitolo 6 (pp. 182-189). Critica della psicologia evoluzionistica


La nostra eredità evolutiva

Comunque sia la natura umana, una delle sue caratteristiche fondamentali sembra essere il desiderio di conoscere meglio noi stessi, e in particolare di spiegare i nostri comportamenti spesso bizzarri. Un approccio recentemente diventato di moda e ampiamente pubblicizzato è quello basato sulla visione ultradarwinista di George Williams del processo evolutivo, affinata dal riferimento ai concetti di selezione di parentela e di gene egoista, dei quali ho già discusso. La disciplina che ne risulta chiamata «psicologia evoluzionistica", vale a dire la sociobiologia applicata alla nostra specie pretende di spiegare una parte notevole dei comportamenti umani facendo riferimento alla nostra eredità genetica e sottintendendo quindi che, in un senso molto concreto, siamo prigionieri del nostro passato evolutivo. Naturalmente, in senso generale il nostro passato è sempre con noi, come testimoniano le sofferenze di chi è affetto da ernia del disco, un'inevitabile conseguenza dell'adattamento alla postura eretta della colonna vertebrale di un animale in precedenza quadrupede. Ma la natura emergente delle capacità umane rende più che sospetta l'idea che i nostri comportamenti siano geneticamente programmati fin nei minimi dettagli. Tuttavia vale la pena di soffermarsi brevemente sulla psicologia evoluzionistica. E’ bene farlo, in parte perché idee di questo tipo risultano molto attraenti per una specie come la nostra che ama le spiegazioni semplici e generiche, con il risultato che questo approccio alla comprensione di noi stessi ha ricevuto molta pubblicità occulta. In secondo luogo perché, ovviamente, è chiaro che i nostri comportamenti non possono essere del tutto indipendenti dal corredo genetico. Qui è importante tenere presente che, mentre si stanno rapidamente accumulando prove della stretta ereditarietà di molti caratteri correlati alla personalità dell'individuo (in quanto contrapposti a specifici comportamenti), è ingannevole trarre conseguenze generali valide per la nostra specie nel suo insieme, come fanno invece gli psicologi evoluzionisti.

Per costoro, lo studio dei comportamenti umani - quelli universalmente diffusi, non le loro molteplici manifestazioni sociali - inizia con la ricerca degli "adattamenti mentali» originatisi, durante il nostro passato di specie, attraverso la selezione naturale. Quando certi stimoli sociali producono un particolare risultato comportamentale (o tendono a produrlo, oppure sono percepiti come se lo facessero), l'interrogativo invariabilmente posto è: «A quale tipo di vantaggio evolutivo questa particolare risposta ha dato origine nel corso della nostra evoluzione?" (e ciò per gli psicologi evoluzionisti equivale a chiedersi: in un contesto di cacciatori-raccoglitori?). Qui ci troviamo dinanzi a una concezione estremamente riduzionistica del processo evolutivo, secondo la quale praticamente tutti i caratteri della specie - in questo caso, la miriade di comportamenti umani - sono stati direttamente controllati dalla selezione naturale nel corso di migliaia di generazioni (fino a quando tale processo cessò misteriosamente con la Rivoluzione agricola). Mentre, come abbiamo visto, questo scenario di tipo sociobiologico evade la multiforme complessità del processo evolutivo, la sua elegante semplicità attrae la mente umana. Inoltre la psicologia evoluzionistica, nel respingere gli orrori del "darwinismo sociale" con tutte le conseguenze indesiderabili che ne derivano - per esempio l'eugenetica - ha ottenuto l'utile risultato di rendere ancora una volta ammissibile la discussione sui comportamenti umani in termini biologici. Per equità bisogna però sottolineare che la maggior parte degli psicologi evoluzionisti si rende perfettamente conto del ruolo dell'esperienza individuale e dei vincoli sociali o della loro mancanza nel modellare il comportamento.

Nella ricerca degli adattamenti mentali, gli psicologi evoluzionisti non perdono occasione di riferirsi a un "ambiente ancestrale" nel quale si sarebbero evoluti i nostri adattamenti comportamentali. Sostengono che è irrilevante dove o in che modo viviamo attualmente, perché le società industriali, e anche quelle agricole, sono fenomeni molto recenti. Inoltre, secondo loro, per trovare la spiegazione degli adattamenti mentali dovremmo guardare al nostro passato di cacciatori-raccoglitori. Come ho già dichiarato, i problemi che qui si pongono sono moltissimi, ma ne prenderò in considerazione solo due. Innanzitutto, sebbene lo. studio dell'evoluzione umana ci abbia insegnato che la nostra specie si originò in un'unica area relativamente ristretta, e quindi in un ambiente ben specifico, il nostro successo è stato determinato dalla capacità di colonizzare altri ambienti e di scacciare le specie concorrenti da tutti gli habitat umani. Evidentemente la natura umana ha poco a che vedere con l'adattamento a un ambiente particolare, sia esso sociale, geografico, tecnologico o ecologico.

La seconda considerazione, probabilmente la più importante in questo contesto, riguarda lo stile di vita e la sua correlazione con il gene egoista e con le nozioni a esso legate che enfatizzano l'importanza, dal punto di vista evolutivo, della trasmissione dei geni dell'individuo. I nostri più antichi progenitori erano in un certo senso cacciatori-raccoglitori, su questo non v'è dubbio. E sebbene gli stili di vita associati alla caccia e alla raccolta possano essere notevolmente diversi, hanno in comune il fatto che per popolazioni costantemente in movimento, in grado di utilizzare solo ciò che viene loro offerto dall'ambiente, avere una prole numerosa dallo sviluppo lento non è un vantaggio. Le donne sono notevolmente sfavorite dalla necessità di doversi prendere cura di più di due figli alla volta, senza bestie da soma che possano aiutare a trasportarli. In effetti, tra le poche popolazioni di cacciatori-raccoglitori tuttora esistenti, le donne fanno di tutto per limitare le gravidanze. Le San del deserto della Namibia, per esempio, allattano i figli fino a quando l'ultimo ha quattro anni o più, mantenendo in tal modo il livello di prolattina sufficientemente elevato da inibire l'ovulazione per tutto questo lasso di tempo. Non sembra proprio che i loro geni chiedano a gran voce di riprodursi: le considerazioni economiche prevalgono, come accade quasi sempre. Per i cacciatori-raccoglitori, dunque, il nemico è la fertilità, non la sua mancanza. Le singole, donne San non mostrano, né consapevolmente né inconsapevolmente, alcun desiderio di aumentare la propria progenie. E questo, innegabilmente, è l'ambiente ancestrale.

Questo fatto, naturalmente non ci stupisce molto, poiché è noto da tempo che gli esseri umani, così come tanti altri organismi, hanno adottato una strategia riproduttiva basata su un elevato investimento parentale in una prole relativamente poco numerosa. L'obiettivo non è mai stato quello di massimizzare il numero di nati, ma piuttosto di assicurare il successo (principalmente economico) alla prole già esistente. La necessità senza precedenti di manodopera, seguita all'adozione di uno stile di vita sedentario basato sull'agricoltura, può avere perturbato leggermente questo modello, ma il principio di base rimane valido.

Esiste un insieme di altri problemi associati alla concezione dell'organismo come veicolo per la trasmissione dei suoi geni, che è quella secondo cui una gallina è solo il mezzo usato da un uovo per fare un altro uovo. Le difficoltà crescono quando questo punto di vista viene generalizzato alla struttura di società complesse come quelle dei primati e ai comportamenti degli individui che ne fanno parte. Molte difficoltà sorgono perché non ci si rende conto che tali società hanno funzioni sia economiche sia riproduttive, e che gli individui, allo stesso modo, sono entità al contempo economiche e riproduttive. Anzi, la quantità di tempo e di energia che ciascun individuo investe nelle attività economiche durante la propria vita è di gran lunga superiore a quella spesa per le attività riproduttive. La maggior parte delle presunte costanti del comportamento umano alle quali gli psicologi evoluzionisti danno rilievo sono plausibilmente dovute tanto a decisioni economiche razionali (amplificate da norme sociali derivanti anche da questioni che in senso ampio possiamo definire economiche) quanto a comportamenti ereditari. Quando vengono osservati comportamenti non conformi alle previsioni della sociobiologia, gli psicologi evoluzionisti, che vogliono tenere i piedi in due staffe, sono soliti affermare, un po' paradossalmente, che in questi casi la selezione naturale ha favorito la "flessibilità" piuttosto della specificità nei comportamenti. Tuttavia, ancora una volta, tali comportamenti possono essere meglio spiegati dalla natura complessa delle decisioni economiche (definite in senso ampio) che ciascun organismo deve prendere, combinata con l'enorme varietà di temperamenti individuali presenti all'interno di ciascuna popolazione umana. I geni di un individuo non equivalgono e non possono equivalere direttamente al suo comportamento, anche se, considerati nel loro complesso e combinati con altri fattori, con ogni evidenza hanno anch'essi un ruolo. Il genoma non è così semplice; gli organismi non sono così semplici, e lo stesso vale per gli ambienti sociali ed economici.

Considerato l'importante ruolo che gli psicologi evoluzionisti attribuiscono all'ereditarietà, non sorprende che la loro attenzione si sia focalizzata sui comportamenti umani legati al sesso. Questo interesse li ha condotti in un'area particolarmente pericolosa, perché fra gli esseri umani non c'è un nesso di tipo semplice fra attività sessuale e riproduzione. Questa dicotomia (per così dire) non è un fenomeno puramente umano: il bonobo, per esempio, usa regolarmente l'attività sessuale per allentare le tensioni sociali che si sviluppano all'interno del gruppo (un'osservazione interessante è che questi primati non mostrano dominanza maschile, dunque le differenze di comportamento fra gli ominoidi maschi e femmine non sono necessariamente il semplice sottoprodotto dei sistemi ormonali che governano la funzione riproduttiva di ciascun sesso). Sia nell'uomo sia nel bonobo la maggior parte dell'attività sessuale è indipendente dall'attività riproduttiva, e fra gli uomini l'interazione fra sesso ed economia è particolarmente complessa. Facciamo un esempio. Non è un segreto che maschi e femmine ricoprano ruoli differenti nel processo riproduttivo e spesso mostrino atteggiamenti diversi al riguardo. Uno psicologo evoluzionista, assumendo che sesso e riproduzione siano di fatto la stessa cosa, commenterebbe che questi atteggiamenti differiscono perché le femmine sono una risorsa riproduttiva scarsa, per la quale i maschi competono. Un maschio è potenzialmente in grado di fecondare numerosissime femmine, mentre il numero di figli che una femmina può avere è strettamente limitato. Di qui la tendenza attribuita a queste ultime a instaurare un legame di coppia con un solo maschio in grado di contribuire (con la massima generosità possibile) all'allevamento del ristretto numero di piccoli, mentre i maschi tenderebbero notoriamente a dividersi fra più femmine. Il presunto scopo, in entrambi i casi, sarebbe la massimizzazione dell'efficienza della trasmissione genetica.

«Infedeltà: potrebbe essere nei nostri geni», ha recentemente annunciato con enfasi la copertina di una nota rivista, rivelando quanto incredibilmente facile sia stato per gli psicologi evoluzionisti far accettare come valida la nozione che, nell'importantissimo sforzo di assicurare il successo dei loro geni, gli uomini facciano del loro meglio per diventare padri del maggior numero di figli possibile, mentre le femmine si limiterebbero ad accoppiarsi con i maschi disposti a investire di più nella prole. Queste strategie ispirate da interessi conflittuali verrebbero messe in atto con il massimo dell'inganno da entrambe le parti, e ciò può apparire particolarmente attraente a una società in cui i teleromanzi di vario genere rappresentano la più lucrosa delle arti televisive, se non la forma d'arte che rispecchia più fedelmente la realtà della vita di molti di noi. Ma basta riflettere un attimo per capire che l'ereditarietà non è sufficiente a spiegare tutto.

Ingravidare il massimo numero di femmine possibile serve a poco, come strategia a lungo termine, per soddisfare l'ossessione dei maschi per l'immortalità dei loro geni se le loro attività amatorie sottraggono tempo ed energia agli sforzi che avrebbero potuto sostenere per assicurare la sopravvivenza e il successo dei figli. Questa relazione di dare e avere è ineludibile, ed è difficile vedere quale vantaggio potrebbero trarne i geni «egoisti». Inoltre, anche in organismi relativamente semplici come i moscerini della frutta, letteralmente dozzine di geni non associati sono coinvolti nel corteggiamento, un comportamento che costituisce solo una parte dell'attività riproduttiva. Il comportamento, in particolar modo nell'uomo e negli altri primati, non è un processo semplice, e per quanto l'idea che specifici geni esistano "per" uno qualsiasi dei comportamenti tanto amati dagli psicologi evoluzionisti possa apparirci seducente, rappresenta un errore in cui non bisogna cadere.

Che cosa penserebbe un economista di tutto questo? Osserverebbe che il sesso è in sé piacevole per entrambe le parti (un fenomeno che coinvolge tutta la specie e che presumibilmente è frutto di un processo di selezione, poiché, se non ci fosse, la specie stessa si sarebbe estinta); inoltre farebbe osservare che questo fatto, in sé, spiega la tendenza maschile ad avere molti rapporti sessuali, la maggior parte dei quali non avrebbe nulla a che fare con l'attività riproduttiva, come è testimoniato, per esempio, dalla prostituzione, un commercio antichissimo ma sempre fiorente e lucroso quant'altri mai. Tuttavia le femmine devono accollarsi le conseguenze economiche di un'attività che conduce alla riproduzione e ai costi di allevamento dei figli a essa associati, un compito a cui i maschi partecipano in teoria solo volontariamente. Per le femmine, dunque, i piaceri del sesso vario e illimitato possono avere minor peso dei vantaggi economici offerti dal legame con un maschio (purché egli onori il ruolo di sostegno che si presume suo, sebbene molto spesso ciò non accada, come sembra indicare l'attuale torrente di denunce di mogli e figli per maltrattamenti). Non può essere privo di significato che quando i calcoli economici tradizionali si sono ribaltati (come nei caso delle madri non sposate che ricevono assegni per il mantenimento dei figli) la tendenza delle donne a crearsi legami abbia subito un forte declino.

Ovviamente non intendo affermare che maschi e femmine non mostrino mediamente una certa varietà di tendenze specificamente riferibili al loro sesso. E’ certamente così, e sembra addirittura che fra maschi e femmine adulti vi siano sottili differenze nell'organizzazione cerebrale. Ma facendo la media dei loro comportamenti, l'approccio della psicologia evoluzionistica semplifica in modo eccessivo le complessità dell'esperienza umana individuale. Senza dubbio, possiamo percepire certe costanti del comportamento umano, ma solitamente queste non sono che la somma delle decisioni di milioni di individui (condizionati, dobbiamo ammetterlo, dai valori appresi), nello stesso modo in cui nel libero mercato esistono indubbie costanti che gli economisti sono in grado di percepire.

In realtà, i singoli individui sono esseri molto più misteriosi, sospinti da motivazioni più complesse di quanto siano disposti ad ammettere gli psicologi evoluzionisti (o, per essere equanimi, la maggior parte degli economisti). Ben di rado le nostre esistenze sono dedicate alla lotta per massimizzare il successo riproduttivo, come potrebbe testimoniare, nella nostra società, il dieci per cento delle coppie sposate che sceglie volontariamente di non avere figli, o come gli omosessuali che rifiutano consapevolmente la possibilità di trasmettere i propri geni (anche se, considerando la sempre maggior frequenza con cui essi adottano bambini, si direbbe che alcuni conservino un forte desiderio di essere genitori). Nella realtà dei fatti, la nostra esistenza consiste prevalentemente nel mantenerci in vita più comodamente che possiamo in un ambiente sociale di spaventosa complessità, e questo è un compito squisitamente economico. Com'è ovvio, il sesso può sovente avere il suo ruolo, ma il più delle volte lo ha in un contesto di status e di potere, nel cementare i legami sociali, o semplicemente perché è piacevole. Ai contrario, viene praticato molto raramente in uno specifico contesto di riproduzione.

E inteso che nulla di tutto ciò implica che i geni siano irrilevanti per qualsiasi aspetto della nostra biologia. Ma mentre se ne stanno nascosti dentro di noi, intervengono nei nostri comportamenti in modo indiretto, programmando il comportamento del nostro cervello.

Questo misterioso organo è, ovviamente, il risultato di un lunghissimo processo evolutivo, ed è in questo importante senso che il passato è ancora con noi. Se vogliamo capire le complessità del nostro comportamento è nel cervello, e non direttamente nei geni, che dovremo cercare.