Stephen J. Gould

L’equilibrio punteggiato

Codice Edizioni, Torino 2008
 
Introduzioni

Introduzione dell’Autore

Ammiro incondizionatamente il mio amico Oliver Sacks come scrittore e non credo di poterlo eguagliare nella sua capacità, profusa ovunque, di porsi in sintonia con l'umanità. Una volta disse qualcosa che mi toccò profondamente, malgrado il mio continuo e netto disaccordo rispetto a quanto sosteneva (devo tuttavia riconoscere la validità dell'affermazione a proposito del contesto presente). Oliver disse che mi invidiava perché, pur avendo entrambi circoscritto soggetti vasti e inesauribili per i nostri scritti (la mente umana nel suo caso; l'evoluzione nel mio), io avevo avuto il privilegio di inventare e sviluppare una teoria generale che mi aveva permesso di coordinare tutto il mio lavoro in un corpus coerente e ben definito, mentre a lui era stato possibile soltanto scrivere raccontando fatti e senza uno scopo preciso (pur proponendo qualche ipotesi intuitiva), perché non esiste un analogo centro focale alla base del suo lavoro. Replicai sostenendo che aveva di certo tenuto in scarsa considerazione se stesso, perché era stato ingannato dal convenzionale modo di considerare la natura e i limiti di ciò che legittimamente può essere indicato come teoria centrale della scienza: era infatti chiaro che si atteneva a un tale concetto in grado di organizzare il lavoro nel suo tentativo di riproporre il venerabile "metodo per lo studio dei casi" con il rispetto e l'attenzione per le irriducibili peculiarità dei singoli pazienti nella pratica diagnostica e terapeutica in medicina. Così, immaginavo, Sacks si era sempre attenuto a una teoria centrale in relazione all'importanza dell'individualità e della contingenza nella teoria generale della medicina, proprio come abbiamo fatto io e altri sottolineando la centralità della contingenza storica in ogni analisi teorica e nel modo di intendere l'evoluzione e i risultati del processo.

Oliver vedeva la teoria degli equilibri punteggiati, che ho sviluppato insieme a Niles Eldredge e che è oggetto di una discussione eccezionalmente ampia in questo libro come il tassello centrale che coordina tutto il mio lavoro, e non mi sento di negare questa sua affermazione. Gli equilibri punteggiati rappresentano però un più vasto e coerente insieme di "cose" in cui è notevole la componente iconoclastica e mi sento in dovere di fornire qui alcuni elementi di autobiografia intellettuale per spiegarne i motivi e l'integrazione, come io stesso meglio li capisco. Da ciò deriva il mio furto del famoso titolo usato dal cardinale Newman per il più efficace esempio analogo mai realizzato, anche se i campi sono assolutamente diversi. Nell'Apologia Pro Vita Sua (1864 e i86), Newman usa il termine, come faccio io nell'accezione positiva originale e non in quella, usuale in inglese, che ha valenza negativa, cioè (secondo il dizionario Webster): "Qualcosa detto o scritto per difendere o giustificare ciò che appare ad altri errato o che può essere soggetto di disapprovazione".

Per citare i miei due primi impegni in campo scientifico, dico che mi sono innamorato della paleontologia incontrando a cinque anni il Tyrannosaurus nel Museo di Storia Naturale di NewYork e dell'evoluzione a undici, leggendo, con grande eccitazione e minima capacità di comprensione, The Meaning of Evolution di George Gaylord Simpson [Il significato dell'evoluzione: storia della vita e del suo valore per l'uomo], perché i miei genitori, membri di un club del libro per gente con interessi intellettuali ma poche opportunità economiche o crediti non troppo consistenti, si erano dimenticati di rinviare la cedola "non vogliamo niente questo mese", ricevendo così il libro che altrimenti non avrebbero mai ordinato (ma che io pregai subito di tenere dopo aver visto le sagomine dei dinosauri sulla sovraccoperta). Dunque, fin dall'inizio, i miei interessi professionali, che si stavano sviluppando, unirono la paleontologia con l'evoluzione. Per qualche ragione che non mi è ancora ben chiara, ho sempre trovato la teoria sul "come" lavora l'evoluzione più affascinante della grande parata costituita dai relativi risultati paleontologici e sempre i miei interessi principali si sono concentrati sui principi della macroevoluzione1.

1 Poiché molti scontri, non necessari e pieni di astio, hanno avuto origine dalla semplice confusione tra i diversi significati di questo termine (e non da seri disaccordi concettuali), devo chiarire che scrivendo "macroevoluzione" fornisco soltanto un'indicazione di tipo descrittivo: si tratta della designazione di una fenomenologia che, nell'ambito dell'evoluzione, va dall'origine delle specie in su ed è ben distinta dai cambiamenti che avvengono nell'ambito delle popolazioni di una singola specie. Così facendo seguo, per quanto riguarda le definizioni, le preferenze espresse da Goldschmidt nel libro The Material Basis of Evolution (i94o), che sanciva la sua apostasia all'intrno della Sintesi Moderna. I malintesi sono derivati dal fatto che, per qualcuno, la parola "macroevoluzione" è apparsa come un sostegno teorico all'esistenza di cause distinte (in particolare per i meccanismi genetici non comuni), che non si presentano a livello microevolutivo o sono in conflitto con quanto vi accade. Goldschmidt però (e in questo sono d'accordo con lui) insisteva su una definizione che non portasse a scontri e rappresentasse invece una descrizione "neutra" di un insieme di risultati in base ai quali gli evoluzionisti avrebbero potuto porre, senza pregiudizi, la difficile domanda: "La fenomenologia della macroevoluzione ha davvero bisogno di particolari meccanismi macroevolutivi?". In questo libro dunque, "macroevoluzione" indica una fenomenologia a livello alto e non una pugnace interpretazione antidarwiniana dei fatti.

E sono giunto a capire davvero il vago senso di insoddisfazione che (malgrado il tentativo compiuto da Simpson per risolverli in un modo ortodosso, incorporando la paleontologia nella Sintesi Moderna) alcuni paleontologi hanno sempre provato per le premesse darwiniane secondo cui i meccanismi microevolutivi possono mettere in piedi tutto il grande spettacolo dei viventi semplicemente accumulando risultati via via più consistenti nell'enormità dei tempi geologici.

Agli inizi della mia preparazione professionale per la carriera di paleontologo, questa lieve insoddisfazione si è coagulata in due punti focali in cui si concentrava lo scontento. Per quanto riguarda il primo (con Niles Eldredge ci accanivamo su questo tema tanto da lasciarci quasi la pelle mentre non eravamo che giovani laureati), devo dire che provavo un grande disagio a causa della convenzione darwiniana per cui ogni testimonianza non inseribile in una sequenza gradualistica andava attribuita a imperfezioni nella documentazione fossile. Questo ragionamento tradizionale non conteneva "lacune" sul piano logico, ma le conseguenze pratiche mi colpivano come inaccettabili (specialmente allora, all'inizio della carriera, pieno di entusiasmo per il lavoro sperimentale ed educato all'uso delle tecniche della statistica che avrebbero dovuto permettere di discernere i piccoli mutamenti aventi un effetto in termini di evoluzione). Conseguentemente, e logicamente, lo studio della microevoluzione è diventato virtualmente inutile in paleontologia, poiché non si sono quasi mai trovate queste presunte forme di cambiamento graduale negli strati geologici e si è stati quindi obbligati a interpretare i segni di fasi statiche, decisamente predominanti, e le improvvise (su scala geologica, s'intende) comparse di forme nuove come segni dell'imperfezione delle testimonianze, che dunque perdevano ogni valore come guida empirica per individuare la vera natura dei fenomeni evolutivi. Veniamo al secondo punto. Il mio disagio diventava sempre più grande per il fatto che, al livello più alto delle tendenze evolutive nell'ambito dei dadi, la maggioranza degli esempi ben documentati (ad esempio, la riduzione del numero degli stipi nei graptoliti; l'aumento della simmetria nei calici dei crinoidi; la sempre più grande complessità delle suture nelle ammoniti) non è mai stata spiegata nei termini richiesti dalla convenzione darwiniana, cioè come miglioramenti adattativi di organismi costituenti sequenze anagenetiche. Per la maggior parte, le cosiddette spiegazioni non valevano molto di più di quelle che, in seguito, Lewontin e io avremmo indicato, seguendo l'esempio di Kipling, come "storie proprio così", cioè affermazioni plausibili prive di documentate prove sperimentali, mentre altre importanti tendenze non potevano neppure dare origine a una qualche storia plausibile in termini adattazionistici.

Quando, con Eldredge, abbiamo proposto gli equilibri punteggiati, ho usato la teoria per risolvere soddisfacentemente (secondo me) questi rompicapi e ogni risoluzione, quando infine veniva generalizzata e ulteriormente sviluppata, mi ha condotto a formulare le mie due più forti critiche ai due primi rami della fondamentale triade della logica darwiniana. L'identificazione da parte di Oliver Sacks degli equilibri punteggiati come elemento essenziale del mio mondo teorico è dunque valida, anche se più nel senso di un punto di partenza che di un punto focale di coordinamento. Accettando la comparsa improvvisa (sempre in termini geologici) e la successiva stasi delle specie come corretta descrizione di una realtà evolutiva e non soltanto come un'indicazione della povertà dei dati paleontologici, abbiamo assai presto potuto riconoscere che le specie soddisfano, nel dominio (a livello più alto) della macroevoluzione, tutti i criteri definitori e operazionali validi, secondo Darwin, per gli individui, e questa intuizione ci ha portati (per vie complesse, come cercherò di spiegare nei capitoli di questo libro) ai concetti di selezione di specie in particolare e, infine, al modello pienamente gerarchico della selezione in un'interessante sfida e contesa intellettuale con le affermazioni dello stesso Darwin sul fatto che la selezione opera soltanto al livello degli organismi. In questo modo, la teoria degli equilibri punteggiati ci ha condotti alla nuova formulazione per il primo ramo della logica darwiniana.

Al tempo stesso, nel tentativo di capire quale fosse la natura delle situazioni statiche, abbiamo inizialmente concentrato la nostra attenzione (oggi ritengo che, così facendo, commettevamo, in larga misura, un errore) su vincoli interni, rappresentati in modo piuttosto vago da vari concetti di "omeostasi" ed esemplificati dal modello del poliedro di Galton (si veda La struttura della teoria dell'evoluzione d'ora in poi Gould, 2002 cap. 4). Simili ragionamenti rendevano più consistenti i miei dubbi sull'adattamento e sulla sufficienza dei meccanismi funzionalistì in generale: e ciò accadeva soprattutto in connessione con le mie vecchie preoccupazioni sull'inadeguatezza delle testimonianze paleontologiche per spiegare le tendenze dei cladi lungo tradizionali linee di tipo adattazionista. Questi aspetti degli equilibri punteggiati hanno insomma massicciamente contribuito allo sviluppo, da parte mia, di critiche all'adattazionismo e ai meccanismi puramente funzionali del secondo ramo della logica darwiniana, anche se altri ragionamenti mi colpivano apparendo anche più importanti.

Ciononostante e malgrado la centralità degli equilibri punteggiati nello sviluppo di una più ampia critica del darwinismo tradizionale, la mia documentazione si estese verso l'esterno in una varia ed eccentrica rete di interessi che sembravano (almeno a me, e all'inizio) isolati e scombinati e che soltanto più tardi si coagularono in un'argomentazione critica coerente. Per questa curiosa, quasi paradossale, ragione mi sono sempre più convinto che gli elementi della mia critica complessiva si integrassero: non ho infatti mai avvertito le connessioni mentre, all'inizio, identificavo le varie componenti come spunti, ognuno dei quali, indipendentemente, era tra i più provocatori e affascinanti in cui mi fossi imbattuto nel mio studio dell'evoluzione. Se si accumula un insieme di cose soltanto per il fascino che ognuna di esse, indipendentemente dalle altre, esercita, senza alcun sentore di un qualsiasi comune substrato logico dell'apparente miscuglio, non si può che aver fiducia nella "realtà" di una base concettuale coesiva che si discerne soltanto più tardi. Non sosterrò mai che questa critica al rigido darwinismo possa aumentare la sua probabilità di essere vera per il fatto che essa mi ha inizialmente contagiato in un modo così scoordinato e irrazionale. Oserei però asserire che una formulazione alternativa, genuinamente coerente e generale, della teoria debba esistere "là fuori" nell'universo filosofico delle possibilità logiche della mente umana (qualunque ne sia la validità sul piano empirico), se le sue componenti isolate hanno potuto così inconsciamente coagulare ed essere scoperte e selezionate.

Proponendo un'analogia un po' stiracchiata con il romanzo vittoriano che preferisco, Daniel Deronda, l'ultima fatica dell'amica di Darwin George Eliot, vorrei ricordare che l'eroe di questa storia, un ebreo cresciuto in una famiglia cristiana senza saper nulla della propria etnia, si trova, ormai adulto, coinvolto in un insieme di attività apparentemente indipendenti, senza un tema che le coordini, oltre alla loro relazione con la storia ebraica. Questa relazione è però del tutto sconosciuta a Deronda al tempo della sua iniziale fascinazione: soltanto alla fine egli riconosce il tema unificante che sta dietro l'apparente diversità e apprende la verità sul suo substrato genetico. Posso perdonare a George Eliot di aver composto questa favola fondamentalmente assurda sul determinismo genealogico perché le sue motivazioni filosemite, anche se un po' ingenue e convenzionali, brillano di chiara luce nella circostante oscurità antisemita propria dei suoi tempi. Ma, per completare l'analogia, non posso non sentirmi come un moderno Deronda, semplicemente predisposto, culturalmente o psicologicamente, che aveva raccolto gli elementi di una critica coerente soltanto perché era attratto da ognuno di essi indipendentemente e soltanto più tardi ha avvertito l'esistenza di una sottostante unità, che perciò non poteva essere una chimera e aveva (si poteva sostenerlo) una certa logica ragione per esistere prima di qualsiasi consapevole formulazione da parte mia.

Di fatto la possibilità di una coerenza esterna e oggettiva di questo modo alternativo di vedere l'evoluzione mi sembra anche più consistente perché ne ho raccolto i diversi elementi non soltanto ignorandone la coordinazione, ma anche in un momento in cui mi attenevo coscientemente a una visione tradizionale dell'evoluzionismo darwiniano, che avrebbe dovuto attivamente privarli di significato e della possibilità di unirsi in una critica. Ho mosso i primi passi, in campo scientifico, come un convinto adattazionista, del tutto sedotto dall'assoluta bellezza (indubbiamente si trattava delle mia lettura semplicistica di una più sofisticata, anche se davvero solida, Sintesi Moderna) del sostenere, alla maniera di Cain e di altri genetisti ecologici della scuola inglese, che tutti gli aspetti dei fenotipi degli organismi, anche le sfumature più banali, potevano essere completamente spiegati come adattamenti dovuti alla selezione naturale.

Ricordo oggi con profondo imbarazzo due avvenimenti, verificatisi durante la mia giovinezza. Il primo: una serata tra laureandi quando il più in gamba tra quelli che si specializzavano in fisica all'Antioch College mi stimolò, per il suo scetticismo, a sostenere con grande insistenza l'uguaglianza, sul piano del rigore riduzionistico, tra la nostra scienza e la sua perché "noi" eravamo certi che la selezione naturale poteva fabbricare qualunque cosa nel più vantaggioso dei modi, rendendo così l'evoluzione altrettanto quantificabile e predittiva della fisica classica. Il secondo episodio risale alla fase in cui ero professore assistente, in qualche modo più acuto, ma ancora stregato dalla teoria: ricordo il mio profondo senso di tristezza e disappunto, che quasi diventava simile all'emozione che si prova per un tradimento, apprendendo che un collega antropologo era propenso a vedere nella deriva genetica una probabile spiegazione per le differenze genetiche apparentemente di poco conto tra gruppi isolati di popolazioni della Papua Nuova Guinea. Ricordo che le mie rimostranze avevano questo tenore: "Evidentemente il tuo ragionamento tiene conto delle possibilità logiche ed empiriche, e ammetto che non disponiamo di alcuna prova né in un senso né nell'altro; ma i tuoi risultati sono coerenti con la selezione e il nostro paradigma 'panselezionista' ha permesso di elaborare una teoria di così attraente ed elegante semplicità che nessuno dovrebbe scegliere le eccezioni semplicemente perché sono plausibili, ma soltanto in base a una documentazione da cui risulti la loro necessità". Il ricordo di questa discussione mi è rimasto particolarmente impresso perché fu fortissima la mia emozione e molto intenso il mio disappunto per l’“apostasia non necessaria" del collega, anche se sapevo che nessuno di noi due disponeva delle ineccepibili "prove" empiriche. Alla fine, se potessi, in seguito a una sorta di patto con il diavolo, cancellare una qualsiasi delle mie pubblicazioni dalla faccia della Terra e da qualsiasi forma di memoria, vorrei volentieri nominare il mio articolo, sfortunatamente piuttosto popolare, su La paleontologia evoluzionistica e la scienza della forma (1970a): un clamoroso peana all'assolutismo della selezione, sostenuto dal concetto, barbaro (anche sul piano letterario), secondo cui una paleontologia "quantifunzionale", combinando il meglio delle analisi biometriche e meccaniche, era in grado di verificare il panadattazionismo anche per i fossili che non potevano essere messi alla prova con effettivi esperimenti.

In contrasto con questa formazione di base ortodossa (o piuttosto nell'ambito di essa e, per vari anni, quasi inconsciamente), lavoravo in modo disorganizzato producendo un insieme di elementi distinti che si accumulavano con continuità e riguardavano revisioni e ripensamenti lungo ognuno dei rami della logica centrale della teoria di Darwin, finché ho capito che "lassù", in un mondo delle idee, qualcosa avente connotati "platonici" poteva coordinare tutte queste critiche e affascinanti intuizioni in una teoria generale riveduta che però conservava un fondamento darwiniano.

Lungo il primo ramo dei livelli nel processo di selezione si è proceduto in modo abbastanza diretto e lineare perché, quando Eldredge e io siamo riusciti a concludere il nostro lavoro integrando implicazioni ed estensioni delle nostre stesse formulazioni (Eldredge e Gould, 1972), si è visto che i risultati generali discendevano con grande chiarezza dalla teoria degli equilibri punteggiati. Con i loro contributi, Steve Stanley (1975) ed Elisabeth Vrba (1980) ci hanno indicato che cosa avevamo dimenticato nelle ramificazioni in cui dalla fenomenologia della stasi e della brusca comparsa si arriva a riconoscere le specie come effettivi individui in senso darwiniano, a designarle quindi, potenzialmente, come gli "individui" fondamentali della macroevoluzione (il cui ruolo è comparabile a quello del singolo organismo nella microevoluzione), a riconoscere la validità della selezione a livello di specie, per giungere infine al modello del tutto gerarchico con la sua profonda divergenza dalle relazioni tra i soli individui del darwinismo convenzionale o dall'ancor più ridotta e ugualmente monistica versione genetica di Williams e Dawkins (si veda Vrba e Gould, 1986). Infine adottando, nel definire la selezione, l'approccio basato sull'interazione invece di quello legato alla ripetitività, e riconoscendo, come criterio "giusto" per identificare la selezione a livelli più alti, l'emergere del grado di adattamento piuttosto che il definirsi dei caratteri (Lloyd e Gould, 1993; e Gould e Lloyd, 1999), credo che abbiamo ottenuto, lungo una strada tortuosa e aggirando molti degli ostacoli dovuti alla mia precedente stupidità, una teoria della selezione di tipo gerarchico coerente e veramente operativa (si veda Gould, 2002, cap. 8).

Devo anche confessare l'esistenza di alcuni fattori che, oltre la teoria degli equilibri punteggiati, mi hanno in qualche modo precondizionato. Avevo fin dall'inizio ammirato il coraggio di Wynne-Edward (1962), anche se ero d'accordo con le acute critiche di Williams (1966) a proposito della sua particolare difesa della selezione di gruppo, le cui radici affondavano nella possibilità, per le popolazioni, di regolare la propria consistenza numerica in base agli interessi di un vantaggio di gruppo. Tuttavia, per nessuna ragione che andasse oltre una vaga intuizione, sentivo che la selezione di gruppo aveva una sua logica coerenza e che si potevano benissimo individuare altri domini e formulazioni in cui verificarne più ampiamente la validità: si trattava di un'intuizione che è stata svalutata dall'attuale moderna riformulazione della teoria dell'evoluzione (si vedano in particolare l'articolo di Wilson e Sober, 1989, Gould, 2002, cap. 8 e gli argomenti qui esposti).

Lungo il secondo ramo, quello relativo all'equilibrio dei vincoli interni con gli adattamenti esterni, la mia odissea per comprendere come la popolazione sia in grado, creativamente, di organizzare strutture in nuove regioni del morfospazio evolutivo, ha seguito un insieme di cammini assai più complesso, tortuoso e diversificato. Ancora prima della laurea, amavo molto Growth and Form [Crescita e forma] di D'Arcy Thompson (1917, si veda il mio primo articolo "di critica letteraria", Gould, 1971a) e ho scritto, come anziano, una tesi sulla sua teoria della morfologia. Mi sembra però di aver ammirato il libro soltanto per la sua incomparabile prosa e sono partito all'attacco, senza pietà, delle componenti antidarwiniane (e in qualche modo strutturalistiche) della sua teoria. Ho scelto allora l'allometria per le mie prime ricerche empiriche, in un certo senso affascinato dai vincoli strutturali e dalle correlazioni della crescita, ma non smettendo mai di pensare che fosse mio compito puntare alla restaurazione dei temi adattazionisti contro l’“opposizione" rappresentata da questo baluardo del pensiero formalista (in particolare per la possibilità di realiz zare l'ottimizzazione biomeccanica coerentemente con il principio galileiano del decrescere, nelle forme isometriche, del rapporto superficie/volume all'aumentare delle dimensioni). Sono ancora orgoglioso del mio primo articolo dedicato a questo soggetto (Gould, 1966), scritto quando ero neolaureato, ma oggi mi vergogno un pò per il fervore delle mie convinzioni di adattazionista.

Davo grande rilievo all'analisi allometrica (proprio ora oggetto di una nuova formulazione che si presenta subito come assai diversificata) nel mio primo insieme di ricerche sperimentali sul Poecilozonites, gasteropode polmonato delle Bermude (si veda in particolare Gould, 1969: si tratta della versione pubblicata della mia dissertazione per il conseguimento del Ph. D.). Tuttavia, e per qualche ragione che allora non potevo capire, fra tutti gli articoli di questa serie, lunghi e decisamente adattazionisti, la conclusione cui, con non poca soddisfazione, ero giunto e che consideravo in un modo o nell'altro come la più innovativa sul piano teorico (senza saper dire perché), si trovava in un breve, e altrimenti insignificante, articolo da me scritto per una rivista specialistica di paleontologia, Precise ma fortuite convergenze nei gasteropodi terrestri del Pleistocene (Gould, i97ib), su un caso di convergenza evolutiva prodotta da vincoli di tipo strutturale, in base ai vari modi in cui si concretizzano l'allometria e le modalità di avvolgimento in questo genere, e non da un effetto dovuto alla selezione. In alcuni casi il fenomeno si basava sull'espressione ecofenotipica, in altri sulla pedomorfosi e in altri ancora su un graduale cambiamento che poteva essere interpretato come adattativo nel senso convenzionale.

Cinque motivazioni distinte sono alla base della mia più precisa ricognizione, condotta negli anni settanta e all'inizio degli ottanta, sull'importanza e sull'interesse dal punto di vista teorico (e sull'iconoclastia nei confronti delle tradizioni darwiniane) dei temi del non adattazionismo che hanno le loro radici nei vincoli strutturali e storici. La prima: in una pausa di un incontro a Venezia mi sono fermato, in piedi, sotto le cupole di San Marco e, un po' più tardi, ho scritto, a quattro mani con Dick Lewontin, un famoso articolo sul tema dei pennacchi delle cupole, ovvero sulle "sequele" non adattative di precedenti decisioni relative alle strutture (Gould-Lewontin, 1979; si veda Gould, 2002, cap. 11, pp. 1556-1570). Seconda motivazione: l'individuazione, insieme a Elisabeth Vrba, del fatto che il lessico della biologia evoluzionistica non possiede un termine per indicare il fenomeno, evidentemente importante, delle strutture cooptate come vantaggiose da fonti originarie diverse (tra le quali quelle non adattative, cui si può associare l'immagine dei pennacchi), e non "costruite" direttamente come adattamenti per le funzioni che correntemente svolgono. Abbiamo perciò inventato il termine "exaptation" (Gould e Vrba, 1982), indagando sulle relative implicazioni per le revisioni di stampo strutturalista del puro funzionalismo darwiniano. Terza motivazione: ho lavorato con un gruppo di colleghi paleontologi (Raup et al., 1973; Raup e Gould, 1974; e Gould et al., 1977) allo sviluppo di una serie di criteri più rigorosi per identificare i segnali che richiedevano una spiegazione basata sulla selezione piuttosto che una di tipo stocastico, dell'apparente ordine negli schemi filetici. Mi lasciò avvilito l'intuizione, maturata durante questo lavoro, circa il fatto che il cervello umano ricerca modelli, schemi, mentre le nostre culture preferiscono fornire particolari tipi di storie per spiegarli: esse impongono così una forte predisposizione ad attribuire certi modelli (pattern), ben inseriti nel campo dei risultati attesi per i sistemi puramente stocastici, a cause deterministiche convenzionali (in particolare, nelle nostre tradizioni darwiniane, a scenari di stampo adattazionista). Questa ricerca mi fece passare la sbornia per simili preferenze aprioristiche per le soluzioni di tipo adattazionista, tanto spesso basate su "storie plausibili" a proposito dei risultati invece che sulla rigorosa documentazione relativa ai meccanismi operanti.

Quarta, e davvero importante, motivazione è stata la lettura dei grandi classici europei del pensiero strutturalista mentre scrivevo il mio libro Ontogeny and Phylogeny (Gould, 1977). Non vedo come chiunque legga i testi di autori che vanno da Goethe a Geoffroy SaintHilaire giù giù fino a Severtzov, Remane e Riedl, possa non sviluppare un qualche apprezzamento per la plausibilità, o almeno per il semplice vigore intellettuale, di spiegazioni delle morfologie al di fuori dei domini del funzionalismo darwiniano: il libro che ne è risultato si atteneva però rigidamente, per l'ultima volta nella mia carriera, all'ortodossia della selezione naturale, anche se descrivevo in un modo accurato e con evidente simpatia quelle interpretazioni alternative. Ed ecco la quinta motivazione: il disagio crescente che provavo per il carattere congetturale di molti scenari di tipo adattazionista si è fatto ancora più forte quando, a partire dalla metà degli anni settanta, le sempre più abbondanti pubblicazioni divulgative (e anche alcune di quelle tecniche) sulla sociobiologia bagarinavano conclusioni che mi colpivano come non plausibili e che inoltre (in alcuni casi) andavano contro le mie convinzioni in campo politico e sociale.

L'avversione personale - inutile dirlo - non implica necessariamente alcuna relazione con la validità di un giudizio sul piano scientifico. Dopotutto che cosa può essere più spiacevole, ma anche, stando alla realtà dei fatti, più difficile da negare del destino mortale di ogni persona? Quando però le conclusioni sgradevoli ottengono una certa popolarità ricorrendo a un appoggio che si suppone sia scientificamente valido e quando tale "appoggio" si basa su poco più di una congettura apprezzabile in un'ortodossia sulla quale aumentano i dubbi, l'abuso generalizzato può legittimamente rendere più acuto il senso di disagio di un ricercatore per la base teorica incrinata che sta dietro un cattivo uso particolare. In ogni caso, confido che questo elenco compendioso di motivazioni possa dissipare l'offensiva asserzione di Cain (1979), secondo cui Lewontin, io stesso e vari altri studiosi dell'evoluzione, nel contestare le prime formulazioni della sociobiologia, mentre elaboravamo una critica generale dell'adattazionismo, avevamo agito con cinismo, e anzi in modo non scientifico, opponendoci a teorie della biologia che sapevamo essere valide, perché non eravamo d'accordo con le relative implicazioni politiche nella spiegazione del comportamento umano. I miei crescenti dubbi sull'adattazionismo si svilupparono da numerose radici, soprattutto legate alla paleontologia, senza alcuna disapprovazione per la sociobiologia che sia servita come stimolo, sia pur tardivo e di minor conto, per ulteriori indagini e sintesi.

Ho allora tentato di applicare la mia critica generale al puro funzionalismo darwiniano e la mia convinzione che importanti e positivi vincoli potessero essere attivamente identificati con ricerche morfometriche quantitative (e non semplicemente dedotte, in modo passivo, da inadeguatezze e lacune degli scenari adattazionisti) nel mio lavoro sugli "insiemi di covarianza" nella crescita, nella variazione e nell'evoluzione del gasteropode polmonato Cerion delle Indie Occidentali (Gould, 1984a e 1984b), un mollusco che presenta, in forma evidente, il massimo della diversificazione tra le popolazioni nell'ambito di un insieme vincolante di diffuse allometrie per l'ontogenesi. Discuto alcune parti di questo lavoro nella parte del libro che tratta della verifica sperimentale dei vincoli positivi (si veda a questo proposito Gould, 2002, cap. io).

I miei dubbi a proposito del terzo braccio, relativo alla portata, cioè all'estrapolazione e all'uniformità, si sono manifestati ancora prima e in un modo anche più rudimentale, ma sono stati espressi nei miei scritti sulla storia della scienza e non con lo stesso peso nel mio lavoro strettamente empirico: ne consegue, in parte, la minore attenzione dedicata a questo tema (Gould, 2002, cap. 6 e 12) in confronto a quella data ai due primi rami, relativi alla potenza e all'efficacia della selezione. Durante una ricerca sul campo, quando ero matricola nel mio corso di geologia, il professore ci portò a vedere un monticello di travertino e ipotizzò che il deposito risalisse a circa 11000 anni fa perché, misurato il tasso di sedimentazione attuale, aveva estrapolato questo valore indietro nel tempo fino alla probabile origine. Quando gli chiesi come poteva presumere una tale costanza del valore, mi rispose che la regola generale dell'inferenza in geologia (qualcosa che veniva indicato come "principio di uniformitarismo") consentiva di compiere una tale illazione perché, se si vuole raggiungere una qualsiasi conclusione scientifica per quanto riguarda il passato, si devono considerare invariabili le leggi della natura. Questo ragionamento mi colpì perché mi sembrava scorretto sul piano logico e mi impegnai a compiere una rigorosa analisi delle motivazioni.

Come studente anziano del corso di geologia e filosofia, ho studiato questo problema per tutti gli anni precedenti la laurea, scrivendo un articolo intitolato Hume e l'uniformitarismo che alla fine si è magicamente trasformato nella mia prima pubblicazione E’ necessario l'unformitarismo? (Gould, 1965). Norman Newell, mio tutor per la laurea, mi spinse a spedire l'articolo a Science dove, come ho appreso con grande divertimento molto più tardi, il professore anziano di paleontologia Bernie Kummel, mio futuro "capo" a Harvard, lo respinse decisamente come recensore. Giustamente umiliato (per quanto tuttora io ritenga infondate le sue motivazioni), inviai allora l'articolo a una rivista specialistica di geologia.

Posso condividere con voi un ricordo di cui mi vergogno in relazione a questa prima pubblicazione, per altri versi iconoclasta, che tuttora è fonte, per me, di un certo orgoglio? Nel mio lavoro sul tema, prima della laurea, ho avuto modo di compiere personalmente una scoperta (come fecero, indipendentemente, anche altri) che ha poi assunto importanza negli studi di geologia del tardo XX secolo. Ero stato istruito nella visione del mondo convenzionale, secondo cui i catastrofisti (alias "i ragazzacci") avevano invocato fonti sovrannaturali di dinamiche parossistiche in modo da comprimere la storia della Terra nelle strettoie della cronologia biblica. Leggevo e rileggevo, nelle lingue originali, tutti i testi classici del catastrofismo risalenti al tardo XVIII secolo e agli inizi del XIX, ma non riuscivo a trovare alcuna affermazione circa influenze sovrannaturali sulla storia della Terra. In realtà ciò che i catastrofisti sostenevano sembrava avere un seguo opposto: secondo loro, le conclusioni ottenibili da nessi causali si dovevano basare su una precisa lettura delle testimonianze empiriche; gli uniformitaristi (alias "i bravi ragazzi") sembravano invece sostenere (in un'asserzione meno coerente con l'empirismo classico proprio del metodo scientifico) la necessità di elaborare, a proposito dei meccanismi del gradualismo, congetture ipotetiche che una documentazione ahimè imperfetta non ci permette di osservare direttamente.

Per quanto avessi sviluppato e presentato un'esegesi da iconoclasta dell'opera di Lyell, mi mancava semplicemente il coraggio di formulare un'affermazione di portata così ampia da capovolgere le opinioni comuni a proposito dell'uniformitarismo e del catastrofismo. Immaginavo allora di essere sicuramente in errore e di aver frainteso il catastrofismo perché non avevo letto abbastanza testi in proposito, oppure, considerando che ero agli inizi della mia carriera, di non essere capace di comprendere alcune sottigliezze. Così ho ripercorso tutta la letteratura del catastrofismo finché ho trovato una citazione tratta da un testo di William Buckland (che fu sia un eminente teologo sia il primo docente di geologia a Oxford) che poteva essere interpretato come una difesa della presenza di interventi sovrannaturali. Ho citato la frase (Gould, 1965, p. 223) e, su questo grande problema, sono rimasto fedele alle consuetudini, pur presentando un'analisi originale dei molti significati (alcuni validi e importanti, come l'invariabilità delle leggi, altri non validi, come l'affermazione del mio professore circa la costanza del tasso di accrescimento nei depositi sedimentari) che Lyell aveva raccolto sotto l'unica denominazione di "uniformità" nel mondo naturale.

Questo lavoro mi ha portato (in parte perché mi vergognavo della mia codardia iniziale, mentre altri davano una nuova valutazione del carattere scientifico del catastrofismo) ad analizzare più estesamente la potenziale validità delle affermazioni sulle catastrofi e in particolare a cercare di capire come mai gli assunti del gradualismo avevano tanto ostacolato e limitato la nostra comprensione della storia della Terra, tanto ricca e interessante. Queste idee mi hanno obbligato a mettere in discussione l'indispensabile fondamento dell'assunto chiave di Darwin, per cui i processi della microevoluzione osservabili su piccola scala potevano, estendendone la portata nell'immensità dei tempi geologici, spiegare tutti gli schemi organizzativi della storia dei viventi, e cioè la fiducia di Lyell nella costanza dei ritmi dei fenomeni naturali (proprio uno dei significati non validi dell'ibrido concetto di uniformità). Una simile esegesi mi ha portato a scrivere un libro sui concetti di tempo e direzionalità del tempo in geologia (Gould, 1987) e ad adottare una visione più ampia, che ha favorito lo sviluppo della teoria degli equilibri punteggiati e un atteggiamento cautamente favorevole nei confronti delle ipotesi sugli eventi veramente catastrofici, come la teoria degli Alvarez sull'estinzione di massa dovuta all'impatto di un corpo extraterrestre. Questo concetto è stato oggetto di scherno da parte di quasi tutti gli altri paleontologi quando venne proposto per la prima volta (Alvarez et al., 1980), ma ora è confermato dall'esistenza del limite K-T e accettato come base empirica per estendere il nostro campo di ipotesi giustificate scientificamente non limitandoci alle estrapolazioni senza discontinuità richieste dal terzo ramo della logica darwiniana.

Insieme a questo accumulo, un pò disordinato, di spunti per una revisione dei tre rami della teoria, un altro campo d'indagine (quello delle mie ricerche sulla storia del pensiero evoluzionistico) mi serviva, come condizione sine qua non, per realizzare, non senza fatica, una critica coerente partendo da un iniziale guazzabuglio di vari elementi. Soprattutto, se non mi fossi interessato così profondamente alla figura e al contesto sociale di Darwin, penso proprio che non avrei mai capito le motivazioni e la solidità (ma anche le idiosincrasie dovute al tempo, al luogo, all'educazione) che stanno dietro l'astratta "grandiosità" della sua visione della vita. Non si deve mettere da parte la storia come un vezzo umanistico sovrapposto all'adamantina solidità della scienza "reale", ma la si deve accogliere come il contesto che coordina ogni visione abbastanza ampia dei ragionamenti e dei nessi logici sottesi all'indagine scientifica sulla natura e sulla struttura dei viventi, un soggetto davvero vicino all'osso di tutte le inquietudini dell'uomo. Se si considerano le due grandi rivoluzioni del pensiero scientifico, Darwin di sicuro vince Copernico nella partita, per il puro e semplice impatto a livello emozionale, se non altro perché la trasformazione più antica trattava soprattutto di "beni immobili", inanimati, mentre la più recente di "esseri".

Alcuni dei miei scritti di argomento storico sono apparsi nelle solite pubblicazioni professionali: così è accaduto, in particolare, per la mia tesi sull"irrigidimento" della Sintesi Moderna (Gould, 1980c, 1982a e 1983), una tendenza (ma anche, in parte, una deriva) verso un darwinismo più rigido e meno pluralistico. Molti storici della scienza a tempo pieno hanno allora confermato questa ipotesi (Provine, 1986; Beatty, 1988; e Smocovitis, 1996). Tuttavia gran parte dell'analisi storica che sta dietro il ragionamento fondamentale di questo libro affonda le sue radici (almeno per quanto consciamente avverto) nei 300 saggi che mensilmente ho scritto dal 1974 al 2001 nel forum popolare costituito dalla rivista Natural History, dove mi sono sforzato di sviluppare uno specifico stile da "minibiografia intellettuale" appunto in forma di saggio. Si trattava di tentativi di riassumere le idee chiave di una carriera professionale in un contesto biografico e nell'ambito ristretto di poche migliaia di parole. Obbligandomi a evidenziare l'essenziale e a scartare ciò che è marginale (cercando però sempre i dettagli davvero carini che possono esemplificare al meglio ogni astrazione), penso di essere arrivato a capire le più importanti fonti di contrasti, sul piano ideologico, tra le caratteristiche definitorie della teoria di Darwin e i nessi centrali delle visioni alternative. In questa forma sono stati, per la prima volta, oggetto dei miei studi le alternative di tipo "strutturalista" come la teoria di Goethe della foglia archetipa, l'ipotesi di Saint-Hilaire a proposito delle vertebre come elemento di sostegno di tutti gli animali e sull'inversione dorsoventrale degli artropodi e dei vertebrati e l'insolito appoggio inglese di Owen per questa visione della vita di studiosi "continentali". È nata inoltre in me un'immensa simpatia per la bellezza e la naturale forza intellettuale di molte alternative, anche se esse si rivelavano poi carenti sul piano empirico. Sono così giunto a comprendere la parziale validità e anche la forza di persuasione morale di certe proposte ingiustamente ridicolizzate da coloro che la storia ha più tardi reso vincitori: ho così ripreso in esame il grande dibattito tra Huxley e Owen sull'ippocampo e ho capito come Owen si sia servito della sua interpretazione per sostenere l'egualitarismo sul piano razziale, mentre Huxley usava male la propria (poi risultata esatta) in una fallace difesa della classificazione delle razze tradizionale.

L'incondizionato amore che provo per la storia, nel senso più ampio del termine, si è infine riversato sul mio lavoro sperimentale quando ho incominciato a indagare, anche nell'attività empirica, sul ruolo dei grandi temi teorici della storia stessa. Temi, ad esempio, come la contingenza, il caso, cioè la tendenza dei sistemi complessi, con sostanziali componenti stocastiche legate da intricate interazioni non lineari, a essere in linea di principio imprevedibili in base alla pur completa conoscenza delle condizioni antecedenti, ma del tutto spiegabili dopo l'effettivo svolgimento temporale. Questo impegno ha portato alla pubblicazione di due libri sulla grande parata della storia della vita (Gould, 1989a; e Gould, 1996a). Per quanto il libro che state leggendo si occupi, in contrasto con i due citati, della teoria generale e dell'estensione dei suoi risultati (i modelli [pattern] in contrasto con la parata [pageant]) e non della contingenza e della spiegazione di varie particolarità dei viventi, la scienza appunto del contingente deve in definitiva essere integrata con la più convenzionale scienza della teoria generale, perché soltanto così si potrà comprendere nel migliore dei modi possibili sia i modelli sia la grande parata, con le loro differenti caratteristiche e gradi di prevedibilità.

Quando mi interrogo su come tutti questi pensieri e temi disparati si siano fusi, nel libro, in un unico lungo ragionamento, posso soltanto rispondere chiamando in causa il mio amore (non so come dirlo altrimenti) per Darwin e per la forza del suo genio. Soltanto a lui era possibile offrire un'ossatura così feconda di una teoria completamente coerente, così radicale per la forma, così completa sul piano logico e così estensibile per le implicazioni. Nessuno degli altri pensatori che si sono occupati dell'evoluzione prima di lui aveva mai individuato ed elaborato un così ricco e comprensivo punto di partenza. Partendo da questo inizio, io dovevo soltanto dispiegare la versione originale nella sua interezza, sbrogliare gli intrecci degli elementi e degli assunti centrali, e discutere la vicenda successiva dei dibattiti e delle revisioni di queste caratteristiche essenziali, che hanno portato a una coerente riformulazione dell'intero corpus, condotta in modo utile e tale da lasciare le fondamenta darwiniane intatte pur costruendovi sopra un edificio più grande e di forma differente e perciò molto interessante. Va da sé che non rendo onore a Darwin con l'agiografia, se non altro perché simili ossequiosi tentativi farebbero sprofondare ogni onesto individuo (e farebbero di sicuro rivoltare Darwin nella tomba, disturbando così i turisti nell'abbazia di Westminster e le ossa di Isaac Newton non lontane). Rendo onore alle lotte sostenute da Darwin ma anche ai suoi successi, e mi concentro sui suoi pochi punti deboli, come possibili brecce per le revisioni necessarie: il suo noto insuccesso nel tentativo di risolvere il "problema della diversità", o la sua speciale arringa per il progresso senza alcuna chiara spiegazione logica del fenomeno in base al modo di operare del "suo" meccanismo centrale della selezione naturale.

Come ultimo commento, se questa sezione ha infranto le regole del discorso scientifico (almeno nel mondo attuale, anche se non l'avrebbe fatto nell'epoca di Darwin) con le libertà che mi sono preso illustrando alcune motivazioni personali, ma anche errori e correzioni, ho almeno dimostrato come tutti noi annaspiamo, tirandoci su da una fase iniziale di stupidità, e come non saremmo mai in grado di arrampicarci senza l'aiuto e la collaborazione di innumerevoli colleghi, tutti impegnati nell'impresa dai notevoli risvolti sociali che indichiamo come scienza moderna. Non ho mai vissuto un momento da eureka nello sviluppare il lungo ragionamento de La struttura della teoria dell'evoluzione. Ho forgiato la lunga catena, anello dopo anello, disponendo all'inizio di pochi elementi separati che neppure riuscivo ad apprezzare come parti di una lunga e unica catena o anche soltanto come maglie di una catena qualsiasi. Ho stabilito le connessioni una per una e spesso ho staccato alcuni segmenti, per poter ricostruire l'insieme in un ordine diverso. Sono così tante le persone che mi hanno aiutato lungo il cammino (dai predecessori, morti da tanto tempo, di cui apprezzavo le sagge parole, ai più giovani colleghi con le loro battute) da farmi considerare questo prodotto come il risultato di un'impresa sociale, anche se io, il più arrogante degli intellettuali, ho insistito nel voler scrivere da solo ogni parola. Posso forse esprimere nel migliore dei modi il mio sentito ringraziamento ai membri di una simile collettività di ingegni dichiarando, nel senso più letterale, che questo libro non sarebbe mai esistito senza il loro aiuto e la loro tolleranza. Gli studiosi litigano e si accapigliano come fanno tutti (e a fatica ho evitato di fornire, nel libro, una consistente documentazione in proposito). Ma noi siamo, in generale, un gruppo ragionevolmente rispettabile e davvero facciamo nostra la tendenza ad aiutarci a vicenda perché ci divertiamo sul serio nel cercare di capire i fenomeni e i procedimenti della natura: una gran parte di noi saprebbe perfino barattare un successo personale con l'obiettivo di apprendere più in fretta e più sicuramente. Malgrado tutte le tensioni e le infelicità di ogni vita, posso almeno dire, con tutto il cuore, che io ho scelto di lavorare nella migliore delle imprese nel migliore periodo possibile. Possa il nostro futuro contingente migliorare soltanto questa matrice per quelli che verranno dopo di me.

 

Introduzione all'edizione italiana di Telmo Pievani

La lunga e punteggiata storia dell'equilibrio punteggiato

A un secolo e mezzo dalla pubblicazione della prima edizione de L'origine delle specie di Charles Darwin, il dibattito sui ritmi e sulla velocità dei processi evolutivi non ha cessato di dividere la comunità degli scienziati impegnati a decifrare i meccanismi di trasformazione degli organismi viventi. Se l'opzione gradualista di Darwin sembrò prevalere nella maggioranza dei suoi epigoni, non mancò tuttavia chi mostrasse, come Thomas Henry Huxley, le sue vigorose perplessità su tale assunzione, ritenuta forse troppo vincolante. Gli episodi di cambiamento accelerato, d'improvvisa estinzione o di repentina proliferazione e sostituzione delle specie sui tempi lunghi della storia naturale, così come l'apparente stabilità di molti caratteri delle specie, erano infatti già noti ai paleontologi dell'epoca.

E pensare che nei "Taccuini della Trasmutazione", da poco editi anche in edizione italiana parziale (Charles Darwin, Taccuini 1836-1844 [Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E], Laterza, Roma-Bari 2008), un Darwin non ancora trentenne - con ancora freschi in mente gli schemi osservativi intuiti durante il viaggio intorno al mondo - aveva esordito con una concezione addirittura "saltazionale" della trasmutazione dei viventi (in particolare nel Red Notebook). Se infatti le specie sono entità biologiche macroscopiche, isolate geograficamente, dotate di confini precisi che coincidono con le barriere riproduttive, la transizione dall'una all'altra non potrà avvenire se non in modo rapido e discreto - pensò allora il giovane naturalista - e non certo attraverso una lunga sequenza di cambiamenti impercettibili. Questa stupefacente "modernità" empirica iniziale della teoria svanirà presto, perché Darwin giungerà poco dopo a comprendere il meccanismo fondamentale della selezione naturale la grande "legge" della "generazione", come comincerà a chiamarla che lo indurrà a riportare lo sguardo sul livello inferiore della sopravvivenza differenziale fra organismi all'interno delle popolazioni e ad abbracciare una visione fortemente gradualista del cambiamento, compresa la nascita di nuove specie.

Ancor più interessante è scoprire, con il senno di poi, che Darwin aveva in parte ragione ai suoi inizi, e in parte ragione nell'opera matura. A dispetto di qualsiasi saltazionismo o catastrofismo, il processo di selezione naturale comporta effettivamente una lenta trasformazione continuativa dell'intera popolazione di una specie, che di generazione in generazione sfuma nella specie successiva senza soluzioni di continuità, oppure dà origine gradatamente a due o più specie discendenti. L'evoluzione è data dunque dall'accumulo regolare di piccoli cambiamenti ereditari nel corso di periodi di tempo così lunghi da permettere le ampie divergenze morfologiche fra specie che si osservano in natura. L'immagine simbolo di tale processo - adottata da Darwin nei Taccuini dopo un'iniziale titubanza a favore della metafora più anarchica del "corallo della vita" e in seguito rilanciata e divulgata da Ernst Haeckel - fu l'albero dell'evoluzione: da un antenato comune si diversificano progressivamente i ceppi discendenti, dando origine alla chioma lussureggiante della diversità attuale.

Benché il ruolo dell'isolamento geografico continuasse ad essere ben presente nella mente di molti naturalisti fra Ottocento e Novecento, alcuni decenni dopo la scomparsa di Darwin la sua teoria fu fatta propria dagli scienziati che nei primi anni del XX secolo avevano gettato le basi della scienza dell'ereditarietà, "riscoprendo" le leggi di Mendel e individuando i geni, i cromosomi e i meccanismi elementari di trasmissione dell'informazione genetica. L'idea forte della Sintesi Moderna fra darwinismo e mendelismo era che tutti i cambiamenti osservabili a livello macroscopico (cioè le differenze fra popolazioni, specie, generi e famiglie diverse di organismi) fossero riconducibili all'accumulo di piccole innovazioni a livello microscopico, cioè nel corredo genetico, sotto la pressione costante e propulsiva della selezione naturale. Il vettore della grande Sintesi, il cui potere esplicativo unificante fu enorme per decenni, era che la macroevoluzione dovesse essere interamente riconducibile alla microevoluzione.

Il fenomeno evolutivo doveva essere il frutto di lente modificazioni nelle frequenze geniche all'interno delle popolazioni, filtrate dalla selezione naturale. Di conseguenza, ogni proprietà che si osserva nella morfologia e nel comportamento degli organismi viventi doveva essere un adattamento ottenuto per selezione naturale attraverso lenti cambiamenti nelle frequenze geniche delle rispettive linee di discendenza. Negli anni Sessanta George WiJliams coniò il termine "gradualismo filetico" per definire questa visione permeante del processo evolutivo. Esso rappresentò il programma di ricerca dominante della biologia evoluzionistica per buona parte del Novecento, almeno fino agli anni Settanta, e questo benché fosse evidente già ai fondatori della Sintesi Moderna (come, fra gli altri,Theodosius Dobzhansky, George Gaylord Simpson ed Ernst Mayr) e a molti paleontologi che in natura esistevano indizi sia di cambiamenti evolutivi non graduali sia, soprattutto, di lunghe fasi di stabilità, persino in presenza di documentati cambiamenti ambientali.

In realtà, le linee di ricerca della Sintesi Moderna non rappresentarono mai un paradigma scientifico monolitico. Al suo interno convivevano correnti di pensiero piuttosto eterogenee. Certo, il gradualismo filetico era un principio fondamentale per ogni buon evoluzionista, un'immagine influente che pochi si permettevano di confutare. Tuttavia, fin dagli inizi, i teorici della Sintesi Moderna mostrarono alcune incertezze sulla possibilità di far derivare per estrapolazione tutti gli aspetti macroevolutivi da quelli microevolutivi.

Se per genetisti come Ronald Fischer non vi erano dubbi sulla legittimità dell'assunto metodologico gradualista, a naturalisti come Ernst Mayr e Bernard Rensch questa conclusione sembrava affrettata e, soprattutto, inefficace nello spiegare i meccanismi effettivi di separazione fra le specie. Il problema tutto sommato lasciato inevaso da Darwin, cioè "l'origine delle specie", non sembrava trovare una risposta adeguata nell'estrapolazionismo genetico. Lo stesso Dobzhansky, ritenuto fra i maggiori esponenti della Sintesi Moderna e autore di un testo fondatore del 1937, dal titolo Genetics and the Origin of Species, essendo sia un genetista sia un naturalista ebbe la sensibilità di avvertire questo punto debole del programma di ricerca "neodarwinista".

Ciò che maggiormente lasciava perplessi i naturalisti era la difficoltà di spiegare, attraverso la griglia interpretativa del gradualismo, i frequenti episodi di accelerazione presenti nella documentazione fossile. Già nel 1942, quindi ancora agli albori della Sintesi Moderna, Mayr ipotizzò che all'origine della separazione fra le specie vi fossero cause d'innesco non soltanto genetiche, ma anche ambientali e geografiche. Se per i genetisti l'evoluzione corrispondeva alla trasmissione del cambiamento "in verticale", dal livello microevolutivo a quello macroevolutivo in ogni linea di discendenza, per i naturalisti l'evoluzione era influenzata anche da spostamenti "in orizzontale", cioè eventi di natura geografica che portavano alla separazione fra specie.

Due anni più tardi, nell'opera Tempo and Mode in Evolution, il paleontologo George Gaylord Simpson notò che in molti alberi evolutivi, in particolare in quello dei mammiferi, non era sempre possibile riscontrare una sequenza di forme intermedie che giustificasse il graduale passaggio dalle specie ancestrali alle specie attuali. Il lasso di tempo intercorso fra l'inizio della grande diffusione dei mammiferi e l'apice di massima diversificazione era troppo breve per permettere un'evoluzione lenta e graduale. In una prospettiva gradualista, per creare un pipistrello, una balena, un leone e un primate, a partire da una famiglia di piccoli roditori notturni come modello base, ci vorrebbe molto più tempo.

La risposta tradizionale a questa anomalia del programma di ricerca evoluzionista fu che la documentazione paleontologica era in qualche modo insufficiente o lacunosa: le forme di transizione non si trovavano perché i reperti fossili erano incompleti e frammentari. Benché lo stesso Darwin avesse avallato questa interpretazione difensiva già a partire dalle pagine dei Taccuini del 1839, Simpson preferì seguire un'altra strada: se non si trovavano forme intermedie ben graduate fra il pipistrello e la balena era perché il ritmo di diversificazione non era stato uniforme nel corso dell'evoluzione. In alcuni frangenti, l'evoluzione si mette a correre e produce rapidamente una grande quantità di forme anche assai diverse. Simpson, in altri termini, fu il primo a sospettare che le brusche transizioni presenti nella documentazione fossile corrispondessero a eventi reali e non fossero imputabili soltanto all'insufficienza dei reperti. L'evoluzione era riuscita davvero, in una manciata di (pur sempre) milioni di anni, a costruire un elefante partendo da un topolino. L'enigma, così, si infittiva.

Nell'evoluzione si verificherebbero, dunque, alcune ramificazioni improvvise. Ma qual è la causa di questi slanci? Su tale quesito cadde un certo silenzio, accompagnato dall'irrigidimento della Sintesi Moderna attorno ai suoi postulati gradualisti, fino alla metà degli anni Sessanta, quando StephenmJ. Gould e Niles Eldredge studiavano per la loro specializzazione in paleontologia. La risposta di Dobzhansky, di Simpson e, in un primo tempo, anche di Mayr fu che durante questi balzi evolutivi vi fosse semplicemente un'accelerazione del ritmo del cambiamento microevolutivo. Non era in discussione il ruolo della selezione naturale operante sul corredo genetico; semplicemente s'ipotizzava che in alcune fasi la pressione selettiva fosse più pesante e che la velocità del cambiamento aumentasse. Se i "tempi" dell'evoluzione potevano cambiare, i "modi" restavano gli stessi: alla base vi era comunque una trasformazione continuativa dettata dalla pressione della selezione naturale, che portava alla progressiva divergenza delle specie. Le transizioni rapide erano soltanto effetti prospettici dovuti ad accelerazioni eccezionali del ritmo evolutivo oppure, come prima, alla carente documentazione fossile.

Anche se l'idea che la speciazione fosse in qualche modo connessa a popolazioni periferiche aveva una lunga storia, e il ruolo dell'isolamento geografico era già stato affrontato da Darwin non soltanto nei Taccuini ma anche nella sua discussione delle varietà di specie degli arcipelaghi ne L'origine delle specie, soltanto nella prima metà degli anni Sessanta del Novecento il tema dei ritmi evolutivi e il tema della diversificazione fra specie cominciarono ad avvicinarsi. Ernst Mayr notò che in molti episodi della storia naturale, in occasione della nascita di una nuova specie, si riscontrava un fenomeno peculiare, di natura strettamente geografica ed ecologica. Egli intuì per primo, grazie ai suoi studi sugli uccelli della Nuova Guinea e del Pacifico, che la speciazione, il cambiamento di ritmo nella trasformazione e i fattori geografici su larga scala erano tre fenomeni strettamente interconnessi.

Pensiamo a uno scenario ideale. Nell'area di distribuzione di una determinata specie, supponiamo un anfibio che abita in un territorio costiero, una piccola enclave rimasta ai margini dell'areale viene separata dal grosso della popolazione a causa di una barriera geografica. Per esempio, un innalzamento del livello del mare trasforma una penisola in un'isola e separa in due la popolazione iniziale: la parte maggioritaria resta sulla costa, mentre una piccola minoranza rimane imprigionata sull'isola di nuova formazione. Gli anfibi rimasti sull'isola non possono più incontrare i loro compagni e quindi non possono nemmeno incrociarsi. Non potendo scambiarsi l'informazione genetica, con il passare delle generazioni le mutazioni genetiche accumulate da una popolazione saranno sempre più diverse da quelle accumulate nell'altra: i due gruppi cominciano a separarsi geneticamente, vanno alla deriva l'uno rispetto all'altro. Succede infatti che i normali fattori evolutivi previsti dalla teoria neodarwiniana dell'evoluzione - mutazione, selezione naturale, deriva genetica, migrazione - cominciano ad agire sulle due popolazioni, con la tendenza a farle divergere. Diventa dunque possibile, anche se non necessario, che il flusso genico fra le due popolazioni si interrompa.

Supponiamo dunque che sull'isola sia rimasto soltanto un piccolo gruppo di anfibi, adattatisi alle nuove condizioni. Ora immaginiamo che dopo un certo lasso di tempo il mare torni ad abbassarsi (è successo molte volte nella storia naturale): le due popolazioni potranno incontrarsi nuovamente. Se però il tempo trascorso è stato sufficiente a tracciare un divario genetico consistente fra le due popolazioni, oppure ha generato differenti modalità di accoppiamento, quando un anfibio isolano proverà ad unirsi con una consorte continentale la prole sarà ibrida o non vi sarà prole del tutto. Questo significa che la barriera genetica o comportamentale fra le due popolazioni ha superato la soglia oltre la quale non è più possibile una riproduzione fertile e lo scambio genetico non è più possibile. Il fenomeno fu chiamato da Mayr "speciazione allopatrica", cioè nascita di una nuova specie in un luogo diverso dal luogo di origine. Le specie, in altri termini, nascono quando una piccola popolazione va alla deriva e una barriera geografica, ecologica, di tipo fisico o comportamentale si traduce in una barriera riproduttiva fra due popolazioni.

Eldredge e Gould iniziarono il loro lungo ragionamento attorno all'equilibrio punteggiato partendo proprio dall'intuizione di Mayr. Essi riuscirono a proporre una teoria scientifica innovativa non aggiungendo nuove informazioni, ma riformulando le conoscenze già accumulate dalla loro disciplina e mal interpretate. Alcune caratteristiche dei processi di speciazione allopatrica sono infatti particolarmente importanti. Innanzitutto, si tratta di un processo irreversibile di separazione e di moltiplicazione delle specie che potrebbe spiegare l'andamento ramificato di molte sequenze fossili di specie estinte: la "gemmazione" di una nuova specie dal tronco di una specie madre stabile potrebbe corrispondere a un fenomeno di speciazione allopatrica. Naturalmente solo un sottoinsieme delle popolazioni periferiche che si staccano produce effettivamente una specie nuova, ma quando avviene un cambiamento evolutivo con questi attributi nella documentazione fossile è probabile che sia dovuto alla rapida divergenza a partire da piccole popolazioni isolate.

In secondo luogo, la velocità del processo di separazione tende ad essere proporzionale alle dimensioni della popolazione coinvolta e questo potrebbe spiegare le accelerazioni evolutive rimarcate da Simpson: pur essendo un meccanismo fedelmente neodarwiniano di accumulo continuo di mutazioni genetiche sotto l'effetto della selezione naturale e della deriva genetica, la velocità relativa dell'evento di speciazione può variare in base al numero di individui coinvolti. Più la popolazione iniziale che va alla deriva, il cosiddetto "isolato periferico" è piccola più veloce sarà il ritmo di separazione genetica dalla specie madre, poiché le variazioni all'interno di gruppi ristretti si accumuleranno più rapidamente sotto l'effetto della selezione naturale e degli altri fattori evolutivi. Ci vuole più tempo per fare cambiare una popolazione enorme, di milioni d'individui, piuttosto che un gruppuscolo di qualche migliaio di pionieri. Se allora osserviamo l'intero processo con lo sguardo del paleontologo, tarato sui milioni di anni, il fenomeno di speciazione ci sembrerà pressoché "istantaneo", cioè pari secondo Gould a un centesimo circa della durata complessiva della specie. In realtà, per quanto talvolta possa essere realmente molto rapido, si tratta di un processo che richiede comunque migliaia di generazioni e in genere alcune decine di migliaia di anni per completarsi.

In terzo luogo, le variazioni genetiche che conducono rapidamente all'incompatibilità riproduttiva con la specie madre non necessariamente corrispondono a una variazione proporzionale dei caratteri morfologici: magari i due anfibi si assomigliano ancora a tal punto che non riusciamo a distinguerli, eppure non s'incrociano più. Viceversa, è possibile che le due popolazioni, a causa di adattamenti divergenti, siano diventate piuttosto diverse nell'aspetto esteriore pur restando interfeconde. Questi elementi indussero Mayr a dare una nuova e più precisa definizione del concetto di specie, che tenesse conto della soglia di divario genetico oltre la quale non vi è più incrocio fra organismi di due popolazioni. Indipendentemente dalle somiglianze o dalle divergenze morfologiche, Mayr postulò che una nuova specie nasce ogniqualvolta tutti gli individui di una data popolazione "alla deriva" non s'incrociano più in modo fecondo con i membri della specie madre. Ancora oggi, la definizione più restrittiva dell'oggetto "specie" fa riferimento a questa nozione biologica per la quale una specie è un insieme di popolazioni riproduttivamente chiuso.

L'idea che le specie sfumino gradualmente e impercettibilmente l'una nell'altra veniva dunque messa in discussione. Eppure, a pensarci bene, con la teoria della speciazione allopatrica Mayr trasse le opportune conseguenze dì quello stesso pensiero "popolazionale" che già Darwin aveva introdotto nella sua teoria fin dagli esordì giovanili nei Taccuini. Le innovazioni evolutive nascono all'interno di popolazioni e si propagano a partire dal successo differenziale di singoli individui portatori di differenze. Quando una piccola popolazione resta separata dal corpo principale della specie, accumula variazioni genetiche divergenti per selezione naturale e deriva, fino all'eventuale superamento della barriera d'incrocio con i membri della specie madre. La produzione di diversità diventa allora il motore principale dell'evoluzione sia in termini di organismi singoli sia in termini di specie: le speciazioni "imprigionano" rapidamente e conservano variazioni a livello di popolazioni, così come le mutazioni genetiche producono variazioni a livello d'individui.

L'evoluzione allora non è più soltanto la storia di singoli caratteri che si propagano all'interno di una specie per opera del filtro selettivo operante sull'intera popolazione. Diventa una storia più drammatica di popolazioni alla deriva, di migrazioni, di separazioni, di colonizzazioni, di sostituzioni fra specie: fenomeni innescati prevalentemente dall'insorgere di barriere geografiche e naturali che spezzano gli areali di distribuzione delle specie. L'impianto esplicativo dell'evoluzione si allarga a un contesto molto più ampio di fattori ambientali, naturali, climatici, geografici e geologici. In particolare, l'instabilità ecologica e le oscillazioni climatiche diventano decisive per spiegare molti eventi cruciali della storia naturale: un indizio che Gould ed Eldredge non si sarebbero lasciati sfuggire nei primi anni della loro carriera di ricercatori.

La teoria della speciazione allopatrica aveva infatti introdotto anche un altro elemento nuovo: un evento geografico, in alcun modo connesso con il valore adattativo degli organismi di una specie e con le pressioni selettive in atto in quel momento, isolava una piccola porzione della popolazione e poteva portare in alcuni casi alla nascita di una nuova specie. Questo processo poteva realizzarsi in tempi molto brevi rispetto a quelli previsti dalla teoria neodarwiniana. Non si trattava più di un'accelerazione della velocità all'interno di un processo selettivo, ma di una divergenza repentina introdotta da un fattore ecologico esterno: una rottura con la storia evolutiva precedente, questa volta agente sia sui tempi sia sui modi dell'evoluzione.

Il merito di avere connesso questa scoperta con la realtà dei dati paleontologici fu proprio di due epigoni di Ernst Mayr, Eldredge e Gould, sotto la supervisione di Norman D. Newell presso l'Amencan Museum of Natural History di NewYork. I due giovani paleontologi, nel corso delle loro prime ricerche sul campo nella seconda metà degli anni Sessanta, avevano notato che le specie osservabili non sembravano affatto sfumare l'una nell'altra impercettibilmente né sembravano accelerare improvvisamente un ritmo di cambiamento altrimenti uniforme. Il processo di "anagenesi", cioè di cambiamento continuativo di una popolazione originaria e omogenea nel tempo, sembrava alquanto raro. La documentazione geologica mostrava ai loro occhi due fenomeni complementari ed entrambi inspiegabili nella prospettiva del gradualismo filetico: le specie mostravano lunghissimi periodi di generale stabilità (misurabili in milioni di anni), durante i quali subentravano pochi cambiamenti morfologici, interrotti da brevi periodi di cambiamento (misurabili in migliaia di anni) durante i quali comparivano repentinamente nuove forme. Le specie sembravano spuntare rapidamente per poi rimanere uguali a se stesse per decine di milioni di anni, salvo estinguersi talvolta con la medesima rapidità del loro arrivo. Questo schema non gradualista era davvero il frutto illusorio di una scarsa e inaffidabile documentazione? O c'era dell'altro? La paleontologia andava presa sul serio?

La chiave della svolta era già racchiusa nell'idea di speciazione allopatrica e il primo ad accorgersene fu proprio Eldredge. Nel 1971 egli pubblicò i risultati di uno studio molto esteso e approfondito su migliaia di esemplari di trilobite, appartenenti a due specie diverse, rinvenuti nello stato di New York e nel Midwest. Il primo dato che colpì la sua attenzione fu la persistente stabilità evolutiva delle due specie. Nel Midwest i trilobiti rimasero identici a se stessi per otto milioni di anni, per essere poi sostituiti improvvisamente da esemplari con una piccola modificazione nella struttura degli occhi (composti non più da diciotto file di lenti, ma da diciassette). Nei siti dello stato di New York l'andamento era analogo: la prima specie con diciotto file di lenti domina per un tempo lunghissimo, finché si assiste alla transizione rapida alla nuova forma con diciassette file di lenti. Per sua buona sorte, Eldredge riuscì a trovare anche alcuni esemplari coetanei ma appartenenti a specie diverse, segno che vi era stato un breve periodo di transizione in cui le due specie erano vissute insieme.

Qual era la piccola e preziosissima storia dei trilobiti della East Coast? Una storia di "cladogenesi", cioè di cambiamento ramificato dovuto a isolamento di una popolazione e conseguente divergenza genetica dalla popolazione madre, ovvero una storia di stasi interrotta da brevi periodi di transizione: nell'areale di NewYork la specie originaria si biforca e dà origine per speciazione ad una nuova forma, di maggior successo anche se dotata di una modificazione morfologica minima, che in breve tempo sostituisce la precedente e dopo alcuni milioni di anni colonizza anche il lontano areale del Midwest. E dunque la storia di una speciazione allopatrica rapida e fortunata, che interrompe un lungo periodo di stabilità nella vita dei trilobiti.

Eldredge capì che la teoria della speciazione allopatrica andava estesa su scala geologica. Un anno dopo insieme a Gould, che era giunto alle medesime conclusioni studiando la diversificazione di alcune specie di chiocciole terrestri, diede alle stampe un articolo che segnerà la storia della biologia evoluzionistica della seconda metà del Novecento, dal titolo Punctuated Equilibria: An Alternative to Phyletic Gradualism. Secondo la teoria degli "equilibri punteggiati", la storia naturale non è sempre riconducibile a un modello di crescita graduale e cumulativa, ma più frequentemente a un modello di stabilità morfologica duratura "punteggiata" da episodi di brusco cambiamento, durante i quali si decidono la vita, la morte e la reciproca sostituzione delle specie. Un'applicazione estesa del meccanismo di speciazione geografica dava insomma come risultato una visione del processo evolutivo a più velocità.

Per i sostenitori del gradualismo generalizzato, che respingeranno e polemizzeranno duramente con i due paleontologi eterodossi, la sfida era duplice. In primo luogo, la rapidità dell'equilibrio punteggiato non è data dall'aumento delle pressioni selettive, ma da episodi di speciazione allopatrica, quindi di natura geografica e spesso contingenti. In secondo luogo, i periodi di stabilità presuppongono che non vi sia un necessario accumulo di piccole variazioni indotte dalla selezione naturale per un adattamento progressivo della specie alla sua nicchia. La norma in natura sembra essere la stabilità, non il mutamento graduale.

Su questi due punti precisi, e in particolare sul secondo, il dissenso con i postulati della Sintesi neodarwiniana era certamente forte, ma la spiegazione dei fenomeni di "puntuazione" e di stabilità fornita dalla teoria degli equilibri punteggiati non negava affatto i principi fondamentali della teoria darwiniana dell'evoluzione, come invece vollero sostenere ripetutamente i suoi detrattori. I sostenitori della teoria degli equilibri punteggiati furono accusati, di volta in volta, di voler minare le fondamenta della teoria darwiniana, di fiancheggiare complotti marxisti rivoluzionari, di voler reintrodurre i "mostri promettenti" del genetista Richard Goldschmidt. Ma come appare evidente dalla minuziosa ricostruzione della teoria qui presentata da Gould, nell'equilibrio punteggiato non viene affatto sminuita l'efficacia dei normali meccanismi neodarwiniani di mutazione, selezione, deriva e migrazione. Si sottolinea però l'importanza dell'innesco ecologico iniziale e la possibilità che i maggiori cambiamenti morfologici e adattativi della storia naturale si siano concentrati in bruschi ed episodici fenomeni di speciazione rapida, piuttosto che in lunghi periodi di lento accumulo di cambiamenti.

La teoria degli equilibri punteggiati non sostiene quindi in alcun modo che l'evoluzione avvenga per "salti" o "discontinuità" improvvise, prodotte da macromutazioni genetiche in assenza di selezione naturale o da improbabili leggi di autorganizzazione o da chissà quali altri miracolosi fattori ortogenetici interni. L'equilibrio punteggiato non esclude neppure che, in alcuni casi, sia possibile il realizzarsi di lunghe tendenze graduali di cambiamento. E’ sostanzialmente una teoria della stabilità e della speciazione, che associa a questo secondo fenomeno cruciale e diffuso la maggiore frequenza relativa di cambiamenti nell'evoluzione. Pertanto, la teoria degli equilibri punteggiati si muove ad una scala di tempo geologica, non nega affatto l'impercettibilità della transizione generazione dopo generazione, non interferisce con il meccanismo selettivo normale di trasformazione delle popolazioni a livello degli organismi e ha un impianto esplicativo del tutto differente dal "macromutazionismo" antidarwiniano dei primi decenni del Novecento. Non è, insomma, una spiegazione "saltazionale" della storia naturale.

A maggior ragione, allora, l'accusa più intollerabile per Gould fu quella di voler favorire indirettamente, con la sua teoria, le pseudo-argomentazioni del creazionismo antidarwiniano nel dibattito pubblico statunitense, nonostante fossero note a tutti le battaglie da lui condotte sui media e nei tribunali in difesa dell'insegnamento della teoria darwiniana nelle scuole americane. In realtà, non si trattava in alcun modo di una teoria antidarwiniana o "postdarwiniana", come si è malamente equivocato anche in Italia, poiché i meccanismi neodarwiniani basilari della variazione, della selezione naturale, della deriva genetica e la nozione di adattamento non erano per nulla rifiutati né messi in discussione per la loro valenza esplicativa. Più precisamente, questa visione paleontologica di tipo "speciazionale", molto vicina al dato empirico, metteva in crisi alcuni postulati, di tipo estrapolazionista e gradualista, della corrente più intransigente della Sintesi Moderna. Nulla di così rivoluzionario, come si è impegnato a ricordare molte volte Gould, anche se affermare che la stasi e il non cambiamento erano la norma in natura sembrò a molti una teoria abbastanza sfrontata da scatenare i tentativi più disparati di strumentalizzazione in chiave antidarwiniana.

Ancora oggi, lo specchio deformante di coloro che interpretano qualsiasi scoperta evoluzionistica come un referendum pro o contro Darwin influenza diffusamente il dibattito pubblico attorno alla teoria dell'evoluzione. I titoli preferiti dei giornali continuano ad essere "Oltre Darwin", "Darwin aveva torto", o viceversa "Darwin aveva ragione", come se uno sguardo retrospettivo continuasse a imprigionare l'immaginario collettivo su questi temi. L'ansia di celebrare i funerali anticipati del darwinismo è sempre forte, e alquanto sospetta. Ma nella realtà sperimentale scopriamo qualcosa di completamente diverso, e di assai più interessante: la teoria dell'evoluzione è profondamente cambiata come è normale che sia per qualsiasi programma di ricerca attivo e vitale in virtù di nuove conoscenze e soprattutto di nuovi strumenti di indagine, ma resta al momento saldamente ancorata a un nucleo esplicativo centrale di tipo neodarwiniano, che rende ragione di un'enorme quantità di evidenze osservative.

Detto ciò, il tentativo di Gould cominciato con l'equilibrio punteggiato e proseguito con l'intuizione sui vincoli strutturali dell'adattamento nei decenni successivi fu di capire in che modo si potesse costruire una teoria darwiniana "estesa" e pluralista in grado di includere coerentemente al proprio interno i nuovi avanzamenti della ricerca. L'obiettivo non era certo quello di confutare o di smantellare la spiegazione neodarwiniana in senso lato. Anzi, significativamente, molti spunti d'ispirazione per delineare questa estensione del darwinismo sorsero in Gould proprio da una rilettura dei testi originari di Darwin, la cui flessibilità teorica (anche quando lo condusse a conclusioni poi rivelatesi errate) custodiva secondo Gould una maggiore capacità esplicativa rispetto agli irrigidimenti successivi della Sintesi Moderna. Darwin, insomma, non era un "ultradarwinista" né un darwinista ortodosso. Di fronte a una simile operazione di recupero dell'impianto darwiniano letterale, l'accusa di antidarwinismo e la strumentalizzazione in chiave antidarwiniana delle idee di Gould suonano quasi paradossali, oltre che sbagliate nel merito.

In questa cornice di "darwinismo pluralista" acquista senso il volume qui riproposto, che apparve originariamente come nono capitolo dell'opera monumentale a cui Gould lavorò dal 1982 fino alla morte, sopraggiunta nel 2002: La struttura della teoria dell'evoluzione (Stephen Jay Gould, The Structure of Evolutionary Theory, Harvard University Press, Cambridge 2002 [trad. it. La struttura della teoria dell'evoluzione, Codice Edizioni, Torino 2003]). A dispetto delle diffidenze iniziali, grazie alla svolta interpretativa introdotta dall'equilibrio punteggiato e ai dibattiti che seguirono la visione della storia naturale si è arricchita di nuovi elementi e di fattori prima sottovalutati. La formulazione della teoria aprì il dibattito evoluzionistico a un maggiore pluralismo nell'analisi del cambiamento in natura, e venne inteso dai suoi proponenti come un'estensione del darwinismo. Nella concezione "puntuazionale" le specie di norma non sfumano l'una nell'altra, ma nascono, vivono e muoiono come entità biologiche discrete e reali, portatrici di cruciali cambiamenti adattativi al loro sorgere e poi tenaci nel mantenerli inalterati finché possibile.

I fattori che maggiormente influenzano la stasi delle specie (selezione stabilizzante, plasticità ecologica e dello sviluppo, costrizioni dello sviluppo, inseguimento dell'habitat) rimangono ancora oggi in discussione, così come quelli che determinano precisamente a livello genetico e comportamentale l'incompatibilità riproduttiva fra due specie incipienti. E’ possibile che concorrano a produrre i pattern più frequenti di stabilità e di speciazione sia fattori genetici sia fattori ecologici, di volta in volta interagenti con modalità differenti. Rispetto al 1972 le conoscenze empiriche sulla genetica della speciazione, sui suoi differenti percorsi possibili e sui meccanismi sottesi d'isolamento riproduttivo si sono enormemente arricchite. "Stabilità della specie" ovviamente non significa immobilismo puro, ma l'effetto della visione paleontologica di lungo periodo su fluttuazioni brevi e locali che non conducono a cambiamenti permanenti in tutta la popolazione della specie. Ciò che è stabile è l'intervallo di variazione osservato durante l'intera storia evolutiva di una specie.

Resta poi il merito storico dell'equilibrio punteggiato. Grazie ad esso la paleontologia tornò ad essere una disciplina "affidabile", poiché le punteggiature improvvise e i lunghi periodi di apparente inattività che caratterizzavano la vita delle specie, dal punto di vista del tempo profondo del paleontologo, furono finalmente intesi alla lettera e non come imperfezioni provvisorie dei reperti. La realtà era già sotto gli occhi degli scienziati da decenni, ma il filtro epistemologico gradualista aveva impedito loro di afferrarla: la paleontologia aveva sempre raccontato la verità, ma era una verità che non coincideva con le loro aspettative. Fu così che negli anni Settanta i paleontologi riesaminarono i loro dati in un'ottica nuova e ben presto, alla luce della teoria puntuazionale, molti fenomeni di innovazione evolutiva e di stasi furono rivisti e compresi in una prospettiva più fedele alle reali dinamiche del processo evolutivo. Il cambiamento acquisì effettivamente un carattere più episodico.

Negli anni Settanta e Ottanta una quantità crescente dì scienziati cominciò così ad apprezzare le implicazioni sperimentali dell'equilibrio punteggiato, e l'asse del dibattito sulla maggiore o minore incidenza dei fenomeni puntuazionali rispetto alle tendenze graduali si spostò verso i primi, anche se molti paleontologi non hanno mai smesso di ritenere lenta e graduale una parte consistente dei processi di trasformazione biologica, non senza un certo numero di evidenze a loro favore. Una difficoltà empirica sta nel fatto che, essendo gli equilibri punteggiati eventi brevi, è difficile "centrarli" nella documentazione stratigrafica, anche se esistono documentazioni ormai classiche, molto convincenti, in cui sopravvive spesso la specie antenata dopo la nascita della discendente. Ai contrario, e qui punta molto Gould in quest'opera, la stasi è un dato reale ampiamente documentabile.

Oggi sappiamo che la distinzione fra sequenze graduali e punteggiature non è mutuamente esclusiva e non può affidarsi a casi singoli eclatanti: è piuttosto una questione di frequenze relative, cioè di quali percentuali dobbiamo attribuire, studiando le filogenesi degli esseri viventi in molti taxa, rispettivamente a pattern di cambiamento graduale o puntuazionale. Nel 2006 un gruppo coordinato da Mark Pagel ha pubblicato su "Science" il primo calcolo di frequenze relative di gradualismo e di puntuazionismo basato anche su dati molecolari comparativi.

Si è scoperto in seguito che la speciazione allopatrica era soltanto uno dei molteplici processi di speciazione possibili e che una percentuale abbastanza alta di innovazioni morfologiche avveniva in coincidenza con episodi di speciazione non geografici, ma pur sempre rapidi. Gli equilibri punteggiati furono rafforzati anche dalla scoperta di schemi di alternanza fra eventi di estinzione di massa ed eventi di differenziazione a largo spettro che contraddistingue i tempi lunghi della vita delle specie sulla Terra: questo "respiro lungo" della vita è ritenuto oggi il prodotto di dinamiche ecologiche globali che innescano le estinzioni e le successive speciazioni, le stasi coordinate e gli impulsi di avvicendamento fra specie. Secondo Eldredge e Gould, l'insieme di questi pattern su larga scala configura una possibile teoria indipendente della macroevoluzione basata sul fenomeno centrale della speciazione cladogenetica.

Questa generalizzazione dell'equilibrio punteggiato - relativa questa volta non tanto ai ritmi dell'evoluzione quanto alle cause di innesco della speciazione, prioritariamente ecologiche e fisiche - è ancora aperta e dibattuta. Gould ed Eldredge sottolinearono ripetutamente, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, che sarebbe stato un errore trascurare la molteplicità dei livelli di cambiamento che si intrecciano nelle dinamiche evolutive: i sistemi biologici ed ecologici su larga scala dovevano essere considerati importanti quanto i geni. Proposero pertanto, con accenti diversi, di considerare le unità evolutive come disposte su una gerarchia ditte livelli: il livello microevolutivo dei geni, il livello intermedio degli organismi, il livello macroevolutivo dei gruppi e delle specie, intese come "unità individuali darwiniane" di grado superiore. Ciascun livello gerarchico di analisi deve essere considerato come autonomo, cioè caratterizzato da dinamiche e fattori specifici, e al contempo interdipendente rispetto agli altri.

Un evento prodottosi al livello più alto può ripercuotersi sui livelli più bassi, o viceversa una trasformazione microevolutiva può propagarsi ai livelli superiori. La selezione naturale potrebbe agire su tutti i livelli, da quello genetico a quello di gruppi, anche se a onor del vero l'ipotesi della "selezione a livello di specie", qui ancora energicamente difesa da Gould, non ha ricevuto significative conferme sul piano sperimentale in questi anni. Il punto teorico centrale è comunque che la macroevoluzione non sia interamente estrapolabile dalla microevoluzione: i molteplici fenomeni macroevolutivi (turnover di specie, radiazioni adattative, estinzioni di massa) prodotti da interazioni fra popolazioni e fra gruppi di specie negli ecosistemi acquisiscono una loro autonomia.

Scorrendo i tre livelli della gerarchia, i processi evolutivi possono seguire due direzioni opposte. Vi sono innanzitutto i normali movimenti "all'insù" previsti dalla teoria neodarwiniana: mutazioni e ricombinazioni genetiche (livello micro) producono la variabilità individuale (livello di mezzo) sulla quale agisce la selezione naturale, che fissa i caratteri più vantaggiosi per una certa popolazione adattata al suo habitat (livello macro). Attraverso questo processo dal basso verso l'alto si produce una certa quantità di novità evolutive e le popolazioni locali si adattano alle loro nicchie ambientali. Quando la popolazione raggiunge un grado soddisfacente di adattamento e l'ambiente non cambia, può stabilizzarsi e rimanere immutata per lunghi periodi.

La distinzione fra le caratteristiche genetiche e le caratteristiche morfologiche introduce però un elemento nuovo. Se l'ambiente, come accade spesso, è frammentato in piccole nicchie diversificate, può accadere che popolazioni locali di organismi si adattino separatamente alle diverse nicchie, pur rimanendo all'interno della stessa specie. Sulla scorta della definizione biologica di Mayr non è sempre facile tracciare confini netti fra le specie, soprattutto se estinte. Anche se in alcuni casi la comparazione genetica può aiutarci, non possiamo tornare indietro nel tempo e verificare se i membri di due popolazioni si siano incrociati o meno. Di certo, noi sappiamo oggi che le specie sono spesso costituite da un mosaico di popolazioni locali (o "complessi") adattate a microambienti. Vi sono dunque alcune differenze intraspecifiche fra le popolazioni locali, dovute a modificazioni adattative divergenti riguardo alle modalità di sopravvivenza. Il più delle volte queste popolazioni locali vengono riassorbite nella specie madre e le loro incipienti innovazioni adattative vanno perdute. In altri casi una piccola popolazione locale rimane isolata sufficientemente a lungo per dare origine a una nuova specie. Il mosaico che il paleontologo deve decifrare è davvero intricato.

L'evoluzione, tuttavia, non è un processo meramente casuale né frutto di mere coincidenze. Per quanto il caso abbia un ruolo permeante a tutti i livelli lo troviamo nella variazione su cui agisce la selezione, nel campionamento fortuito di varianti per deriva genetica, nelle biforcazioni ecologiche contingenti vi sono regolarità e strutture ricorrenti nei meccanismi di trasformazione degli organismi e delle specie, compreso il normale adattamento per selezione naturale. Con l'equilibrio punteggiato non si rinuncia a nulla di ciò che prevedeva l'originaria teoria neodarwiniana, tranne il gradualismo omnicomprensivo e l'assunto di voler prevedere sistematicamente la macroevoluzione a partire da dinamiche di tipo esclusivamente genico. Invece, il campo delle possibilità si è esteso. La fenomenologia dell'evoluzione biologica è oggi più complessa e richiede nuovi strumenti interpretativi. Le specie, benché non sia sempre possibile tracciarne confini netti, diventano in Gould entità discrete protagoniste del cambiamento nei tempi geologici della macroevoluzione.

A sei anni dalla sua prima pubblicazione e dalla scomparsa dell'autore, il lettore potrà ammirare in questo saggio la pignola, quasi ossessiva, analisi delle prove sperimentali, delle frequenze relative di equilibri punteggiati riscontrate, dei modelli di stasi e di punteggiature più rappresentativi. Vedrà all'opera il metodo di Gould, il suo rigore argomentativo, lo sguardo ironico, la capacità di cogliere un dettaglio per esprimere temi generali, l'utilizzo di tassonomie concettuali, l'attitudine a discernere e soppesare le possibili cause alternative e non esclusive di un fenomeno, l'orgoglio nel ribattere ai tentativi di sminuire la portata della scoperta, la meticolosa valutazione delle obiezioni sollevate contro la sua teoria nel corso di tre decenni, cui risponde caso per caso senza rifugiarsi nella semplificazione delle critiche o nella svalutazione aprioristica dell'avversario.

In questo lungo capitolo della sua summa scientifica, Gould esprime anche la sua non banale consapevolezza epistemologica circa le interazioni fra dati e teorie, e non nasconde il suo debito verso Thomas Kuhn nel dare rilievo ai pregiudizi paradigmatici, ai condizionamenti preconcetti e alle "congiure del silenzio" (per esempio sul fenomeno della stasi) che a suo avviso hanno guidato le indagini empiriche sull'evoluzione, soprattutto nell'ambito di una disciplina come la paleontologia per lungo tempo considerata una scienza cenerentola dedita a "minuzie locali" e all'ostinata e vana ricerca di "impercettibili serie graduali" dove non esistevano. C'è anche il Gould un po' ripetitivo, che ritorna spesso sui suoi passi, con quell'andamento tipico a cerchi concentrici di ragionamento, per persuadere il lettore a più riprese. Non ha espunto alcuni riferimenti sperimentali datati (ricordiamo che il libro nacque da un lavoro ventennale) e fa sopravvivere ipotesi oggi piuttosto indebolite, in mezzo ad altre ben corroborate. Sa presentarsi come onestamente partigiano, senza essere fazioso.

Si lascia un po' trascinare nella seconda parte sulle analogie con altri campi e sulle estensioni dell'equilibrio punteggiato al di fuori della biologia. Abbandonato il terreno sicuro e consono della "storia delle specie come entità individuali su una scala temporale geologica", il concetto si distende su altri livelli evolutivi, poi feconda altre discipline, travalica le scienze naturali, fino a trasformarsi talvolta nutrendosi di metafore un po' azzardate in un'ambiziosa visione globale del cambiamento, in un paradigma puntuazionale nella storia delle idee. Ma in Gould nessun finale è scontato e la sua penna ci regala un'appendice sorprendente, un saggio di sociologia e di comunicazione della scienza per apprezzare le vicissitudini imprevedibili dell'equilibrio punteggiato nella cultura generale, nei manuali scolastici e universitari, nei dibattiti pubblici e sui media, nelle indebite appropriazioni e nelle maldestre strumentalizzazioni dei neocreazionisti, nella retorica delle controversie fra avversari a volte leali, a volte incattiviti dall'acredine personale.

Dopo tutto, Gould sembra avere qui buone ragioni per pensare che la vicenda trentennale dell'equilibrio punteggiato sia stato un felice esempio di storia evolutiva di successo, e come tale impregnata di contingenza e d'imprevedibilità, un glorioso accidente della storia della scienza. Peccato per quella "splendida corsa" in bicicletta dell'ultima riga, che avrebbe meritato di fare ancora molta strada con Stephen J. Gould in sella. Se non altro per sapere se la visione puntuazionale dell'evoluzione resisterà alle verifiche o sarà stata soltanto una teoria di passaggio, effimera come tutti i figli e i "fantasmi" del tempo: "Nello sviluppare l'equilibrio punteggiato, o siamo stati adulatori compiacenti di una moda, e siamo quindi destinati alla montagna di cenere della storia, oppure abbiamo avuto una scintilla di comprensione di come è fatta la natura. Lo potrà dire soltanto un futuro punteggiato e imprevedibile" (Stephen Jay Gould, Niles Eldredge, Punctuated Equilibrium Comes of Age,"Nature", 1993, 366, p. 227).