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Letture darwiniane


I

Darwin scienziato rivoluzionario e uomo del suo tempo

Richiamo all'Introduzione
La teoria “sconvolgente”
Una strana circostanza
La metodologia di Darwin
L’autoritratto di Darwin
La “malattia” di Darwin
Matrici ideologiche della teoria darwiniana
Le critiche non ostili

Richiamo all'Introduzione

Un breve richiamo all'introduzione, per chi non ha avuto ancora occasione di leggerla, si impone.

Il dato di fatto da cui partire è che la fioritura di quattro Geni, che hanno segnato la storia della cultura contemporanea, e la cui influenza persiste tuttora, avviene nell'arco di mezzo secolo: un'epoca che gli storici designano come il trionfo della borghesia. La circostanza non sorprende se si tiene conto che la genialità, di solito, si dispiega nei periodi storici caratterizzati da un intenso dinamismo evolutivo. Sotto questo profilo, la seconda metà del Novecento sembra corrispondere a questa formula con lo sviluppo dell’economia, della scienza, della tecnologia, dell’arte.

Il rapporto tra genialità e contesto storico può essere, però, consonante, quando i Geni interpretano lo spirito del tempo (come, nel periodo in questione, è il caso di Wagner), o dissonante, quando essi producono opere che, esplicitamente o implicitamente, contestano quello spirito o rivelano ciò che esso cela.

Darwin, Marx, Nietzsche e Freud sono geni dissonanti: le loro opere sono, sia pure da prospettive del tutto diverse, colpi di maglio scagliati contro la civiltà trionfante.

Darwin, con l’evoluzionismo, non riconduce solo l’uomo a prendere atto delle sue origini animali e del suo statuto biologico, bensì attenta al suo primato nella scala della vita, facendogli presente di essere nato casualmente e di rappresentare, per la sua relativa giovinezza, una specie precaria.

Marx, attraverso l’analisi di un capitalismo avviato a conquistare il mondo, giunge alla conclusione che il trionfo è effimero, e che il sistema è destinato inesorabilmente ad essere sormontato.

Nietzsche è non meno incisivo. L’uomo attuale – egli sostiene – è una patetica e ipocrita controfigura dell’uomo che verrà, libero dagli impacci della morale cristiana e dallo spirito “pratico” della borghesia.

Freud, infine, scopre che la fede nella coscienza, che non è mai stata assoluta come all’epoca, è del tutto ingiustificata, perché essa, nel suo statuto, serve meno ad illuminare la verità che non a celarla, e questo soprattutto per quanto concerne la verità dell’uomo su se stesso.

In un certo senso, i Grandi Demistificatori sembrano impegnati ad affrontare i dilemmi universali che, all’epoca, nell’esaltante atmosfera dello sviluppo capitalistico, sembravano risolti: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo?

Da dove veniamo: dal ventre della natura, sostiene Darwin; dal ventre della storia, afferma Marx. Chi siamo: animali come gli altri secondo Darwin, animali portatori di bisogni radicali secondo Marx, esseri inesorabilmente incompiuti secondo Nietzsche, esseri galleggianti sul turbolento mare dell’inconscio secondo Freud. Dove andiamo: verso un mondo fatto a misura d’uomo – sostiene Marx-, verso il Superuomo – afferma Nietzsche-, verso una civiltà che contenga, ma non reprima troppo le pulsioni – scrive Freud.

L’intento delle letture è di riprendere questi interrogativi alla luce delle riflessioni dei Grandi Demistificatori per capire se le loro “provocazioni” hanno ancora senso, oggi, per noi; per giungere, insomma, ad una comprensione più profonda dell'essere umano nella sua complessità attraverso lo studio critico delle loro opere.

La teoria “sconvolgente

Darwin ha focalizzato un aspetto fondamentale di questa complessità: benché dotato di singolari potenzialità mentali che gli hanno consentito di trasformare radicalmente l'ambiente, l'uomo è un animale prodotto dall'evoluzione naturale. E' dunque null'altro che un essere biologico.

E' solo l'assuefazione culturale a impedirci di comprendere quanto c'è di sconvolgente in un'affermazione del genere. La stessa sua formulazione corrente, venuta a far parte del senso comune, secondo la quale l'uomo discende dalla scimmia, oltre ad essere inesatta (in quanto si tratta di due specie distinte che hanno solo un progenitore comune, il quale risale ad oltre tre milioni di anni fa), è riduttiva.

In realtà, il darwinismo comporta il presupposto per cui tutte le forme viventi – vegetali ed animali – derivano da pochi organismi unicellulari, comparsi circa tre miliardi e mezzo di anni fa, che hanno contrassegnato il passaggio dalla materia inanimata alla vita.

Finora inspiegabile, al punto che alcuni specialisti sostengono che la vita sia attecchita sulla Terra provenendo da un altro pianeta, questo passaggio ha avviato un processo di differenziazione delle specie viventi che, analizzato a posteriori, sembra attestare un progresso verso forme sempre più elevate e complesse, culminato nella comparsa dell'uomo. La crescente complessità delle forme viventi suggerisce immediatamente alla mente umana un piano, un progetto, uno scopo.

Nell'ottica darwiniana, però, si tratta di un'illusione antropocentrica. Ogni organismo vivente, in quanto capace di adattarsi all'ambiente, di sopravvivere e di riprodursi, rappresenta una realtà a sé. In quanto dotati di capacità adattiva, tutti gli esseri viventi hanno lo stesso "valore" biologico.

L'apparente progresso sarebbe dovuto ad un unico meccanismo – la selezione naturale -, che agisce sulla base della varietà che si dà tra gli individui all'interno di ogni specie. La varietà è il presupposto della selezione in quanto essa, attraverso lentissimi processi di transizione che modificano le strutture e le funzioni di una specie, appare in grado di produrne delle nuove, riproduttivamente isolate.

Se non c'è progresso nell'evoluzione, l'uomo è un animale come gli altri, addirittura più precario data la sua recente comparsa. E' una legge della biologia che le specie si stabilizzano dopo 500mila anni dal momento in cui compaiono. L'uomo, con le sue singolari caratteristiche psichiche e comportamentali, è nato non più di 150mila anni fa.

La casualità della comparsa della specie umana e la sua precarietà, costitutiva di ogni specie biologica, che la destina ad una fine certa, per quanto remota sono, sul piano filosofico e scientifico, gli aspetti “sconvolgenti” della teoria darwiniana.

L'intento di queste letture prescinde dal farsi carico di tutti i problemi che essa comporta.

Ne affronteremo, di fatto, uno solo, che ci interessa più da vicino, e che può essere posto in forma interrogativa: l'evoluzionismo è in grado di spiegare l'“unicità” e la “straordinarietà” dell'uomo, la cui storia è densa di una straordinaria ricchezza e di esorbitanti miserie?

La risposta maturerà nel corso delle letture.

Anticipo solo che essa è positiva, a patto che la teoria darwiniana sia depurata da valenze ideologiche che fanno capo alla personalità di Darwin e alla sua visione del mondo, e revisionata alla luce di principi che consentono di valutare quella “straordinarietà” senza fuoriuscire da una cornice naturalistica.

Ci imbatteremo, dunque, in un problema che ritroveremo, in forme diverse, anche nell'analisi del pensiero di Marx, di Nietzsche e di Freud. I grandi geni sono dotati della capacità di mettere in gioco gli schemi culturali del mondo cui appartengono e di formularne di nuovi. Ciò nondimeno essi pagano un tributo alla storia personale e alla cultura del mondo con cui interagiscono.

Non si tratta di applicare la psicoanalisi al pensiero scientifico e filosofico o di ricondurlo pedissequamente ad un qualsivoglia determinismo ambientale, bensì semplicemente di riconoscere l'intreccio complesso tra genialità, soggettività e ambiente socio-culturale.

Per quanto riguarda Darwin, vedremo che il tributo che egli ha pagato gli ha impedito di considerare la possibilità che l'evoluzione naturale comporti “salti” repentini qualitativi in termini di tempo biologico (notoriamente lungo). L'uomo – anticipo la conclusione cui perverrò - non può essere compreso senza fare riferimento a tale possibilità.

Una strana circostanza

Facciamo un salto in Inghilterra, verso la metà del XIX secolo.

A Downe, nel Kent, contea a sud-est di Londra, in una residenza chiamata Down House, un naturalista inglese – Charles Darwin - vive di rendita con la moglie e figli. Apparentemente, non fa gran che, tranne che pubblicare periodicamente alcuni articoli su riviste di scienze naturali. Passa gran parte del suo tempo consultando appunti, leggendo, scrivendo. Nonostante disturbi nervosi periodici e sintomi psicosomatici che lo affliggono, egli studia di continuo e riflette su una serie imponente di dati raccolti nel corso di quattro lunghi anni trascorsi in mare, elaborando di continuo ipotesi. L'obiettivo della sua ricerca è capire se l'indefinita varietà delle forme viventi possa essere spiegato in termini scientifici, sulla base di meccanismi naturali che prescindono da qualsivoglia intervento divino. Cerca, in breve, le leggi che sottendono l'evoluzione della vita.

A Londra, Karl Marx, un filosofo tedesco costretto all'esilio dopo la fiammata rivoluzionaria nell'Europa continentale del 1848, frequenta quasi giornalmente la biblioteca del British Museum raccogliendo un'imponente quantità di dati sulla storia, l'economia, il commercio, ecc. Egli vive con la moglie e i figli in una casa angusta, in condizioni quasi miserabili. E' affetto da una serie di disturbi psicosomatici ricorrenti. Ciò nondimeno, passa gran parte della notte a scrivere un'opera il cui piano è a tal punto imponente da essere destinata a rimanere in gran parte incompiuta e il cui obiettivo è temerario: identificare le leggi che sottendono l’evoluzione della storia umana e l'obiettivo verso cui essa tende.

E' singolare che Darwin e Marx abbiano portato avanti la loro ricerca nello stesso periodo, a distanza di una decina di chilometri l'uno dall'altro.

La circostanza è del tutto casuale. Marx si è rifugiato in Inghilterra dopo essere stato espulso dall'Europa continentale per la sua attività sovversiva. Egli ha trovato asilo proprio nel “cuore pulsante” del sistema capitalistico, che ha cominciato a criticare e ad attaccare, preconizzandone il superamento.

Benché casuale, la circostanza è densa di significato.

Sia Darwin che Marx credono nella scienza, ed entrambi si trovano ad operare su due terreni ai quali non è applicabile il metodo sperimentale. La storia naturale della vita e la storia culturale della specie umana si svolgono, infatti, su di una dimensione temporale che non consente alcuna riproduzione sperimentale e comportano una serie indefinita di variabili che sembra impossibile ricondurre a leggi.

Darwin e Marx sono del tutto consapevoli della difficoltà del compito che si prefiggono: violare il “mistero” dell'evoluzione della vita e dell'evoluzione della storia riconducendolo sotto l'egida della ragione, identificandone cioè le cause.

La conclusioni cui giungono sono oltremodo diverse.

La teoria di Darwin fa riferimento ad un meccanismo ciecamente casuale, quello della selezione naturale, in conseguenza del quale l'ambiente, ponendo alla prova la capacità adattiva degli individui, consente a coloro che la superano di sopravvivere e di riprodursi. Frutto di questo meccanismo, la specie umana non ha altro fine che “cavarsela”, sulla base, peraltro, di una preziosa caratteristica ereditata dagli animali: l'istinto sociale.

La teoria di Marx, invece, si riconduce ad un fine intrinseco alla “seconda” natura umana, vale a dire alla storia che comporta, per una specie singolare, la necessità di trasformare culturalmente l’ambiente per adattarlo ai suoi bisogni. Via via che la trasformazione culturale del mondo procede essa fa affiorare un insieme di bisogni radicali – l'uguaglianza, la libertà, la giustizia – che promuovono, sia pure con indefinite vicissitudini, un progresso inesorabilmente orientato verso un mondo fatto a misura d’uomo.

La teoria darwiniana, dunque, è casualistica, quella marxiana finalistica.

Il casualismo darwiniano valorizza la biologia, l’eredità genetica, assume l’individuo come unità evolutiva ed esclude qualsivoglia salto.

Il finalismo marxiano, invece, valorizza la storia, l'eredità culturale e assume l'individuo come agente sociale che, giunto alla coscienza di specie, promuove una rivoluzione la quale segna la fuoriuscita dalla preistoria, caratterizzata dal dominio dell'uomo sull'uomo.

Non si potrebbe dare nulla di più diverso. L'unico dato apparentemente in comune tra le due teorie è il naturalismo o materialismo, vale a dire il rifiuto di ogni trascendenza e l'interpretazione della vicenda umana in un orizzonte mondano.

Trasferiamoci ora in Moravia, verso la metà del XIX secolo.

Nel giardino di un monastero situato a Brno (attuale repubblica ceca), Gregorio Mendel (1822–1884), un monaco laureato in scienze e in teologia, coltiva un infinito numero di piante di piselli, incrociandole tra loro. Il suo intento è di scoprire le leggi attraverso le quali si trasmettono i caratteri ereditari. A tal fine, egli adotta un metodo sperimentale piuttosto semplice: tiene conto solo di caratteri semplici (superficie liscia o rugosa, colore giallo o verde, ecc.) annotando scrupolosamente la loro comparsa o scomparsa nelle generazioni successive.

Elaborando gli imponenti dati raccolti con una metodologia statistica (e una pazienza letteralmente certosina), Mendel scopre, di fatto, l’esistenza dei geni e enuncia le tre leggi fondamentali dell'ereditarietà, valide ancora oggi. Egli pubblica i risultati delle sue ricerche nel 1866 su di una rivista di botanica, ma la pubblicazione non ha alcun riscontro.

L’opera di Mendel sarà “riscoperta” solo nel 1900, e avvierà la fondazione di una branca della biologia - la genetica - destinata ad influenzare tutte le scienze umane e sociali e ad animare il dibattito non ancora spento tra coloro che sostengono il primato della natura, vale a dire della biologia, e coloro che sostengono il primato della cultura, cioè dell'apprendimento.

Darwin e Marx si possono ritenere antesignani di tale dibattito.

Da punti di vista del tutto diversi essi tentano di rispondere alle domande che l’umanità si pone da sempre: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? Darwin è più interessato alle prime due, Marx privilegia la terza.

Non è superfluo osservare preliminarmente che Darwin e Marx sono “dilettanti”. Darwin ha frequentato due facoltà universitarie (medicina, teologia) con scarsi risultati, prendendo un grigio diploma in teologia ma, di fatto, appassionandosi di geologia. Marx si è laureato in filosofia, ma si dedica alla critica dell'economia classica, borghese. Nessuno dei due ha mai insegnato all'Università.

All'epoca, evidentemente, c'era ancora la possibilità che la genialità si esprimesse al di fuori di ambiti istituzionali: circostanza questa che, successivamente, è diventata sempre più rara dacché il sapere, come ha sostenuto Illich, si è tecnicizzato e si ritiene che specifiche competenze non sussistano se non in virtù di curricula e di titoli.

E' ovvio che il “dilettantismo”, per lasciare un segno nella storia della cultura, implica non solo un tasso elevato di genialità individuale, ma anche un'autodisciplina e una metodologia rigorosa.

La metodologia di Darwin

E’ stato sottolineato più volte che l’evoluzionismo non nasce con Darwin. Egli stesso, nella premessa a L'origine delle specie, cita scrupolosamente tutti gli autori che hanno espresso intuizioni evoluzionistiche. Prima di lui, però, si trattava, per l'appunto, di ipotesi poco argomentate e ancora meno corroborate da prove. Solo grazie al suo paziente lavoro l'evoluzionismo è divenuta una teoria scientifica (per quanto contestata).

Non potendo ovviamente fare uso della sperimentazione, Darwin segue un metodo induttivo. Egli osserva attentamente i “fatti” inerenti le forme viventi (vegetali e animali) e raccoglie quelli che gli appaiono significativi. I suoi taccuini di appunti, scritti nel corso del viaggio per mare che ha cambiato la sua vita, sono letteralmente impressionanti per densità e precisione descrittiva.

Raccogliere fatti evidenti all'osservazione sembra una cosa semplice, ma, in realtà, dipende dal contesto. Identificare in un branco di pecore una che ha il manto nero è un gioco da ragazzi. Allorché però il contesto è l'insieme delle forme viventi che occupano il pianeta, le cose si complicano. La capacità di cogliere, sullo sfondo di un contesto del genere, ciò che è indiziario e significativo differenzia l'occhio scientifico da quello comune.

La straordinaria capacità di osservazione di Darwin è riconosciuta da tutti. Per apprezzarla pienamente, però, occorre tenere conto che essa non fa riferimento all'acutezza dello sguardo, ma a quella della mente. Estrapolare dati significativi da un contesto estremamente differenziato implica cercare qualcosa alla luce di un'intuizione, di un'ipotesi.

E' del tutto sorprendente in Darwin che tale intuizione guida la ricerca dei dati significativi, ma precede la loro spiegazione, la teoria, che matura lentamente.

Formulata la teoria, poi, la metodologia di Darwin comporta un'altra strategia scientificamente significativa. Egli, infatti, cerca insistentemente fatti contrastanti con la teoria: falsifica, insomma, le ipotesi che gradualmente produce al fine di corroborarle, vale a dire di formularne altre di ordine più generale che riescono a spiegare anche i fatti inesplicabili nel quadro di quelle precedenti.

Orgogliosamente, nell'Introduzione alla sesta edizione de L'origine delle specie, Darwin afferma di non essere rimasto sorpreso da alcuna obiezione rivolta alla sua teoria perché se l'era già posta e l'aveva valutata per suo conto. Vedremo che le cose non stanno così. Almeno da una critica egli è rimasto spiazzato. Ma non anticipiamo i tempi.

E' importante ora operare una riflessione di più ampia portata sulla metodologia di Darwin, che compensa con l'osservazione la più attenta possibile l'incapacità di sottoporre a sperimentazione l'oggetto dell'indagine.

Propriamente parlando, Darwin non ha "scoperto" alcunché: le prove accumulate per costruire la teoria dell’evoluzione naturale sono da sempre sotto gli occhi di tutti, benché disperse nel vasto scenario del mondo. Egli ha avuto il merito di averle "viste", selezionandole sullo sfondo della realtà con cui si confondono, e di averle valorizzate come indizi di processi naturali significativi che egli poi ha tentato di teorizzare.

Questo — presumibilmente — è il motivo per cui Marx pensa, nel 1880, di dedicare a Darwin il secondo libro de Il Capitale. Egli coglie il parallelismo tra l’approccio indiziario e storico ai fenomeni dell’evoluzione naturale e il suo approccio all’evoluzione della società umana.

Darwinismo e marxismo, di fatto, concordano sul principio per cui la realtà, in tutti i suoi aspetti, ha un senso che si riconduce a forze o a leggi che ne spiegano l’organizzazione. Queste forze o leggi vanno ricostruite concettualmente, ma i loro indizi sono presenti nella realtà osservabile. Per reperirli, occorre solo aguzzare la vista sulla base dell’intuizione per cui ciò che appare è, al tempo stesso, indiziario e ingannevole.

Tale principio potrebbe essere adottato universalmente se si desse per scontato il fatto che l’apparenza non coincide con l’essenza, ma, in qualche misura, è sintomatica di ciò che si nasconde al di sotto di essa.

L'adozione di questo principio, per cui le stesse apparenze che ingannano la mente umana contengono gli indizi per cui esse possono essere sormontate, non porterebbe tutti gli uomini ad essere scienziati. Li aiuterebbe semplicemente, a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della realtà, ad osservarne attentamente la superficie dando per scontato che, al di sotto di essa, si dà una realtà dinamica che permette di spiegarla.

Forse, l’insegnamento più profondo, implicito, di Darwin è proprio questo: la verità (almeno per quel tanto che è concesso agli uomini di afferrare) è sempre sotto gli occhi. Basta leggerla.

Un altro insegnamento, il cui significato si chiarirà successivamente, è che la lettura degli indizi, quando sono in gioco sistemi complessi, non può e non deve avere la pretesa di spiegare tutto. Nonostante una proverbiale scrupolosità e ponderatezza, Darwin si è un po' “incartato” sul problema dell'uomo. Non soddisfatto di avere dimostrato poco confutabilmente che egli appartiene a pieno titolo al regno degli animali, da cui ha tratto origine, ha preteso di ridurre al minimo le differenze tra l'uomo e gli altri animali commettendo non pochi errori di valutazione.

L'evoluzione naturale delle forme animali, vale a dire il loro discendere l'una dall'altra, è un fatto che si può ritenere inconfutabile. Il ruolo della selezione naturale è anch'esso fuori di dubbio, ma non spiega tutto. L'uomo, con il suo singolare cervello, è un prodotto dell'evoluzione naturale. La comparsa dell'uomo segna però una discontinuità nell'evoluzione che, soprattutto per quanto concerne le funzioni psichiche, richiede di essere spiegata.

Restituendo all'uomo la consapevolezza della sua appartenenza al mondo della natura, Darwin ha posto le premesse di una “naturalizzazione” della vicenda umana, che equivale ad una rivoluzione di grande portata. Rivoluzione non solo scientifica, ma culturale che mira a sormontare il secolare scarto tra biologico e mentale (o spirituale). Dopo Darwin l'uomo non può più pensare a se stesso come prima.

Ma chi è l'autore di questa rivoluzione?

L’autoritratto di Darwin

Le biografie di Darwin sono ormai numerosissime, ma nessuna di esse supera la pacata autenticità dell'autobiografia (reticente, come vedremo, per un solo aspetto) che Darwin scrisse negli ultimi anni della sua vita. Benché redatta in una forma del tutto scarna, tipica della mentalità di uno scienziato, essa merita interesse per molti aspetti.

Un primo aspetto - di ordine psicologico - concerne la personalità di Darwin non meno che le trasformazioni che essa subisce in conseguenza della dedizione all’attività scientifica.

Figlio di una famiglia di antiche tradizioni intellettuali, C. Darwin ha una carriera scolastica nel complesso mediocre, che non lascia minimamente presagire il suo futuro. Egli manifesta precocemente un vivo interesse per la natura: «Quando cominciai a frequentare la scuola, la predilezione per la storia naturale e specialmente il desiderio di far collezioni erano ben sviluppati. Tentavo di trovare il nome delle piante e facevo raccolta di ogni sorta di oggetti: conchiglie, sigilli, bolli, monete e minerali. La mania di far collezioni, che può condurre un uomo a diventare un naturalista sistematico, un conoscitore d'arte oppure un avaro, era molto pronunciata in me e sicuramente innata, poiché nessuno dei miei fratelli e sorelle ha mai avuto tale gusto.” In conseguenza di questo interesse, egli ha difficoltà a dedicarsi allo studio scolastico che, all'epoca, assegnava un ruolo del tutto secondario alla scienza. Il suo curriculum è dunque senza infamia e senza lode: "Quando lasciai la scuola non ero né troppo avanti né troppo indietro per la mia età; credo che mio padre e i miei maestri mi giudicassero un ragazzo mediocre, un po’ al di sotto del livello intellettuale medio. Mio padre mi disse una volta, con mia profonda mortificazione: "Non fai altro che andare a caccia, occuparti di cani, e catturare i topi, e sarai perciò una disgrazia per te stesso e per tutta la famiglia"." (pag. 10)

Nonostante la severità del giudizio paterno. Darwin non è, certo, un “ragazzaccio”. Il problema piuttosto è che il senso del dovere non mobilita in lui una risposta se non si associa ad un vivo interesse: "le sole qualità che facevano sperare bene per il futuro erano gli interessi spiccati e diversi, l’ardore con cui mi applicavo a ciò che mi interessava e il vivo piacere che mi dava la comprensione di argomenti o fatti complessi." (p. 24)

Le cose non migliorano affatto con l’iscrizione alla facoltà di medicina dell’Università di Edimburgo. Darwin definisce le lezioni "insopportabilmente scialbe" (p. 28), coltiva molti interessi ma si dedica poco allo studio accademico, spende le vacanze estive a divertirsi, non ha alcuna intenzione di dedicarsi alla pratica medica.

Le cose peggiorano addirittura quando, su consiglio del padre, preoccupato che egli possa divenire un ozioso, si trasferisce a Cambridge per diventare un pastore evangelico. Sono tre anni sprecati miserevolmente. Alcune lezioni di geologia e di botanica suscitano il suo interesse, ma il complesso dell’insegnamento lo nausea.

A 22 anni, Darwin è uno “sbandato”. E’ l’assenza di un progetto definito di vita che lo porta, secondo una tradizione propria dell’epoca, a prendere la via del mare. Maturata occasionalmente, e all'inizio ostacolata dal padre, l’esperienza, durata cinque anni, è decisiva: "il viaggio sul Beagle è stato di gran lunga l’avvenimento più importante della mia vita e quello che ha determinato tutta la mia carriera." (p. 58) Nel corso del viaggio, infatti, l’amore per la scienza prende gradualmente il sopravvento su qualunque altro interesse, diventando una vocazione e trasformando radicalmente la personalità di Darwin: “Inconsciamente e insensibilmente scoprii che il piacere di osservare e di ragionare era di gran lunga superiore a quello della caccia e dello sport. Gli istinti primitivi del barbaro cedettero lentamente il campo ai gusti educati dell’uomo civile." (p. 60)

Il giudizio sembra improprio. La mente di Darwin, come capita spesso a persone geniali, funziona solo su di una base motivazionale. Tendenzialmente oppositivo in rapporto allo studio istituzionalizzato, egli avverte fin da bambino una viva curiosità per la natura. Quando si abbandona a lunghe passeggiate nei campi, osserva affascinato le rocce, le piante, gli animali. E’, insomma, uno “scienziato in erba”.

Il viaggio per mare, portandolo a contatto con gli ambienti più diversi, ha solo consentito alla sua vocazione di trovare la via giusta per esprimersi: quella della raccolta sistematica dei dati e della loro elaborazione teorica.

Quando torna in Inghilterra, nel 1836, egli ha già pubblicato numerosi lavori di geologia che hanno destato notevole apprezzamento. E’ diventato scienziato sul campo, senza prendere alcuna laurea: circostanza - questa - per cui ancora oggi alcuni creazionisti lo definiscono un naturalista “dilettante”.

Nel corso del viaggio ha però anche annotato una mole imponente di osservazioni sulle specie animali che gli hanno permesso di intuire la transizione tra una specie e un’altra.

La passione scientifica, e l'intuizione di essere su di una pista destinata ad esiti clamorosi, diventa rapidamente una sorta di “droga”. Darwin risiede a Londra per due anni e cerca di inserirsi in varie istituzioni scientifiche. La vita di società, però, non fa per lui. Cominciano a comparire a questa epoca strani malesseri nervosi e psicosomatici che lo perseguiteranno per sempre. Con la moglie Emma, sposata nel 1839, Darwin, che può permettersi di vivere di rendita, decide infine di ritirarsi in campagna per dedicarsi alle sue ricerche.

L'assidua concentrazione nell'attività intellettuale provoca, però, due significativi effetti. Per un verso, essa si associa ad una serie di disturbi psicosomatici che rendono oltre modo faticosa l'attività intellettuale e, in alcuni momenti, la inibiscono. Per un altro verso, essa induce una rilevante modificazione del carattere nella direzione dell’introversione:

Quando ero giovane e in buona salute ero capace di affetti molto intensi, ma negli ultimi anni, pur conservando sentimenti assai amichevoli verso molte persone, ho perduto la capacità di attaccarmi profondamente a chiunque, e anche il sentimento che mi lega ai miei cari amici Hooker e Huxley oggi non è più così profondo come un tempo. Credo che questa dolorosa attenuazione del sentimento si sia verificata gradualmente in me, e che sia stata provocata dal timore del grande abbattimento morale derivante da stanchezza, ch'io ritenevo inevitabilmente associato a visite e conversazioni che durassero più di un'ora, a eccezione di quelle di mia moglie e dei figli.

Il lavoro scientifico è stato il principale godimento e l'unica occupazione di tutta la mia vita, e nell'eccitazione che esso mi dà posso dimenticare, quasi annullare, il mio affanno quotidiano.” (pp. 96-97)

Oltre a produrre un affievolimento degli affetti, la concentrazione intellettuale sul terreno della formulazione della teoria dell’evoluzionismo determina anche una netta diminuzione della sensibilità estetica, che impedisce a Darwin di godere della pittura, della musica e della letteratura classica:

La mia mente è cambiata negli ultimi venti o trenta anni. Fino all'età di trent'anni o poco più la lettura dei poeti più diversi, come Milton, Gray, Byron, Wordsworth, Coleridge e Shelley, mi dava un gran piacere e già da ragazzo amavo moltissimo Shakespeare, specialmente i drammi storici. Ho anche detto che in passato avevo interesse per la pittura, e ascoltavo con gran piacere la musica. Ma già da molti anni non posso sopportare di leggere nemmeno un rigo di versi: recentemente ho cercato di leggere Shakespeare, ma l'ho trovato così insopportabilmente pesante da trarne disgusto. Ho perduto quasi interamente il gusto per la pittura e la musica. La musica di solito, anziché darmi piacere, mi fa pensare troppo intensamente al mio lavoro. Posso ancora godere dei bei paesaggi, ma non sono più capace di provare quell'incantevole gioia di un tempo. Invece per molti anni i romanzi di pura fantasia, anche se di modesto livello letterario, sono stati per me fonte di piacere e di straordinario sollievo e spesso benedico tutti i romanzieri. Me ne sono fatti leggere molti ad alta voce e mi piacciono tutti, purché siano appena passabili, e non finiscano tragicamente: cosa contro la quale si dovrebbe proporre una legge...

Questa strana e deplorevole perdita di un raffinato senso estetico è davvero singolare, tanto più che i libri di storia, di viaggi (indipendentemente dai fatti scientifici che possono contenere), le biografie e gli articoli sugli argomenti più vari m'interessano come nel passato. La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti, ma non riesco a capire perché ciò debba aver causato l'atrofia di quella parte di cervello da cui dipende il gusto estetico. Credo che un uomo con una testa meglio organizzata della mia non avrebbe subito questa menomazione; e se vivessi un'altra volta mi assegnerei il compito di leggere un po' di poesia e ascoltar musica almeno una volta la settimana, con la speranza di mantenere attive con l'esercizio quelle parti del cervello che oggi si sono atrofizzate. La perdita di questi gusti è una perdita di felicità, forse dannosa all'intelletto e più ancora alla forza morale, in quanto indebolisce la parte emotiva della natura umana.." (p. 121)

Vissuti simili a questi sono stati espressi (oltre da da filosofi, letterati, musicisti, pittori, ecc.) da molti geni impegnati nella ricerca scientifica. Riprenderò tra poco questo argomento. Non è fuori luogo, però, a questo punto fare un'osservazione di ordine generale.

La scienza richiede un prezzo da pagare. L’attrazione che un uomo avverte penetrando nel territorio del pensiero simbolico, che consente di organizzare la realtà in termini intellegibili, e perseguendo l’obiettivo di risolvere alcuni problemi di grande densità, ha un’inesorabile ricaduta sui legami affettivi che egli intrattiene con il mondo reale e sulla coltivazione di altri interessi. Rendendo onore ai grandi esploratori della verità, l’umanità dovrebbe tener conto anche di questo prezzo che essi pagano.

Un secondo aspetto, non meno importante, che emerge dalla biografia, è il progressivo declino e infine il superamento della fede religiosa in conseguenza di un approccio razionale alla teologia e, infine, di un’adesione al pensiero scientifico.

Il tragitto è ricostruito da Darwin in termini molto onesti. Quando egli si imbarca sul Beagle la sua fede è assolutamente ortodossa, anche se già sottesa da un orientamento critico che gli impedisce di prendere per oro colato i testi biblici: "A quel tempo ero pervenuto, gradualmente, a rendermi conto come il Vecchio Testamento, per la sua storia del mondo così manifestamente falsa, con la Torre di babele, l’arcobaleno come presagio, ecc., per la sua attribuzione a Dio dei sentimenti di un tiranno vendicativo, non meritasse più fede dei libri sacri degli Indù e della credenza di qualsiasi barbaro." (p. 67)

A partire da questi dubbi, il pensiero critico viene ad urtare contro una serie di ostacoli insormontabili: i miracoli, le contraddizioni dei testi evangelici, il dogma dell’inferno ("un’odiosa dottrina" p. 69). In conseguenza di ciò, la fede si attenua e subentra una certa incredulità che, alla fine, diviene totale.

Ma non è solo la critica dei contenuti dottrinari a provocare quest’incredulità. E’ evidente che la visione del mondo religiosa viene gradualmente ad essere sostituita da una visione scientifica. Tale visione comporta un aspetto destruens e uno costruens. Quello destruens è l’incompatibilità tra la fede e l’evoluzione naturale: "Oggi, dopo la scoperta della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno nella natura... che in passato mi era sembrato decisivo...

Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura è il risultato di leggi determinate." (p. 69)

Se non c’è un disegno, ciò non significa che il mondo animale sia il regno dell’assurdo. Si può pensare infatti che "la maggior parte degli esseri viventi, se non tutti, si sono sviluppati per selezione naturale in modo tale che si valgano delle sensazioni piacevoli come loro guida abituale." (p. 71)

Applicato all’uomo questo principio, che rappresenta l’aspetto costruens, non porta all’edonismo egoistico: "Mi sembra che per un uomo che non abbia la costante certezza di un Dio personificato o di una vita futura con relativa ricompensa, l’unica regola della vita debba essere quella di seguire gli istinti e gli impulsi più forti o che gli appaiono migliori... D’altra parte l’uomo considera passato e futuro e confronta i suoi vari sentimenti, desideri e ricordi; e trova poi, con il parere di tutti i più saggi, che la massima soddisfazione deriva dal seguire certi impulsi e precisamente gli istinti sociali. Se agisce per il bene altrui riceve l’approvazione degli altri uomini e conquista l’amore delle persone con cui vive, cioè la cosa più piacevole che vi sia sulla terra. A poco a poco troverà insopportabile obbedire alle passioni dei sensi piuttosto che agli impulsi superiori, che quando diventano abituali possono quasi essere chiamati istinti. Talvolta la ragione gli suggerirà di agire contro l’opinione altrui; non riceverà allora segni di approvazione, ma avrà la sicurezza di avere seguito la sua guida più profonda, la coscienza." (p. 76)

L'uomo, dunque, secondo Darwin, è dotato di un potente istinto sociale che lo sollecita naturalmente a cercare e a godere dell'approvazione dei suoi simili, ma, al tempo stesso, può anche agire contro l'opinione altri in nome del suo dàimon. E' quello che egli ha fatto in nome dell'amore per la conoscenza, pagando un prezzo di cui ora occorre discutere.

La “malattia” di Darwin

Ho fatto riferimento ad una reticenza evidente nell'autobiografia. Essa riguarda la strana “malattia” di cui Darwin è stato affetto. Poco dopo il ritorno dal viaggio sul Beagle, egli inizia ad accusare i sintomi che lo accompagneranno e tormenteranno per il resto della sua vita: spossatezza cronica, dolori gastrointestinali, nausea, attacchi di vomito, forti mal di testa, tremori, insonnia, eruzioni cutanee, problemi ai denti e alle gengive, palpitazioni cardiache, bassa resistenza alle infezioni, depressione.

En passant, non è superfluo rilevare che una sintomatologia analoga è stata sperimentata anche da Marx e da Nietzsche e, in una forma più sfumata, da Freud.

Sulla malattia di Darwin sono state avanzate le spiegazioni più varie: infezione da tripanosoma, intolleranza al lattosio, ulcera, avvelenamento da farmaci contenenti arsenico, ecc. In realtà il quadro clinico e soprattutto il suo decorso, sostanzialmente cronico ma con fluttuazioni rilevanti, attestano poco confutabilmente una genesi psicosomatica.

Ma cosa si può dire a riguardo data la reticenza di Darwin sulla sua vita interiore? Penso che si debbano considerare tre fattori.

Il primo fa riferimento all'effetto di “cattura” esercitato sulla personalità di Darwin dall'intuizione di avere scoperto la chiave dell'evoluzione animale. Dal momento in cui tale intuizione si è presentata nell'orizzonte della sua mente, egli non ha potuto che assecondarla, accumulando dati, analizzandoli, avanzando ipotesi, studiando, ecc. Di sicuro questa attività intellettuale è risultata per alcuni aspetti appagante. Come sa, però, chiunque si dedica alla ricerca intellettuale, l'appagamento è pagato al prezzo di una tensione mentale incessante che il soggetto può controllare solo relativamente. Quando la mente imbocca un tragitto, che permette di scoprire un filone aureo che, per assumere valore, deve essere filtrato e depurato dalle scorie, essa sembra preda di un'incoercibile “passione” che può facilmente distogliere l'individuo rispetto a qualunque altro aspetto della vita. Darwin ha descritto con precisione questa alienazione della soggettività dovuta alla passione per la ricerca: "La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti." (p. 121)

La trasformazione della mente umana in una macchina che insegue la lepre meccanica della verità attesta l'attivazione di quello che oggi si chiama ufficialmente, in neurobiologia, il sistema della ricerca che è intimamente correlato alla produzione di dopamina. L'attivazione di questo sistema, anche se corrisponde ad un vissuto soggettivo di appagamento, realizza uno stato di stress che pone in atto meccanismi spontanei di autoregolazione, la cui conseguenza sono sintomi di vario genere che inibiscono l'attività intellettuale.

Che significa questa contraddizione? Semplicemente che tra le esigenze della conoscenza, spinte ad un certo livello, e le esigenze della vita si dà una qualche antitesi.

Un secondo fattore, che conferma quest'ipotesi, riguarda le conseguenze della tensione intellettuale sulla socialità e sull'affettività. Anche per questo aspetto l'onestà di Darwin è ammirevole, laddove confessa di avere registrato un calo continuo del suo piacere di stare con gli altri e di reggere la conversazione per più di un'ora. Ciò che egli non può dire (perché lo sappiamo solo oggi) è che, quando una mente è “drogata” dall’attività intellettuale, il calo del bisogno di socialità è dovuto ad un fastidio più o meno vivo, conscio e soprattutto inconscio, provato in presenza degli altri che distraggono e costringono a parlare del più e del meno. La conseguenza di tale fastidio è un senso di colpa inconscio riferito ad una presunta asocialità o antisocialità.

Non è affatto paradossale che siffatto senso di colpa si sia originato nelle viscere della mente di colui che, in un periodo in cui l'ideologia liberale, recuperando la concezione antropologica dell'uomo di Hobbes, tendeva ad esaltare l'individuo e a ricondurre la socialità, eccezion fatta per la dimensione familiare, nell'ambito dello scambio economico, sottolineava la potenza dell'istinto sociale nell'uomo.

Il terzo fattore è il più complesso. La lunga esitazione di Darwin nel pubblicare L'origine delle specie, che è stata sormontata solo in seguito alla minaccia che Wallace, pervenuto per conto suo all'ipotesi della selezione naturale, potesse passare alla storia come il naturalista che aveva scoperto la legge dell'evoluzione animale, non si può solo ricondurre alla scrupolosità dello scienziato e alla sua consapevolezza delle lacune della teoria. Darwin si rendeva perfettamente conto delle potenzialità culturalmente destabilizzanti dell'evoluzionismo e delle conseguenze che essa avrebbe prodotto su di una società borghese che, pur alimentando gli “spiriti animali”, sembrava impegnata, attraverso il suo stile di vita, a sottolineare la sua indefinita distanza dalla volgarità popolare e, a maggior ragione, dall'istintività degli animali.

Pur essendo dotato di una valenza oppositiva che si è espressa a lungo nell'interazione con il padre e che, nel rapporto con il capitano della Beagle, ha toccato alcuni vertici drammatici, Darwin, forse proprio in conseguenza di queste esperienze, non amava e non tollerava emotivamente situazioni di conflitto. Non è un caso che, in una lettera all'amico Hoocker, egli abbia scritto che pubblicare i risultati delle sue ricerche equivaleva a "confessare un delitto".

Il fatto di dover prendere una posizione teorica destinata ad attivare prevedibili reazioni da parte dei benpensanti, pure essendo coerente con la sua onestà intellettuale, deve avere prodotto non pochi problemi a livello cosciente e, ancora più, a livello inconscio, laddove la mente è programmata per consentire non per dissentire, per andare d'accordo con gli altri e non per contrapporsi ad essi.

Nel dramma privato di Darwin dobbiamo riconoscere una dinamica che vale per tutti gli esseri umani il cui tragitto intellettuale li porta ad entrare in conflitto con la cultura del gruppo di appartenenza.

Andare contro la corrente della tradizione, del senso comune, dell'opinione pubblica, dei codici normativi (anche scientifici) è un bisogno incoercibile in alcuni soggetti, ma esso deve fare i conti con il bisogno, ugualmente intenso di stare in armonia con il mondo.

Ci si può chiedere quale interesse possa avere la “malattia” di Darwin ai fini di un’analisi della sua teoria o, più precisamente, che significato abbia “frugare” in un mondo interiore privato, tra l’altro vissuto con estrema riservatezza, laddove si tratta di valutare le oggettivazioni di quel mondo sotto forma di idee, ipotesi, teorie, ecc.

Se si dà credito alle interpretazioni fornite, riesce evidente che, nel mondo interiore umano, si danno vicissitudini conflittuali - per esempio tra la passione della conoscenza e il desiderio di lasciarsi andare, o tra i doveri sociali e il bisogno di assecondare la propria individuale vocazione ad essere - che creano una stato di turbolenza emozionale, espresso da sintomi psichici e somatici, che non ha alcun riscontro negli altri animali.

Tali vicissitudini definiscono una discontinuità tra la complessa esperienza psichica umana e quella degli animali: una discontinuità che Darwin, come vedremo, è stato indotto a minimizzare per non esporsi agli attacchi dei creazionisti, ma la cui conseguenza è stata paradossalmente quella di renderla più vulnerabile.

L'esperienza di Darwin, insomma, confuta il punto debole della sua teoria: quello per cui non si dà alcuna differenza qualitativa tra la psiche animale e quella umana.

Matrici ideologiche della teoria dell'evoluzione

Benché fondata su di una capacità di osservazione e di elaborazione dei dati assolutamente straordinaria, la teoria darwiniana prende corpo molto lentamente. Le prime intuizioni risalgono al periodo del viaggio sul Beagle, una prima organizzazione dei dati avviene nel 1837, un primo abbozzo di 35 pagine è del 1842, una stesura più ampia, di 250 pagine, del 1844. La prima edizione de L’origine delle specie risale al 1859; ad essa seguono sei edizioni, l’ultima del 1872, nelle quali Darwin approfondisce alcune tematiche e, soprattutto, tenta di rispondere alle critiche che gli sono state rivolte.

E’ probabile che, se non fosse intervenuto un singolare “incidente”, la pubblicazione avrebbe dovuto ancora attendere per vedere la luce. Darwin era convinto della fondatezza scientifica della teoria evoluzionistica, ma era anche perfettamente consapevole delle sue carenze e dei problemi non risolti che essa conteneva.
L'incidente in questione è ricostruito nell'Autobiografia nei seguenti termini:

“Nei primi mesi del 1856, Lyell mi consigliò di scrivere piuttosto estesamente le mie idee e io incominciai subito a farlo, con un'ampiezza tre o quattro volte superiore a quella che adottai nella stesura definitiva dell'Origine delle specie; tuttavia era solo un compendio del materiale che avevo raccolto, e per circa la metà di questo lavoro continuai ad attenermi a tali proporzioni. Ma i miei progetti furono sconvolti, perché all'inizio dell'estate del 1858 il
signor Wallace , il quale allora si trovava nell'arcipelago malese, mi mandò un saggio: Sulla tendenza delle varietà a distaccarsi indefinitamente dal tipo originale [On the Tendency of Varieties to depart indefinitely from the Original Type], in cui si esponeva una teoria identica alla mia. Il signor Wallace mi pregava di leggere il suo articolo e di passarlo in lettura a Lyell, se la mia opinione fosse stata favorevole.

Nel «Journal of the Proceedings of the Linnean Society» (1858, p. 45), ho spiegato i motivi che mi spinsero ad associarmi alla richiesta di Lyell e Hooker di pubblicare un riassunto del mio manoscritto [...], contemporaneamente alla pubblicazione del saggio di Wallace [...]

Nonostante tutto, le nostre due pubblicazioni richiamarono pochissimo l'attenzione...

Nel settembre del 1858, seguendo i ripetuti consigli di Lyell e Hooker, mi misi all'opera per preparare un libro sulle modificazioni delle specie, ma questo lavoro fu spesso interrotto dalle mie cattive condizioni di salute [...]. Ridussi il manoscritto incominciato nel 1856 e completai il volume secondo le stesse proporzioni, impiegandovi tredici mesi e dieci giorni d'intenso lavoro. Il libro fu pubblicato nel novembre 1859 con il titolo Origine delle specie.” (pp. 105-107)

All'incidente, Darwin attribuisce il merito di averlo costretto ad accelerare la stesura definitiva dell'opera e a ridurne alquanto le dimensioni che, nei suoi progetti originari, erano molto maggiori. Si può affermare con certezza, però, che se anche avesse rimandato la pubblicazione alla fine della sua vita, alcune lacune non sarebbero state colmate e alcuni problemi non risolti.
Come accennato, Darwin non è mai venuto a conoscenza delle ricerche di Mendel. Non ha potuto tenere, dunque, conto delle leggi della genetica.
Paradossalmente, però, almeno in parte i problemi non risolti dipendono dall’influenza esercitata su Darwin da due studiosi, ai quali egli attribuisce il merito di averlo messo sulla pista giusta per giungere a formulare la sua teoria: Lyell e Malthus. Non meno paradossalmente, quei problemi sono stati rilevati da tre studiosi che hanno aderito prontamente al darwinismo: Huxley, Wallace e Mivart.
Vediamo un po’ come sono andate le cose.

Quando Darwin si imbarca sul Beagle egli porta con sé il primo volume dei Principi di geologia di Lyell, uscito appena due anni prima (1829) di cui riceverà in viaggio il secondo volume pubblicato nel 1832. L'influenza di questa lettura è confermata da Darwin in questi termini: “Il più grande merito dei Principi è stato di aver alterato l’intero modo di pensare, e di conseguenza, osservando una cosa mai vista da Lyell, si può ancora osservare attraverso i suoi occhi”.

Charles Lyell (1797-1875) ha avuto una carriera biografica simile, per alcuni aspetti, a quella di Darwin. Di agiata famiglia, precocemente interessato ai fenomeni naturali ma indirizzato dal padre verso la giurisprudenza, solo intorno ai trent'anni giunge a rompere gli indugi e a dedicarsi a tempo pieno alla geologia. Poco più che trentenne, pubblica (nel 1830) la prima edizione dei Principi di geologia, in cui sostiene la teoria dell'uniformismo, secondo la quale le cause naturali che hanno operato nei tempi passati nel modellare la Terra sono le stesse che possono essere osservate nel presente. Cause costanti e uniformi, dunque, nonostante la loro combinazione graduale possa dar luogo a fenomeni apparentemente catastrofici.

Adottato da Darwin, lo sguardo di Lyell, lo induce a presumere che l’evoluzione della vita animale abbia avuto un ritmo uniforme.

Al ritorno dal viaggio, Darwin conosce Lyell, e tra i due si sviluppa una solida amicizia. Lyell, anche se non condivide l'ipotesi della selezione naturale, diventa, di fatto, un sostenitore dell'evoluzionismo, al punto che nel 1863 pubblica “L'evidenza geologica dell'Antichità dell'Uomo”.

L'influenza di Lyell è decisiva per convincere Darwin che gli organismi biologici attuali, in tutte le loro strutture e funzioni, sono la conseguenza di antichi processi selettivi. In rapporto all'uomo, ciò significa che le strutture e le funzioni del cervello corrispondono ad una selezione intervenuta quando gli esseri umani vivevano di caccia e di raccolta.

Allorché, al ritorno dal viaggio sul Beagle, Darwin si pone a riflettere sui dati di cui dispone, consultando peraltro freneticamente gli allevatori di animali domestici, che egli intuisce impegnati, attraverso gli incroci, a “selezionare” empiricamente caratteri ritenuti positivi, egli si imbatte nell’opera principale di Thomas Robert Malthus (1766–1834), il “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società” , pubblicato nel 1798.

Malthus è un economista e demografo inglese, che si riconduce ad Adam Smith, il fondatore dell’economia scientifica il cui saggio La ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776, si può ritenere il “manifesto” del liberalismo. La teoria di Smith parte dal presupposto che la ricchezza, che ha cominciato a crescere in virtù della manifattura e dell’adozione delle macchine, sia dovuta all’attività di singoli individui ciascuno dei quali persegue il suo interesse privato. In un regime di concorrenza, l’attività dei singoli individui converge “naturalmente” verso una situazione di equilibrio economico, che comporta il migliore uso delle risorse in termini produttivi e la creazione di una ricchezza - il bene comune - che poi si distribuisce secondo i meriti personali.

Non esiste alcuna prova che Darwin abbia letto l’opera economica di Smith. Egli però di sicuro la conosceva indirettamente, e ne ha tenuto conto attraverso Malthus. Questi parte dallo stesso presupposto di Smith, secondo il quale il principio fondamentale dell’economia è rappresentato dalla scarsezza delle risorse in rapporto all’infinità dei bisogni umani, e lo analizza sulla base della demografia. Dato che la popolazione cresce secondo una proporzione geometrica (1-2-4-8, ecc),. per cui ogni singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi, mentre, al contrario, le risorse per la sussistenza aumentano solamente in proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc), ne segue che l'aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione; vi saranno sempre più esseri umani e, proporzionalmente, sempre meno risorse sufficienti a sfamarli.

Il maltusianesimo fa della scarsità delle risorse in rapporto ai bisogni della popolazione crescente il tema centrale dell'economia, dal quale discende l'inesorabilità della lotta competitiva per assicurarsele e sopravvivere. Perché questa lotta privilegi i più forti, però, è necessario che ogni individuo sia libero e privo di assistenza sociale e solidarietà. Il maltusianesimo, di conseguenza, approda ad un modello che oggi chiameremmo di liberismo selvaggio.

E' la lettura di Malthus che suggerisce a Darwin l'ipotesi della selezione naturale, vale a dire della sopravvivenza del più adatto. Ciò non implica, però, l'adesione di Darwin al maltusianesimo. Il suo liberalesimo sta più dalla parte di Adam Smith che non dalla parte di Malthus. Prima di scrivere La ricchezza delle nazioni, Smith ha pubblicato nel 1759 La teoria dei sentimenti morali, che non solo attribuisce all’uomo un istinto sociale che comporta una certa solidarietà, ma addirittura un senso si compassione che impedisce di vedere soffrire un simile senza avvertire un moto tendente ad aiutarlo.

Con la sua consueta lucidità, Marx ha colto perfettamente l’ideologia implicita nel darwinismo scrivendo:

“E notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l'apertura di nuovi mercati, le "invenzioni" e la malthusiana "lotta per l'esistenza". E il bellum omnium contra omnes di Hobbes.”

La riflessione è profonda, ma la conclusione è fuori misura. Nel mondo degli animali, come vedremo, esiste la competizione per le risorse naturali, ma non la guerra. La visione “gladiatoria” dell'evoluzionismo non è di Darwin, bensì del suo amico Huxley.

Nonostante questo fraintendimento, Marx ha sempre ammirato Darwin riuscendo a distinguere il valore della sua teoria dall’influenza “sovrastrutturale” esercitata su di essa dall’ambiente e dalla cultura.

La scienza non è una rivelazione, ma uno sforzo di approssimazione che, quando ha come oggetto il soggetto stesso che indaga (vale a dire l'uomo), deve per forza pagare un prezzo al fatto che il ricercatore ha un suo modo di vedere e di sentire riguardo all'oggetto, che fa capo alla sua esperienza personale e alla mentalità del mondo cui appartiene.

Non è formalmente scorretto affermare che la teoria darwiniana, privilegiando l’attività adattiva dei singoli individui rispetto, ritenendo che l’evoluzione sia un processo lentissimo e graduale, il quale comporta un’infinità di impercettibili cambiamenti, e escludendo salti e rivoluzioni di ogni genere ha una matrice liberale. Questo limite, però, non ne inficia il valore scientifico.

Le critiche non ostili

Il limite in questione - riconducibili ad un estremo gradualismo che porta a negare l’evidente discontinuità che si dà tra l’uomo e gli altri animali - è stato, peraltro, rilevato precocemente, dopo la pubblicazione de L’origine delle specie, da studiosi tutt’altro che ostili a Darwin.

Da Alfred Russel Wallace (1823-1913), anzitutto, un naturalista di umili origini, autodidatta, riuscito con enorme fatica a laurearsi in medicina. Come accennato, anche Wallace, per suo conto, e sorprendentemente anch’egli in seguito alla lettura di Malthus, è giunto a formulare l’ipotesi della selezione naturale.

Nel saggio fatto pervenire a Darwin il 18 giugno 1958, Wallace enuncia la seguente legge: "Ogni specie ha iniziato la sua esistenza in coincidenza sia spaziale che temporale con una specie preesistente ad essa strettamente affine".

Darwin rimane stupefatto. Anche se Wallace non parla di selezione naturale, la teoria è identica alla sua al punto da fargli scrivere: "Se Wallace avesse potuto disporre del manoscritto del mio abbozzo redatto nel 1842 non avrebbe potuto farne un riassunto migliore! Persino i termini che usa ora sono nei titoli dei miei capitoli" (Lettera a Charles Lyell del 18 giugno 1858).

L'imbarazzo di Darwin è grave. Il saggio di Wallace, pur nella sua stringatezza, è pronto per la pubblicazione, mentre Darwin ancora lavora sulla messe sterminata di appunti che ha accumulato nel corso degli anni e non ha pubblicato nulla sull'evoluzionismo.

Per fortuna, alcuni studiosi, tra cui Lyell, sanno delle sue ricerche.

La questione si risolve con la presentazione ad una società scientifica londinese (Linnean Society) del saggio di Wallace e dell'abbozzo di quello di Darwin scritto nel 1844. Quando nel 1859 questi pubblica L'origine delle specie, Wallace non ha alcuna difficoltà ad accettare che il saggio darwiniano ha uno spessore scientifica di gran lunga superiore al suo. Tra i due studiosi non c'è, vita natural durante, alcun contrasto di ordine interpersonale. Venuto a conoscenza, anni dopo, delle precarie condizioni economiche in cui versa Wallace, Darwin addirittura si da da fare, con successo, perché gli venga assegnata una pensione.

Al rapporto umano, reciprocamente corretto e cavalleresco, corrisponde però un contrasto teorico di assoluto rilievo. Nel 1864 Wallace pubblica sulla "Anthropological Review" l'importante saggio “L'origine delle razze umane e l'antichità dell'uomo dedotta dalla teoria della selezione naturale”. Egli sostiene che la selezione naturale ha cessato, ad un certo punto, di agire sul corpo dell'uomo: da quando l'uomo è diventato uomo, le sue caratteristiche fisiche hanno perso ogni valore per la sopravvivenza; questa è garantita da un fattore nuovo e sconvolgente, la mente, che rende l'uomo capace di esercitare sulla natura quello stesso potere a cui egli si è sottratto.

Pur rimanendo evoluzionista, insomma, Wallace non riesce ad accettare che il cervello umano, con le sue straordinarie funzioni, possa essere spiegato sulla base della selezione naturale. Per questa via, egli giunge a conclusioni spiritualistiche, che implicano l'intervento di un'Intelligenza superiore.

Darwin rimane colpito e sorpreso da queste conclusioni fino al punto di scrivere a Wallace: "Spero che lei non abbia assassinato del tutto il suo e mio figlio".

Le conclusioni di Wallace sull'eccezionalità del cervello umano, che, secondo lui, non può essere ricondotto alla selezione naturale, sono opinabili, ma, come vedremo, hanno un qualche fondamento.

Analoga alla posizione di Wallace, benché scientificamente più articolata, è quella di George Jackson Mivart (1827-1900). Nato in una famiglia evangelica e poi convertitosi al Cattolicesimo, anch'egli diventa avvocato prima di riconoscere la sua vocazione per gli studi scientifici. Attraverso Thomas Henry Huxley, amico e sostenitore pugnace di Darwin, studia a fondo L'Origine della specie e ne condivide la teoria, ma, a partire dagli anni Settanta, in seguito alla pubblicazione de L'origine dell'uomo, comincia a prenderne le distanze scrivendo il saggio “Sulla genesi delle specie”. In essa Mivart muove alla teoria evoluzionistica un'obiezione di grande portata: la difficoltà estrema della selezione naturale di spiegare gli stadi incipienti delle strutture utili. In altri termini, sembra impossibile comprendere, facendo appello a trasformazioni lente e graduali, l'affermarsi di strutture complesse come l'ala o l'occhio, dal momento che i supposti stati intermedi non sarebbero stati di alcuna utilità. A cosa può servire, insomma, un piumaggio che spunta sulle zampe di animali che non sono ancora in grado di volare? A che serve il 5 o il 10% di un'ala? Se l'ala “incipiente” non serve a volare, perché mai essa dovrebbe essere selezionata?

Darwin, come si evince dalle lettere scambiate con Mivart, inizialmente apprezza molto le obiezioni alla sua teoria, espresse "con abilità e forza mirabili" e, nella sesta ed ultima edizione dell'Origine delle Specie (1872) dedica un intero capitolo, il 7, a rispondere alle “obiezioni alla teoria della selezione naturale". La risposta al quesito posto da Mivart è il principio del preadattamento, secondo il quale un carattere che ha una determinata funzione nel progenitore è, per caso, molto adatto a trasformarsi per svolgere una funzione differente nei discendenti. Tale principio permette di postulare una transizione graduale per quelle strutture che non possono funzionare fino a quando non sono completamente formate.

Naturalmente, come è accaduto con Wallace, Darwin non si sofferma sulla deriva “metafisica” di Mivart che, facendo leva sul fatto che solo l'uomo possiede la coscienza di sé, la ragione, il senso morale e l'uso del linguaggio, giunge alla conclusione che il corpo dell'uomo è risultato di un'evoluzione mentre l'anima è invece creata direttamente da Dio.

La critica più sottile, però, che richiede, per essere sormontata, come vedremo, una revisione del darwinismo, viene, però, da un amico, Thomas Henry Huxley (1825–1895), la cui fedeltà è a tal punto fuori discussione che gli ha valso il soprannome di “mastino di Darwin” per la vis combattiva con cui ha sostenuto la teoria evoluzionistica, difendendola dagli attacchi dei critici.

Di umili origini, autodidatta prima, poi faticosamente laureatosi in medicina, va anche egli per mare per dare sviluppo ai suoi interessi naturalistici. Quando legge L'origine delle specie si rimprovera di non essere giunto lui stesso a formulare una teoria che avrebbe potuto intuito. Riconosce però umilmente il primato scientifico di Darwin, ne diventa amico e si batte per l'affermazione dell'evoluzionismo, accentuando in maniera molto più radicale rispetto al Maestro il suo significato materialistico e antiteologico.

Fieramente materialista e ateo, Huxley, però, non è però accecato dalla stima nei suoi confronti. Con acume critico, egli coglie immediatamente il punto debole della teoria darwiniana scrivendo:“Vi siete sobbarcato una difficoltà non necessaria quando avete adottato senza riserve il principio del Natura non facit saltus”.

Il gradualismo, vale a dire il principio per cui la transizione da una specie ad un'altra avviene in virtù di piccoli e graduali cambiamenti che si succedono in un lunghissimo periodo di tempo, rappresenta ancora oggi, di fatto, il punto debole dell'evoluzionismo. Lo è in rapporto alla storia delle specie animali, ma soprattutto, come vedremo, in rapporto alla comparsa dell'uomo con il suo singolare cervello.

Darwin ha mutuato il gradualismo da Lyell e lo ha confermato attraverso la lettura di Malthus., difendendolo strenuamente dalle critiche di Wallace, Mivart, Huxley, che, sia pure da prospettive e con conclusioni diverse, sottolineando la precarietà dell’ipotesi gradualista, alludono alla possibilità di salti evoluzionistici. Secondo Darwin, ammettere una qualunque discontinuità nel processo evolutivo significa offrire il fianco all’attacco dei creazionisti.

Dato, infatti, che la selezione naturale prevede solo lentissime transizioni, ma non salti da una specie all'altra, ammetterli significa per Darwin postulare qualche altro principio o ricondursi ad un intervento divino.

Il problema del gradualismo o del "saltazionismo", ovviamente, riguarda elettivamente l'uomo. Lo scarto tra la specie umana e gli altri animali, soprattutto per quanto riguarda le funzioni psichiche, è tale da suggerire una discontinuità qualitativa. Darwin non nega la discontinuità, bensì che essa sia di ordine qualitativo.

Su questo problema si è giocato e si gioca il senso e il futuro dell'evoluzionismo darwiniano.

Per approfondirlo ci interesseremo dapprima alla teoria dell'evoluzione naturale e agli sviluppi che essa ha riconosciuto in seguito alla nascita della genetica. Passeremo poi al tentativo di Darwin di spiegare l'uomo nella cornice del gradualismo. Solo alla fine di questo tragitto conoscitivo sarà possibile verificare la possibilità di integrare e revisionare il pensiero di Darwin e di chiedersi in quale misura esso può essere utilizzato ai fini di un nuovo sapere sull'uomo.