MicroMega 1/2012

Almanacco della scienza

 

Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta

MicroMega dedica un intero supplemento alla teoria di Darwin, ai dati paleoantropologici più recenti e alle ipotesi formulate dagli studiosi su problemi ancora aperti (la ricostruzione del cespuglio delle specie umane, la compresenza nel corso del tempo di varie specie, il rapporto dell'homo sapiens con i Neanderthal, il mistero della sua sopravvivenza, la nascita della capacità simbolica, la genesi del linguaggio, ecc.).

La rassegna è di un notevole interesse perché il lavorio continuo dei paleoantropologi, anche se spesso trova spazio a livello di stampa (quasi sempre sotto forma di scoop), è affidato in gran parte a riviste specialistiche e a Congressi che non raggiungono il grande pubblico.

Ci si può chiedere naturalmente perché una teoria scientifica, avanzata circa un secolo e mezzo fa, debba continuare ad essere divulgata. La risposta è duplice. Per un verso, posta una cornice che ben pochi ormai mettono in dubbio, comprovata da una messe di dati imponenti, il darwinismo è in evoluzione, e, al suo interno, il dibattito tra gradualisti e catastrofisti, per quanto non aspro e mediabile, è ancora in atto. Per un altro verso, al di là della difesa del darwinismo stesso dall'attacco di residui creazionisti (che conservano però potere solo negli Stati Uniti), si pone l'esigenza di ricavare dalla teoria dell'evoluzione naturale, che è nata senza alcuna esplicita pretesa filosofica, le conseguenze di vasta portata che essa implica sulla percezione che gli esseri umani hanno di se stessi e della vicenda della specie cui appartengono.

Per quanto riguarda questo secondo aspetto, la copertina di MicroMega (vedi fig. seguente) è affatto suggestiva:

L'introduzione di Telmo Pievani, del resto, sovratitolata Sasso nello stagno e titolata Il non senso dell'evoluzione umana, non lascia dubbi riguardo al fatto che la teoria dell'evoluzione naturale si sta sempre più configurando come una filosofia panantropologica, anzi come l'unica filosofia laica che può contrapporre al pensiero religioso una risposta alternativa ai sempiterni problemi del chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.

Riguardo a questo aspetto, non è superfluo forse sottolineare che in tre Grandi demistificatori sopravvenuti dopo Darwin hanno accettato (Marx entusiasticamente, Nietzsche con qualche remora, Freud un po' pedissequamente) la cronice offerta dalla teoria dell'evoluzione costruendo tre sistemi del tutto laici e apertamente materialistici, che offrono però risposte diverse a quei problemi.

Nel corso delle Conferenze sui Grandi Demistificatori e, soprattutto, nel Bilancio finale, ho cercato di definire i criteri che, selezionando ciò che è vivo e ciò che è morto del loro pensiero, potessero consentirne un'integrazione nel quadro di una Panantropologia.

In questa ottica, il supplemento di MicroMega appare oltremodo interessante non meno che inquietante. L'interesse è da ricondurre al fatto che ormai la scienza si configura come la più potente matrice di un pensiero filosofico che cerca di dare una risposta al "mistero" dell'uomo e si pone sempre più come cornice di un umanesimo scientifico immanente, ed avverso a qualsivoglia forma di trascendenza.

L'inquietudine discende dal tentativo, che riproduce il pericolo latente in tutte le scienze umane e sociali dell'imperialismo, vale a dire della tendenza a subordinare ad una di esse tutte le altre, di costruire un modello panantropologico utilizzando quasi esclusivamente i dati forniti dalla paleoantropologia.

Alcuni di questi dati sono certi. La nascita casuale della specie umana, dovuta ad un insieme di circostanze climatiche che hanno prodotto l'isolamento di un gruppo all'interno del quale si sono definite mutazioni genetiche che hanno prodotto un netto incremento neotenia; la singolare condizione di dipendenza evolutiva protratta e la plasticità da essa discendente; la condizione di sprovvedutezza dovuta ad un critico allentamento dei meccanismi istintivi di regolazione del comportamento; la socialità radicale discendente dalla sprovvedutezza e la consegunte nascita del linguaggio e della cultura: questi sono contributi forniti dall'evoluzionismo naturale di indefinito valore per una Panantropologia.

Al di là di questi dati, però, il tentativo di articolare un modello panantropologico totale urta contro immani difficoltà perché i reperti paleontropologici, che sono riferiti a frammenti di scheletro più o meno bene conservati, sono muti. La neotenia è resa evidente dal confronto tra il cranio infantile e quello di un adulto della specie umana messo a confornto con quello di uno scimpanzé. Nessun reperto paleoantropologico, peraltro, sarà mai in grado di fare vedere in quale misura la frontalizzazione del cervello umano ha prodotto una ristrutturazione globale del cervello stesso, che si è riverberata sulle strutture emozionali "umanizzandole". Nessun reperto potrà rendere conto dell'enorme grado di potenzialità ridondanti prodotte dalla nascita del cervello umano. Nessun reperto potrà mai far capire la singolare condizione di soggetti che hanno dovuto fare i conti con la consapevoleza esistenziale galleggiando su di un mondo interiore indefinitamente complesso, fluido e per alcuni aspetti turbolento. Nessun reperto, infine, ci dirà mai nulla sul modo in cui un soggetto dotato di un cervello umano è giunto a definire la sua identità sullo sfondo di un'appartenenza sociale che, per decine di migliaia di anni, ha rappresentato una condizione imprescindibile di sopravvivenza.

Questi problemi non possono essere nè affrontati né risolti nella cornice della paleoantropologia. Essi postulano il contributo delle neuroscienze, della psicoanalisi, della sociologia, della storia sociale, ecc.

Per comprovare questa asserzione basta fare due esempi.

La scoperta dei neuroni specchio è, forse, la più importante tra quelle fornite dalle neuroscienze negli ultimi trenta anni. Essa ha permesso di capire il ruolo decisivo che l'intersoggettività ha svolto nella costruzione di un'identità psicologica individuale, sulla base dell'empatia, dell'imitazione e della trasmissione della cultura. Tale scoperta si integra alla perfezione con i dati della paleoantropologia, ma è avvenuta e non poteva avvenire che al di fuori di essa.

La psicoanalisi poi ha consentito di capire che, al di là dei moduli funzionali adeguatamente esplorati dal cognitivismo, il cervello umano riconosce una duplice programmazione genetica di base. La prima definisce l'orientamento caratteriale introverso o estroverso con una gamma di combinazioni estremamente elevata. La seconda fa capo ad un bisogno intrinseco di appartenenza sociale, che orienta l'individuo a fare corpo mentalmnte e comportamentalmente con il gruppo, e ad un bisogno intronseco di individuazione, che sollecita l'individuo a realizzare, nei limiti posti dal gruppo, la sua vocazione ad essere, espressiva della sua unicità e irripetibilità genetica.

Se si tiene conto della necessità epistemologica e metodologica di integrare i contributi della varie scienze umane e sociali, considerando che nessuna di esse detiene di per sè il segreto dei fatti umani, la lettura della monografia può facilmente indurre ad apprezzare il valore del lavoro svolto dai paleoantropologi e degli studiosi evoluzionisti e, al tempo stesso, a valutare i limiti della loro impresa.

 

Sommario

SASSO NELLO STAGNO

Telmo Pievani – Il non senso dell’evoluzione umana

Se ne facciano una ragione i sostenitori di Disegni più o meno intelligenti: le evidenze scientifiche confermano ogni giorno di più che a condizionare l’evoluzione di Homo sapiens è stata la casuale combinazione di fattori del tutto contingenti ed ‘esterni’, in particolare eventi climatici e fattori geografici. Sarebbe ora di accogliere l’estrema perifericità della condizione umana nella sua tragica bellezza.

ICEBERG 1

– Sapiens l’Africano

Tim D. White – ‘Sapiens’ e gli altri ‘generi umani’ La nostra linea evolutiva non è mai stata sola. La più grande diversificazione tra le specie degli ominidi si colloca circa due milioni di anni fa, quando in Africa sono coesistite ‘brevemente’ ben quattro linee evolutive distinte. Anche gli esseri umani moderni sono emersi nel contesto della convivenza con altre forme umane. Le lezioni apprese in una valle africana da uno dei maggiori paleoantropologi viventi, scopritore della specie ‘mosaico’ Ardipithecus e dei primi Homo sapiens idaltu.

Bernard Wood – Antenati e parenti

Lo studio dell’evoluzione umana ha di recente fatto passi da gigante per ridurre le incertezze nelle ricostruzioni delle relazioni evolutive tra i parenti viventi e i parenti estinti della nostra specie. Uno dei più importanti paleoantropologi contemporanei ci spiega i rischi del mestiere, perché non siamo discendenti diretti ma cugini di scimpanzé e gorilla, e come si utilizzano insieme le comparazioni genetiche e quelle morfologiche per ricostruire oggi l’albero evolutivo degli ‘ominini’.

Lee R. Berger – La scoperta di Australopithecus sediba Il lavoro dei paleontropologi si fa sempre più entusiasmante. Ogni innovazione tecnologica consente scoperte di fossili sempre più completi e una precisione nella datazione prima impensabile. Ma ogni nuova acquisizione rischia di mandare all’aria tutte le classificazioni precedenti, come la scoperta di Australopithecus sediba, in Sudafrica. Che sia lui il nostro progenitore?

Zenobia Jacobs e Richard G. Roberts – La storia umana scritta nella pietra e nel sangue Un’eccezionale scoperta nelle grotte di Blombos, nell’Africa meridionale, testimonia come le origini cognitive di Homo sapiens siano riconducibili a quasi 75 mila anni fa. Le fasi di Still Bay e Howieson’s Poort rappresentano, infatti, un alto livello di realizzazione tecnologica di strumenti – probabilmente usati per cacciare – e una varietà di comportamenti innovativi associati a questi manufatti. Due ‘culture’ durate poco, ma che forse rappresentano l’inizio dell’espansione planetaria di Homo sapiens.

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David Abulafia – 1492: la scoperta di un’altra umanità Esseri umani a tutti gli effetti o bestie dalle fattezze umane? ‘Cosa’ erano quegli esseri così simili agli uomini, che andavano in giro nudi, con il corpo dipinto, che non conoscevano Cristo (né Maometto) di fronte ai quali si trovarono gli esploratori europei che misero piede per la prima volta nelle Americhe? Quel primo incontro costituì il ‘peccato originale’ che ci portiamo appresso ancora adesso: l’incapacità di riconoscere l’altro da noi come pienamente uomo.

Marco Aime – La miccia dell’identità

‘Ho conosciuto un marocchino, però era una brava persona’. Quante volte abbiamo sentito frasi del genere? Dietro queste espressioni vi è lo stupore per la smentita di un pregiudizio, il riconoscimento di un individuo là dove c’era solo una categoria. Eppure nelle società occidentali si ricorre sempre di più a etichette onnicomprensive per tracciare una netta linea di demarcazione fra ‘noi’ e ‘loro’. Ecco come la retorica dell’identità può scivolare facilmente nel tribalismo e nel razzismo.

Juan Luis Arsuaga – Come i Primi Uomini sconfissero gli ‘Altri Umani’ Grazie alle scoperte archeologiche e paleontologiche recenti abbiamo conosciuto una storia incredibile, non ancora superata dalla fantascienza. Incontri eccezionali tra diverse forme umane, che gli scrittori immaginano in lontani sistemi solari, avvennero davvero sul nostro pianeta. I Cro-Magnon (i nostri antenati) e i Neandertal convivevano in Europa. 28 mila anni fa questi ultimi si estinsero. Sarebbe un errore considerarli umani ‘arcaici’, contrapposti a quelli ‘moderni’ che sono sopravvissuti. I Neandertal furono al contrario degli umani molto evoluti: qual è allora la ragione della loro ‘sconfitta’?

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Fabio Di Vincenzo e Giorgio Manzi – L’origine darwiniana del linguaggio

Il linguaggio come sistema di comunicazioni complesso ha avuto origini recenti ed è proprio della nostra specie. Ma le facoltà che ne sono alla base non appartengono in forma esclusiva a Homo sapiens: sono quelle ‘proprietà semantico-sintattiche dotate di modalità ricorsive’ che condividiamo con i nostri parenti scimmieschi e con i nostri antenati del Paleolitico. È al loro progressivo affinamento – innescato da meccanismi di selezione naturale – che dobbiamo la nostra straordinaria e unica capacità di parola.

Philip Lieberman e Robert McCarthy – Come parlavano i nostri antenati?

Se grazie ai fossili possiamo ricostruire molto delle loro abitudini e dei loro comportamenti, non potremo mai ‘sentirli’. Ma dalla ricostruzione dei tratti anatomici preposti all’articolazione delle parole possiamo dedurre se erano in grado di ‘parlare’ come noi. Per scoprire che solo nei fossili più recenti ci sono le condizioni ‘anatomiche’ della parola.

TELMO PIEVANI

IL NON SENSO DELL'EVOLUZIONE UMANA

 

Se ne facciano una ragione i sostenitori di Disegni più o meno intelligenti: le evidenze scientifiche confermano ogni giorno di più che a condizionare l'evoluzione di Homo sapiens è stata la casuale combinazione di fattori del tutto contingenti ed 'esterni', in particolare eventi climatici e fattori geografici. Sarebbe ora di accogliere l'estrema perifericità della condizione umana nella sua tragica bellezza.

Gli articoli che seguono, scritti da alcuni fra i maggiori esperti a livello internazionale, descrivono nuove scoperte scientifiche il cui significato culturale e filosofico non può essere sottovalutato. Si tratta infatti del compimento di una revisione radicale dell'immagine dell'evoluzione umana. Caduto definitivamente il paradigma unilineare che interpretava la nostra storia naturale come una carrellata di stadi di progresso, l'intricato diagramma delle specie ominine che a ritroso collega l'ultimo ramoscello sopravvissuto oggi, cioè Homo sapiens, con l'antenato comune fra noi umani e gli scimpanzé - vissuto in Africa intomo a 6 milioni di anni fa - è composto al momento da almeno venti specie differenti, ciascuna con una propria unicità tassonomica e con un peculiare mosaico di caratteristiche adattative. Non una marcia di avvicinamento all'umanità moderna, dunque, ma un'esuberante esplorazione di possibilità. Da quando i primi ominini sperimentano soluzioni alternative per sopravvivere in spazi sempre più aperti, a quando intorno a due milioni di anni fa troviamo in Africa una pletora di specie appartenenti addirittura a tre generi diversi (le australopitecine gracili più recenti come Australopithecus sediba, le prime forme del genere Homo e i parantropi robusti), fino a quando in tempi recentissimi, ancora 50 mila anni fa, in Africa ed Eurasia convivono ben cinque forme umane contemporaneamente, la coabitazione di specie diverse è stata la norma. Non siamo mai stati soli, tranne che nelle ultime, poche migliaia di anni. Ma ora c'è dell'altro. Ciò che accomuna molti degli articoli è la consapevolezza, emersa prepotentemente negli ultimi mesi e anni nella comunità scientifica, del ruolo chiave che hanno giocato le variazioni climatiche e i fattori ecologici su larga scala nel condizionare e letteralmente nel plasmare l'evoluzione umana. L'attenzione era stata rivolta principalmente alle mutazioni genetiche considerate cruciali e ai grandi adattamenti funzionali che ci hanno reso umani (bipedismo, tecnologie litiche, crescita del cervello), e troppo poco sui parametri ambientali contingenti che hanno reso così variegato e imprevedibile l'andamento dell'albero cespuglioso degli ominini. Oggi ci accorgiamo che il potere delle circostanze è stato dominante nella nostra storia naturale e che quindi i fattori primari che ci hanno condotti fin qui furono talvolta indipendenti dalla maggiore efficienza o dalla presunta «superiorità» intrinseca dei «vincitori».

Le scimmie della Rift Valley

Pensiamo al bipedismo, l'innovazione che inizialmente ha separato i primi rappresentanti della nostra famiglia di strani primati di grossa taglia. L'immagine dei nostri antenati che gloriosamente «si alzano in piedi» non ha più alcun senso. Le numerose specie iniziali hanno avuto posture e movimenti differenti, che possiamo rilevare dall'anatomia degli scheletri fossili e dalla forma delle loro articolazioni. Uno dei protagonisti di questi studi, il paleoantropologo Tim White, del quale pubblichiamo qui un contributo, scrisse tempo fa che la diversità delle camminate ancestrali (compresa quella della specie Ardipithecus ramidus da lui scoperta) era così piena di stranezze che, a immaginarla, gli sembrava di essere nel bar intergalattico di Guerre stellari.

Gli scimpanzé percorrono anche lunghi tratti sugli arti inferiori, quando occasionalmente devono trasportare cibo e oggetti, ma le ragioni adattative iniziali dell'essere bipedi andarono oltre il vantaggio offerto dalla liberazione delle mani. L'abbandono dell'andatura quadrupede comporta infatti una riorganizzazione costosa di tutta l'anatomia: rende più instabili, porta ad esporre gli organi vitali, restringe il canale del parto nelle femmine ed è più difficile da apprendere per i cuccioli. Ancora oggi, il nostro corpo non è completamente idoneo alla postura eretta: chi soffre di ernia del disco, di mal di schiena e di logorio delle articolazioni ne sa qualcosa. L'unicità e la sub-ottimalità sono i marchi di fabbrica della nostra evoluzione, non certo la perfezione. Dobbiamo dunque supporre che la selezione naturale - cieco meccanismo che non vede nel futuro - abbia favorito tale cambiamento a causa di un suo vantaggio sostanziale e immediato. Se siete scimmie antropomorfe africane obbligate a sempre più frequenti spostamenti in radure aperte e infuocate, ridurre la superfìcie corporea esposta al sole può essere un'ottima idea, qui e ora, così come ergersi in allerta sopra le distese erbose (essendo stati noi prede, e non predatori, per lungo tempo). A partire da circa dieci milioni di anni fa, infatti, la formazione di una barriera geologica lunga seimila chilometri, la Great Rift Valley, ostacolando le perturbazioni atlantiche portò a un progressivo inaridimento dei territori più orientali del continente africano, frammentando la foresta pluviale e poi sostituendola con praterie e savane, cioè spazi aperti attraenti e rischiosi. Qui cominciò la nostra carriera di bipedi.

La locomozione bipede ha avuto poi imprevedibili effetti collaterali che hanno cambiato il corso della nostra evoluzione. Alle scimmie della Rift Valley il bipedismo ha regalato doni preziosi come la corsa sulle lunghe distanze e l'uso libero delle mani. Senza contare che un bipede, all'occorrenza, può comunque nuotare o arrampicarsi su un albero, come sicuramente faceva ancora l'Ardipithecus ramidus annunciato nel 2009 da Tim White. Al costo di qualche acciacco lombare, magari, ma ne è valsa la pena, perché il nostro successo come esploratori planetari trova le sue radici in questa rivoluzione anatomica incompiuta e nei suoi effetti, in ultimo, culturali. E non sarebbe successo alcunché senza la Rift Valley. Dunque, a meno di non ravvisare nella tettonica a placche un disegno intelligente (come qualcuno, scommettiamo, non mancherà di fare), fu questa circostanza geologica esterna a innescare il processo su larga scala che portò all'evoluzione indipendente degli ominini.

Contingenza storica e geografica

Facciamo ora un salto a tempi più recenti. Subito dopo il giro di boa dei due milioni di anni fa, inizia un processo di espansione ramificata che gli evoluzionisti chiamano «radiazione adattativa». In un lasso di tempo che abbraccia decine e centinaia di migliaia di anni, i primi rappresentanti del genere Homo, partiti da una vallata del Corno d'Africa, seguendo coste e vallate fertili si affacciano in Medio Oriente e poi si diramano fino al Pacifico da una parte e all'Europa occidentale dall'altra. Sarà solo la prima di molte diaspore. Come in ogni cambiamento nella distribuzione di animali e di piante nella geografia terrestre, mari, oceani, catene montuose, deserti e ghiacciai diventarono ostacoli da aggirare, barriere che spesso creavano passaggi obbligati nei crocevia del popolamento.

Le contingenze ambientali hanno avuto un ruolo cruciale in tutti i passaggi significativi della storia umana più antica. La conformazione delle terre emerse, le eruzioni vulcaniche, l'instabilità ecologica, le modificazioni del clima, le frammentazioni di habitat - fattori indipendenti dai meriti adattativi di questo o quel ramoscello del nostro albero di famiglia hanno condizionato gli eventi, come peraltro succede a tutte le specie e come è normale che sia giacché viviamo su un pianeta attivo e imprevedibile.

Dunque dobbiamo la nostra locomozione e molto della nostra dieta al diradarsi della foresta ombreggiata a est della RiftValley, ma l'influsso delle circostanze si è manifestato anche successivamente: tutte le vicende di rilievo del nostro genere si svolsero nell'instabilità delle oscillazioni climatiche del Pleistocene, con periodi glaciali e interglaciali, innalzamenti e abbassamenti dei livelli dei mari, andirivieni di barriere geografiche, isole che diventavano penisole e viceversa, terre bloccate dai ghiacci, fasce di vegetazione che cambiavano latitudine insieme alle faune di erbivori e carnivori, che noi inseguivamo essendo cacciatori opportunisti (avendo cioè la disgustosa ma redditizia abitudine di approfittare delle carcasse predate da altri).

Gli spostamenti delle popolazioni di Homo dentro e fuori dall'Africa dipesero, in particolare, dall'alternanza di fasi secche e di fasi umide nel Sahara e nel Sahel: quando questi territori erano distese verdi e fertili percorse da corsi d'acqua attiravano gli ominini da sud e da est, mentre nelle fasi di desertificazione li respingevano in tutte le direzioni, anche verso nord e nord-est, creando così un peculiare effetto di pompaggio e di espulsione fuori dall'Africa. Questa dinamica ecologica avrebbe prodotto le molteplici uscite dall'Africa che hanno disseminato specie diverse del genere Homo in tutta l'Eurasia.

L'oscillazione ecologica sahariana è a sua volta dipesa da mutamenti climatici prodotti dai cambiamenti di intensità nel sistema delle correnti oceaniche atlantiche, in particolare dopo la chiusura dell'istmo di Panama. Insomma, siamo figli a tutti gli effetti della dinamica geofisica globale del pianeta Terra. Una coalizione di fattori geologici e climatici a catena, con remote implicazioni connesse all'orbita e alla rotazione della Terra su se stessa, ha concesso la nostra comparsa durante un lungo inverno africano. Altrimenti non saremmo qui, in questo momento, a parlarne. Furono dunque contili- genze storiche, cioè singoli eventi dirimenti e imprevedibili a priori, e contingenze geografiche, cioè separazioni di popolazioni dovute a circostanze accidentali prodotte sul territorio dai cicli climatici terrestri, a plasmare ciò che soltanto con molta fantasia possiamo continuare a concepire come un'ascesa inevitabile.

Homo sapiens, il sopravvissuto

Potremmo però insistere nell'ostinazione finalistica, accarezzata dai teologi di successo in missione consolatoria, e ipotizzare che almeno Homo sapiens, solo lui, faccia eccezione. Niente di più improbabile. Ottomila generazioni fa (circa 200 mila anni fa) compaiono i primi Homo sapiens in Africa subsahariana, in una fase di ulteriore inaridimento in concomitanza con la penultima glaciazione quaternaria. E una popolazione circoscritta, che porta novità salienti sia nell'anatomia slanciata e nella capacità cranica, sia soprattutto nell'espressione dei geni che regolano i tempi dello sviluppo. Il prolungamento delle fasi di crescita, che durano di più che in tutte le altre forme di Homo, è stato forse il nostro segreto più importante, perché ha influito sull'espansione e sulla riorganizzazione del cervello, sulle capacità di apprendimento, sull'organizzazione sociale e sul linguaggio. Siamo la specie ominina che resta immatura e giovane più a lungo. Da una zona forse vicina al sito eritreo di Abdur, dove la presenza di Homo sapiens è attestata 125 mila anni fa, iniziano le dispersioni multiple della nostra specie fuori dall'Africa, seguendo spesso gli stessi tracciati delle precedenti diaspore. Le espansioni di Homo sapiens hanno lasciato una traccia genetica flebile ma significativa. I quasi sette miliardi di esseri umani che abitano oggi il pianeta presentano una variazione genetica molto ridotta e proporzionalmente più bassa mano a mano che ci si allontana geograficamente dal continente africano. Questo dato suggerisce che l'intera popolazione umana sia discesa da un piccolo gruppo iniziale, che conteneva gli antenati di tutti noi e che si stima non superasse le poche migliaia di individui.

Poi questa popolazione pioniera originaria è cresciuta e si è diffusa, irradiando di volta in volta nuovi gruppi fondatori di piccole dimensioni, i quali a partire da 60-50 mila anni fa hanno rapidamente colonizzato prima il Vecchio Mondo e poi per la prima volta anche l'Australia (già 50 mila anni fa, attraversando un braccio di mare) e le Americhe (passando per il continente ora sommerso della Beringia). All'arrivo dei primi Homo sapiens, l'Eurasia era già abitata da altre specie umane, derivanti dalle precedenti ondate di espansione, come Homo neanderthalensis (estinto a Gibilterra intorno a 28 mila anni fa) e il piccolo Homo floresiensis (estinto sull'isola di Flores in Indonesia intorno a 15-12 mila anni fa). Siamo insomma una specie africana geneticamente omogenea e giovane, che fino a poche migliaia di anni fa ha convissuto con altre forme umane. Mentre tutto ciò accadeva, le contingenze ambientali continuarono a deviare, più volte, la traiettoria della storia. Alcuni dati molecolari attestano un calo della popolazione di Homo sapiens intorno a 70-75 mila anni fa, in concomitanza con il crollo delle temperature globali dovuto all'«inverno vulcanico» provocato dalla catastrofica eruzione del Toba, sull'isola di Sumatra: centinaia di chilometri cubi di magma eruttato, con l'immissione in atmosfera (verso l'Oceano Indiano) di 800 chilometri cubi di cenere. Fu un disastro ecologico globale, in seguito al quale noi ci saremmo infilati in quello che gli esperti chiamano un «collo di bottiglia» evoluzionistico: una drastica riduzione della popolazione, al limite della scomparsa, e poi una ripartenza dai pochi sopravvissuti al cataclisma. La variazione genetica ridotta degli esseri umani attuali porta a pensare quindi che non solo il gruppo fondatore iniziale sia stato piuttosto piccolo, ma che in seguito la popolazione umana abbia attraversato drammatiche riduzioni a causa di crisi ambientali. Altri studiosi pensano che il (o un) collo di bottiglia si sia verificato già prima, in Africa, nel lungo periodo glaciale che va da 190 a 123 mila anni fa. Per il gioco dei venti e delle precipitazioni, le glaciazioni portano infatti aridità in Africa e forse gli sparuti Homo sapiens rimasti hanno trovato rifugio alla desertificazione nelle confortevoli coste meridionali della regione del Capo, in Sudafrica, all'estremità meridionale della Rift Valley. Qualunque cosa sia successa, i dati molecolari confermano che in almeno una fase della nostra storia evolutiva ci siamo ritrovati davvero in pochi, sull'orlo dell'estinzione, e che ce l'abbiamo fatta per il rotto della cuffia. Che ironia, se fosse andata diversamente: ora non ci sarebbe una specie umana autoproclamatasi «sapiens» e convinta di essere l'apice dell'evoluzione, il tronfio prodotto di una grande attesa finalistica. Nelle Operette morali, Giacomo Leopardi immagina il dialogo post-apocalittico tra uno gnomo e un folletto. Lo gnomo commenta: «Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitasse, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli».

 

Nuove domande appassionanti, e dibattiti da archiviare

Nell'anno in cui sentiremo ogni tipo di stupidaggine superstiziosa sulla fine del mondo, ben pubblicizzata in prima serata, è importante ricordare che l'apocalisse (degli altri) c'è già stata più volte, e che noi non saremmo qui senza la fine del mondo degli altri. Il ruolo dei fattori ecologici contingenti si è manifestato infatti anche molto prima che iniziasse la nostra storia di ominini. La quinta fra le maggiori estinzioni di massa del passato (fra Cretaceo e Terziario, 65 milioni di anni fa) liberò le nicchie ecologiche indispensabili per la successiva diversificazione dei mammiferi, primati compresi. Ma i dinosauri stessi, vittime per la quasi totalità dell'asteroide, dovevano una parte delle loro fortune pregresse a non meno catastrofiche estinzioni di massa più remote, come quella alla fine del Triassico, 200 milioni di anni fa circa, che si era portata via i loro maggiori competitori, i crurotarsi. Alla fine del Permiano, 51 milioni di anni prima, un'altra colossale estinzione di massa provocata da enormi eruzioni vulcaniche aveva spazzato via il 90 per cento degli organismi marini e il 70 per cento di quelli terrestri. Un'ecatombe micidiale, a suo modo «democratica», un'improvvisa potatura radicale dell'albero della vita che ha risparmiato soltanto un decimo dei rametti. Secondo uno dei massimi esperti in materia, il paleontologo Michael J. Benton, quella volta c'è mancato poco che la vita scomparisse del tutto. Senza quell'asteroide e senza quei fiumi di basalto fuso, la storia della vita avrebbe preso tutt'altra direzione.

È importante sottolineare che queste evidenze si basano su un raffinamento eccezionale delle metodologie di datazione e di indagine, resosi possibile solo negli ultimi anni. Come notano diversi autori dei saggi qui presentati, oggi esistono tecniche di studio e di misurazione dell'antichità dei reperti, da usare sempre in combinazione le une con le altre, che non hanno precedenti nella storia della disciplina. Datazioni relative e assolute - di tipo archeologico, di tipo geologico e ottenute attraverso nuove tecnologie di fisica nucleare applicate alla geocronologia - si uniscono alle comparazioni morfologiche e ai sempre più abbondanti dati provenienti dalle analisi genetiche. Non era mai successo che si potesse estrarre il dna antico da fossili di decine di migliaia di anni fa, o che una tomografìa potesse sezionare denti e ossa scovando dettagli infinitesimali mai osservati prima. Ne risulta un quadro coerente di prove convergenti che non è mai stato così robusto, unitamente a modelli di ricostruzione delle parentele evolutive sempre più precisi. Chi si compiace di non riconoscere ancora alla biologia evoluzionistica, e all'evoluzione umana in particolare, uno statuto di scientificità più che invidiabile dimostra di non essere al corrente di quanto sta avvenendo sul campo.

La cautela metodologica invocata da alcuni autori qui, come Bernard Wood e Lee Berger, nell'inferire con troppa sicurezza rapporti di discendenza o nel sostenere di aver trovato «l'antenato comune» fondamentale (o ancor peggio l'«anello mancante»), è dovuta proprio all'inedita articolazione del quadro empirico emerso in questi anni e alla valanga di nuove informazioni in attesa di una corretta interpretazione. Non è dunque un segno di debolezza o di incertezza come taluni vorrebbero far intendere, ma al contrario di accresciuta solidità scientifica. Se ne facciano una ragione i negazionisti imperterriti, i perplessi d'ordinanza, quelli ancora ossessionati dagli «errori di Darwin», e chi masticando un po' di falsificazionismo si è fatto l'idea che la scienza non possa mai raggiungere un consenso generale attorno a evidenze corroborate oltre ogni ragionevole dubbio.

A proposito: che fine hanno fatto quelli che un paio di anni fa sostenevano che gli umani avevano cavalcato in groppa ai dinosauri, che il Grand Canyon si era formato a causa del diluvio universale, che il darwinismo era morto e che non si sono mai trovati gli anelli mancanti dell'evoluzione? Sembravano così convinti e agguerriti. Eppure non è uscito un solo articolo scientifico degno di questo nome a conferma di simili idiozie, non un solo accenno di dibattito nelle sedi qualificate, nessun intervento accettato nei convegni internazionali della comunità scientifica di riferimento, e chiaramente nessuna novità empirica a sostegno di quelle scempiaggini. Nulla di nulla, ovviamente. Fiato e inchiostro sprecati, mentre gli scienziati facevano scoperte formidabili sull'albero di discendenza delle molteplici specie umane. Il richiamo alla «libertà di espressione» nel caso dell'antievoluzionismo è semplicemente ridicolo. Allo stesso modo, quando all'interno di una cornice scientifica coerente si sviluppano confronti tra ipotesi diverse è segno che una disciplina è in salute e in rapido avanzamento, non certo in crisi. Oggi infatti non abbiamo soltanto inedite risposte a vecchi quesiti - come nel caso dell'affascinante scenario qui proposto da Giorgio Manzi e Fabio Di Vincenzo per spiegare l'evoluzione del linguaggio - ma anche e soprattutto nuove domande, che fino a qualche anno fa sarebbero state impensabili. E ciò dovrebbe seppellire ogni altro dibattito di retroguardia, noiosamente privo di qualsiasi interesse. Chiediamoci invece perché siamo rimasti l'unica forma umana sul pianeta, e perché così di recente. Che fine hanno fatto tutti gli altri? Li abbiamo estinti noi oppure ancora una volta siccità e glaciazioni hanno fatto la loro parte? Come è stata la convivenza con altri umani, i cui pensieri e le cui emozioni - ci racconta Juan Luis Arsuaga - sono oggi perduti per sempre come lacrime nella pioggia? Quali abitudini avevano, come vedevano il mondo, come comunicavano? E ancora, esiste una connessione causale tra il fatto che siamo rimasti soli e lo svolgersi delle successive espansioni di Homo sapiens, con il contemporaneo sviluppo dell'intelligenza simbolica e il completamento del tratto vocale che permette il linguaggio articolato, come suggeriscono qui Philip Lieberman e Robert McCarthy? Il legame tra la nostra creatività mentale di specie parlante e l'estinzione di tutti gli altri sembra paradossale, ma illumina quella che da sempre è stata la radicale ambivalenza del comportamento umano. L'«ondata finale» della nostra specie - come ipotizzano Zenobia Jacobs e Richard G. Roberts - è forse legata agli episodi di contrazione e di espansione demografica riscontrati in Africa intorno a 60-80 mila anni fa, e dunque anch'essa sarebbe riconducibile in ultima analisi al modo in cui fattori geografici e climatici hanno inciso sulla sopravvivenza di piccoli gruppi umani. In tal caso persino la nascita della mente umana moderna in Homo sapiens sarebbe il frutto di molteplici esplosioni «punteggiate» di innovazione culturale in popolazioni umane distinte, sballottate in Africa da eventi ecologici su larga scala. Un'altra storia di ghiacci, di mari, di deserti, di correnti oceaniche e atmosferiche.

Il tempo e il caso raggiungono tutti

Fin qui le domande scientifiche, che richiedono risposte sperimentali e nuovi modelli. Ma esistono anche grandi domande filosofiche che diventano ineludibili. Come cambia la nostra visione del «posto dell'uomo nella natura», interrogativo che Thomas H. Huxley si poneva nel 1863 avendo a disposizione nemmeno un millesimo delle conoscenze paleoantropologiche di oggi? La radicale contingenza storica e geografica dell'evoluzione umana, lungi dal consegnarci a un'insensatezza nichilistica, ci restituisce al contrario un rinfrancante e concreto senso di appartenenza alle dinamiche fisiche ed ecologiche di un pianeta attivo, che proprio in virtù della sua instabilità ha posto le condizioni per la nostra comparsa. La gratitudine per questa possibilità è pari alla consapevolezza della finitudine e della fragilità del nostro destino, il che non può che portarci a un atteggiamento di umiltà nei confronti di un sistema naturale che conosciamo solo in parte e che ciò nonostante abbiamo già devastato. Anziché estrarre forzatamente dalla natura appelli morali e leggi di comportamento, potremmo onorare la nostra specificità di creatori di norme morali per condividere un maggiore rispetto verso le generazioni a venire.

Contingenza significa leggere in modo nuovo il significato evolutivo delle diversità umane, antiche e presenti, e insieme la profonda unità storica dell'umanità, come propongono nei loro articoli qui David Abulafia e Marco Aime. Contingenza significa anche accettare l'idea che non esistano valori «assoluti» in termini evolutivi (l'intelligenza? la complessità? la socialità?), bensì sviluppi relativi di singole specie, ciascuna unica a suo modo, in un contesto di pluralità, fino a tempi recentissimi. È questo pluralismo relativistico che permette di avvicinarsi davvero alla comprensione di che cosa possa aver significato l'esistenza di forme umane «diversamente sapiens», come propone Arsuaga nella sua ricostruzione «dal punto di vista dei Neandertal». Archiviamo dunque la vana ricerca degli elementi di superiorità o di eccezionalità di Homo sapiens, o come si suole dire il suo «salto ontologico», e concentriamoci sui fattori di unicità e di novità che in un contesto di continuità naturale e di contingenza ci hanno reso umani a modo nostro.

La posta in gioco è alta, perché si tratta di una normalizzazione naturalistica in campo umano: cadono le grandi eccezioni dell'evoluzionismo antropologico, in primis la linearità del progresso, mentre i presunti misteri inawicinabili, come l'evoluzione del linguaggio e della mente, sono sempre più cinti d'assedio da indizi empirici rilevanti. In aggiunta, il fatto interessante è che questa normalizzazione non sembra per nulla riconducibile a un'impresa «riduzionista», come spesso si paventa. Semmai il contrario.

E proprio dai nuovi studi sull'evoluzione umana che si evince l'impossibilità di ridurre la spiegazione a un solo livello prioritario (per esempio genetico, o anche generalmente biologico) dal quale estrapolare poi tutto il resto. Per capire la storia naturale umana occorre oggi fare interagire strati differenti di analisi, laddove i livelli di organizzazione più alti presentano proprietà autonome e non deducibili interamente dai livelli più bassi, per quanto esse restino ancora interamente naturali. Bisogna far convergere per la prima volta schemi provenienti dalla paleo-climatologia, dall'ecologia, dalla geologia, dalla paleontologia, dalla genetica, dall'anatomia comparata, dall'archeologia, dalla linguistica, dall'evoluzione culturale, e da molte altre competenze nelle scienze naturali e nelle scienze umane. E così si capisce che chi agita lo spauracchio del «riduzionismo» ha semplicemente il problema di giustificare l'inserimento del sovrannaturale dove non ve n'è alcun bisogno.

L'estrema perifericità della condizione umana, sul terzo pianeta di un sistema solare ai margini di una galassia come tante, va accolta nella sua tragica bellezza. E un'occasione di emancipazione: dalle ingannevoli consolazioni finalistiche, e soprattutto dagli officianti di tutte le Chiese che pretendono di addomesticare la storia per giustificare il presente. Anche in quel 21 dicembre 2012 e nella sbiadita attesa millenaristica del suo esito si nasconde il rifiuto psicologico dell'idea che il cosmo non abbia alcun senso né alcuna direzione o escatologia, e che «noi umani» - come scriveva Stephen J. Gould, scomparso dieci anni fa - «abitiamo questo pianeta senza una ragione specifica né uno scopo stabilito dalla natura». I figli dell'asteroide e della Rift Valley sono restii a convincersi, come invece lo era nel IV o III secolo a.C. l'ignoto estensore del Qohelet (9,11), che sotto il sole «il tempo e il caso raggiungono tutti». Nessuno ha saputo dirlo meglio di Leopardi nelle Operette morali, in quel «Dialogo della natura e di un islandese» in cui la prima, matrigna e indifferente, apostrofa il secondo: «Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? [...] se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei».

TIM D. WHITE

'SAPIENS' E GLI ALTRI 'GENERI UMANI'

La nostra linea evolutiva non è mai stata sola. La più grande diversificazione tra le specie degli ominidi si colloca circa due milioni di anni fa, quando in Africa sono coesistite 'brevemente' ben quattro linee evolutive distinte. Anche gli esseri umani moderni sono emersi nel contesto della convivenza con altre forme umane. Le lezioni apprese in una valle africana da uno dei maggiori paleoantropologi viventi, scopritore della specie 'mosaico' Ardipithecus e dei primi Homo sapiens idaltu.

Sapiens l'Africano

L'unico accenno di Charles Darwin all'evoluzione umana contenuto nella sua fondamentale opera Sull'origine delle specie (1859) si trova nel capitolo conclusivo (il quattordicesimo): «Si farà luce sull'origine dell'uomo e sulla sua storia». Nella sua autobiografia Darwin giustifica tale laconicità: «Sarebbe stato inutile e deleterio per il successo del libro aver esposto, senza fornire alcuna prova, la mia convinzione in relazione alla sua origine». La sua affermazione più audace si trova nel libro L'origine dell'uomo del 1871, dove il grande evoluzionista conclude: «E in qualche modo più probabile che i nostri remoti progenitori siano vissuti nel continente africano più che in qualsiasi altro luogo». Oggi, grazie a una vasta gamma di scoperte e di tecnologie, siamo in grado di ricostruire in modo estremamente dettagliato la storia che Darwin aveva soltanto intuito.

La grande cornice

Una dozzina di milioni di anni fa la Terra era un pianeta delle scimmie. Le testimonianze fossili indicano che molte specie di grandi scimmie erano diffuse in tutto il Vecchio Mondo, dalla Namibia alla Cina. Circa sette milioni di anni fa, una specie da tempo scomparsa, della quale ancora non si sono rinvenuti fossili, è stata l'ultimo antenato comune degli esseri umani e degli scimpanzé, i nostri più prossimi parenti viventi. A partire da sei milioni di anni fa un genere «figlio» di questa forma aveva sviluppato un primitivo bipedismo e una dentatura con canini di ridotte dimensioni. Circa due milioni di anni più tardi, i discendenti di tale genere si erano diffusi in tutto il continente africano. Dopo un altro milione di anni, a una delle specie del genere Australopithecus si attribuisce il folgorante inizio di una rivoluzione tecnologica basata sulla fabbricazione di utensili di pietra scheggiata che contribuì a favorire l'espansione dei successivi ominidi in tutta l'Europa e nell'Asia. Il genere Homo è il gruppo che comprende gli esseri umani moderni ma anche i primi ominidi che erano usciti dall'Africa. La prima specie del genere che compì questo spostamento è Homo erectus: esso si diffuse rapidamente dall'Africa in tutta l'Eurasia a partire da 1,8 milioni di anni fa, giungendo a est fino all'Indonesia e a ovest fino alla Spagna, ben prima della fase in cui si ebbero le grandi glaciazioni. Dopo numerosi cicli di glaciazioni alternate a fasi interglaciali e quasi un milione di anni più tardi, un altro discendente africano di Homo erectus si avventurò fuori da questo continente: è la specie che infine, non senza vanagloria, denominò se stessa Homo sapiens. Oggi questa specie ha raggiunto la Luna e forse presto porrà piede su un pianeta vicino. Niente male per un primate bipede.

Gli scettici del XIX secolo rappresentarono ciò che molte persone vedevano come l'impossibilità di un'evoluzione dell'uomo in una vignetta nella quale compariva uno scimpanzé con la testa di Darwin pronto a camminare appoggiandosi sulle nocche delle mani. Anche se Darwin era stato esplicito, fin dai primi enunciati della sua teoria, sul fatto che noi umani non ci siamo evoluti dagli attuali scimpanzé, per molto tempo si è rimasti imbarazzati e prevenuti di fronte a simili idee e al concetto di «anello mancante». Thomas Huxley, strenuo difensore di Darwin, concludeva i propri studi di anatomia sulle grandi scimmie africane sostenendo che esse erano i nostri parenti più prossimi tra le forme viventi: una conclusione che ha avuto una conferma dalle ricerche di biologia molecolare, le quali hanno dimostrato (e continuano, con metodologie sempre più accurate, a dimostrare) quanto tali animali siamo vicini a noi sul piano genetico. È quasi ironico constatare come Darwin fosse quasi solo nel limitare il ricorso ai primati attuali come controfigure dei nostri più vicini antenati.

La recente scoperta di antenati dell'uomo decisamente diversi dagli scimpanzé, risalenti a una fase di poco successiva alla separazione delle due linee evolutive, ha dimostrato che questa prudenza aveva solide motivazioni e che l'evoluzione degli attuali scimpanzé si è svolta per un lungo periodo parallelamente a quella dell'antenato comune che in passato abbiamo condiviso.

Dall'epoca di Darwin tutti i primati non umani imparentati con la nostra specie più strettamente dei nostri parenti prossimi viventi, gli scimpanzé, sono stati ascritti, nella sistematica zoologica, alla famiglia Ominidi (Hominidae). La scoperta delle forti affinità sul piano genetico degli esseri umani e delle grandi scimmie africane ha richiesto un cambiamento nella sistematica, in modo da raggruppare in un'unica famiglia i primati africani e la specie umana. Ciò significa che oggi la famiglia Ominidi comprende anche scimpanzé e gorilla, mentre gli Ominidi umani sono classificati nella sottofamiglia Ominini (Homininae).

Qualunque sia il nome che arbitrariamente assegniamo al nostro ramo dell'albero evolutivo dell'ordine Primati, il ramo stesso risale a circa sette milioni di anni fa, quando una specie di grande scimmia ha dato origine, per suddivisione, a due sotto-rami distinti. Per questa ragione e cercando di privilegiare concetti chiari e stabili, preferisco comunque continuare a utilizzare, nella classificazione di tutti i membri del clade al quale appartiene l'uomo (a partire dalla fase successiva all'ultimo antenato comune tra noi e gli scimpanzé), la dizione «Ominidi».

Ardipithecus: l'ominide della selva

Non disponiamo ancora di un numero sufficiente di reperti fossili per poter dire molto sugli ominidi davvero primitivi. Le caratteristiche essenziali dei resti fossili finora rinvenuti ci portano a pensare che questi esseri fossero bipedi. Sappiamo che la loro organizzazione sociale era diversa da quella di qualsiasi altra grande scimmia, vivente o fossile, perché i canini dei maschi erano assai più piccoli e meno appuntiti di quelli di ogni altra scimmia non umanoide e dunque non potevano essere un'arma di difesa o di offesa. Ai diversi fossili africani di questi primissimi ominidi riferibili a circa sei milioni di anni fa sono stati attribuiti vari nomi specifici: Sahelanthropus tchadensis ai resti rinvenuti nel Chad; Orrorin tugenensis a quelli del Kenya; Ardipithecus kadabba a quelli scoperti in Etiopia. Nessuna di queste forme è simile alle grandi scimmie attuali e tutte condividono alcune caratteristiche anatomiche che si riscontrano soltanto nel più tardo genere Australopithecus.

Prima del ritrovamento di questi fossili, molti ricercatori avevano previsto che ogni nuovo scavo avrebbe continuato a fornire, dagli strati via via più antichi, resti di forme simili ad Australopithecus, permettendo di seguire a ritroso tutta la linea evolutiva fino alla biforcazione tra quella degli ominidi e quella degli attuali scimpanzé. La recente scoperta di uno scheletro di Ardipithecus ramidus da giacimenti dell'Etiopia databili a 4,4 milioni di anni fa ha mandato all'aria tutte queste previsioni perché esso presenta caratteristiche molto diverse da quelle di un Australopithecus, anche del più primitivo. Lo scheletro parziale di questo primate, soprannominato «Ardi», sembra indicare che l'ultimo antenato comune che condividiamo con lo scimpanzé non era una sorta di compromesso tra uno scimpanzé e un essere umano: si trattava piuttosto di un primate che mancava di alcune delle specializzazioni tipiche di questi nostri cugini, come la capacità di camminare appoggiandosi anche sulle nocche delle mani, una dieta essenzialmente da erbivori, la tendenza alla contesa tra i maschi e la capacità di arrampicarsi sugli alberi. A. ramidus era una specie «mosaico»: parzialmente bipede, onnivoro con canini piccoli, dimorfismo sessuale poco accentuato, con preferenza per l'habitat costituito dalle foreste. «Ardi» rappresenta la prima fase dell'evoluzione degli ominidi. La storia di Ardi mostra come l'evoluzione delle tecnologie abbia trasformato i nostri strumenti d'indagine sulle origini dell'uomo. La «cassetta degli attrezzi» del paleoantropologo si è enormemente arricchita rispetto alla dotazione di martelletti, piccozzine e pennelli che era tipica dei ricercati del passato. I metodi utilizzati per datare le rocce che contengono ossa fossilizzate o manufatti sono oggi, per la maggior parte, basati su misure del decadimento radioattivo di varie sostanze. Ad esempio, la datazione ottenuta dal conteggio dei radioisotopi presenti nelle ceneri vulcaniche i cui strati contenevano i resti di Ardi - cioè lo scheletro, parzialmente conservato, di Ardipithecus ramidus - indica che questi sedimenti si sono depositati 4,4 milioni di anni fa. Utilizzando la microtomografia computerizzata possiamo scrutare all'interno dei fossili senza danneggiarli. Nel caso di Ardi, 5 mila sezioni microtomografiche condotte sui frammenti del suo cranio schiacciato e frammentato hanno consentito a un gruppo di lavoro dell'Università di Tokyo di costruire un modello virtuale del cranio stesso e, in seguito, di ottenerne con una stampante un'immagine tridimensionale.

Tra le altre tecnologie che hanno avuto un'importanza considerevole nelle ricerche sui nostri antenati si conta anche il Gps differenziale: per mezzo di questo strumento si possono cartografare i siti dei ritrovamenti con la precisione di meno di un metro e individuare le antichissime cave delle pietre da cui erano ricavati gli utensili. Le prospezioni satellitari offrono immagini che permettono di identificare l'emergere in superficie di antichi sedimenti. Binocoli che forniscono immagini integrate consentono di osservare questi affioramenti anche da grandi distanze.

Si usano spettrografi di massa per esaminare le caratteristiche di tracce e suoli attorno a qualsiasi animale e anche per rilevare la composizione isotopica dello smalto dei loro denti: un importante aiuto per determinarne l'ambiente e la dieta. Usiamo scannerizzatori per acquisire e analizzare la forma dei fossili che rinveniamo. Possiamo perfino confrontare le specifiche caratteristiche chimiche di rocce provenienti da siti distanti tra loro anche migliaia di chilometri. Abbiamo ad esempio confrontato la composizione delle ceneri vulcaniche delle sponde del medio corso dell'Awash, la nostra area di ricerca nella depressione dell'Afar in Etiopia, con affioramenti di ceneri di altri siti africani e con strati di depositi vulcanici in nuclei rocciosi di mare profondo del Golfo di Aden.

Più linee evolutive

La quantità di testimonianze che dimostrano come i nostri antenati siano «comparsi» in Africa è imponente, una vera montagna. Ciò che rimane meno nettamente definito è quale sia stato il pungolo dell'evoluzione. E la risposta ci viene dagli ambienti in cui questi predecessori sono vissuti e dall'influsso esercitato dallo sviluppo tecnologico: due fattori che hanno enormemente ampliato la loro nicchia ecologica. Sono molti i paleoantropologi che attualmente chiamano in causa i mutamenti climatici come principale motore della nostra evoluzione. Non sono certamente i primi a riconoscere l'importanza dell'impatto ambientale sui processi biologici. Per un lungo periodo ben prima che si rinvenissero resti fossili specifici, Jean-Baptiste Lamarck, uno dei primi studiosi che all'inizio del XIX secolo ipotizzarono l'esistenza del processo di evoluzione, riconobbe l'ambiente della prateria come elemento fondamentale dell'evoluzione dei nostri antenati dallo stadio di animali abituati a vivere sugli alberi a quello di bipedi. L'idea di Lamarck venne ripresa dall'anatomista australiano Raymond Dart, negli anni Venti del secolo scorso, il quale ipotizzò correttamente che i resti fossili del bambino cui attribuì il nome di Australopithecus («scimmia del Sud») appartenevano a una specie adattata alla vita in ambienti aperti ed erbosi.

La fiducia nella validità dell'«ipotesi della savana» incominciò a declinare negli anni Novanta del secolo scorso, quando i fossili di Ardipithecus vennero rinvenuti in contesti che suggerivano l'esistenza di un ambiente boschivo. Oggi linee indipendenti di evidenze empiriche suggeriscono che i primi ominidi fossero effettivamente creature arboricole: gli adattamenti che permettevano a questi primati di arrampicarsi; la dieta deducibile dalla forma, dall'usura e dalla composizione isotopica dei denti; le migliaia di piante, di insetti, di chiocciole, di uccelli e di mammiferi che preferiscono tali ambienti e i cui resti abbondano negli stessi siti. Australopithecus, invece, comparve successivamente e sembra davvero essere associato a ecosistemi più aperti.

Già dagli anni Quaranta si sa che il bacino, le ginocchia e i piedi di Australopithecus erano adattati al bipedismo. Sono state tuttavia le scoperte, negli anni Settanta, dei resti di «Lucy», in Etiopia, e di numerose orme fossili, in Tanzania, a permettere di considerare questo genere come rappresentante della fase evolutiva in cui successivamente si sono evoluti tutti gli ominidi. Circa tre milioni di anni fa, le specie di Australopithecus si erano già diffuse da nord a sud in una buona parte dell'Africa.

Agli antropologi del XX secolo, Australopithecus sembrava esser stato l'elemento di transizione, instabile, tra le grandi scimmie e l'uomo. Oggi però, tenendo conto delle scoperte relative ad Ardipithecus, il genere Australopithecus è interpretato come il rappresentante di una fase di lunga durata nel quadro complessivo della nostra evoluzione. In particolare le forme più robuste, oltre ad acquisire i comuni mezzi per realizzare la stazione eretta e il bipedismo, presentano l'adattamento a una masticazione di grande potenza ed efficienza e lo sviluppo di molari relativamente grandi con smalto di notevole spessore. È probabile che qualche specie della stessa fase, ma meno massiccia e robusta, abbia dato origine al genere Homo. A queste forme robuste il paleontologo Robert Broom, quando le scoprì verso la fine degli anni Trenta in Sudafrica, assegnò la denominazione di Paranthropus (quasi uomo) robustus. Avevano molari di grandezza eccezionale, canini e incisivi piccoli, mandibola massiccia, faccia piatta, cervello di dimensioni modeste e, di solito, una cresta ossea sagittale (dalla fronte alla nuca) nella parte superiore della calotta cranica. In seguito a questo primate è stato assegnato il nome Australopithecus robustus: esso è presente nella documentazione fossile a partire da più di 2,5 milioni di anni fa, in vari siti dell'Africa orientale, e gli esemplari più recenti risalgono a qualcosa come 1,2 milioni di anni fa. A quest'ultima data, il nostro genere, Homo, era già sulla scena da più di un milione di anni. Ci sono ancora alcuni misteri da risolvere a proposito dell'australopiteco robusto; comunque una circostanza è ben chiara: a partire da 2,5 milioni di anni fa, la nostra linea evolutiva non è stata sola.

Cespuglio o cactus?

Il paleontologo statunitense Stephen J. Gould ha scritto nel 1977 un saggio, ormai divenuto un classico, nel quale prevedeva che, in base alle nuove scoperte, la tradizionale rappresentazione dell'evoluzione della famiglia ominide avrebbe dovuto essere abbandonata e sostituita con quella, da riconoscere senz'altro come più attendibile, «a cespuglio». Oggi ci si imbatte spesso in elenchi di oltre 25 specie distinte di ominidi e si ritiene che la previsione di Gould sia stata soddisfatta. Ma non dobbiamo correre troppo. Molte di queste specie sono «cronospecie», che si evolvono una dall'altra, come accade per due specie di Australopithecus, rispettivamente A. afarensis e A. anamensis. Questi nomi rappresentano in realtà soltanto divisioni temporali arbitrarie di una singola specie in evoluzione.

Oggi un biologo che affronti il problema della diversificazione delle specie deve contare il numero delle specie imparentate tra loro che esistono nella stessa fase temporale. Quando effettuiamo questa operazione su tutte le testimonianze di ominidi fossili, ciò che otteniamo non è un cespuglio, ma qualcosa che assomiglia a un cactus saguaro, con un numero ridotto di rami o di linee evolutive specifiche. In effetti si osserva che la più grande diversificazione tra le specie degli ominidi si colloca circa due milioni di anni fa, quando, in Africa, sono coesistite «brevemente» ben quattro linee evolutive distinte.

La domanda chiave allora non riguarda più il numero delle specie che esistevano per se: ci si deve piuttosto chiedere perché la diversificazione delle specie è stata tanto limitata nel «nostro» ramo dell'albero evolutivo rispetto a quella riscontrabile in altri mammiferi, quali ad esempio le volpi volanti (i grandi pipistrelli della frutta) o le scimmie del Nuovo Mondo. La ragione è probabilmente da ricondurre al fatto che la nicchia ecologica dei nostri antenati ha continuato a espandersi, da quando, circa sei milioni di anni fa, l'ambiente boschivo di tali onnivori si è allargato ecologicamente in ambienti più aperti, e di nuovo quando la tecnologia ne ha ulteriormente ampliato le capacità e gli orizzonti.

È davvero frustrante la rarità dei resti di ominidi che si rinvengono tra le testimonianze fossili. Tuttavia in una certa fase intorno a 1,6 milioni di anni fa questi primati hanno incominciato a lasciare qualche loro biglietto da vista, sotto forma di manufatti in pietra scheggiata. Nei siti archeologici di Gona e del corso medio dell'Awash, non lontani uno dall'altro, si rinvengono oggi in abbondanza testimonianze inequivocabili dei primi manufatti fabbricati da ominidi. Negli stessi contesti, le ossa fossili di grandi mammiferi presentano ben evidenti tracce di segni lasciati da strumenti affilati. La produzione di frammenti di pietra dal bordo tagliente ottenuto per scheggiatura permetteva agli ominidi di mangiare grandi quantità di carne e di midollo, alimenti di cui in precedenza i primati non potevano disporre. Al tempo stesso, le varie componenti della pressione selettiva associate a tali attività (in modo particolare per primati bipedi che operavano in modo cooperativo sotto il naso di molti predatori, dalle iene alle tigri dai denti a sciabola) avrebbero portato a impressionanti cambiamenti anatomici, come l'ampliamento della scatola cranica nel genere Homo. La tecnologia della lavorazione della pietra ha esteso enormemente la nicchia ecologica dei nostri antenati al pari della distribuzione geografica, consentendo a Homo erectus di raggiungere l'Europa e l'Indonesia più di 1,8 milioni di anni fa.

L'emergere dell'umanità moderna

La prima diffusione degli ominidi usciti dall'Africa si è avuta dunque circa due milioni di anni fa, come indicano gli utensili di pietra e un'eccezionale quantità di resti fossili di ominidi scoperti nel sito di Dmanisi in Georgia. Questa migrazione è stata talvolta definita «Fuori dall'Africa. Prima parte», ma l'implicita deduzione di un drastico abbandono del continente africano da parte degli ominidi è evidentemente scorretta. L'Africa ha in realtà continuato a lungo a essere il crogiuolo della nostra evoluzione. Lo stesso Homo erectus, protagonista di questa prima migrazione, è ovunque presente, con la sua tecnologia delle amigdale, in questo continente, come dimostrano le testimonianze di un'occupazione da parte di tale specie in numerosi siti, dal Capo di Buona Speranza alle zone vicino al Cairo.

Darwin aveva previsto il ritrovamento, in Africa, di resti fossili in grado di chiarire il processo dell'evoluzione umana. Oggi sarebbe ben contento di apprendere che non si sono soltanto rinvenuti fossili delle prime due fasi della nostra evoluzione, ma anche resti che illustrano specie diverse nell'ambito del nostro genere, Homo. La prima specie è Homo habilis, i cui rappresentanti fabbricavano, partendo da schegge e nuclei di pietra, gli attrezzi che furono il principale elemento della tecnologia per almeno un milione di anni. Venne poi Homo erectus. È ben chiaro che i nostri antenati hanno continuato a evolversi in Africa, mentre alle latitudini delle aree settentrionali i terreni venivano più e più volte sepolti da spesse coltri di ghiaccio.

A partire da 160 mila anni fa, gli ominidi africani avevano caratteristiche quasi del tutto simili a quelle dell'uomo anatomicamente moderno, con una faccia un po' più alta della nostra e un cranio un po' più robusto. La loro capacità cranica era del tutto uguale alla nostra. In Etiopia, in una località detta Herto dagli Afar, la popolazione locale, si sono rinvenuti i crani di due adulti e di un bambino che costituiscono alcune delle migliori testimonianze sull'anatomia di questa prima popolazione anatomicamente umana come noi. Vivevano presso un lago e una delle loro attività era la macellazione di carogne di ippopotami, per la quale impiegavano il loro ricco arsenale di utensili di pietra. Altre azioni degli esseri umani di Herto ci appaiono come tipicamente umane: essi eseguivano rituali funerari. Segni finemente incisi e l'accurata politura del cranio di un bambino indicano che questo resto è stato scarnificato prima di disseccarsi e che è stato poi a lungo manipolato.

L'esame del dna delle popolazioni attuali dimostra che tutti portiamo in noi una sorta di «fossile vivente» in grado di aprire una finestra sul nostro remoto passato. Non importa se il campione è stato prelevato nell'Artico o nel Congo: la struttura del nostro dna è straordinariamente simile tra un individuo e un altro, soprattutto se si effettua una comparazione con la variabilità riscontrabile nella maggior parte degli altri mammiferi. Ed è maggiore la variabilità osservabile tra le varie popolazioni dell'Africa. Ciò significa che noi siamo una specie recente e che gli antenati di tutti gli uomini anatomicamente moderni erano africani.

In Asia e in Europa queste forme avrebbero incontrato popolazioni di ominidi derivati da precedenti migrazioni (come l'uomo di Neandertal) che si erano evoluti e diversificati acquisendo caratteristiche specifiche proprie. Tali specie si sono poi estinte, mentre nuovi Homo sapiens giunti dall'Africa continuarono a sviluppare le caratteristiche relativamente superficiali che oggi connotano le popolazioni geograficamente distinte della nostra (unica) specie.

Convivenze con altre forme umane

Dal momento della scoperta dei relativi resti, avvenuta verso la metà del XIX secolo, il posto che spetta nella storia evolutiva umana alla forma detta «uomo di Neandertal» è stata controversa, costituendo una sorta di mistero. I primi evoluzionisti l'adottarono senz'altro come prova dell'evoluzione della nostra specie, tuttavia, man mano che aumentava il numero dei reperti fossili in tutta la vasta area che circonda il Mediterraneo appariva chiaro che questa forma di ominide aveva caratteristiche sue proprie assai particolari. Gli scavi condotti in vari siti europei hanno dimostrato che subito dopo la scomparsa dei neandertaliani si è avuto un rapido mutamento nelle tecnologie.

La controversia circa la parentela di questi ominidi con la nostra specie (sono stati nostri antenati diretti o semplicemente «cugini»?) si è protratta per decenni, ma nuove scoperte di fossili e le analisi genetiche hanno infine risolto il problema. I primi uomini anatomicamente quasi-moderni e uomini anatomicamente moderni sono stati presenti in Africa già molto tempo prima dell'estinzione di Homo neanderthalensis, verificatasi circa 35 mila anni fa. Analisi sui genomi sembrano indicare come possibili alcuni accoppiamenti tra esemplari delle due specie, con il risultato di un passaggio di alcuni geni (al massimo una piccola percentuale) da H. neanderthalensis alle popolazioni dell'uomo anatomicamente moderno. I neandertaliani sono stati i nostri cugini prossimi, ma l'equivalente comunque di una specie evolutasi separatamente. Oggi conosciamo altre storie di convivenze umane. La scoperta dei resti di esseri umani di dimensioni ridotte nell'Isola di Flores, a est di Giava, in Indonesia, ha avuto grande risonanza in tutto il mondo nel 2003. I reperti sono stati attribuiti a una nuova specie, Homo floresiensis, alla quale (era quasi inevitabile) è stato associato il soprannome di «hobbit». Sono state proposte tre ipotesi per spiegare l'esistenza, nell'isola di Flores, di questi ominidi, i cui fossili sono databili a un periodo che va da 90 mila a 18 mila anni fa. Secondo la prima, le dimensioni abnormemente ridotte del cranio di questi uomini era il risultato di una condizione congenita.

Non è stato però possibile individuare una possibile coerenza tra tale microcefalia e una patologia dello sviluppo di questo tipo nell'uomo moderno.

La seconda ipotesi considera la possibilità di un'assai remota occupazione dell'isola di Flores da parte di un gruppo di ominidi di piccola corporatura e con una piccola scatola cranica, in altre parole di forme di Australopithecus lontanissime dal luogo d'origine o di Homo estremamente primitivi. Anche questa circostanza sembra poco probabile tenendo conto dei tempi, delle distanze, della situazione geografica e delle strutture anatomiche.

Ed ecco la terza e più probabile ricostruzione: esemplari di H. erectus o di H. sapiens provenienti da aree vicine si sono stabilite a Flores evolvendosi in «hobbit» a causa del ben noto fenomeno del nanismo insulare. Tutti i ricercatori sono comunque d'accordo nel ritenere che il mistero di Homo floresiensis potrà essere risolto del tutto soltanto acquisendo nuove testimonianze attraverso altre scoperte.

Linguaggio, simbolismo, agricoltura... e oltre

Quando l'uomo ha acquisito il linguaggio? Una domanda sulla quale antropologi e linguisti continuano a rompersi la testa. Alcuni ipotizzano che questa acquisizione si sia realizzata molto tardi, soltanto dopo che noi siamo diventati Homo sapiens e in una qualche fase dopo lo sviluppo dell'uomo anatomicamente moderno, e dunque dopo la nostra vasta diffusione fuori dall'Africa circa 60 mila anni fa. La fondazione dei linguaggi di base può aver accelerato lo sviluppo del commercio e, come ipotizza Matt Ridley nel suo libro The Rational Optimist, il commercio sta alla cultura come il sesso sta alla biologia. La prima testimonianza di un comportamento simbolico ci viene da oggetti databili a 100 mila anni fa rinvenuti in Sudafrica: conchiglie forate per farne perle di collane e pezzi di ocra la cui superficie è percorsa da solchi deliberatamente incisi. Circa 10 mila anni fa, nella cosiddetta Mezzaluna Fertile, costituita dal Vicino Oriente e dalla Mesopotamia, compaiono la pratica della semina e del raccolto di alcune piante.

Chi fra noi è abbastanza vecchio da ricordare le navicelle spaziali Apollo e i telefoni con il selettore numerico a disco è stato, nel giro di un paio di generazioni, testimone di tante novità tecnologiche da incontrare qualche difficoltà nel comprendere che una tale velocità nei cambiamenti è eccezionale. Per migliaia di anni, gli agricoltori babilonesi hanno praticato le stesse attività che già erano state praticate dai padri dei loro nonni.

A lungo si è creduto, come se si trattasse di un dogma, che soltanto dopo la domesticazione delle piante e degli animali (o, come spesso si dice, dopo la rivoluzione neolitica, caratterizzata dall'agricoltura, dall'allevamento e dalla fabbricazione della ceramica) gli esseri umani siano stati in grado di realizzare insediamenti stabili e incominciare a costruire città, innalzando edifici monumentali. Questa plausibile versione dell'evoluzione tecnologica è stata fortemente compromessa da alcuni ritrovamenti nel Vicino e Medio Oriente. A Göbekli Tepe, nella Turchia sudorientale, è stato di recente scoperto un santuario megalitico che risale ali mila anni fa. L'insediamento vanta una serie di pilastri di calcare, alti anche sei metri, sui quali sono scolpite a bassorilievo immagini di molti animali. I pilastri sono stati eretti disponendoli in modo da formare strutture monumentali circolari del diametro di 20 metri. Queste costruzioni sono di una fase precedente quella della domesticazione di piante e animali. Gli individui che le hanno realizzate vivevano ancora di caccia e raccolta. Il sito di Göbekli Tepe e altri individuati nella stessa regione mettono dunque in dubbio l'idea secondo cui l'agricoltura è stata l'elemento catalizzatore di ciò che un po' vagamente indichiamo come «civiltà». È possibile che l'elaborazione di simboli, rituali e religioni sia venuta prima e che tali manifestazioni siano la causa, invece che la conseguenza, della pratica dell'allevamento e dell'agricoltura?

Le lezioni provenienti da una valle africana

Situata nell'angolo nordorientale del continente africano, la catena dell'Afar conserva testimonianze davvero uniche sulla storia degli ominidi. Inondazioni stagionali hanno da sempre trasportato materiali sedimentari in quest'area dove essi si sono accumulati per migliaia e migliaia di anni. Proprio in questo sito nel febbraio dell'anno scorso il nostro campo di scavo, nel corso medio del fiume Awash, è stato interessato da un'inondazione. Quando le grandi quantità d'acqua sono evaporate, il millimetro di limo rimasto al suolo è diventato l'ultimo di una serie di strati sedimentari che oggi ha lo spessore di circa 1,5 km.

Questi strati si sono accumulati nel corso di sei milioni di anni mentre fiumi e laghi andavano e venivano in tutto il bacino. In prossimità della base di questa sequenza di rocce c'è Ardipithecus (non uno scimpanzé e neppure un uomo), elemento della prima parte del nostro ramo dell'albero evolutivo della famiglia ominide.

In strati databili a 4,2 milioni di anni fa si trovano i primissimi australopitechi, cui fanno seguito i fossili della specie descritta in base ai resti di «Lucy», in arenarie che hanno 3,4 milioni di anni. Al di sopra di questi, in giacimenti riferibili a 2,5 milioni di anni fa, si rinvengono testimonianze della macellazione di grandi mammiferi accompagnati da alcuni dei primi utensili di pietra scheggiata.

Un milione di anni fa questa valle era abitata da Homo erectus, che era in grado di fabbricare vere amigdale (le grandi asce di pietra scheggiata con i bordi taglienti; il nome si riferisce alla tipica forma di mandorla) e, evolvendo, diede origine a Homo rhodesiensis e in seguito a Homo sapiens idaltu, la prima forma prossima all'uomo anatomicamente moderno (il nome della sottospecie, idaltu, significa, nella lingua afar, «il più vecchio»). In alcuni degli strati più recenti, si trovano fossili così «anatomicamente moderni» che, per l'aspetto, potrebbero benissimo essere confusi tra i sette miliardi di esseri umani che oggi vivono sul pianeta. In questi strati sovrapposti rinveniamo anche una documentazione, senza confronti per unicità, delle varie tecnologie per la fabbricazioni di attrezzi in pietra. Darwin apprezzerebbe certamente queste prove schiaccianti del fatto che la specie di mammiferi cui abbiamo assegnato il nome di Homo sapiens ha profonde radici evolutive nel continente africano. Perché è importante? La storia dell'evoluzione umana ci può impartire importanti lezioni sulla nostra specie. Oggi sappiamo che i nostri parenti più prossimi si sono estinti, lasciando in Africa soltanto le meno prossime grandi scimmie. Il quadro che deriva da queste conoscenze è sia tempestivo sia sostanziale per valutare il comportamento del primate bipede, dal grande cervello, inventivo e tecnologico, che ha ora nelle sue mani rapaci il potere di determinare il nostro futuro sul pianeta Terra.

Sulla base dei fatti noti, sembrerebbe davvero poco giudizioso scommettere sulla nozione, largamente diffusa ma rischiosa, secondo cui il nostro futuro sarà guidato a buon fine da un intervento divino. Avendo sviluppato la capacità di influire sul futuro a livello globale, è davvero giunto il momento, per la nostra specie, di incominciare ad agire saggiamente. (Da New Scientist, 6 novembre 2010).

(Traduzione di Giorgio P. Panini)

BERNARD WOOD

ANTENATI E PARENTI

Lo studio dell'evoluzione umana ha di recente fatto passi da gigante per ridurre le incertezze nelle ricostruzioni delle relazioni evolutive tra i parenti viventi e i parenti estinti della nostra specie. Uno dei più importanti paleoantropologi contemporanei ci spiega i rischi del mestiere, perché non siamo discendenti diretti ma cugini di scimpanzé e gorilla, e come si utilizzano insieme le comparazioni genetiche e quelle morfologiche per ricostruire oggi l'albero evolutivo degli 'ominini'.

I quasi cinque anni passati a bodo del brigantino di Sua Maestà Beagle diedero a Charles Darwin un punto di osservazizone unico sull'incredibile varietà delle piante e degli animali viventi ed estinti. L'approccio geniale di Darwin fu di accumulare tutte le osservazioni per riflettere in seguito su quanto esse avrebbero potuto insegnargli circa le implicazioni di quella diversità che aveva così accuratamente documentato. Darwin mise a punto le sue idee su come abbia potuto generarsi la diversità delle piante e di animali (anche estinti) nel suo celebre libro L'origine delle specie. L'opera espone gli argomenti a favore della sua teoria secondo cui le variazioni tra organismi individuali, combinate ad alcuni meccanismi di ereditarietà e all'influenza della selezione naturale, sono alla base dell'evoluzione. Non solo: un'altra importante conseguenza delle teorie proproste tanto lucidamente nel libro è l'idea che tutti gli organismi estinti e viventi siano in relazione tra loro in un'unica struttura che chiamiamo «albero della vita». Gli organismi che vivono oggi si trovano sulla superficie dell'albero della vita, mentre quelli vissuti in passato sono in qualche punto sui rami all'interno dell'albero. Darwin prese scrupolosamente nota dei suoi pensieri e per fortuna la maggior parte di essi sono giunti fino a noi.

Lo schizzo del diagramma a forma di albero che si trova a pagina 36 del Taccuino B (in italiano: C. Darwin, Taccuini 1836-1844, Editori Laterza, Roma-Bari 2008), per esempio, dà l'idea dei pensieri di Darwin fin dal 1837. Quando il naturalista usò la struttura ramificata dell'albero per rappresentare le relazioni tra organismi viventi ed estinti non la considerava soltanto una metafora, ma la intendeva in senso letterale.

Ai tempi di Darwin la sola evidenza per stabilire dove fossero collocati gli organismi sull'albero della vita era data dalla loro somiglianza esteriore. Le caratteristiche osservabili di un organismo - dalla sua struttura molecolare alle dimensioni complessive, dalla forma (cioè la sua morfologia) fino al comportamento, ne costituiscono il fenotipo. La morfologia può essere studiata a occhio nudo (macromorfologia) o con l'aiuto del microscopio (morfologia microscopica). Oggi sappiamo che il fenotipo è definito da un complesso di interazioni tra il genotipo e l'ambiente, ma allora queste interazioni non erano note o comprese. Quindi nel XIX secolo la relazione di parentela tra due organismi doveva essere valutata sulla base di quanto la morfologia tradizionale di uno (per esempio ossa, denti, muscoli, organi eccetera) fosse condivisa dall'altro. L'assunto di partenza era che quanto più due organismi erano simili tanto più vicini dovevano trovarsi sull'albero della vita. Uno dei primi a intraprendere una revisione sistematica delle differenze morfologiche tra esseri umani moderni e organismi di aspetto simile fu Thomas Henry Huxley. Egli racchiuse le sue conclusioni nel saggio On the Relations of Man to the Lower Animals, che occupava la parte centrale del libro Il posto dell'uomo nella natura uscito nel 1863. In questo saggio Huxley concluse che le differenze morfologiche tra umani moderni e gorilla (e di conseguenza scimpanzé) fossero meno marcate di quelle tra gorilla e orango. Fu grazie a questa indicazione che Darwin giunse nel 1871 a sostenere in L'origine dell'uomo che gli antenati degli esseri umani moderni fossero da cercare più in Africa che altrove.

Oltre la morfologia tradizionale

Gli sviluppi della biochimica nella prima metà del XX secolo hanno comportato l'estensione della ricerca di prove morfologiche sulla natura delle relazioni tra esseri umani moderni e scimmie antropomorfe oltre la tradizionale macromorfologia per arrivare alla morfologia delle molecole. I primi risultati di questi nuovi metodi di indagine furono riportati negli anni Sessanta da Emil Zuckerkandl e Morris Goodman. E fu sempre intorno a quegli anni che Linus Pauling coniò l'espressione antropologia molecolare per questa nuova area di ricerca.

Emil Zuckerkandl aveva usato enzimi in grado di frammentare la globina (proteina che rappresenta la componente proteica dell'emoglobina) nei suoi peptidi costituenti e poi un metodo chiamato elettroforesi su gel di amido per confrontare i peptidi così ottenuti. Ora: ciascun peptide ha una carica elettrica e una massa caratteristiche e la combinazione di questi due fattori determina quanto il peptide stesso può muoversi lungo il gel. Zuckerkandl ha mostrato che le distribuzioni sul gel dei peptidi provenienti dalle globine di esseri umani, gorilla e scimpanzé erano tra loro indistinguibili, a differenza di quelle di umani e oranghi che si potevano distinguere facilmente.

L'approccio usato da Morris Goodman per confrontare esseri umani e scimmie antropomorfe fu differente, sia per la proteina scelta sia per il metodo usato. Invece di basarsi su una proteina complessa come la globina, Goodman si concentrò su una molecola molto più piccola chiamata albumina e, al posto dell'elettroforesi, scelse una campionatura basata sui princìpi dell'immunologia. Se un individuo è esposto a una proteina estranea (antigene), appartenente o a un altro individuo o a un organismo infettivo, reagisce sintetizzando un'altra proteina detta anticorpo, che neutralizza l'intrusa. Gli anticorpi prodotti sono così specifici che quelli generati da un antigene di un certo organismo non reagiscono agli anticorpi generati dallo stesso tipo di antigene proveniente però da un organismo differente, anche se strettamente correlato. Goodman ha iniettato in alcune scimmie piccole dosi di albumina umana e di albumina di scimmie antropomorfe: le iniezioni non hanno indotto malattie né provocato disagio o sofferenza agli animali, che però hanno prodotto anticorpi specifici per l'antigene inoculato. In particolare, Goodman ha ottenuto dalle scimmie anticorpi contro l'albumina di scimpanzé, detti per questo anticorpi anti-scimpanzé, e li ha fatti reagire con l'albumina di esseri umani e di scimmie antropomorfe. Grazie a questa analisi immunologica ha verificato che i prodotti della reazione erano indistinguibili tra umani e scimpanzé, mentre erano chiaramente differenti tra umani e gorilla e tra umani e oranghi.

Goodman ha dunque concluso che le strutture tridimensionali delle albumine di esseri umani e scimpanzé dovevano essere a tutti gli effetti uguali, mentre le strutture tridimensionali delle albumine umane, di gorilla e di orango erano differenti. Proteine come la globina e l'albumina sono formate da catene di amminoacidi e in molti casi un amminoacido può essere sostituito da un altro senza che cambi la funzione della proteina. Negli anni Settanta Vince Sarich e Allan Wilson hanno sfruttato queste minime differenze strutturali per determinare la storia evolutiva delle proteine e, di conseguenza, la storia evolutiva delle specie da cui le proteine erano state ottenute. Come già Zuckerkand e Goodman prima di loro, anche Sarich e Wilson sono giunti alla conclusione che la specie umana e le scimmie antropomorfe dell'Africa, in particolare gli scimpanzé, fossero strettamente imparentati. Poco dopo Mary-Claire King e Allan Wilson hanno sostenuto che il 99 per cento delle sequenze di amminoacidi delle proteine di scimpanzé ed esseri umani erano identiche. La scoperta da parte di James Watson, Francis Crick e Rosalind Franklin della struttura del dna e la successiva scoperta di Crick e altri della natura del codice genetico hanno chiarito che la struttura del dna è ciò che in definitiva stabilisce le relazioni tra organismi. I ricercatori hanno mostrato che è la sequenza di basi nel dna a determinare la natura delle proteine prodotte in una cellula e che è la combinazione di tutte le proteine di un organismo (il suo «proteoma») a determinare il fenotipo di quell'organismo. Non importa che si tratti della macromorfologia tradizionale usata da Huxley, o della morfologia molecolare (per esempio la struttura tridimensionale, la massa o la carica elettrica delle proteine) di Goodman e Zuckerkandl, o ancora della struttura amminoacidica delle proteine usata da Sarich e Wilson: tutte queste non sono che indicazioni indirette delle relazione tra organismi determinate dalla sequenza di dna di ciascuno. Quindi i ricercatori conclusero che, se lo studio delle relazioni tra i differenti tipi di organismi poteva avvenire a livello del genoma, allora era possibile eliminare la necessità di fare affidamento sulle loro proprietà morfologiche.

Il dna di ogni cellula di un organismo pluricellulare si trova sia all'interno del nucleo (dna nucleare) sia all'interno di organuli citoplasmatici chiamati mitocondri (dna mitocondriale). I tentativi iniziali di confrontare il dna di organismi differenti si basavano su una tecnica chiamata ibridazione, che metteva a confronto tutto il dna del nucleo o tutto il dna mitocondriale a un livello abbastanza grossolano. Per lungo tempo questo fu tutto ciò che era possibile ottenere, dal momento che, anche quando il sequenziamento di dna divenne una possibilità concreta, i metodi allora a disposizione permettevano di determinare la sequenza soltanto di piccole porzioni di dna. In effetti, l'ibridazione forniva ai ricercatori poche informazioni su una gran quantità di dna, mentre i primi tentativi di sequenziamento fornivano molte informazioni su piccoli frammenti di molecola. Alla fine degli anni Ottanta e all'inizio dei Novanta del secolo scorso sia l'ibridazione sia il sequenziamento erano utilizzati per generare ipotesi sulle relazioni tra umani moderni e grandi scimmie antropomorfe. Dalla metà degli anni Novanta è diventato chiaro che i dati provenienti dall'analisi del dna nucleare e mitocondriale avvaloravano l'ipotesi che specie umana e scimpanzé siano molto più strettamente imparentati tra loro di quanto ciascuna specie lo sia con i gorilla. Un'indagine recente basata su 15 geni mitocondriali e 43 nucleari offre un ulteriore, solido, sostegno all'idea secondo la quale gli esseri umani sono molto più strettamente imparentati con gli scimpanzé e con i bonobo che alle altre scimmie antropomorfe viventi.

Centrare il livello (gerarchico)

Quando le differenze nel dna sono calibrate sulla base di evidenze fossili per stimare il momento della separazione tra scimmie antropomorfe e scimmie del Vecchio Mondo, se si considera che la grande maggioranza delle variazioni nel dna non incide sulle capacità di sopravvivenza e di riproduzione (cioè molte sono variazioni neutrali) e che queste si sono accumulate nel tempo a un ritmo costante, allora l'insieme delle differenze suggerisce che l'ipotetico antenato comune degli esseri umani moderni e degli scimpanzé e bonobo sia vissuto tra i 5 e gli 8 milioni di anni fa, e probabilmente più vicino ai 5 milioni di anni fa. Siccome gli scimpanzé e i bonobo si trovano soltanto in Africa e i resti più antichi di organismi estinti chiaramente correlati più alla specie umana che agli scimpanzé o ai bonobo provengono anch'essi dall'Africa, allora, proprio come previsto da Darwin nel 1871, l'Africa deve essere il continente in cui è germogliato sull'albero della vita il ramo dell'umanità moderna.

Fin dai tempi di Linneo la linea evolutiva della specie umana moderna era stata considerata come una categoria tassonomica separata. Nel 1825, sei anni prima che Darwin partisse con il Beagle, lo zoologo britannico John Gray aveva formalmente proposto di classificare gli umani moderni e le scimmie antropomorfe all'interno dell'ordine dei Primati in due famiglie distinte, chiamate rispettivamente Hominidae e Pongidae. Nella gerarchia tassonomica di Linneo l'ordine è una categoria molto inclusiva, quindi usare il livello appena sotto (la famiglia) per distinguere gli umani moderni era segno che per Gray vi era una distanza significativa tra gli umani e le scimmie antropomorfe. Le categorie tassonomiche poste al di sotto della famiglia sono, in ordine di esclusività crescente, la tribù, il genere e infine la specie. Tutti gli esseri umani moderni e i resti fossili simili a essi sono inclusi nella specie Homo sapiens all'interno del genere Homo.

Inserire la specie umana in una famiglia separata poteva aver senso ai tempi di Gray, ma quella proposta non è più in linea con l'abbondanza di prove molecolari e genetiche a favore di una più stretta relazione tra scimpanzé/bonobo e umani moderni piuttosto che tra scimpanzé/bonobo e gorilla. Oggi la maggior parte dei ricercatori usa la famiglia Hominidae di Gray per includere la specie umana moderna e tutte le scimmie antropomorfe viventi (bonobo, scimpanzé, gorilla e orango). Usa poi la sottofamiglia Homininae per la specie umana moderna, gli scimpanzé e i bonobo e fa invece riferimento alla categoria della tribù per distinguere gli umani da scimpanzé e bonobo. Il nome formale per la tribù che contiene la specie umana moderna e ogni suo stretto parente estinto è Hominini e gli organismi che vi sono compresi sono appunto definiti ominini. Il nome per la tribù che comprende scimpanzé e bonobo è Panini e così possono essere definiti questi animali in modo informale.

Parenti viventi ed estinti

Come umani moderni abbiamo due tipi di parenti: alcuni viventi e altri estinti. Possiamo studiare il comportamento individuale e di gruppo dei nostri parenti ancora esistenti sia in natura sia in cattività. Dopo la loro morte possiamo prelevarne i tessuti e dissezionarne i corpi per compiere osservazioni sui dettagli del loro fenotipo. Abbiamo accesso sia ai tessuti molli (cervello, muscoli) sia a quelli duri (ossa e denti) e, a meno che non siano stati feriti o menomati, i loro corpi ci giungono intatti, con tanto di cervello, di quattro arti e di tutte le dita delle mani e dei piedi.

Al contrario, tutto ciò che sappiamo sui nostri parenti estinti deriva dai fossili. Ci sono due tipi di fossili: le tracce e i fossili veri. Le tracce consistono nella prova che un organismo si è trovato in un certo luogo in un certo momento. Per esempio, quando alcuni sedimenti vengono bagnati dalla pioggia agiscono come un calco malleabile in grado di trattenere i dettagli della superficie dei tessuti molli di un organismo che li stia attraversando e di conservarli a lungo, se opportunamente solidificati, dopo la scomparsa di quell'organismo. Orme che conservano l'impronta della pelle della pianta del piede sono un esempio di traccia fossile, come lo sono i calchi naturali che riproducono fedelmente la superficie interna di una scatola cranica.

I fossili veri sono i resti di un organismo. Possono essere resti dei suoi tessuti duri (per esempio ossa e denti) o molli (come pelle, muscoli). Nel caso dell'evoluzione umana, i fossili di tessuti molli sono confinati a rari esempi abbastanza recenti di corpi conservati in torbiere o all'interno di ghiacciai. Si tratta a tutti gli effetti di rocce a forma di ossa o di denti. I componenti organici del potenziale fossile si degradano velocemente, ma alcune sostanze organiche presenti nelle ossa possono essere conservate abbastanza a lungo da tornare utili per datare il resto o identificare il tipo di animale da cui quell'osso proviene. In alcuni individui si conservano nelle ossa e nei denti componenti sia organiche sia inorganiche, che possono essere utilizzate dai ricercatori per ricostruire la dieta e l'habitat di quegli individui.

Le possibilità che ossa e denti di animali ci pervengano sotto forma di fossili sono molto scarse. La maggior parte degli animali che muore in natura viene sottoposta all'azione distruttrice degli animali spazzini che si cibano di carcasse e che variano in dimensioni dai grandi carnivori agli insetti. I carnivori disperdono le ossa nel territorio, dove il caldo del giorno e il freddo della notte, combinati con il fatto che grandi mammiferi possono camminarci sopra, le riducono in frammenti talmente piccoli da rendere impossibile la loro attribuzione a una specie o persino a una parte del corpo. La documentazione fossile degli ominini è dominata da ossa (in particolare mandibole e parti dense del cranio) e denti, per diverse ragioni. Una è il fatto che le ossa della testa non sembrano particolarmente appetibili per i carnivori. Un'altra è il fatto che le ossa che compongono il cranio, specialmente quelle alla base e ai lati, e la mandibola, sono generalmente più resistenti delle ossa degli arti. In particolare i denti sono molto resistenti e non hanno alcun valore nutrizionale. Per questo, di molti individui tutto ciò che conosciamo è solo una porzione della mandibola e uno o due denti. Del resto, anche se un osso o un dente riescono a cominciare il processo di fossilizzazione, molto può ancora accadere prima della loro eventuale scoperta e recupero. Per prima cosa, non tutti i sedimenti conservano bene i fossili che ospitano. Alcuni ne conservano dimensioni e forma, ma ne compromettono l'integrità. Finché rimangono all'interno dei sedimenti in cui si trovano, i fossili mantengono la loro forma, ma se vengono esposti agli elementi atmosferici per azione dell'erosione naturale o di scavi vanno letteralmente distrutti. Questo tipo di fossili pone particolari difficoltà in fase di recupero. In passato bisognava assumersi il rischio che si disintegrassero, ma l'avvento di nuove tecniche di imaging, come la tomografìa computerizzata, permette oggi ai ricercatori di fare una scansione del fossile quando ancora si trova inglobato nella sua matrice e di generare un «fossile virtuale» che ha tutte le caratteristiche necessarie per la ricerca.

Altri tipi di sedimenti comportano rischi differenti. Alcune varietà di argilla, per esempio, subiscono espansioni e contrazioni. Sebbene un fossile ritrovato in simili sedimenti possa risultare quasi completamente integro, la sua interpretazione diventa più complicata perché l'azione di espansione e contrazione dell'argilla produce nel fossile stesso delle microfratture. Le ossa che sono rimaste esposte in superficie prima della fossilizzazione possono aver subito, a causa dei cicli quotidiani di riscaldamento diurno e raffreddamento notturno, espansioni e contrazioni così intense da sviluppare fratture in cui si infiltrano sedimenti. Anche se queste fratture infiltrate non compromettono la forma del fossile, spesso ne alterano, esagerandole, le dimensioni. Al contrario, se un fossile si trova in un ambiente particolarmente arido e ventoso ogni granello di sabbia trasportato dal vento può graffiarne la superficie. Questo rimuove lo strato osseo esterno del fossile, riducendone le dimensioni effettive. Quindi, prima di paragonare un fossile a un altro fossile oppure alle ossa corrispondenti di scimmie antropomorfe viventi (o di esseri umani moderni) è necessaria un'accurata documentazione e annotazione di tutti i suoi eventuali danni. Se il fossile ha subito microfratture o riporta fratture infiltrate da sedimenti, le sue dimensioni dovranno essere ridotte. Se invece ha subito abrasione, bisognerà stimarne l'estensione per accrescerne le dimensioni in modo corrispondente. Tutte le carte sono dunque a sfavore delle ossa e dei denti che aspirino a diventare fossili: molti fattori rendono poco probabile anche solo l'inizio del processo di fossilizzazione, mentre altri possono causare danni durante e dopo tale processo. La combinazione di tutti questi fattori implica che la documentazione fossile dei nostri più stretti parenti estinti contenga molte meno informazioni di quelle che siamo in grado di ricavare dai più stretti parenti viventi, le scimmie antropomorfe.

Nella documentazione fossile più antica degli ominini, precedente alla pratica della sepoltura, molti individui sono rappresentati soltanto da una regione dello scheletro (per esempio da parte della mandibola o da un pezzo d'osso di un arto) e persino quel resto potrebbe essere danneggiato o distorto. Questo significa che fino a quando i ricercatori non trovano fossili ben conservati, che possano essere messi in relazione con sicurezza con un particolare gruppo di ominini estinti, l'informazione su quel gruppo può risultare gravemente incompleta per molte parti dello scheletro. E non ci sono garanzie che le porzioni di scheletro conservate nella documentazione fossile di uno dei nostri parenti estinti possano essere ritrovate anche nella documentazione fossile di un altro. Ciò rende particolarmente complicato confrontare individui estinti.

Immaginate di paragonare modelli di auto, a partire non da due auto intere, ma da parti incomplete e danneggiate di ciascuna. Cosi, per esempio, di un'auto potreste avere in mano il parafango di destra, un pezzo di cruscotto, una parte del volante, alcuni frammenti del blocco del freno posteriore sinistro e il baule. Dell'altra, invece, potreste avere il parafango di sinistra, parte del sistema di iniezione, un frammento differente di volante, il fanale sinistro e un pezzo di cofano. Questo è uno degli scenari peggiori, ma i documenti fossili di molti dei nostri parenti estinti effettivamente rappresentano lo scheletro in modo molto disomogeneo. Fossili tanto completi quanto l'iconica Lucy ritrovata in Etiopia sono l'eccezione, non la regola.

Non tutti i parenti estinti sono antenati

Gli umani moderni hanno due tipi di parenti stretti.Tutti abbiamo parenti del primo tipo: persone che hanno contribuito in modo sostanziale al nostro genoma. Questo tipo di parenti comprende i nostri genitori, i nostri nonni e i loro genitori. Il secondo tipo include invece tutti coloro che condividono parti considerevoli del nostro genoma, come eventuali figli, fratelli, sorelle, cugini di primo grado. Lo stesso principio si applica agli organismi nell'albero della vita. Attenzione: tutti gli organismi che abbiano vissuto in passato si trovano da qualche parte sui rami dell'albero; umani moderni, scimpanzé, bonobo, gorilla e oranghi sono tutti sulla superficie dell'albero, ciascuno all'estremità del proprio ramo. Esattamente come un individuo non può discendere da uno dei suoi fratelli o sorelle o cugini, allo stesso modo l'umanità moderna non può discendere da nessuna delle scimmie antropomorfe viventi. Scimpanzé e bonobo sono i nostri parenti più stretti nel senso che sono gli esseri viventi con i quali condividiamo gran parte dei nostri geni, ma non sono nostri antenati.

Come si ricostruiscono gli antenati

Sebbene scimpanzé e bonobo non siano nostri antenati, ci sono ottime ragioni per le quali molti ricercatori ritengono che il comune antenato della specie umana moderna e di scimpanzé e bonobo fosse più simile a una di queste scimmie che a un essere umano moderno. La logica è la seguente. In termini di fenotipo, scimpanzé e bonobo hanno molto più in comune con i gorilla che con noi. I piani corporei, i crani e i denti di scimpanzé, bonobo e gorilla sono molto più simili tra di loro che a quelli degli umani moderni. In effetti, alcune delle differenze fra le tre scimmie antropomorfe possono essere ricondotte esclusivamente a differenze nelle dimensioni complessive. Questo suggerisce che l'antenato comune degli esseri umani moderni e delle scimmie antropomorfe africane (scimpanzé, bonobo e gorilla) avesse probabilmente più caratteristiche in comune con scimpanzé e bonobo piuttosto che con Homo sapiens. Al contrario, se i gorilla fossero più simili agli esseri umani (per esempio se la loro relazione fenotipica con noi fosse simile a quella che effettivamente hanno con scimpanzé e bonobo), la stessa logica suggerirebbe che l'antenato avrebbe avuto più caratteristiche in comune con l'umanità moderna che con scimpanzé e bonobo.

Si giunge a questa conclusione per un principio noto come «parsimonia». Nel linguaggio comune, una persona parsimoniosa con il denaro è qualcuno che ne usa il minimo indispensabile. In ambito scientifico, il concetto di parsimonia è un'espressione di ciò che chiamiamo «rasoio di Occam». Guglielmo da Occam fu uno dei primi logici che formulò il principio in base al quale, quando ci troviamo davanti a due possibili spiegazioni, dovremmo sempre scegliere la meno complicata, o quella che richiede il minor numero di passaggi logici. Tornando al caso dei nostri antenati, è un'ipotesi più complessa suggerire che l'antenato comune di Homo sapiens e delle scimmie antropomorfe africane fosse simile a queste ultime mentre l'antenato comune di Homo sapiens, scimpanzé e bonobo fosse simile a noi. In questo secondo caso l'antenato unico di scimpanzé e bonobo avrebbe dovuto ri-evolvere completamente, dato che scimpanzé e bonobo assomigliano ai gorilla. È un'ipotesi meno parsimoniosa. Questo non significa che l'evoluzione debba essere sempre parsimoniosa, ma ci sono molte indicazioni che lo sia nella maggior parte dei casi. Gli organismi estinti strettamente imparentati che si trovano «sotto» di noi nell'albero della vita sono tutti potenziali antenati. I soli che possono essere equivalenti evolutivi dei nostri genitori, nonni e bisnonni sono quelli che si trovano sui rami che conducono direttamente al nostro ramoscello. Essere più antico della specie umana moderna non è sufficiente a rendere un organismo estinto un nostro diretto antenato. A meno che non si trovino alla fine di uno dei tanti ramoscelli che terminano sotto la superficie dell'albero della vita, gli organismi estinti che condividono abbastanza del nostro fenotipo da essere considerati ominini sono antenati di altri esseri viventi, ma non necessariamente i nostri.

Quando parliamo del ramo dell'umanità moderna sull'albero della vita è importante non dare per scontato in partenza che questo non possa aver dato origine a ulteriori diramazioni. Ci sono due insiemi di ragioni che suggeriscono che si tratterebbe di un presupposto incauto. Primo, se osserviamo le zone dell'albero della vita occupate da altri mammiferi durante lo stesso periodo (vale a dire da 6 milioni di anni fa a oggi), scopriamo che un ramo senza diramazioni è l'eccezione piuttosto che la regola. Secondo, se osserviamo più attentamente sotto la superficie (cioè oltre 6 milioni di anni fa) nella «nostra» parte di albero occupata da scimmie antropomorfe è raro trovare singoli ramoscelli che rimangono senza ramificazioni per ben 6 milioni di anni.

I nostri più stretti parenti estinti

Gli ominini fossili sono organismi estinti considerati più strettamente imparentati con gli umani moderni che con scimpanzé e bonobo, i nostri parenti viventi più stretti. Come abbiamo discusso sopra, sono disponibili molti più dati sui nostri parenti viventi che su quelli estinti. Così invece di raggruppare questi ultimi secondo ciò che possiamo sommariamente dedurre sulle loro relazioni, ho deciso di raggrupparli in un altro modo, utilizzando il concetto di «grado» sviluppato dallo zoologo Julian Huxley. Un «grado» non corrisponde alle categorie del sistema di classificazione di Linneo. Tutte le categorie linneane includono deduzioni sulle relazioni evolutive e la struttura ramificata della storia evolutiva. I «gradi» sono asserzioni sul risultato dell'evoluzione, non sulla sequenza di eventi che ha dato origine a quel risultato. Gruppi di organismi viventi sono racchiusi nello stesso «grado» se si nutrono dello stesso tipo di cibo e condividono la stessa postura e lo stesso sistema di locomozione, senza alcun riferimento a come si siano sviluppati questi comportamenti. Per i «gradi» non conta quanto vicini o distanti per parentela siano i gruppi tassonomici.

I sei 'gradi' degli ominini

Come i gruppi tassonomici di viventi, anche quelli di ominini fossili sono catalogati nello stesso «grado» se ci sono prove che abbiano vissuto lo stesso tipo di vita, cioè che abbiamo mangiato gli stessi alimenti, assunto posture simili e simili metodi di locomozione. Ma poiché per questi parenti estinti possiamo limitarci solo a resti fossili, non possiamo osservare direttamente i loro comportamenti: possiamo solo dedurli. Il giudizio su quanto differenti debbano essere considerate due diete o due strategie di movimento perché i gruppi che le manifestano (sulla base dell'indicazione fossile) debbano essere assegnati a «gradi» differenti è inevitabilmente soggettivo. Tuttavia, fino a quando non possiamo essere certi di generare ipotesi attendibili sulle relazioni tra gruppi tassonomici di ominini estinti, il concetto di «grado» ci aiuta a riordinare tali gruppi in ampie categorie funzionali.

I sei gradi che ho scelto sono «Homo anatomicamente moderno», «Homo pre-moderno», «ominini di transizione», «ominini arcaici», «ominini arcaici iper-megadonti» e «possibili ominini». Uso un'ipotesi tassonomica relativamente sovrabbondante, che riconosce più categorie di quante ne ammetterebbe un tassonomista prudente.

Il nostro 'grado'

Il grado Homo anatomicamente moderno include ominini fossili la cui morfologia non si distingue da quella che si può osservare in almeno una popolazione regionale di esseri umani moderni. Tutti gli umani moderni appartengono alla specie Homo sapiens e i primi fossili risalgono a poco meno di 200 mila anni fa. Dal primo ritrovamento di essere umano moderno fossile, avvenuto nel 1822-23 nella Goat's Hole Cave in Galles, fossili di Homo sapiens sono stati rinvenuti in siti sparsi su tutte le terre emerse, con l'eccezione dell'Antartico. Molti fossili di Homo sapiens provengono da sepolture e quindi spesso sono in buone condizioni.

La prima testimonianza fossile di un essere umano anatomicamente moderno proviene da Omo-Kibish, in Etiopia. Sempre in Africa si sono trovati crani che sono generalmente più robusti e di aspetto più arcaico rispetto a quello degli umani moderni, ma che pure non condividono la morfologia dei gruppi collocati al grado di Homo pre-moderno al punto da potervi rientrare (vedi sotto). C'è sicuramente una gradazione nella morfologia che rende difficile stabilire un confine netto tra umani moderni e specie come Homo neanderthalensis o Homo heidelbergensis poste nel grado di Homo pre-moderno, ma la maggioranza dei ricercatori ritiene che la variazione morfologica nei reperti fossili di ominini durante gli ultimi due o trecento mila anni sia troppo grande per essere contenuta in una singola specie.

Ominini estinti appartenenti al genere Homo

Il grado di Homo pre-moderno include categorie di ominini i cui crani e i cui scheletri non hanno dimensioni e forma tipiche di quelli dell'umanità moderna, ma che per i ricercatori sono sufficientemente simili a noi da includerli nel nostro stesso genere, Homo. Alcuni individui di questi gruppi hanno un cervello di medie dimensioni - 650 cm3 rispetto ai 1.300 cm3 dei moderni esseri umani - ma hanno proporzioni fisiche simili alle nostre. Le loro mandibole e i loro denti differiscono dai nostri, ma hanno all'incirca le stesse dimensioni. In questo grado troviamo Homo neanderthalensis, il primo gruppo di ominini fossili a essere riconosciuto. Altre specie di ominini estinti inclusi nel grado di Homo pre-moderno sono Homo heidelbergensis e Homo erectus. I primi fossili di Homo pre-moderno risalgono a circa due milioni di anni fa e i reperti più recenti si sovrappongono a resti di Homo anatomicamente moderno. A parte una sovrapposizione di alcune migliaia di anni in Europa, nessuna sovrapposizione temporale si è verificata nella stessa regione. Il gruppo più recente aggiunto al genere Homo è Homo floresiensis, ritrovato esclusivamente a Liang Bua, una grotta dell'isola di Flores in Indonesia, e il suo arco temporale va da 74 a 17 mila anni fa circa. Il primo dna estratto da un fossile di ominini è stato prelevato da un campione di Homo neanderthalensis.

Ominini che sono una via di mezzo

Utilizzo un grado differente, che chiamo «ominini di transizione», per due specie estinte di ominini note come Homo habilis e Homo rudolfensis. Questo perché le due specie non si adattano perfettamente né al grado di Homo pre-moderno né a quello di «ominini arcaici». I reperti fossili di questi due gruppi risalgono a un periodo compreso tra poco più di 2 e 1,7 milioni di anni fa; in Africa orientale gli ominini di transizione si sovrappongono sia nel tempo sia nello spazio con Homo premoderno. Le dimensioni del loro cervello variano da circa 500 cm3 a poco meno di 800 cm3 e tendono a essere più grandi nel caso di Homo rudolfensis che in Homo habilis. Entrambi i gruppi hanno denti e mandibole più grandi di quanto ci si aspetterebbe per un Homo pre-moderno delle stesse dimensioni; inoltre, quel poco che sappiamo sugli arti degli ominini di transizione suggerisce che avessero gambe più corte, braccia più lunghe e mani e piedi più simili a quelli di una scimmia antropomorfa che a quelli di Homo pre-moderno.

Ominini con piani corporei più simili a quelli delle scimmie

Questo grado include gruppi di due generi di ominini, Australopithecus e Kenyanthropus. Le specie incluse hanno un'età compresa tra 4,5 e 2 milioni di anni fa circa. Tutti questi ominini hanno un cervello abbastanza piccolo (inferiore a 500 cm3), molari e premolari grandi e una proporzione degli arti più simile a quella degli scimpanzé che alla nostra. Con l'eccezione di un sito in Ciad, tutte le specie di ominini di questo grado sono state scoperte in siti all'aperto dell'Africa orientale o all'interno di grotte in Africa meridionale. Le ossa degli arti di queste specie suggeriscono che fossero in grado di camminare bipedi, ma si discute se avessero conservato la capacità di arrampicarsi e muoversi sugli alberi. Il primo gruppo appartenente a questo grado, ovvero Australopithecus africanils, è stato identificato sulla base del cranio di un individuo giovane (compreso un parziale calco interno naturale del cervello) scoperto nel 1924 a Taung (un tempo Taungs) in Africa meridionale. Altri tre gruppi di questo grado, Australopithecus afarensis, Australopithecus anamensis e Kenyanthropus platyops, provengono da siti dell'Africa orientale; uno, Australopithecus bahrelghazali, proviene dal Ciad. Sebbene si tratti soltanto di due frammenti di mandibola, i reperti identificati in Ciad hanno ampiamente esteso Tarea geografica conosciuta dei primi ominini, il che ci ricorda che eventi importanti nell'evoluzione umana (come la speciazione e l'estinzione) possono essersi verificati in luoghi ben distanti dalle piccole (relativamente alle dimensioni dell'intero continente) regioni dell'Africa orientale e meridionale in cui sono localizzati tutti i siti dei primi ominini (cioè precedenti i 2 milioni di anni fa).

Ominini arcaici con molari e premolari grandi o molto grandi

Questo grado include tre gruppi di ominini compresi nel genere Paranthropus più una specie di Australopithecus: Australopithecus garhi. Ciò che li distingue è la grande dimensione di molari e premolari, cioè dei denti che si usano per masticare. Uno di questi, Paranthropus robustus, proviene da siti dell'Africa meridionale che datano da 2 a 1,5 milioni di anni fa; i suoi denti sono più grandi, anche se non di molto, di quelli degli ominini arcaici. Questo contrasta con i denti davvero molto grandi dei tre gruppi dello stesso grado ritrovati in Africa orientale: Paranthropus boisei, Paranthropus aethiopicus e Australopithecus garhi. Nessuno dei reperti fossili di questi tre gruppi risale a più di 2,5 milioni di anni fa e a meno di 1,3. I tre ipermegadonti hanno premolari e molari che sono circa tre volte più grandi di quelli di un umano moderno delle stesse dimensioni.

Possibili ominini

Piuttosto che considerare questi come ominini veri e propri, la prudenza suggerisce di considerarli come candidati a essere i membri più antichi dell'albero che include gli umani moderni. Nessuno dei quattro possibili ominini ha resti fossili completi, ma per uno di essi, Ardipithecus ramidus, risalente a 4,5-4,3 milioni di anni fa e proveniente da siti dell'area del fiume Awash in Etiopia, si conosce uno scheletro con mani e piedi particolarmente ben conservati.

I fossili attribuiti ad Ardipithecus ramidus hanno alcuni caratteri in comune con le specie viventi del genere Pan, altri in condivisione con le scimmie antropomorfe africane in generale, oltre a diverse caratteristiche dei denti e del cranio comuni soltanto a ominini certi come Australopithecus afarensis. Nonostante mani e piedi siano simili a quelli delle scimmie antropomorfe, le caratteristiche della base del cranio e di alcuni frammenti poco conservati di ossa del bacino sono state interpretate come la conferma che Ardipithecus ramidus fosse un bipede eretto.

I resti fossili del secondo gruppo di possibili ominini, Orrorin tugenensis, provengono da Tugen Hills in Kenya. La prova più forte per considerarlo appartenente agli ominini è l'articolazione dell'anca. Come suggerisce il nome del genere, i resti di Sahelanthropus tchadensis provengono invece dal Ciad. Il cranio è molto più simile a quello di scimpanzé e bonobo, ma la posizione relativamente anteriore del foro occipitale (forame magno) è stata utilizzata per collegare Sahelanthropus tchadensis agli ominini successivi. Orrorin tugenensis risale a 6-7 milioni di anni fa e Sahelanthropus tchadensis attorno a 7 milioni di anni fa.

Il quarto gruppo di questo grado, Ardipithecus kadabba, proviene dalla località di scavi del fiume Awash in Etiopia e risale a 5,8-5,2 milioni di anni fa. Ardipithecus kadabba è molto più simile alle scimmie antropomorfe di Ardipithecus ramidus e le ragioni per considerarlo un ominino primitivo sono abbastanza deboli.

La morfologia è la chiave per ricostruire la storia evolutiva a partire dai reperti fossili

Il presupposto di partenza, come abbiamo visto, è che quanto più un individuo condivide del suo fenotipo (per esempio le caratteristiche del viso, la forma del corpo, il comportamento) con un altro individuo, tanto più strettamente essi sono imparentati. Lo stesso vale per gli organismi estinti: quanto più un organismo estinto condivide del suo fenotipo (morfologia e comportamento presunto) con un altro organismo estinto, tanto più essi sono strettamente imparentati. Quindi i paleoantropologi vanno alla ricerca di tratti morfologici condivisi per generare ipotesi sulle relazioni tra ominini estinti. Ma per essere davvero efficace a questo scopo, la morfologia di un organismo deve posizionarsi da qualche parte tra una morfologia unica e una comune a tutte le scimmie antropomorfe viventi ed estinte. Una morfologia che sia del tutto unica non può dire nulla su eventuali relazioni di parentela e allo stesso modo è inutile una morfologia che sia già comune a tutti gli organismi di cui si vogliono studiare le relazioni. Il principio appena esposto è però violato da un fenomeno chiamato «omoplasia». L'omoplasia si riferisce a caratteri morfologici che siano sorti in modo indipendente in più parti dell'albero della vita. In altri termini, si ha omoplasia quando due organismi condividono una stessa morfologia che però non è stata ereditata dai loro più recenti antenati comuni. Ci sono tre cause principali di omoplasia: evoluzione parallela, evoluzione convergente e inversione del carattere. L'evoluzione parallela avviene quando due linee evolutive strettamente imparentate e sottoposte a vincoli di sviluppo simili si adattano allo stesso modo, ma indipendentemente l'una dall'altra. Ovviamente, questi caratteri fenotipici sono fuorvianti se usati per cercare di stabilire se due gruppi sono strettamente imparentati oppure imparentati alla lontana ma adattati in modo simile. Per esempio, diversi gruppi di erbivori hanno sviluppato in modo quasi indipendente corone di denti più alte. In queste circostanze l'altezza dei denti non è un carattere utile a generare ipotesi su quanto siano strettamente connessi due gruppi. L'evoluzione convergente produce invece caratteri che appaiono simili, ma si sono evoluti in modo indipendente in linee evolutive piuttosto distanti. L'inversione di carattere si verifica quando un carattere derivato, cioè nuovo e condiviso da più specie successive, ritorna al suo stato primitivo. Tutte le omoplasie danno l'impressione che due gruppi siano molto più strettamente correlati di quanto lo siano in realtà e sono quindi di ostacolo ai tentativi di ricostruzione delle relazioni evolutive.

Sappiamo che la ricostruzione delle relazioni nelle linee evolutive degli altri mammiferi è complicata dall'omoplasia e non vi è ragione di considerare la linea degli ominini al riparo da questi fattori di confusione. Effettivamente ci sono indicazioni empiriche che suggeriscono che più di un terzo dei campioni di tessuti duri che costituiscono la documentazione fossile degli ominini possa essere influenzato dall'omoplasia. La sfida è quella di individuare porzioni anatomiche particolarmente soggette a omoplasia e assicurarsi che non siano utilizzate per ricostruire le relazioni evolutive.

Conclusioni

Nonostante molti schemi che appaiono come ipotesi sospettosamente complete sulla storia evolutiva umana, ogni paleoantropologo ragionevole sa che i reperti fossili dei primi ominini sono troppo insufficienti per poter offrire altro che affermazioni molto provvisorie a proposito della tassonomia e della filogenesi degli ominini. Se la storia ci insegna qualcosa, è che abbiamo ancora molto da imparare sull'albero ramificato degli ominini. Ma ci sono almeno tre buone notizie. Primo: i ricercatori sul campo stanno continuando ad accumulare prove fossili. Secondo: gli scienziati stanno diventando sempre più realistici su ciò che è possibile sapere sulla storia evolutiva umana. Terzo: i ricercatori comprendono meglio i problemi che si trovano ad affrontare. Bisogna capire la natura di un problema, prima di sperare di risolverlo.

(Traduzione di Federico Manicone e Valentina Murelli)

LEE R. BERGER

LA SCOPERTA DI AUSTRALOPITHECUS SEDIBA

Il lavoro dei paleontropologi si fa sempre più entusiasmante. Ogni innovazione tecnologica consente scoperte di fossili sempre più completi e una precisione nella datazione prima impensabile. Ma ogni nuova acquisizione rischia di mandare all'aria tutte le classificazioni precedenti, come la scoperta di Australopithecus sediba, in Sudafrica. Che sia lui il nostro progenitore?

Il contributo del Sudafrica allo studio delle origini dell'umanità

Il Sudafrica è la culla della paleoantropologia africana fin dalla scoperta nel 1924 del Bambino di Taung, che l'anno successivo fu descritto da Baymond Dart come appartenente a un nuovo genere e a una nuova specie. Da allora e grazie al contributo di moltissimi siti archeologici si è andata formando una delle documentazioni più complete delle origini dell'umanità nel continente. In particolare l'area dolomitica a nord e a ovest di Johannesburg, denominata la Culla dell'Umanità, è stata inserita dall'Unesco fra i patrimoni mondiali dell'umanità. I reperti rinvenuti in grande quantità in questa zona, relativi agli ultimi due milioni e mezzo di anni di evoluzione degli ominini, provengono in gran parte da grotte e da riempimenti carsici che contengono e preservano moltissimi fossili.

Fin dalla prima scoperta negli anni Trenta di fossili di ominini nel sito di Sterkfontein, in questa regione - ormai riconosciuta come una fonte ricchissima di fossili faunistici e di antichi ominini - sono emersi alcuni tra i siti più ricchi di tutta l'Africa. Ne fanno parte siti come Sterkfontein stesso, Kromdraai, Swartkrans e Drimolen, dai quali è stata recuperata una significativa percentuale di tutta la documentazione fossile africana relativa agli ominini databili da circa 2,5 milioni di anni fa fino al presente. Queste località sono generalmente note per la loro capacità di conservare resti relativamente frammentari, preservati in una durissima matrice calcarea spesso detta «breccia». Nella maggior parte di questi siti si trovano ossa estremamente frammentate. Tale frammentazione è dovuta a diversi processi legati alla fossilizzazione: l'attività dei carnivori primari, degli animali necrofagi e di quelli che, come gli istrici, utilizzano le ossa, a cui si sommano i danni generici riportati durante i processi di seppellimento e di fossilizzazione. Si tratta di processi analoghi a quelli subiti dai fossili reperiti negli ambienti lacustri dell'Africa orientale e della Rift Valley: perciò la conservazione nelle due regioni è generalmente paragonabile. Ma nel sistema delle grotte dolomitiche si possono trovare anche livelli di conservazione molto superiori: o perché i seppellimenti sono avvenuti in tempi brevi, o perché gli esemplari sono stati preservati dalle acque ricche di carbonato di calcio, o infine perché ossa e carcasse sono state protette in un modo o nell'altro dalle azioni distruttive dei predatori primari o dei necrofagi secondari. Tutti i siti delle grotte dolomitiche presentano esempi di questi livelli superiori di conservazione, ma alcuni di essi, come Sterkfontein e Makapansgat, offrono con maggiore frequenza livelli di conservazione addirittura eccellenti. Ne sono un esempio l'occasionale scoperta di piste di impronte, lo straordinario stato di conservazione della superficie ossea, i rarissimi scheletri articolati o associati come quello di «Little Foot» rinvenuto a Sterkfontein. I resti articolati in particolare permettono di osservare associazioni tra ossa e una qualità di conservazione che sarebbe del tutto impensabile riscontrare in siti esposti in superficie agli agenti atmosferici. Grazie ai recenti progressi nella datazione assoluta dei siti sudafricani, è stato possibile cominciare ad affrontare il problema principale incontrato di norma nei siti delle grotte dolomitiche e iniziare a correggere quello che è probabilmente il maggiore ostacolo nell'uso estensivo dei reperti relativi ai primi ominini e di quelli faunistici provenienti dall'Africa meridionale (si veda per esempio Dirks et al., 2010 e Pickering et al., 2011). In particolare, il metodo di datazione basato su uranio-piombo o sul disequilibrio di uranio è stato combinato con segnali paleomagnetici ben preservati, consentendo di stabilire la datazione assoluta geocronologica di alcuni depositi nei sistemi di grotte dolomitiche. L'accuratezza dei risultati è tale da rivaleggiare, spesso superandola, con quella consentita dalla datazione radiometrica dei siti lacustri della Great Rift Valley (Pickering, 2011). Insieme alla nuova e significativa importanza riconosciuta ai processi di formazione delle grotte e ai progressi compiuti nella comprensione geologica degli eventi di deposizione che hanno prodotto i processi di seppellimento e di fossilizzazione nel contesto dell'Africa meridionale, le tecniche di datazione così perfezionate consentono per la prima volta di contestualizzare con precisione queste scoperte e di raffrontarle direttamente con i fossili provenienti dai depositi lacustri e fluviali della Rift Valley. Le grotte dolomitiche sudafricane, con la loro capacità di rappresentare gli ambienti antichi come in un'istantanea e di cogliere intervalli temporali brevissimi, ci aprono ora una nuova, straordinaria finestra per comprendere l'evoluzione umana e faunistica nel continente africano. In seguito alla scoperta di significativi depositi fossili di ominini al di fuori dei tradizionali siti di Etiopia, Kenia e Tanzania, sempre più spesso si ammette ora la possibilità che l'evoluzione degli ominini sia ben più complessa di una semplice «East Side Story», cioè di un'evoluzione umana avvenuta esclusivamente a est della Rift Valley. Potrebbero esserci stati numerosi altri luoghi e fattori di innovazione evolutiva - in altre regioni dell'Africa e addirittura in Europa e in Asia - capaci di influenzare i tempi e i modi dell'evoluzione degli ominini. Le ultime scoperte sono un'ulteriore conferma del fatto che, contrariamente all'opinione di alcuni, i grandi depositi fossili africani in cui reperire fossili di ominini possono trovarsi non soltanto nelle condizioni erosive tipiche della Rift Valley, ma anche in un'area assai più vasta e in situazioni geologiche diversissime.

I siti studiati in questi contesti inediti esemplificano chiaramente nuove situazioni paleo-ecologiche: le scoperte fatte in tali aree spesso sfidano idee sull'evoluzione umana che hanno resistito nel tempo perché si basavano sulle conoscenze limitate offerte dai siti su cui è stata profusa la grande maggioranza delle risorse destinate alla ricerca. Uno di questi siti in particolare ci induce a mettere in discussione non solo la nostra comprensione, che si riteneva completa, delle modalità e dei tempi dell'evoluzione degli ominini, ma anche l'idea secondo cui sarebbe già stato scoperto il massimo di ciò che la documentazione fossile in materia può offrire. Mi riferisco al sito sudafricano di Malapa, a pochi chilometri dall'area u rbana di Johannesburg.

Il sito di Malapa e la scoperta di Australopithecus sediba

Malapa fu individuato quando intrapresi un'esplorazione generale della regione nota come Culla dell'Umanità, alla ricerca di nuovi depositi ricchi di fossili. Grazie a nuove tecnologie come Google Earth e alla mappatura del territorio mediante esami fisici, scoprimmo nella prima metà del 2008 un importante numero di nuove grotte e di siti di fossili. Il 1° agosto 2008 scoprii il sito di Malapa, riconoscendolo come un significativo deposito fossile all'interno di una grotta scoperchiata di almeno 25x20 metri, in un'area non esplorata in precedenza dagli studiosi. Diversamente da tante altre grotte della regione, a Malapa non ci sono state molte attività minerarie e di scavo: le cave sono state sfruttate, con ogni probabilità, solo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, e quasi certamente tali attività si erano già concluse entro la metà degli anni Trenta del secolo scorso, quando Robert Broom iniziò a perlustrare la regione.

Il 15 agosto 2008 organizzammo la prima spedizione sul sito. Fu mio figlio Matthew, che aveva allora nove anni, a trovare i primi reperti di ominini. Nelle settimane e nei mesi che seguirono la ricchezza del sito apparve in tutta la sua evidenza: furono avvistati e riportati in superficie numerosi fossili di ominini. Il 4 settembre 2008 scoprii un secondo scheletro parziale di adulto, molto ben conservato, e due denti superiori associati (MH2). La scoperta di questo esemplare fu particolarmente importante perché fu rinvenuto in situ nei sedimenti di detriti cementati e calcificati del pozzo di miniera, fornendo cosi una collocazione precisa dei resti e portando alla scoperta della posizione in sito esatta del reperto originale.

La rimozione del blocco contenente lo scheletro parziale avvenne alla fine del 2008 e la preparazione del reperto rivelò un arto superiore parzialmente articolato comprendente gran parte della scapola destra, la metà laterale della clavicola destra, parti del torace e alcuni elementi di un arto inferiore. Perlustrando il sito alla ricerca dei materiali dispersi dalla limitata attività mineraria del passato fu rinvenuto, in un blocco contenente anche la mascella, il resto della scapola e della clavicola destra dell'adulto. All'inizio del 2009 era ormai palese che Malapa conservava, affioranti in superficie, almeno due scheletri parziali e forse altri individui rappresentati da materiale frammentario. Questi scheletri mostravano danni minimi: una quantità moderata di fratture, imputabili soprattutto all'attività mineraria, e un piccolo ammontare di danni di fossilizzazione dovuti probabilmente a un importante movimento franoso verificatosi quando gli scheletri furono trasportati alla loro ultima dimora. Nel febbraio del 2009 scoprii un blocco contenente la parte prossimale dell'omero di MH1. Nel corso della preparazione di questo reperto trovammo anche il cranio parziale e ben conservato, oltre a parti significative dello scheletro. Grazie a questa scoperta ci fu possibile assemblare gran parte della testa e del corpo di MH1, un esemplare giovane, mentre i lavori condotti successivamente sullo scheletro dell'adulto MH2 ci permisero di constatare come questo fosse praticamente intatto. Durante la perlustrazione in superficie del deposito di detriti minerari a Malapa scoprimmo anche, in situ, parte del retro del cranio di MH1: questo ci consentì di verificare con ragionevole sicurezza la posizione esatta in cui originariamente erano situati gli esemplari nel sito, e anche di associare a essi ulteriori elementi e addirittura altri individui. Nel corso degli ultimi tre anni e mezzo abbiamo condotto numerose analisi di questo materiale: nel 2009 siamo giunti alla conclusione che i resti fossili ominini rinvenuti a Malapa erano esemplari di una nuova specie di antico ominino mai prima d'ora riconosciuta o catalogata tra i fossili. Tale specie possedeva chiaramente molte caratteristiche, sia primitive sia derivate, che apparivano particolarmente sorprendenti rispetto ai reperti fossili di ominini recuperati fino a quel momento.

Questo ci ha portato nel 2010 a descrivere una nuova specie di ominini primitivi: Australopithecus sediha (Berger et al., 2010). Di recente è stato descritto altro materiale, compresi alcuni resti di ominini primitivi che sono tra i più completi finora scoperti tra i fossili africani e sono tutti riconducibili alla nuova specie, e abbiamo affinato la datazione fino a individuare un arco di tempo considerevolmente ristretto: tra 1,977 e 1,98 milioni di anni fa (Pickering et al., 2011).

La sorprendente anatomia di Australopithecus sediba

Con la recente pubblicazione di un numero significativo di nuovi elementi e con il procedere delle analisi dettagliate sui fossili è ormai chiaro che Australopithecus sediba offre un contributo inatteso e sorprendente alla documentazione sui primi ominini. La morfologia cranio-dentale di questa specie presenta un cervello piccolo ma con alcune novità, denti di ridotte dimensioni e naso sporgente: caratteristiche comuni sia alle australopitecine più primitive, sia a forme di Homo successive. Inoltre possiede sicuramente numerose combinazioni di tratti mai osservate in forme precedenti (Berger et al., 2010; Carlson et al., 2011). Anche a livello del resto dello scheletro Australopithecus sediba mostra un sorprendente mosaico di caratteri anatomici: braccia più lunghe e scimmiesche, mani con pollice allungato e accorciamento delle altre dita (Kivell et al., 2011) e struttura pelvica più innovativa, analoga a quella di Homo (Kibii et al., 2011). Le gambe sembrano più allungate, nel piede e nella caviglia presenta elementi sorprendentemente primitivi insieme ad altri sorprendentemente nuovi, evidenziando sia caratteristiche comuni ad altri ominini, sia caratteri di strutture più primitive e scimmiesche, specie nel tallone (Zipfel et al., 2011). Infine, il livello di dimorfismo sessuale in Australopithecus sediba si direbbe piuttosto limitato. Entrambi gli individui hanno un'altezza stimata di 130 centimetri; MH1 sembra essere un maschio e MH2 una femmina (Berger et al. 2010). Lo scheletro di MH1 appartiene a un esemplare non ancora adulto, ma la fusione delle lamine di crescita nella parte distale dell'omero mostra che era prossimo alla maturità. La dentizione di MH1, inoltre, è di poco più grande di quella di MH2. In base a tali considerazioni si può ipotizzare che, se fosse diventato adulto, questo probabile maschio sarebbe cresciuto solo del 10-14 per cento (Berger et al., 2010): ciò suggerisce un livello di dimorfismo sessuale adulto vicino, o solo di poco superiore, a quello osservato negli umani, e probabilmente inferiore a quello degli scimpanzé pigmei. Un livello, comunque, quasi certamente inferiore a quello osservato in tutti gli ominini attualmente attribuiti al genere Australopithecus.

Questo sorprendente mosaico di caratteri colloca Australopithecus sediba al di fuori della gamma di variabilità osservata nel complesso dei reperti di Australopithecus africanus, benché provengano da quattro siti geograficamente diversissimi e lontani come Taung, Sterkfontein, Gladysvale (Berger et al., 1993) e Makapansgat. Per quanto sia chiaro che Australopithecus sediba è morfologicamente vicinissimo ad Australopithecus africanus, l'aspetto inedito di alcune caratteristiche scheletriche evidenziato sopra impedisce di inserire Australopithecus sediba nella specie Australopithecus africanus. L'osservazione che Australopithecus sediba supera la variazione di Australopithecus africanus in quasi tutti gli aspetti della morfologia ossea è di particolare importanza perché al complesso di reperti relativi ad Australopithecus africanus è già riconosciuto un altissimo livello di variabilità. Una variabilità talmente elevata da indurre alcuni studiosi ad avanzare l'ipotesi che i reperti in questione potrebbero addirittura essere riconducibili a più di una specie (Clarke, 2008; Lockwood e Tobias, 2002). Poiché Australopithecus sediba supera la diversità morfologica totale a oggi nota dell'insieme dei reperti di Australopithecus africanus, e poiché comunque, dal punto di vista temporale e geografico, è più vicino a quello di Sterkfontein da cui proviene il campione più grande e diversificato di Australopithecus africanus, io e i miei colleghi consideriamo tutto questo una convincente prova della sua condizione di specie unica e a sé stante. Di conseguenza allo stato attuale la nostra interpretazione è che, per quanto tra Australopithecus africanus e Australopithecus sediba vi siano elementi comuni, le differenze sono nondimeno più che sufficienti per giustificare che li si distingua, e anzi sono di fatto sufficienti per distinguere Australopithecus sediba da tutte le altre specie note di ominini primitivi.

Il posto di Australopithecus sediba nell'evoluzione degli ominini

I resti fossili di ominini dall'Africa orientale e meridionale sono in quantità sufficiente per permetterci di formulare ipotesi in merito alla posizione di Australopithecus sediba nell'albero dell'evoluzione umana. Come osservato in precedenza, in base alle evidenze attualmente a nostra disposizione sembra che Australopithecus sediba si sia evoluto da una specie molto simile ad Australopithecus africanus, o quanto meno da qualcosa che assomiglia da vicino agli esemplari più gracili di tale specie. A sua volta Australopithecus sediba sembra avere più tratti in comune con reperti ricondotti a fossili specifici attualmente associati ai primi rappresentanti del genere Homo, soprattutto con il primo Homo erectus, piuttosto che con altre candidate australopitecine ancestrali, compresi Australopithecus afarensis, Australopithecus garhi, o Australopithecus africanus. Annunciando la scoperta di Australopithecus sediba (Berger et al., 2010), io e i miei colleghi avanzammo quattro possibili ipotesi sulla sua collocazione evoluzionistica: 1) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo habilis; 2) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo rudolfensis; 3) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo erectus; infine, 4) Australopithecus sediba appartiene a un gruppo fratello dei progenitori di Homo.

Mentre noi stiamo proseguendo le analisi sulla situazione filogenetica di Australopithecus sediba, si è acceso il dibattito sulla datazione di Australopithecus sediba intorno a 1,98 milioni di anni. Un'età così «giovane» sembrerebbe escludere, per motivi cronologici, di poterlo annoverare tra i possibili antenati dei primi membri del genere Homo: è un'australopitecina troppo giovane, vissuta quando già esistevano forme di Homo da diverso tempo. Molti studiosi del settore (Baiter, 2010; Cherry, 2010; Spoor, 2011) sono infatti fortemente persuasi che altri fossili, decisamente più antichi, sarebbero candidati migliori a questo onore. Se così fosse, almeno secondo una visione relativamente semplicistica di evoluzione unilineare e come sottolineato da alcuni commentatori (Spoor, 2011), i fossili di Australopithecus sediba provenienti da Malapa non avrebbero potuto dare origine al genere Homo. Una simile visione della potenziale posizione filogenetica di Australopithecus sediba esclude, non senza una certa furbizia, la possibilità che i fossili di Malapa rappresentino una popolazione superstite tardiva della specie destinata a dare origine al genere Homo. Allo stesso tempo, a questi fossili di presunta datazione anteriore che rappresenterebbero membri del genere Homo si conferisce oggi un'importanza straordinaria, in quanto costituirebbero le più antiche origini del genere stesso: se dunque li si vuole contrapporre alle nuove testimonianze provenienti da Malapa, meritano di essere sottoposti a un'analisi scrupolosa dal punto di vista della morfologia e del contesto.

Tre sono le candidature principali, presentate di solito come più antiche dei ritrovamenti di Malapa e che quindi si propongono come primi membri del genere Homo: Stw 53 da Sterkfontein (Hughes e Tobias, 1977), A.L. 666 dall'Etiopia (Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997) e U.R. 501 dal Malawi (Schrenk et al., 1993). Di ognuno di questi reperti si è detto, in varie occasioni, che risalirebbero a oltre 2 milioni di anni fa. In particolare gli ultimi due esemplari risalirebbero a un'epoca compresa tra 2,3 e 2,4 milioni di anni. Ma la pretesa di essere con certezza la più antica attestazione fossile del genere Homo è davvero straordinaria e della massima importanza. E quando si avanzano pretese straordinarie, occorre portare prove straordinarie. È quantomeno mia opinione che nessuno di questi fossili risponda a tali criteri straordinari di evidenza come primi rappresentanti del nostro genere. Nello specifico, Stw 53 è tradizionalmente ritenuto più antico di 2 milioni di anni: gli studi più recenti tuttavia ipotizzano una datazione più recente, tra 1,78 e 1,43 milioni (Berger et al., 2002; Herries et al., 2009; Pickering e Kramers, 2010). Questo esemplare, un cranio frammentario, fu descritto a tutta prima come appartenente con ogni probabilità a un antichissimo Homo (Hughes e Tobias, 1977), diagnosi che fu ben presto largamente accettata (Cronin et al., 1981; Wood, 1987, 1992, Curnoe e Tobias, 2006). Ma proprio uno di questi autori (Curnoe, 2010) è arrivato recentemente a descrivere Stw 53 come esemplare tipo di una nuova specie, Homo gautengensis, benché non vi siano molte ragioni per considerarlo un'unità tassonomica valida (Pickering et al., 2011). Analogamente, l'attribuzione al genere Homo di Stw 53 è stata energicamente contestata in base a considerazioni stratigrafiche e anche anatomiche (Berger et al., 2010; Clarke, 2008; Kuman e Clarke, 2000; Pickering et al., 2011). Non ci sono dunque attualmente molte prove che consentano di considerare Stw 53 come candidato a essere il più antico reperto del genere Homo: Stw 53 non sembra anteriore ad Australopithecus sediba per età cronologica, e nemmeno appare morfologicamente compatibile con tale ipotesi. Se in realtà questo reperto fosse derubricato dal genere Homo e considerato semplicemente un tardo esemplare di australopitecina, una tale riclassificazione potrebbe ripercuotersi, con un effetto domino, su altri fossili assegnati al genere Homo: per esempio sullo scheletro parziale di OH-62, che potrebbe a quel punto trovarsi in posizione migliore come rappresentante del genere Australopithecus (si veda, per una trattazione più approfondita di questo argomento, Berger et al., 2010 e Pickering et al., 2011). Un analogo ragionamento riguarda A.L. 666, il fossile dell'età presunta di 2,3 milioni di anni attribuito al genere Homo e ritrovato in Etiopia. Molti scienziati e studiosi di paleoantropologia lo considerano il miglior esemplare in assoluto della presenza del genere in Africa prima di 2 milioni di anni fa (Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997; Kimbel, 2009; Spoor, 2011). L'esemplare in questione è dato da una sola mascella frammentata su cui io stesso e miei colleghi abbiamo recentemente e ampiamente discusso (Pickering et al., 2011). Ma per ripetere quanto detto sopra, la pretesa di essere la prima e definitiva attestazione fossile del genere Homo è di tale straordinaria importanza che la mascella di A.L. 666 semplicemente non risponde, a parere di chi scrive, a quei criteri di straordinaria evidenza. In sintesi, A.L. 666 è un reperto isolato di superficie (Kimbel et al., 1996; Kimbel e Bak, 1997) e, come molti fossili provenienti dagli ambienti lacustri dell'Africa orientale e dai sistemi della Rift Valley, i suoi frammenti furono ritrovati su una superficie di pendio e gli scavi non hanno prodotto altri fossili in situ. Questo è un punto cruciale in quanto gli stessi autori della descrizione riferiscono la presenza di sedimenti di età più recente, da cui avrebbe potuto provenire la mascella: questa ipotesi fu esclusa solo in base al recupero di pochi altri frammenti ossei, simili per colore e consistenza, appartenenti ad altri animali. Un contesto tanto povero rende come minimo discutibile l'età del reperto. Senza il recupero di fossili in situ direttamente associati alla mascella non è possibile accertarne con sicurezza l'età presunta. Infine, la mascella di A.L. 666 fu in seguito ricostruita a partire da questi numerosi frammenti cosa che di per sé lascia aperta a numerose interpretazioni la morfologia cosi ricostruita. Dunque, anche se è stato collocato all'interno del contesto dell'orizzonte su cui poggiava, non si può in realtà stabilire con certezza assoluta che provenga davvero dall'orizzonte temporale di 2,3 milioni di anni fa. La stessa natura frammentaria di A.L. 666 indica chiaramente che il reperto ha subito diversi processi di fossilizzazione ed erosivi che lo hanno spostato dalla collocazione originaria. Si aggiunga che la completezza del materiale di Australopithecus sediba basta da sola a illustrare alcune importantissime lezioni sulle questioni da affrontare quando ci si affida a dettagli anatomici in reperti fossili di ominini isolati e frammentati, come può essere una singola mascella. Se in quasi tutte le zone anatomiche cruciali io e i miei colleghi avessimo cercato di utilizzare un singolo elemento o un complesso di caratteri per determinare il genere a cui appartiene Australopithecus sediba, avremmo potuto facilmente giungere a conclusioni molto diverse circa la condizione del genere o della specie di riferimento. In effetti, molli colleghi hanno avanzato interpretazioni differenti da quelle esposte nei nostri studi: un numero significativo di scienziati sostiene che Australopithecus sediba dovrebbe essere in realtà collocato all'interno del genere Homo (Baiter, 2010). Senza voler rielaborare nel dettaglio le loro argomentazioni, resta il fatto che gli ominini di Malapa dimostrano come non si possano usare talune caratteristiche anatomiche isolate - come una mascella - per dare risposte circa le attribuzioni dell'esemplare dato a un determinato genere (a meno che la caratteristica anatomica in esame non sia parte integrante della definizione del genere in questione). Alla luce di Australopithecus sediba, è ormai chiaro che occorre adottare un approccio anatomico più sistemico per rispondere a tali domande, oltre che un approccio contestuale che riconosca con chiarezza i punti di forza e di debolezza del contesto geologico di un reperto qualsiasi. Australopithecus sediba dimostra chiaramente che le dentizioni, altre parti strutturali associate alla masticazione e molte zone del resto dello scheletro non sono assolutamente adatte a porre interrogativi di tale natura - almeno nella linea evolutiva di Australopithecus sediba. Non è dunque irragionevole adottare un approccio altrettanto prudente nell'accostarsi a qualsiasi specie di primi ominini, finché non avremo fossili relativamente completi a dimostrare il contrario. Questo non significa certo che non esistano questioni significative a cui rispondere attraverso queste scoperte isolate e spesso frammentarie, ma solo che oggi riconosciamo come, in assenza di un contesto straordinario, alcuni interrogativi non possano trovare risposta in queste scoperte.

Un altro fossile candidato a proporsi come più antico reperto attribuito al genere Homo è la mandibola isolata di UR 501. Questo reperto soffre però di molte delle debolezze di A.L. 666 se applicato al problema delle origini del genere Homo. Anzi, per contesto e anatomia potrebbe essere considerato ancora più discutibile. Si tratta di una scoperta di superficie da un deposito lacustre e l'ipotesi di datazione, ottenuta solo per raffronto faunistico, parla di 2,4 milioni di anni (Schrenk et al., 1993). L'uso di una mandibola isolata per attribuire un esemplare a un genere è stato messo chiaramente in discussione dalla costellazione di morfologie riscontrate in Australopithecus sediba, la natura derivata della morfologia dentaria e mandibolare e la fauna associata a UR 501 non bastano ad attestare in modo indiscutibile una datazione tanto antica e potrebbero consentire di datare i fossili trovati nelle vicinanze dell'ominide al Pleistocene iniziale anziché al Pliocene terminale. Dunque neanche UR 501 risponde a quei criteri di evidenza straordinaria che occorre portare per suffragare la pretesa di essere il più antico rappresentante del genere Homo. Finché non saranno rinvenuti ominini fossili più completi e meglio contestualizzati, tali da consentire una datazione assoluta, anche questo importante reperto nei sedimenti del Malawi dovrebbe essere escluso dal dibattito.

Conclusioni

Di primo acchito Australopithecus sediba sembra complicare le nostre attuali conoscenze sulla comparsa dei primi esemplari di Homo, aggiungendo ancora un'altra specie, stavolta con un sorprendente mosaico di caratteri. Rimette in discussione ciò che credevamo di sapere sul passaggio evolutivo dalle ultime australopitecine ai primi riconoscibili membri del genere Homo intorno ai 2 milioni di anni fa. Ma se, dal dibattito sui candidati a proporsi come primi rappresentanti del genere Homo o come antenati dei suoi primissimi esponenti, escludiamo i fossili caratterizzati da dettagli anatomici isolati, ormai riconosciuti di insufficiente valore tassonomico, e anche i fossili provenienti da situazioni scarsamente contestualizzate, non ci resta molto altro da prendere in considerazione prima di 1,9 milioni di anni fa oltre ai fossili di Malapa.

In tale situazione, Australopithecus sediba potrebbe essere considerato semplicemente un progenitore di quelle forme successive con un cervello più grande attualmente attribuite a due specie distinte ma scarsamente conosciute, Homo rudolfensis e Homo habilis. Ma è anche possibile che in questi due taxa siano stati mischiati reperti di australopitecine e di appartenenti al genere Homo, creando una sorta di specie raccogliticcia. In un simile scenario, alcuni dei fossili attualmente assegnati a queste specie potrebbero inserirsi meglio nel genere Australopithecus, mentre altre potrebbero restare nei generi e nelle specie attribuite in origine. È anche evidentissimo che talune specie un tempo annoverate tra i potenziali antenati del genere Homo sono semplicemente di morfologia troppo avanzata per poter essere oggi considerate ancestrali della nostra linea evolutiva.

In particolare per quanto riguarda Australopithecus ghari, con la sua morfologia craniodentale così particolare e così simile a una tarda australopitecina iper-robusta, questa specie appare oggi un candidato assai improbabile come progenitore del genere Homo, o dello stesso Australopithecus sediba. E più plausibile che si tratti semplicemente di una variante delle australopitecine iper-robuste diffuse airincirca nella stessa epoca in tutta la Rift Valley. A quanto pare, l'unica ragione per cui Australopithecus ghari fu inizialmente considerato un potenziale candidato sarebbe proprio la sua natura frammentaria e l'assenza, nella stessa regione geografica, di altri fossili morfologicamente adatti a essere considerati progenitori del genere Homo. Da tutto quanto detto finora consegue, come minimo, che, nella gara a rappresentare il più antico esemplare conosciuto del genere Homo, Australopithecus sediba dovrebbe essere considerato un candidato altrettanto probabile delle altre specie fossili - o dei singoli esemplari fossili - attualmente disponibili, e forse addirittura il miglior candidato in assoluto. E questo a prescindere dal fatto che Australopithecus sediba corrisponda o meno alle idee preconcette che abbiamo sull'aspetto che tale progenitore dovrebbe avere: tali preconcetti infatti si basano in larga parte sulle attestazioni fossili, estremamente frammentarie, di cui abbiamo parlato in precedenza e su un gran numero di fossili frammentati provenienti da contesti poveri dal punto di vista geologico e cronologico. Malgrado i limiti, ormai riconosciuti, imposti da Australopithecus sediba nell'uso di taluni particolari anatomici frammentari dei fossili di ominini quando si affrontano gli interrogativi sull'attribuzione a un genere, e forse anche a una specie, la paleoantropologia sta comunque vivendo una fase esaltante della sua storia. Non si era mai assistito prima, nella pratica, alla scoperta di resti così associati, in un contesto valido e in tempi così brevi. L'evoluzione dei metodi di datazione assoluta e delle tecniche di scavo ci permette di contestualizzare queste scoperte, soprattutto nella situazione sudafricana, come solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Alla ricchezza di queste scoperte più complete, tuttavia, deve far seguito il riconoscimento del fatto che oggi capiamo la grande complessità dell'anatomia dei primi ominini: occorre perciò particolare prudenza quando ci interroghiamo su alcuni aspetti di reperti spesso frammentari. Gli eccezionali scheletri di Australopithecus sediba ritrovati a Malapa dimostrano chiaramente che potremo continuare a trovare nei primi ominini un sorprendente e spesso imprevedibile mosaico anatomico: questo deve indurci alla massima cautela nelle nostre analisi e interpretazioni, le quali dovrebbero essere improntate a una sana prudenza, soprattutto quando si tratta di interpretare reperti più frammentari. La situazione è naturalmente destinata a migliorare poiché sempre più fossili - e sempre più completi - stanno venendo alla luce per ogni specie fra i primi ominini, fossili risalenti ad archi temporali diversi e in differenti aree geografiche del mondo. La situazione in cui ci troviamo oggi non è certo di disperazione, ma è anzi un invito forte e chiaro a proseguire nelle esplorazioni e negli scavi, verso la scoperta di fossili sempre migliori, in sempre migliori contesti.

(Traduzione di Anna Tagliavini)

ZENOBIA JACOBS e RICHARD G. ROBERTS

LA STORIA UMANA SCRITTA NELLA PIETRA E NEL SANGUE

Un'eccezionale scoperta nelle grotte di Blombos, nell'Africa meridionale, testimonia come le origini cognitive di Homo sapiens siano riconducibili a quasi 75 mila anni fa. Le fasi di Still Bay e Howieson's Poort rappresentano, infatti, un alto livello di realizzazione tecnologica di strumenti - probabilmente usati per cacciare - e una varietà di comportamenti innovativi associati a questi manufatti. Due 'culture' durate poco, ma che forse rappresentano l'inizio dell'espansione planetaria di Homo sapiens.

La grotta di Blombos è un riparo di dimensioni modeste perfino per gli standard archeologici. Tuttavia i manufatti scoperti in appena 13 m3 di sedimenti estratti da questo sito hanno trasformato quanto si sapeva della fase in cui la nostra specie ha sviluppato le caratteristiche fondamentali associate agli esseri umani «moderni». Da questo buco angusto scavato in una scogliera di arenaria sulla costa nella parte meridionale della provincia del Capo in Sudafrica, Cristopher Henshilwood e i suoi colleghi hanno estratto le prove di un'espressione simbolica caratterizzata da segni astratti (pezzi di ocra incisi) e ornamenti personali (perline ricavate da conchiglie) risalenti ad almeno 75 mila anni fa. Questi reperti sono dunque di almeno 35 mila anni più antichi di qualsiasi manufatto comparabile scoperto in Europa.

Quando queste scoperte vennero rese pubbliche all'inizio del nuovo secolo destarono un notevole interesse per lo straordinario valore, ma anche per il loro significato rivoluzionario. I reperti di Blombos stravolgevano l'idea all'epoca prevalente circa il tempo e il luogo in cui si pensava che fosse apparso per la prima volta un carattere unico di Homo sapiens, cioè il comportamento simbolico. Basandosi sui resti fossili trovati in Etiopia possiamo far risalire a circa 200 mila anni fa la comparsa delle nostre caratteristiche anatomiche moderne, ma per trovare le tracce dell'evoluzione di una mente moderna occorre aspettare altri 100 mila anni. Le straordinarie scoperte di Blombos hanno pertanto sollevato diverse domande affascinanti. Che cosa ha provocato questo evento spartiacque nella preistoria umana? Qual è stata la sua diffusione in termini geografici? Si è verificato simultaneamente ovunque nell'Africa subsahariana? E quale ruolo, se ne ha avuto uno, è stato svolto da queste innovazioni nelle prime tappe della dispersione mondiale della nostra specie? Indizi importanti si possono dedurre dagli utensili in pietra che sono stati trovati insieme ai pezzi di ocra incisi con motivo incrociato e alle conchiglie deliberatamente forate di Blombos. Nei siti archeologici i manufatti in pietra sono di solito gli oggetti più comuni perché si conservano più a lungo rispetto ai resti di animali e piante. Gli archeologi rivolgono una particolare attenzione alle tecniche con cui questi oggetti sono stati realizzati e al modo in cui potevano essere utilizzati. Anche se molto meno pubblicizzati rispetto all'ocra incisa e alle perline di conchiglie, i depositi del Paleolitico medio africano di Blombos comprendono un importante insieme di strumenti indicati come «punte di Still Bay». Questi manufatti finemente lavorati in forma allungata e scheggiati dalle due parti costituivano probabilmente le punte di lance. Scoperti nel 1866 da sir Langham Dale vicino a Città del Capo, si tratta di alcuni dei primi utensili litici descritti in Sudafrica. A.J.H. Goodwin, il padre dell'archeologia africana, è stato il primo ad apprezzare la sofisticata tecnologia di questa industria litica.

Quella di Still Bay è oggi considerata una fase tecnologica precoce e innovativa del Paleolitico medio africano, preceduta da circa 200 mila anni di produzione di utensili molto meno sofisticati. A questa fase è seguito un altro periodo culturale tecnologicamente innovativo (noto come Howieson's Poort) che comprende strumenti a scheggiatura lamellare e strumenti a dorso, cioè taglienti soltanto su un lato, che venivano inseriti su un manico in legno per produrre armi composte. Come quella di Still Bay, anche l'industria di Howieson's Poort è rapidamente scomparsa. Un'industria dello stesso livello tecnologico è poi riapparsa in seguito nella documentazione archeologica non prima del Paleolitico superiore africano ed europeo, dunque molte decine di millenni più tardi.

L'importanza delle fasi di Still Bay e Howieson's Poort non dipende soltanto dall'alto livello di realizzazione tecnologica di quegli strumenti, probabilmente usati per cacciare, ma anche dalla varietà di comportamenti innovativi associati a questi manufatti. Oltre alle scoperte di Blombos nel Sud, ricordiamo l'ocra incisa di Klein Kliphuis e le uova di struzzo decorate di Diepkloof a ovest, oltre alle punte in osso e alle perline di conchiglia di Sibudu a est. Simili tracce di avanzamenti cognitivi umani implicano la comparsa di un'organizzazione tecnologica e sociale sempre più complessa in coincidenza con un periodo che alcuni archeologi considerano corrispondente a un'espansione della popolazione umana e a un aumento della densità degli insediamenti in Africa. Una tecnologia litica altrettanto sofisticata esisteva anche nell'Africa settentrionale (in particolare le punte bifacciali e peduncolate dell'Ateriano presenti in tutto il Maghreb) e, presumibilmente, nell'Africa orientale, cioè il territorio che rappresentò forse la rampa di lancio da cui i nostri antenati fecero le prime incursioni al di fuori del loro continente nativo. In qualche occasione negli stessi siti sono stati rinvenuti ornamenti personali, tra cui perline bucate prodotte con guscio d'uovo di struzzo e conchiglie forate di gasteropodi marini. Gli sforzi volti a mettere in relazione la cronologia di queste innovazioni tecnologiche e comportamentali del Nord e dell'Est con quelle dell'Africa meridionale si sono rivelati per molto tempo un fallimento a causa dell'incertezza delle datazioni dei reperti provenienti dalle varie regioni. Di conseguenza scoprire il momento e il luogo in cui un comportamento umano moderno è comparso è sempre risultato un impegno vano. E lo stesso vale per le cause che hanno reso i nostri antenati «umani», e per le immediate conseguenze di un simile cambiamento. La soluzione di questi dilemmi richiedeva datazioni più accurate e cronologie più dettagliate dei siti archeologici chiave in tutto il continente. Così abbiamo incominciato la nostra ricerca datando in modo sistematico i diversi siti oggetto di studio nell'Africa meridionale. I risultati ottenuti suggeriscono che le espansioni delle popolazioni in Africa possano essere state l'innesco per lo sviluppo di queste innovazioni paleolitiche e forse anche per le prime migrazioni fuori dall'Africa avvenute circa 60 mila anni fa.

La nebbia cronologica

Un problema generale che si incontra quando si cerca di datare eventi o oggetti è il fatto che le numerose stime indipendenti delle età sono di solito più diversificate di quanto ci si aspetterebbe in presenza di una normale variazione statistica, anche considerando i margini di errore per ciascuna stima. Per buona parte questa discrepanza così ampia è frutto delle tecniche sperimentali adottate: un prodotto indesiderato ma inevitabile della datazione di materiali diversi con metodi diversi, adottando apparecchiature, standard di calibrazione, procedure di misurazione e tecniche di analisi dei dati differenti. Questa complicazione spesso emerge anche quando un insieme di campioni (o un singolo campione) proveniente da un sito viene datato usando la stessa tecnica in laboratori diversi. A meno che tutte le condizioni sperimentali, le caratteristiche strumentali, gli standard di riferimento e i software usati per le analisi non siano identici, è normale aspettarsi nei risultati qualche divergenza. Una simile condizione è come una «nebbia» cronologica che nasconde la vera età del campione o dell'evento che ci interessa.

I tentativi finora condotti per determinare l'inizio e la fine dei periodi culturali di Still Bay e di Howieson's Poort sono molti e si sono basati sull'utilizzo di un'ampia gamma di metodi di datazione relativi e assoluti. Le tecniche di datazione assoluta permettono di stimare un'età quantitativa numerica che può essere collocata su una scala cronologica standard, di solito espressa in anni da oggi. I metodi di datazione relativa permettono di stabilire date che si possono ordinare soltanto una in relazione all'altra, ma devono essere calibrate rispetto all'età assoluta per essere inserite su una scala cronologica. La prima tecnica di datazione assoluta, e la più conosciuta, è quella del radiocarbonio, che in condizioni ideali può indicare quando, negli ultimi 60 mila anni, una pianta o un animale sono morti. In realtà, nella pratica comune, la contaminazione degli esemplari mette in dubbio la datazione di campioni che abbiano più di 30 mila anni, di conseguenza per reperti più antichi vengono adottati altri metodi di datazione assoluta applicati su materiali diversi rispetto a piante o animali. Negli ultimi tre decenni tra le tecniche applicate con più o meno successo nei siti archeologici africani figurano: la datazione della serie dell'uranio nelle formazioni di calcite delle grotte, la risonanza elettronica di spin per lo smalto dei denti, la termoluminescenza per le rocce bruciate e la luminescenza stimolata otticamente (Osl) per i sedimenti sbiancati dal sole. A questi si aggiunge un metodo di datazione relativa, la racemizzazione degli amminoacidi. L'età attribuita all'industria di Still Bay risulta così compresa tra 130 mila e 50 mila anni fa, mentre quella di Howieson's Poort è compresa tra 100 mila e 40 mila anni fa. Datazioni così vaghe lasciano ampio spazio alle speculazioni riguardo alla probabile durata delle due fasi culturali e alle ragioni che hanno determinato la loro comparsa e il loro abbandono.

Dissipare la nebbia

Nel 2006 abbiamo incominciato a dissipare la nebbia che oscurava la datazione delle industrie di Still Bay e di Howieson's Poort. Per farlo abbiamo scelto un singolo metodo di datazione, la Osl, applicandolo sullo stesso tipo di materiale proveniente da diversi siti chiave, e servendoci di procedure ed equipaggiamento identici in tutti i casi. La luminescenza stimolata otticamente, o Osl, permette di stabilire l'età di oggetti o eventi verificatisi nel corso dell'intero Paleolitico medio africano, cioè in un'età compresa tra 280 mila e 40 mila anni fa o anche più recenti, con una precisione notevole, pari a +/- 5 per cento. Quando un singolo operatore può svolgere l'intera datazione, inoltre, la precisione viene ulteriormente incrementata così come le probabilità che i dati siano coerenti.

La Osl sfrutta il fatto che i granuli di quarzo bruciati assorbono l'energia da fonti naturali di radiazioni ionizzanti (in particolare uranio, torio e i loro prodotti radioattivi nonché il potassio) presenti nel terreno circostante. Una piccola porzione di quell'energia viene conservata nelle trappole elettroniche prodotte dai difetti della struttura cristallina dei granuli. In laboratorio, un laser libera dalle loro «trappole» gli elettroni presenti nei granuli di minerale. Gli elettroni, il cui numero aumenta con l'aumentare del tempo in cui i sedimenti sono rimasti sotterrati, derivano dai materiali radioattivi presenti nell'ambiente. La quantità di tempo trascorsa da quando il sedimento è rimasto sepolto può essere calcolata misurando il segnale della Osl insieme alla radioattività del campione e del materiale circostante. Misurando il tasso di concentrazione della radiazione ionizzante nei granuli di quarzo provenienti dai depositi circostanti (il tasso di dose ambientale), è possibile calcolare quando i granuli e i manufatti presenti nei dintorni sono stati bruciati, che si tratti di utensili o di ornamenti del Paleolitico.

La datazione basata sulla Osl è stata sviluppata da David Huntley della Simon Fraser University e dai suoi colleghi nel 1985, principalmente per datare depositi geologici. Alla fine del XX secolo però il metodo ha subito un radicale cambiamento, quando le procedure di misurazione e la strumentazione disponibile hanno permesso di stabilire le dosi equivalenti di radiazioni a partire da granuli di quarzo di appena 0,1 mm di diametro. Grazie a questa possibilità è stato possibile misurare sistematicamente centinaia di singoli granuli da ciascun campione, offrendo numerose stime indipendenti delle età che potevano essere confrontate tra loro per una maggiore sicurezza e per escludere qualsiasi possibile contaminazione o disturbo dei campioni. Per la nostra datazione delle industrie di Still Bay e di Howieson's Poort, Zenobia Jacobs, coautrice di questo articolo, ha raccolto e analizzato tutti i campioni in modo sistematico eliminando da sito a sito le incongruenze che avevano minato i tentativi di datazione compiuti in precedenza.

Stabilire quando una tradizione archeologica può essere comparsa e scomparsa non è semplice. Non è infatti possibile basarsi solamente sui manufatti raccolti in un sito, perché è improbabile che l'intero periodo in cui è presente una determinata industria sia rappresentato in un'unica località. Gli archeologi devono quindi assemblare una serie di «istantanee» relative a siti differenti per stabilire le date di comparsa e di scomparsa dell'industria oggetto di studio. Questo procedimento naturalmente non è semplice, soprattutto nel caso dell'industria di Still Bay, testimoniata soltanto in una manciata di siti in tutta l'Africa meridionale. La situazione è molto meno complessa per l'industria di Howieson's Poort, che conta circa trenta testimonianze tra quelle confermate e quelle presunte nelle alte regioni montuose del Lesotho, nelle frange desertiche della Namibia e nell'area continentale interna e subtropicale del Sudafrica, nonché nelle regioni costiere e nell'entroterra lungo i margini meridionali del continente. Tutti i siti sono rappresentati da ripari naturali e grotte che i cacciatori-raccoglitori hanno usato come accampamenti temporanei. Nei diversi insediamenti sono stati scoperti i resti delle attività quotidiane: focolari, avanzi di cibo e utensili.

Il nostro studio nell'area subcontinentale ha incluso undici località con reperti appartenenti a una delle due industrie, Still Bay e Howieson's Poort, o a entrambe, e tra queste alcuni dei più noti siti del Paleolitico medio africano della parte meridionale del continente, come le grotte alla foce del fiume Klasies. Altri siti non hanno permesso di effettuare campionamenti o, nel caso della grotta di Biombos, erano già stati datati in precedenza dalla Jacobs. Abbiamo intenzionalmente scelto siti molto dispersi dal punto di vista geografico e situati in contesti ambientali differenti per cogliere la gamma completa della variabilità naturale nelle condizioni climatiche che hanno influenzato la regione nei diversi intervalli di tempo. Due siti, per le caratteristiche dei reperti, si sono rivelati inadatti per una datazione con la Osl, ma in ogni caso un numero sufficiente di campioni (54 in tutto) è stato raccolto e datato nei nove siti rimanenti permettendoci di stabilire il momento della prima e dell'ultima testimonianza dell'industria di Howieson's Poort e, anche se con meno sicurezza, di quella di Still Bay.

Come abbiamo riportato in un articolo del 2008 pubblicato su Science, entrambe le industrie sembrano aver avuto una vita estremamente breve, dato che sono comparse all'improvviso e scomparse poco tempo dopo. Lo stesso schema di eventi, è importante notare, si osserva su un'area di due milioni di chilometri quadrati attraverso una varietà di zone climatiche ed ecologiche. Non avendo rilevato variazioni spaziali nella cronologia, abbiamo riportato tutti questi dati in un modello statistico, elaborato da Rex Galbraith dell'University College di Londra, per stimare le date della prima e dell'ultima testimonianza delle industrie di Still Bay e Howieson's Poort. Così abbiamo stabilito che il periodo culturale di Still Bay deve essere durato non più di mille anni (da 72 mila a 71 mila anni fa circa). Per quanto riguarda Howieson's Poort, il debutto risale a circa 65 mila anni fa, dunque 7 mila anni dopo nella documentazione fossile rispetto a Still Bay. Howieson's Poort è poi scomparso all'improvviso 5 mila anni più tardi ed è stato seguito da un altro intervallo di circa 3 mila anni prima della comparsa di nuove tecnologie, anche se meno sofisticate, del Paleolitico medio africano. Il margine di errore per queste stime è soltanto di pochi millenni, con un intervallo di sicurezza pari al 95 per cento: abbastanza preciso dunque per risolvere il problema della natura effimera e punteggiata di queste esplosioni di innovazioni tecnologiche e comportamentali.

Catalizzatori di creatività

Scoprendo le età di questi manufatti abbiamo inevitabilmente sollevato nuove e interessanti domande. Qual è il fattore che ha provocato la nascita delle industrie di Still Bay e Howieson's Poort? Perché entrambe hanno avuto una vita tanto breve e si sono interrotte così bruscamente? Qual è il fattore responsabile della loro comparsa e successiva scomparsa, istantanee in termini archeologici, in una vasta area dell'Africa meridionale? Le risposte degli esseri umani ai cambiamenti ambientali da tempo incuriosiscono gli archeologi, pertanto i cambiamenti climatici meritano un posto in cima alla lista dei sospettati.

LE FASI DEL PALEOLITICO IN AFRICA

Paleolitico inferiore africano

(o Early Stone Age)

da 2,5 milioni a circa

180.000 anni fa

Paleolitico medio africano

(o Middle Stone Age)

da circa 180.000 anni fa

a 22.000 anni fa

Paleolitico superiore africano

(o Later Stone Age)

da 22.000 anni fa

a circa 1500 anni fa

L'ultimo ciclo interglaciale/glaciale incomincia circa 130 mila anni e termina 12 mila anni fa, includendo pertanto i due periodi corrispondenti alla diffusione delle industrie di Still Bay e di Howieson's Poort. Durante questo intervallo di tempo, l'Africa meridionale è stata interessata da importanti cambiamenti nel regime delle temperature e delle precipitazioni, associati con cambiamenti a livello globale del volume dei ghiacci, del livello dei mari e dei modelli di circolazione delle correnti negli oceani e delle masse d'aria nell'atmosfera. La cronologia e l'ampiezza di queste fluttuazioni climatiche sono state riconosciute da gruppi di ricerca internazionali sul clima, studiando il modello di cambiamento nel rapporto tra isotopi di ossigeno (e anche considerando la concentrazione dei gas serra nell'atmosfera) nei carotaggi di ghiaccio compiuti in Groenlandia e in Antartide. Questi dati hanno in comune molte caratteristiche generali, ma le registrazioni climatiche dell'emisfero meridionale provenienti dall'Antartide sono comunque le più rilevanti per l'Africa del Sud.

Compiere estrapolazioni da un continente all'altro comporta un certo grado di incertezza e vi sono talune differenze nella cronologia e nell'ampiezza dei cambiamenti tra le diverse misurazioni compiute in Antartide. Nulla però mette in dubbio il quadro complessivo: l'industria di Howieson's Poort è comparsa in un periodo di riscaldamento climatico, mentre quella di Still Bay non può essere con sicurezza messa in relazione con una fase di riscaldamento o di raffreddamento. Il fatto che le stesse condizioni climatiche non sembrino aver prevalso in questi due episodi di innovazione culturale suggerisce che la comparsa e scomparsa delle industrie di Still Bay e di Howieson's Poort non siano state determinate da una causa ambientale comune. L'assenza di una correlazione tra l'espressione simbolica degli esseri umani e un particolare tipo di cambiamento climatico non preclude peraltro la possibilità che le fluttuazioni climatiche abbiano influenzato la scelta da parte dei nostri antenati dei ripari rocciosi da occupare o da abbandonare e di quando farlo. Anzi, considerato lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori, i siti migliori per abitare e accedere alle risorse sono certamente cambiati nel tempo, di concerto con i cambiamenti ambientali. Di fatto i nostri dati indicano l'occupazione preferenziale di ripari rocciosi durante gli intervalli di tempo generalmente più caldi, mentre siti più aperti erano forse scelti di preferenza in altre fasi. Due ulteriori prove mettono in dubbio l'idea che l'ascesa dei periodi culturali di Still Bay e Howieson's Poort sia giustificabile soltanto come una risposta a fattori ambientali. In primo luogo, queste industrie sono state trovate in contesti climatici e biogeografici diversi, anche se compaiono e scompaiono all'incirca nello stesso periodo nei vari siti. Questo sincronismo non si potrebbe spiegare se fossero soltanto le particolari condizioni ambientali ad aver indotto la comparsa e la diffusione di queste industrie. In secondo luogo, il periodo culturale di Howieson's Poort è stato seguito da tre periodi distinti caratterizzati da tecnologie litiche meno sofisticate indicate come post-Howieson's Poort, Paleolitico medio africano e Paleolitico superiore africano. Nessun ornamento personale o manufatto con valore simbolico è stato trovato in associazione con questi tre periodi. Le ultime due fasi culturali, e probabilmente anche il post-Howieson's Poort, fiorirono durante intervalli di tempo di relativo riscaldamento (come per l'Howieson's Poort) e nessuno di questi mostra una qualche innovazione tecnologica o comportamentale. Quando viene considerata in questo contesto più ampio, dunque, l'esplosione del comportamento simbolico nei periodi di Still Bay e di Howieson's Poort non sembra poter essere esclusivamente messa in relazione con un clima caldo, freddo o di transizione.

Espansioni demografiche...

Che cosa, dunque, può aver innescato l'inizio e la fine di queste due esplosioni di creatività e di innovazione? La risposta potrebbe trovarsi nella sequenza delle espansioni e delle fasi di isolamento delle popolazioni dei cacciatori-raccoglitori, come è stato rivelato da studi recenti sul DNA mitocondriale (mtDNA) negli esseri umani. Queste sequenze genetiche vengono ereditate per via materna, vale a dire che non sono interessate da processi di ricombinazione con il DNA di origine paterna come avviene invece per il DNA nucleare nel passaggio da una generazione all'altra. Di conseguenza il mtDNA può documentare i modelli di espansione delle antiche popolazioni, le loro fasi di declino e di isolamento, anche se queste interpretazioni sono accompagnate da un certo numero di presupposti e di complicazioni che tutt'ora ostacolano la nascita di un consenso generale tra studiosi sulla storia demografica di Homo sapiens. Ciononostante per l'Africa subsahariana nuovi dati genetici offrono un'immagine più chiara dei principali eventi demografici che hanno influenzato la diversificazione e la diffusione della nostra specie. In uno degli studi più recenti, realizzato da Quentin Atkinson della University of Oxford e da alcuni suoi colleghi, sono state esaminate quattro principali linee di discendenza di mtDNA indigene dell'Africa, corrispondenti ai gruppi di «aplotipi» (cioè combinazioni di varianti alleliche lungo un cromosoma o un segmento di cromosoma che sono strettamente associate tra di loro ed ereditate insieme) L0, L1, L2 e L3. L'aplogruppo (cioè un insieme di aplotipi) L3 è il più recente e risulta particolarmente interessante perché tutte le linee di discendenza di mtDNA osservate fuori dall'Africa derivano soltanto da due aplogruppi (M e N) che a loro volta discendono da L3. Un altro particolare interessante è il fatto che la datazione e il modello di espansione dei quattro principali aplogruppi sono stati stimati per gli ultimi 150 mila anni, ma il primo incremento noto della dimensione della popolazione incomincia indicativamente tra 86 mila e 61 mila anni fa nell'aplogruppo L3 e dunque risale proprio al periodo di tempo che include le culture di Still Bay e di Howieson's Poort. Nessun altro aplogruppo si è ampliato in modo sostanziale prima di 20 mila anni fa.

Si è facilmente tentati di mettere in relazione l'incremento esplosivo della popolazione dell'aplogruppo L3 con gli importanti eventi ambientali che si sono verificati circa 75 mila anni fa. Come ha recentemente spiegato Christopher Scholz della Syracuse University insieme ad alcuni colleghi, circa 60 mila anni fa nell'Africa orientale si è bruscamente interrotto un periodo di grave siccità a cui sono poi seguite condizioni climatiche nel complesso più umide e più stabili. Inoltre 74 mila anni fa si è verificata anche l'eruzione del vulcano Toba sull'isola di Sumatra, la più imponente eruzione nota tra quelle verificatesi sulla Terra dalla comparsa del genere Homo. Secondo alcuni studiosi l'immissione di ceneri e gas vulcanici nell'atmosfera avrebbe determinato l'insorgere di un breve «inverno vulcanico» in tutto il mondo, il quale causò una riduzione della dimensione delle popolazioni umane. Tuttavia l'interruzione della fase di grande aridità nell'Africa orientale non può rendere conto dell'espansione demografica di uno solo dei quattro aplogruppi. L'eccezionale eruzione del Toba non è compatibile con l'incremento della dimensione dell'aplogruppo L3. Atkinson e colleghi, pertanto, hanno deciso di non considerare il cambiamento climatico e ambientale come unico fattore responsabile della rapida crescita delle popolazioni di L3 e della migrazione dei loro discendenti fuori dall'Africa 10 mila anni dopo. Adottando una spiegazione alternativa, questi studiosi hanno proposto invece che una qualche forma di innovazione culturale e un aumento della complessità comportamentale dei membri dell'aplogruppo L3 debbano aver conferito loro un vantaggio nella competizione con i rivali, forse migliorandone l'efficienza tecnologica, la produttività economica, la coesione sociale e il coordinamento di gruppo. Le nostre nuove datazioni per le industrie di Still Bay e di Howieson's Poort collocano queste culture esattamente nello stesso intervallo di tempo di queste fasi di espansione della popolazione umana. Non possiamo peraltro sapere se le caratteristiche innovative di tali culture siano state una causa oppure una conseguenza dell'espansione di L3. La seconda possibilità ci sembra però più probabile se consideriamo che l'Africa meridionale dista migliaia di chilometri dalle aree dell'Africa orientale in cui l'aplogruppo L3 appare più diversificato e dove sembra si sia originato. Per risolvere il problema della causa e dell'effetto in questo caso avremmo bisogno di una cronologia più dettagliata per l'espansione dell'aplo-gruppo L3, in modo da poterla confrontare con le date di inizio e di fine delle culture di Still Bay e di Howieson's Poort e degli utensili, simili in quanto a raffinatezza, scoperti nell'Africa settentrionale e in quella orientale.

...e contrazioni demografiche

Sull'altra faccia della moneta demografica vi sono le documentazioni dell'isolamento delle popolazioni anch'esse registrate nel mtDNA. Molti studiosi ormai sono concordi nel sostenere che la nostra specie sia stata interessata da numerosi episodi di questo tipo nell'Africa subsahariana e non abbia quindi formato sempre un gruppo singolo e geograficamente continuo.

Una particolare attenzione è stata rivolta all'aplogruppo L0, che corrisponde alla più antica delle linee di discendenza del mtDNA africano e presenta due ramificazioni (L0d e L0k) che risultano prevalenti soprattutto tra i «boscimani» khoisan dell'Africa sudoccidentale. I khoisan vivono ancora come cacciatori-raccoglitori e sono famosi per la loro lingua ricca di suoni simili a «click». Becenti studi sul mtDNA completo dei khoisan hanno rivelato che questa popolazione è geneticamente isolata da oltre 90 mila anni. Soltanto con il Paleolitico superiore africano, circa 40 mila anni fa, si nota un rinnovato mescolamento genetico a livello del mtDNA dei khoisan a sostegno della notevole antichità di questa famiglia linguistica. Uno schema demografico simile è stato scoperto nell'Africa centrale tropicale usando l'aplogruppo Llc per tracciare la storia, mediante il mtDNA, dell'isolamento dei cacciatori-raccoglitori pigmei. Questi abitanti della foresta pluviale equatoriale costituiscono una popolazione geneticamente isolata da circa 74 mila anni, in citi una ripresa del flusso genico risale a circa 40 mila anni fa. Al momento non possiamo escludere la possibilità che la popolazione corrispondente all'aplogruppo L3 abbia subito fasi di isolamento geografico, sovrappostesi a un generale trend di crescita e di diversificazione delle linee di discendenza in un periodo compreso tra 80 mila e 60 mila anni fa. Le similitudini esistenti tra queste importanti modificazioni in termini demografici nell'Africa subsahariana e le età delle culture di Still Bay e di Howieson's Poort sono una semplice coincidenza? Noi pensiamo di no. Successivi impulsi rappresentati da espansioni e contrazioni della popolazione dell'Africa meridionale potrebbero spiegare perché la cultura di Still Bay sia comparsa e si sia sviluppata in modo così brusco in un'area tanto vasta e quindi sia scomparsa in meno di un millennio, e anche perché la cultura di Howieson's Poort si sia sviluppata soltanto 7 mila anni dopo per durare 5 mila anni appena. Perché un'innovazione tecnologica e comportamentale si diffonda su vasta scala e rapidamente, occorre che esista una rete coesa di contatti sociali in grado di promuovere la trasmissione delle nuove idee e delle invenzioni. I periodi di espansione della popolazione dell'aplogruppo L3 potrebbero con buona probabilità aver generato una simile rete e promosso commerci su scala geograficamente ampia, con scambi di utensili litici di alta qualità e di manufatti simbolici attraverso l'Africa meridionale. Secondo questa ipotesi l'intervallo di tempo che separa la cultura di Still Bay da quella di Howieson's Poort rappresenterebbe un periodo di contrazione della popolazione, durante il quale le reti sociali si sono indebolite o sono collassate. Le cause di questa calamità restano sconosciute, ma forse le condizioni climatiche prevalentemente fredde potrebbero aver alterato l'equilibrio della natura innescando un cambiamento nella distribuzione, nella diversità, nella prevedibilità e nella produttività delle risorse necessarie ai cacciatori-raccoglitori. Se la gente fosse stata costretta ad abbandonare i siti che abitava spostandosi in cerca di risorse, i legami nella rete sociale avrebbero potuto subire un allentamento o spezzarsi del tutto, limitando la distribuzione delle nuove innovazioni a gruppi più piccoli e isolati dal punto di vista geografico.

Sarebbe stata necessaria un'altra esplosione demografica della popolazione per rinvigorire questa rete sociale attraverso l'Africa meridionale con il risultato di diffondere meglio le più recenti innovazioni tecnologiche associate alla cultura di Howieson's Poort (strumenti a dorso su lame sottili per armi da caccia). Questa rete integrata e subcontinentale di comunità di cacciatori-raccoglitori si è conservata per oltre cinque millenni, ma poi è scomparsa circa 60 mila anni fa, forse in risposta alle fasi di contrazione e di isolamento della popolazione identificate negli studi di genetica. Allo stesso modo una sofisticata tecnologia litica non è ricomparsa per altri 20 mila anni, finché alla fine del Paleolitico medio africano si è registrato un rinnovato flusso genico nell'Africa subsahariana.

Scoprire la verità

L'ipotesi suggerita fin qui è un misto di fatti e di speculazioni (cioè ricostruzioni immaginarie basate su insiemi di dati disparati, alcuni dei quali sono più vincolati alla realtà di altri). Ma l'idea è coerente con le simulazioni al computer prodotte da Stephen Shennan dell'University College di Londra nel 2001, secondo le quali le innovazioni culturali si possono conservare e condividere più facilmente in popolazioni più ampie piuttosto che in quelle piccole. I periodi di espansione della popolazione favorirebbero una più rapida trasmissione delle innovazioni tecnologiche e comportamentali (come quelle associate alle culture di Still Bay e Howieson's Poort). E queste acquisizioni avrebbero più probabilità di essere perse nelle popolazioni di dimensioni minori e rimaste isolate. Se le differenze culturali si sviluppavano in popolazioni separate, allora le recenti simulazioni sembrano suggerire che esse avrebbero scoraggiato la migrazione tra gruppi e ulteriormente ostacolato la crescita demografica. L'ascesa e la caduta delle culture di Still Bay e Howieson's Poort dunque potrebbero con più plausibilità essere collegate con la storia demografica e con il tessuto sociale dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori. Il problema da affrontare ora è quello di trasformare le ipotesi speculative in solide inferenze. Per comprendere la nascita del comportamento umano moderno e la diffusione dei nostri antenati fuori dall'Africa avremo bisogno di nuovi dati provenienti dall'archeologia, dall'ecologia, dalla genetica, dalla linguistica e dalla scienza del clima.

Avremo anche bisogno di datazioni affidabili per gli eventi chiave in ambito archeologico, genetico, demografico e ambientale, e di poter collocare ciascuno di questi su una scala cronologica a risoluzione maggiore e più standardizzata.

Al momento non possiamo affermare che l'espansione della popolazione dell'aplogruppo L3 nell'Africa subsahariana sia una conseguenza diretta di un qualsivoglia evento ambientale. Di fatto, la scansione temporale dei cambiamenti climatici e demografici è troppo imprecisa per poter essere riportata su una scala cronologica nell'ordine corretto. Forse è stata un'esplosione di creatività umana in un gruppo di persone appartenenti all'aplogruppo L3 nell'Africa orientale ad agire da evento catalizzatore dell'innovazione culturale. Forse quell'innovazione ha incoraggiato la coesione sociale e un impiego più efficiente delle risorse naturali, promuovendo una crescita più rapida della popolazione nell'ambito di questo gruppo di persone.

Tale espansione della popolazione potrebbe, a sua volta, aver promosso nuove innovazioni (tra cui le industrie di Still Bay e di Howieson's Poort nell'Africa meridionale) e la migrazione di popolazioni fuori dall'Africa settentrionale. Un prossimo passaggio cruciale in questo studio prevederà lo studio della cronologia più dettagliata delle principali fasi culturali

nell'Africa settentrionale e orientale per raggiungere una risoluzione simile a quella ottenuta per l'Africa meridionale. Dobbiamo collocare tutti questi punti di svolta in termini archeologici entro uno stesso metro cronologico che includa anche i principali eventi climatici, genetici e demografici verificatisi nel continente. Ordinando gli eventi in base a una corretta sequenza sulla stessa linea del tempo, sarà possibile stabilire cause ed effetti, azioni e reazioni, e produrre un modello più completo della moderna preistoria umana. (Da American Scientist, volume 97, numero 4, luglio-agosto 2009).

(Traduzione di Allegra Panini)

continua (Seconda parte)