SIMONE POLLO

Darwin, la Natura umana e la Morale


Darwinismo oltre la scienza

La teoria dell’evoluzione di Charles Darwin (1) rappresenta, senza dubbio, uno dei momenti più importanti della storia della scienza, ma è molto più che un semplice progresso della conoscenza scientifica. L’idea darwiniana rivoluziona il modo in cui guardiamo non solo alla vita che ci circonda, ma anche a noi stessi e al nostro posto nel mondo. Fin dalla pubblicazione dell’Origine delle specie fu evidente la portata rivoluzionaria dell’idea di Darwin e la discussione sulle sue implicazioni extrascientifiche è proseguita sino ai giorni nostri. Tuttavia, se, da un lato, il mondo scientifico è pressoché unanimemente convinto della validità della teoria e della sua fertilità, la situazione è decisamente diversa per quanto riguarda la discussione sulle sue implicazioni in altri ambiti della vita umana. In merito esiste un ampio spettro di posizioni. Fra queste vi sono quelle che affermano che in ambiti extrascientifici la teoria di Darwin è irrilevante o, addirittura, perniciosa. Questi atteggiamenti sono particolarmente evidenti nelle discussioni su darwinismo ed etica.

Prendendo spesso a bersaglio alcuni usi impropri e grossolani che sono stati fatti in passato del darwinismo, si afferma la separazione fra la riflessione morale e la visione del mondo e dell’essere umano che emerge dalla teoria di Darwin. Questa, infatti, sarebbe o irrilevante per l’etica, perché i valori sono indipendenti dai fatti (e devono rimanere tali) o dannosa, in quanto ci descrive un mondo spietato in cui domina la “legge della giungla” per cui il debole soccombe e il forte trionfa. Posizioni del genere, sostanzialmente, affermano che le pratiche di civilizzazione umana sarebbero indipendenti dalla natura così come ce la presenta Darwin, se non in aperto contrasto con essa. A queste posizioni si affiancano quanti cercano di «manipolare» il dato empirico della teoria, emendandola o inserendola in cornici di riferimento non scientificamente convalidate. A questa famiglia appartengono, ad esempio, i tentativi della Chiesa cattolica di «accettare» il darwinismo, ma collocandolo in una cornice più ampia che, sostanzialmente, ne nega le ricadute più significative (come quella, ad esempio, sullo statuto ontologico umano). Qui non esaminerò questo secondo tipo di posizioni, la cui confutazione è comunque demandata in primo luogo a una lettura onesta dei dati scientifici. Mi occupo, invece, di quelle posizioni che manifestano una sorta di «assenso parziale» a Darwin. Queste, infatti, non si interessano principalmente della validità della teoria, ma ne negano la rilevanza negli ambiti extrascientifici. Intendo presentare un’idea radicalmente opposta a queste posizioni.

Vorrei provare a mostrare, cioè, non solo che Darwin non è irrilevante (se non nemico) per le nostre pratiche di civilizzazione, ma che un’etica darwiniana può rappresentare, al contrario, una forma di progresso morale. Ciò che il darwinismo ci dice sulla natura umana, infatti, può essere una fonte di conoscenza e di riforma delle nostre idee morali.

La natura umana con gli occhi di Darwin

La portata della teoria era ben presente allo stesso Darwin, che, confidandosi con l’amico Joseph Hooker, descriveva la possibilità di divulgarla come «confessare un delitto» (2). La principale vittima di questo delitto è l’idea di creazione, ovvero sia l’idea che il mondo e, nello specifico, gli esseri viventi, siano l’esito di una volontà divina e che l’essere umano possieda una natura speciale plasmata direttamente sull’immagine della divinità stessa. Uccidendo questa idea di natura umana, il darwinismo ne presenta un’alternativa. La natura umana, così come emerge dalla rivoluzione darwiniana, possiede almeno tre caratteri che sono rilevanti per le nostre idee morali. Questi caratteri destarono scandalo all’epoca di Darwin e continuano a farlo oggi, suscitando il timore che essere darwiniani in etica possa essere un errore e una forma di imbarbarimento morale.

Anzitutto, ciò che emerge in modo incontrovertibile dalla teoria di Darwin è il fatto che gli esseri umani sono animali. Siamo animali la cui storia evolutiva è stata determinata (e lo è tuttora) dagli stessi meccanismi biologici che presiedono all’evoluzione di tutti gli altri esseri viventi. E’ così perché la pasta di cui siamo fatti è la stessa degli altri viventi. La nostra non è una natura speciale. Pur nella nostra specificità, presentiamo affinità e continuità tanto sul piano anatomico quanto su quello cognitivo con gli altri esseri viventi (3). Non siamo frutto di una creazione separata e non occupiamo un posto privilegiato nell’universo. La nostra natura animale, inoltre, è una natura storica e non necessaria. Non solo per moltissimo tempo il mondo non è stato abitato da esseri umani, ma avrebbe anche potuto non esserlo mai. Dal momento che non ci sono una volontà e un progetto che muovono la vita e i suoi meccanismi, l’esistenza dell’Homo sapiens non è necessaria. Se i nostri antenati avessero affrontato altre sfide ambientali o se certe variazioni del loro genotipo non si fossero verificate, l’Homo sapiens non sarebbe comparso sulla faccia della terra (4). Storicità e contingenza riguardano anche il nostro futuro e non solo il passato. La specie umana non è fissata per sempre nei suoi caratteri. La trasformazione della specie umana in altre specie, se non la sua estinzione, è quasi una certezza, alla luce dei meccanismi darwiniani (e non solo a causa di quanto gli esseri umani stessi potranno fare in tale senso). Non esiste, quindi, un cammino prestabilito che l’essere umano, inteso come specie, ha seguito e seguirà nel corso della storia.

D’altra parte, questa assenza di finalismo riguarda la costituzione stessa della natura umana. Noi non siamo fatti per uno scopo. Le nostre capacità sono il frutto del lento e paziente lavoro dell’evoluzione e non l’esito di un disegno. Le nostre caratteristiche anatomiche e cognitive assolvono bene la loro funzione, ma questa non è la ragione ultima della loro esistenza. Se sappiamo parlare è perché l’insieme di capacità che lo rende possibile si è rivelato vantaggioso per la sopravvivenza, ma il fatto di sapere parlare non è una capacità donataci per sopravvivere. Le capacità che costituiscono la nostra natura, quindi, sono mutevoli, non necessarie e prive di fine. Esse, inoltre, si pongono in una linea di continuità con gli altri esseri viventi, rispetto ai quali non possiamo vantare salti ontologici. Per quanto «fragile» e contingente, questa nostra natura rappresenta l’intero orizzonte della nostra esistenza. Tutto ciò che c’è da sapere sull’essere umano si spiega (almeno in linea di principio e potenzialmente) a partire dalla nostra costituzione biologica.

È sicuramente vero che noi esseri umani siamo animali produttori di cultura e che questa «accompagna» le nostre capacità biologiche. E, tuttavia, questo nostro essere culturali non è altro che un risultato della nostra costituzione biologica e della nostra storia evolutiva. L’opposizione cultura/biologia è del tutto priva di senso, perché la cultura è biologia. Non ci sarebbe senza cervelli umani e senza tutte le altre caratteristiche materiali umane (5). Ciò che è culturale, quindi, dipende in ultima analisi dalla natura umana unicamente dal punto di vista biologico e non si danno dinamiche dei processi culturali che siano svincolate e autonome dalla natura biologica umana. Possiamo certo affrontare questi processi da un punto di vista esplicativo che li isoli dal sostrato biologico che li origina, ma questo non dovrebbe darci l’illusione che ne siano indipendenti.

Il buon uso della natura umana

Alla luce di questo quadro, a qualcuno l’idea di guardare a Darwin per parlare di etica e civilizzazione può sembrare scandalosa, se non dannosa. Un’etica ispirata al darwinismo può apparire come una forma di nichilismo antiumanistico, perché sminuisce l’essere umano al livello dell’animale e lo destituisce dal posto centrale nell’universo nel quale le concezioni creazioniste lo collocano. Oppure il mondo delle leggi darwiniane può sembrare del tutto antitetico alle idee portanti delle pratiche morali. Giacché il mondo darwiniano sarebbe dominato dalla legge della giungla, cioè da competizione ed egoismo spietati, ispirare la nostra vita morale a Darwin significherebbe abbracciare l’idea che il più forte abbia diritto a sopraffare il debole e che quest’ultimo non meriti di sopravvivere perché inadatto. Chi solleva obiezioni di questo tipo, in genere, ritiene non solo che la moralità debba fare a meno del darwinismo, ma che la moralità esista nonostante i meccanismi che la teoria darwiniana mette in luce. Secondo questa posizione, infatti, la moralità è una forma di vita che tiene a bada e disciplina gli istinti animali. Altruismo, benevolenza, uguaglianza – tutto ciò che fa parte della civilizzazione, insomma – sarebbe in opposizione alla logica dell’evoluzione, caratterizzata esclusivamente da competizione ed egoismo.

Sorprendentemente, il primo a formulare una posizione del genere non fu un acerrimo oppositore della teoria di Darwin. Al contrario, ne è stato il primo e più fiero difensore. Come noto, infatti, Thomas H. Huxley elaborò un idea di questo tipo, paragonando l’etica e la civilizzazione al lavoro di un giardiniere che organizza e tiene a bada le proprie piante, evitando l’infestazione di arbusti selvatici (6). La forma di vita civilizzata sarebbe un’isola protetta rispetto al mondo spietato della natura così come Darwin la scoprì. La storia degli equivoci su Darwin e l’etica è lunga e complessa (e ad essa hanno spesso contribuito non solo gli oppositori di Darwin, ma anche suoi sostenitori più o meno attendibili). Non è questa, però, la sede per approfondire questo punto (7). Qui vorrei provare a mostrare alcune ragioni per le quali Darwin è rilevante per la riflessione morale e perché questo incontro può rappresentare un progresso.

Sono essenzialmente due, e strettamente interconnesse, le ragioni per le quali non solo non dovremmo fare a meno del darwinismo nelle nostre riflessioni sull’etica, ma al contrario dovremmo guardare a esso con favore. La prima ragione ha a che fare con un requisito interno della riflessione morale sia che essa riguardi le nostre teorie su che cos’è la stessa moralità sia che si occupi di dare un contenuto alle idee di responsabilità, dovere e virtù. Questo requisito riguarda il legame intrinseco con la «verità» che caratterizza le nostre pratiche morali. Noi vogliamo che le nostre idee sull’etica e sul bene siano sostenute da concezioni vere del mondo. L’etica filosofica ha molti modi di argomentare questo legame. Ma possiamo ritenere che esista una sorta di vincolo strutturale fra riflessione morale e verità (o, in accezioni più deboli, veracità o affidabilità) (8). Ebbene, se siamo interessati a ciò che è vero, la riflessione morale non può fare a meno della teoria darwiniana. Questa, infatti, è il migliore resoconto disponibile che abbiamo per comprendere fatti che sono essenziali per il pensiero morale. In particolare, la teoria darwiniana ci fornisce informazioni fondamentali su una questione centrale per l’etica, vale a dire la «natura umana». Per quanto, in etica gli usi dell’idea di natura siano spesso fallaci e impropri, la nozione di natura umana non può essere espunta dalla riflessione morale (9). Ad essa, infatti, dobbiamo rivolgerci se intendiamo elaborare concezioni attendibili circa la natura della vita morale e teorie normative che sappiano rispondere effettivamente alle esigenze degli esseri umani. Appellarsi a Darwin risponde a questa duplice esigenza.

Etica per animali umani

Nell’attuale panorama della ricerca filosofica si assiste a una grande fioritura delle ricerche che mettono in comunicazione la teoria darwiniana con l’etica. In particolare, questo intreccio è in costante crescila nell’ambito delle analisi metaetiche, vale a dire le indagini dedicate alla natura della moralità e dei meccanismi di funzionamento della psicologia morale (10). Laddove l'evoluzionismo fornisce la cornice epistemologica di riferimento, l'etica filosofica entra in comunicazione, ad esempio, con le scienze cognitive e l'etologia per ricostruire i meccanismi di funzionamento della mente morale, la sua evoluzione biologica e la storia evolutiva dei comportamenti precursori della moralità umana. L'intreccio del metodo argomentativo e lei patrimonio teorico e concettuale dell'etica filosofica con l'approccio empirico delle scienze naturali si colloca nell'ambito di una nuova tipologia di ricerca, definibile come «filosofia sperimentale» (11). All'interno di questo panorama, giovane ma già ricco e articolato, vi sono ovviamente molti approcci, diversi per metodi e conclusioni, e in questa sede non è possibile darne conto in modo compiuto. Volendo comunque selezionare uno dei dati più rilevanti che emergono, si deve sottolineare la crescente consapevolezza del ruolo centrale giocato dalle emozioni nella mente morale.

Tanto le ricerche neuroscientifiche quanto lo studio etologico dei comportamenti proto-morali degli animali non umani, infatti, mostrano come il fenomeno della moralità sia imbastito sull'esperienza di determinate emozioni proprie e altrui (12). Possiamo osservare inoltre come queste ricerche demoliscano definitivamente l'idea che il mondo darwiniano sia caratterizzato da una sorta di rozza «legge della giungla». L'identificazione esclusiva del darwinismo con egoismo e competizione, infatti, oscura del tutto il fatto che se noi esseri umani (e con noi anche molti animali non umani) siamo capaci di cooperazione, empatia e altruismo è proprio grazie alla nostra natura biologica e ai meccanismi dell'evoluzione che hanno «premiato» queste capacità e questi comportamenti. La vita morale non è possibile nonostante la nostra biologia, ma al contrario è possibile solo grazie alla nostra biologia. E questo per la semplice ragione che oltre la nostra biologa non c'è altro. L'altruismo non è il frutto dell'azione di un qualche principio spirituale che mette a freno o organizza la nostra dimensione animale. Al contrario, è la nostra natura animale a farci altruisti, cooperativi ed empatici (e, ovviamente, anche egoisti).

Dati come questi hanno un indubbio valore teorico per quanto riguarda a comprensione del fenomeno morale. E, tuttavia, ci si può chiedere se il valore della cornice darwiniana sia esclusivamente conoscitivo, oppure e la conoscenza della natura umana e della psicologia e biologia morali abbiano anche una qualche ricaduta normativa. Conoscere meglio la nostra natura ci dice qualcosa anche su cosa dobbiamo fare?

Darwinismo e progresso morale

La transizione dal mondo dei fatti a quello dei valori è una questione di straordinaria importanza. L'etica filosofica del XX secolo ha dedicato molte riflessioni alla discussione della validità e della portata della cosiddetta «fallacia naturalistica», vale a dire dell'errore che commetterebbe chi da determinati fatti pretendesse di inferire conclusioni normative (operando, quindi, un'indebita transizione dall'«essere» al «dover essere»). Anche in questo caso si tratta di un panorama vastissimo di riflessione del quale non si può dare conto neppure in modo parziale (13). Possiamo comunque osservare come, in generale, molte delle discussioni sulla rilevanza del darwinismo per l'etica siano state segnate da questo dibattito. Se, infatti, è possibile riconoscere il valore della teoria darwiniana (e delle scienze in genere) per la comprensione della natura della morale, appare molto più controversa la pretesa di utilizzare questi dati per fondare concezioni normative che indichino cosa sia bene fare. D'altra parte, inoltre, l'uso normativo del darwinismo - come abbiamo già detto - è legato a una sorta di peccato originale che ha diffuso l'idea che essere darwinisti sul piano normativo significhi affermare come moralmente giustificati l'egoismo cieco e la competizione spietata. Già l'osservazione che l'animalità umana (e non) è il fondamento delle condotte morali dovrebbe contribuire a sconfessare l'idea che essere darwinisti sul piano normativo comporti una deriva «antiumanistica». Ciò che emerge dalla metaetica naturalizzata ed evoluzionistica è che gli esseri umani hanno già nelle proprie dotazioni «naturali» quanto serve per la vita morale. A questa osservazione, tuttavia, possiamo aggiungerne altre che possono contribuire all'elaborazione di un paradigma etico normativo darwiniano che vada in direzione del progresso morale e della civilizzazione. Queste osservazioni rilevano alcuni fatti che la nostra elaborazione teorica normativa non dovrebbe ignorare. Questi fatti, di per sé e da soli, non possono rappresentare giustificazioni per valori e princìpi morali.

Pur nella consapevolezza della necessità di un ripensamento dell'effettiva portata della fallacia naturalistica, infatti, non sembra sostenibile l'idea che da osservazioni di fatto si possa muovere direttamente a conclusioni normative. Non potendo scendere nel dettaglio circa un modo accettabile di articolare la transizione fatti/valori, mi limito a suggerire due funzioni possibili delle osservazioni di fatto per le argomentazioni normative. La prima funzione - chiaramente individuata da James Rachels (14) - ha che fare con l'idea che le nostre credenze morali non possano fondarsi su fatti empiricamente falsi. La seconda funzione riguarda il fatto che le osservazioni empiriche (ad esempio sulla nostra natura biologica) ci informano sulle condizioni di possibilità delle nostre concezioni normative. Proprio alla luce di questa duplice funzione, in conclusione vorrei provare a mostrare contemporaneamente come due «fatti» messi in luce dal darwinismo possano ispirare le nostre concezioni normative e come queste vadano in direzione del progresso e della civilizzazione.

Il primo fatto del quale una concezione normativa darwiniana dovrebbe tenere conto è l'immagine sostanzialmente antiantropocentrica che emerge dalla teoria di Darwin. Gli esseri umani non sono il centro dell'universo e non hanno una supremazia sul resto del vivente. La nostra specie ha certo avuto successo nella storia dell'evoluzione, ma insieme ad essa hanno avuto successo tutte le altre specie che ci circondano. Gli altri esseri viventi sono tanto adatti quanto noi. Il mondo, quindi, non è «nostro», almeno non più di quanto lo sia per gli altri esseri viventi. Inoltre, le caratteristiche che noi sentiamo come moralmente rilevanti per riconoscere rispetto morale agli altri umani sono possedute, in diversi modi e gradi, da altri viventi. Alla luce di questa osservazione, quindi, un'etica darwiniana non potrà che essere critica verso forme di antropocentrismo radicale e dovrà prendere in seria considerazione l'idea che la sfera della considerazione morale si estenda ben oltre i confini della specie Homo sapiens.

Il secondo fatto del quale un'etica darwiniana dovrebbe tenere positivamente conto riguarda l'importanza della nozione di «benessere» per il meccanismo dell'evoluzione biologica. Come lo stesso Darwin aveva chiaramente riconosciuto, la logica della selezione naturale è anche una logica del benessere (15). L'organismo che ha possibilità di successo nella competizione per la sopravvivenza è un individuo che sta bene, vale a dire che sfugge le sofferenze e «fiorisce». Questo fatto, anzitutto, dovrebbe avere come conseguenza l'affermazione della centralità del benessere per la stessa etica normativa, che dovrebbe vedere in questa nozione uno strumento concettuale importante per l'articolazione concreta della responsabilità morale. In secondo luogo, la rilevanza del benessere dovrebbe indurre legittimi sospetti verso tutte quelle etiche che identificano il valore morale con forme di rigorismo, rinuncia e sacrificio. Tali concezioni, infatti, sembrano andare contro alcuni meccanismi fondamentali profondamente strutturati negli esseri viventi. Ciò non significa, ovviamente, che, ad esempio, il misticismo non abbia un radicamento biologico (e, quindi, sia di fatto una possibilità della vita umana), ma un'etica darwiniana dovrebbe avvertirci della difficoltà di proporre gerarchie di valori in cui ascesi e rinuncia siano presentati come i beni supremi ai quali il genere umano dovrebbe aspirare. Questo significa forse riproporre, ancora una volta, una schematica identificazione fra «adatto alla sopravvivenza» e «moralmente buono»? Si tratta, come evidente, di una questione difficile alla quale qui non si può rispondere, ma sulla quale vorrei comunque avanzare un'osservazione conclusiva.

L'idea che ciò che è adatto alla sopravvivenza sia moralmente buono appare scandalosa soprattutto perché si tende a ritenere che solo l'egoismo e la competizione ci rendano adatti per la sopravvivenza. Al contrario, però, accettare la teoria di Darwin senza pregiudizi e con attenzione ai suoi sviluppi scientifici e filosofici ci costringe a rifiutare questa idea e a cambiare opinione sul vero contenuto della «legge della giungla». A renderci adatti per la sopravvivenza ci sono anche (e soprattutto) altruismo, cooperazione ed empatia. Nella giungla, quindi, non troviamo solo egoismo e crudeltà, ma anche tutto quello che è necessario per la nostra vita morale e i nostri processi di civilizzazione.

Note

1. 1. In questa sede con espressioni come «teoria darwiniana», «darwinismo», «evoluzionismo» eccetera mi riferisco all'idea centrale della teoria elaborata da Charles Darwin per rendere conto dell'origine delle specie attraverso i meccanismi della variazione casuale dei patrimoni genetici, della selezione dei caratteri più adatti alla sopravvivenza e della loro trasmissione alla prole. Come noto, la teoria di Darwin ha avuto sviluppi, emendamenti ed estensioni e, attualmente, vi è un dibattito su alcuni suoi aspetti particolari. Questo ricco dibattito scientifico - che non ha mai messo in discussione l'idea centrale delineata da Darwin - rimarrà qui in secondo piano.

2. 2. Si veda A. Desmond, J. Moore, Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 1992, cap. 21.

3. 3. Cfr. F. Ferretti, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana. Laterza, Roma-Bari 2007.

4. 4. Per un resoconto di questa storia e delle sue «fragilità»: T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un'archeologìa della globalizzazione, Meltemi. Roma 2002.

5. 5. E, comunque, la cultura non è un'esclusiva umana, come testimoniano gli studi etologici che dimostrano l'esistenza di forme di cultura fra specie non umane, come, ad esempio, nel famoso caso dei macachi dell'Isola di Koshima che, scoperta la possibilità di lavare in acqua le patate dolci di cui si cibano, hanno trasmesso l'abitudine di generazione in generazione. Per una presentazione del tema delle culture nei primati non umani: W.C. McGrew, «Culture in non-human primates?”, Annual review of Antropology, 27 (1), pp. 301-328

6. 6. T. H. Huxley, Evoluzione ed etica. Prolegomeni, in Id. Evoluzione ed etica, a cura di A. La Vergata, Bollati Boringhieri, Torino 1995

7. 7. Un ricco e utile esame è dato da A. La Vergata. Guerra e darwinismo sociale. Rubbettino. Soveria Mannelli 2005.

8. 8. B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Fazi. Roma 2005.

9. 9. Si veda S. Pollo, La morale della natura, Laterza, Bari 2008

10. 10. Si vedano, ad esempio, i tre recenti volumi: W. Sinnott-Armstrong (a cura di), Moral Psichology. Volume 1: The evolution of Moarlity: Adaptation and Innateness, Mit Press, Cambridge (Ma) 2007; Id. (a cura di), Mora! Psychology. Volume 2: The Cognitive Science of Morality: ituition and Direr.sity, Mii I'ress, Cambridge (Ma) 2008; Id. (a cura di), Mora/. Psychology: Voline 3: The Neuroscience of Morality: Emotion, Brain Disorders, and Derelopmemnt, Mit Press, Cambridge (Ma) 2008.

11. 11. J. Knobe, S. Nichols (a cura di), Experimental Philosophy, Oxford U. P., Oxford 2008

12. 12. S. Nichols, Sentimental Rules. On the Natural Foundatios of Moral Judgement. Oxford U. P. Oxford 2008; F. De Waal, Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano 2008

13. 13. Per una presentazione delle principali questioni: E. Lecaldano, Etica., Utet, Torino 1995,

14. 14. J. Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo. Edizioni di Comunità, Milano 1996

15. 15. «La selezione naturale non produrrà mai in un essere una qualsiasi struttura che sia più dannosa che benefica per detto essere, poiché la selezione naturale agisce soltanto mediante il bene e pei' il bene di ciascuno. Nessun organo sì formerà, come ha osservato Palev. allo scopo di causare dolore o procurare danno al suo possessore. Se si facesse un equo bilancio del bene e del male causato da ciascuna parte, si troverebbe che ciascuna è nel complesso vantaggiosa. Col passsare del tempo, in varianti condizioni di vita, se una parte diventerà dannosa, sarà modificata: o, altrimenti, l’organismo si estinguerà, come è avvenuto milioni di volte” (Ch. Darwin, L’origine delle specie, Bollati Boringhieri, Torino 1967, p. 260)