James Watson

Il genoma umano

La Biblioteca di Repubblica, Roma 2012

Approfondimenti

Che cosa ci rende umani?
di Katherine S. Pollard
 «Le Scienze» n. 492, agosto 2009

Alcuni anni fa ho colto al volo l'opportunità di entrare nel team internazionale che stava identificando la sequenza di basi del DNA, o «lettere», nel genoma dello scimpanzé comune {Pan troglodytes). Come biostatistica con un interesse di lunga data per le origini della nostra specie, avevo una gran voglia di allineare la sequenza del DNA umano e quella del nostro parente vivente più stretto e confrontarle. Ne emerse una verità umiliante: il nostro DNA è identico al loro al 99 per cento circa. In altre parole, su tre miliardi di lettere che compongono il genoma umano solo 15 milioni (meno dell'uno per cento) sono cambiati nei 6-7 milioni di anni trascorsi da quando le nostre linee evolutive si sono separate.

La teoria dell'evoluzione sostiene che gran parte di questi cambiamenti ha avuto scarsi effetti sulla nostra biologia. Ma da qualche parte tra questi 15 milioni di basi ci sono le differenze che hanno fatto di noi Homo sapiens. Ero determinata a trovarle. Da allora, io e altri ricercatori abbiamo fatto molti progressi nell'identificazione di una serie di sequenze di DNA che ci hanno separato dagli scimpanzé.

Una prima sorpresa

Benché siano solo una piccola percentuale del genoma umano, diversi milioni di basi sono comunque un territorio vasto da esplorare. Per facilitare la caccia ho scritto un programma che avrebbe analizzato il genoma alla ricerca delle sequenze di DNA che più sono cambiate da quando esseri umani e scimpanzé si sono separati da un progenitore comune. Poiché gran parte delle mutazioni genetiche casuali non procurano né vantaggi né svantaggi per l'organismo, esse si accumulano a un ritmo costante, che riflette la quantità di tempo trascorsa dall'ultimo antenato comune a due specie viventi (questo ritmo di cambiamento è spesso detto «il ticchettio dell'orologio molecolare»). L'accelerazione del cambiamento in qualche parte del genoma, invece, è il segno di selezione positiva, cioè di mutazioni che aiutano un organismo a sopravvivere e a riprodursi, e perciò hanno maggiori probabilità di essere trasmesse alle generazioni future. In altre parole, queste parti del codice che sono andate incontro a un maggiore cambiamento dalla separazione tra esseri umani e scimpanzé sono le sequenze che probabilmente hanno dato forma all'umanità.

Nel novembre 2004, dopo mesi di correzioni e ottimizzazione del programma per farlo girare su una grande rete di computer dell'università della California a Santa Cruz, alla fine ho ottenuto un file che conteneva una lista ordinata di queste sequenze a rapida evoluzione. Con il mio mentore David Haussler, che controllava il mio lavoro, ho guardato il primo risultato della lista, una sequenza di 118 basi che è stata denominata «regione umana accelerata 1 » (Human Accelerated Region l, HARl).

Usando il browser genomico dell'università, uno strumento di visualizzazione che annota il genoma umano con le informazioni disponibili nei database pubblici, ho osservato HARl. Il browser mostrò le sequenze HARl di un essere umano, uno scimpanzé, un topo, un ratto e un pollo, cioè tutte le specie di vertebrati i cui genomi erano disponibili allora. Ci rivelò anche che gli screening su larga scala fatti in precedenza avevano rilevato l'attivazione di HARl in due campioni di cellule del cervello umano, per quanto nessuno avesse ancora battezzato o studiato la sequenza. Fummo colti da un grande stupore quando vedemmo che HARl avrebbe potuto essere parte di un gene, nuovo per la scienza, attivo nel cervello.

Avevamo centrato il bersaglio. E noto che il cervello umano è considerevolmente diverso da quello dello scimpanzé per dimensione, organizzazione e complessità (tra le altre caratteristiche). Tuttavia i meccanismi di sviluppo ed evolutivi che sottostanno alle caratteristiche che rendono diverso il cervello umano non sono ancora chiari. HARl aveva il potenziale di illuminare questo aspetto misterioso della biologia umana.

Abbiamo passato l'anno successivo a scovare tutto il possibile sulla storia evolutiva di HARl, confrontando questa regione del genoma in diverse specie, tra cui altri dodici vertebrati che erano stati sequenziati nel frattempo. Il risultato fu che fino alla comparsa dell'uomo HARl si era evoluto molto lentamente. Nei polli e negli scimpanzé, le cui linee filogenetiche si sono divise circa 300 milioni di anni fa, sono diverse solo due basi su 118, mentre tra umani e scimpanzé, le cui linee si sono separate molto più di recente, le differenze sono 18. Il fatto che HARl sia rimasto fermo nel tempo per centinaia di milioni di anni indica che fa qualcosa di molto importante; il fatto che improvvisamente sia stato modificato nell'uomo suggerisce che questa funzione è stata significativamente mutata nella nostra linea filogenetica.

Un indizio fondamentale per la funzione di HARl nel cervello è emerso nel 2005, dopo che il mio collaboratore Pierre Vanderhaeghen della Libera Università di Bruxelles aveva ottenuto copie di HARl in provetta dal nostro laboratorio durante una visita a Santa Cruz. Queste sequenze sono state usate per progettare un'etichetta molecolare fluorescente che si illumina quando HARl si attiva nelle cellule viventi, cioè quando viene copiato dal DNA all'RNA. Di solito, quando i geni vengono accesi in una cellula, questa prima ne fa una copia mobile di RNA messaggero e poi usa l'RNA come stampo per la sintesi di una determinata proteina.

L'etichettatura ha rivelato che HARl è attivo nel corso dello sviluppo in un tipo di neuroni che hanno un ruolo chiave nella forma e nella disposizione della corteccia cerebrale, il rugoso strato esterno del cervello. Quando le cose vanno male in questi neuroni, l'effetto può essere una grave, spesso mortale malattia congenita nota come lissencefalia («cervello liscio»), in cui la corteccia non ha le caratteristiche pieghe e mostra quindi una superficie notevolmente ridotta. Il malfunzionamento di questi stessi neuroni è stato legato anche alla comparsa della schizofrenia in età adulta.

HARl è quindi attivo al momento e nel posto giusti per essere efficace nella formazione di una corteccia cerebrale sana. (Altre osservazioni suggeriscono che potrebbe avere un ulteriore ruolo nella produzione di sperma.) Ma come esattamente questo pezzo di codice genetico abbia effetto sullo sviluppo della corteccia è un mistero che con i miei colleghi stiamo ancora cercando di risolvere. Siamo molto interessati a farlo: la recente esplosione di sostituzioni in HARl potrebbe aver alterato in modo significativo il nostro cervello.

Oltre ad avere una storia evolutiva particolare, HARl è speciale perché non codifica per nessuna proteina. Per decenni la ricerca in biologia molecolare si è concentrata quasi esclusivamente su geni che specificano proteine, i mattoni fondamentali delle cellule. Tuttavia, grazie al Progetto genoma umano, che ha sequenziato il nostro genoma, ora sappiamo che i geni che codificano per una proteina sono solo l'I,5 per cento del nostro DNA. L'altro 98,5 per cento, a volte detto «DNA spazzatura», contiene sequenze di regolazione che dicono ad altri geni quando accendersi e spegnersi, geni che codificano per RNA che non viene tradotto in una proteina, nonché molto DNA le cui funzioni gli scienziati hanno iniziato a scoprire solo ora.

In base allo schema della sequenza di HARl avevamo previsto che codificasse per l'RNA, un'intuizione poi confermata da esperimenti di laboratorio di Sofìe Sa-lama, Haller Igei e Manuel Ares, dell'università della California a Santa Cruz. Dal loro lavoro è risultato che l'HARl umano risiede in due geni che si sovrappongono. La sequenza HARl condivisa dà origine a un tipo di struttura di RNA completamente nuovo, che si aggiunge alle sei classi note di geni dell'RNA. Questi sei gruppi principali comprendono oltre 1000 diverse famiglie di geni dell'RNA, ognuna contraddistinta dalla struttura e dalla funzione nella cellula dell'RNA codificato. HARl è anche il primo esempio documentato di una sequenza che codifica per l'RNA che è andata incontro a selezione positiva.

Può sembrare sorprendente che in precedenza nessuno abbia prestato attenzione a queste stupefacenti 118 basi del genoma umano, ma in assenza di tecnologie per confrontare rapidamente interi genomi non era possibile sapere che HARl era molto di più di un semplice pezzo di DNA spazzatura.

Indizi linguistici

Il confronto tra interi genomi in altre specie ha anche fornito un'informazione cruciale sul perché esseri umani e scimpanzé siano cosi diversi nonostante la forte somiglianza dei loro genomi. Negli ultimi anni sono stati sequenziali i genomi di migliaia di specie (soprattutto microrganismi). E emerso che il «dove» hanno luogo le sostituzioni del DNA nel genoma — piuttosto che «quante» sono le mutazioni in generale — può avere una grande importanza. In altre parole, non c'è bisogno di cambiare molto nel genoma per fare una nuova specie. Il modo per far evolvere un essere umano a partire da un progenitore comune di uomo e scimpanzé non è l'accelerazione dell'orologio molecolare nel suo complesso. Piuttosto, il segreto è avere cambiamenti rapidi nei siti dove questi cambiamenti fanno una grande differenza nel funzionamento dell'organismo.

HARl è sicuramente un punto del genere, come lo è il gene FOXP2, che contiene un'altra sequenza a rapido cambiamento che ho identificato, e che si sa essere coinvolto nel linguaggio. Il suo ruolo nel linguaggio fu scoperto all'università di Oxford, dove nel 2001 osservarono che le persone con mutazioni in quel gene sono incapaci di fare determinati movimenti facciali fini e ad alta velocità necessari per il normale parlare umano, anche se hanno la capacità cognitiva di elaborare il linguaggio.

La tipica sequenza umana mostra molte differenze rispetto a quella dello scimpanzé: due basi sono sostituite, alterando le proteine prodotte, mentre molte altre sostituzioni potrebbero aver cambiato come, quando e dove la proteina è utilizzata nell'organismo umano.

Una scoperta recente ha fatto luce sul momento in cui è comparsa negli ominidi la versione di FOXP2 che rende possibile il linguaggio: nel 2007 al Max Planck Institut fiir evolutionàre Anthropologie di Lipsia, in Germania, è stato sequenziato FOXP2 estratto da un fossile di Neanderthal, dimostrando che questi umani estinti avevano la versione umana moderna del gene, che forse permetteva loro di parlare come noi.

Le stime attuali sul tempo trascorso dalla separazione tra le linee filogenetiche tra umani moderni e neanderthaliani suggeriscono che la nuova forma di FOXP2 deve essere apparsa almeno mezzo milione di anni fa. Tuttavia gran parte di ciò che distingue il linguaggio umano dalla comunicazione vocale in altre specie non viene dai mezzi fisici, ma dall'abilità cognitiva, che è spesso correlata alla dimensione cerebrale. I primati generalmente hanno un cervello più grande di quanto ci si aspetterebbe in base alla loro dimensione corporea. Ma il volume del cervello umano è più che triplicato rispetto al progenitore comune a umani e scimpanzé, una crescita che i genetisti hanno da poco iniziato a capire.

Uno dei migliori esempi di un gene legato alla dimensione del cervello negli esseri umani e in altri animali è ASPM. Studi genetici su individui affetti da una condizione detta microcefalia, in cui il cervello è ridotto fino al 70 per cento, hanno svelato il ruolo di ASPM e di altri tre geni - MCPHl, CDK5RAP2 e CENPJ - nel controllo delle dimensioni del cervello. Più recentemente, ricercatori dell'università di Chicago e dell'università del Michigan ad Ann Harbor hanno dimostrato che ASPM è andato incontro a diversi scatti di cambiamento nel corso dell'evoluzione dei primati, indicando un processo di selezione positiva. Almeno uno di questi scatti è avvenuto nella linea filogenetica umana dopo la separazione dalla linea degli scimpanzé, e quindi è stato potenzialmente utile per l'evoluzione del nostro grande cervello.

Altre parti del genoma potrebbero aver influenzato meno direttamente la metamorfosi del cervello umano. L'analisi informatica che ha identificato HARl ha trovato anche altre 201 regioni umane accelerate, gran parte delle quali non codificano per proteine e nemmeno per RNA. (Uno studio correlato condotto al Wellcome Trust Sanger Institute di Cambridge ha riconosciuto molte delle stesse HAR.) Queste sembrano invece essere sequenze di regolazione che dicono ai geni vicini quando accendersi e spegnersi. Sorprendentemente, più della metà dei geni collocati vicino alle HAR è coinvolta nello sviluppo e nelle funzioni del cervello. E, come per FOXP2, i prodotti di molti di questi geni hanno anche funzione di regolazione di altri geni. Perciò, anche se le HAR sono solo una piccola parte del genoma, i cambiamenti in queste regioni potrebbero aver alterato profondamente il cervello umano, influenzando l'attività di intere reti di geni.

Oltre il cervello

Sebbene la ricerca in genetica si sia molto concentrata sull'evoluzione del nostro sofisticato cervello, i ricercatori hanno anche ricostruito l'origine di altri aspetti unici dell'organismo umano. HAR2, una regione di regolazione genica e il secondo sito più accelerato sulla mia lista, è uno degli esempi.

Nel 2008 un gruppo di ricerca del Lawrence Berkeley National Laboratory ha mostrato che specifiche differenze di basi nella versione umana di HAR2 (anche nota come HACNSl), rispetto a quella dei primati non umani, permettono a questa sequenza di DNA di guidare l'attività genica nel polso e nel pollice durante Io sviluppo fetale, mentre ciò non accade con la versione ancestrale negli altri primati. Questa scoperta è particolarmente stimolante perché potrebbe essere alla base dei cambiamenti morfologici della mano umana che hanno permesso la destrezza necessaria per creare e usare utensili complessi. A parte i cambiamenti nella forma, i nostri antenati sono andati incontro a mutazioni comportamentali e fisiologiche che li hanno aiutati ad adattarsi a circostanze alterate e a migrare verso nuovi ambienti. Per esempio la conquista del fuoco, più di un milione di anni fa, e la rivoluzione agricola, circa 10 000 anni fa, hanno reso disponibili cibi ricchi di amido. Ma i cambiamenti culturali da soli non furono sufficienti a sfruttare questi alimenti molto calorici: i nostri antenati hanno dovuto adattarsi a essi.

Il cambiamento del gene AMYl, che codifica per l'amilasi salivare, un enzima coinvolto nella digestione dell'amido, è un ben noto adattamento di questo tipo. Il genoma dei mammiferi contiene molte copie di questo gene, in un numero che varia da specie a specie e anche tra diversi individui.

In generale, però, gli esseri umani hanno un numero particolarmente grande di copie di AMYl. Nel 2007 un team di genetisti dell'università dell'Arizona ha mostrato che gli individui con più copie di AMYl hanno più amilasi nella saliva, che consente loro di digerire più amido. L'evoluzione di AMYl sembra quindi coinvolgere sia il numero di copie del gene sia gli specifici cambiamenti della sua sequenza di DNA.

Un altro famoso esempio di adattamento alla dieta coinvolge il gene per la lattasi (LCT), un enzima che permette ai mammiferi di digerire il lattosio, un carboidrato noto anche come «lo zucchero del latte». In gran parte delle specie solo i piccoli prima dello svezzamento possono digerire il lattosio. Ma circa 9000 anni fa, molto recentemente in termini evoluzionistici, alcuni cambiamenti nel genoma umano hanno prodotto versioni di LCT che permetto agli adulti di digerire il lattosio. Il gene LCT modificato si è evoluto indipendentemente in alcune popolazioni europee e africane, consentendo a chi ne è portatore di digerire il latte degli animali addomesticati. Oggi gli adulti discendenti da questi antichi pastori hanno molte più probabilità di tollerare il lattosio nella loro dieta rispetto agli adulti di altre parti del mondo, tra cui l'Asia e l'America Latina, dove molti sono intolleranti al lattosio perché recano il gene nella versione ancestrale dei primati.

LCT non è l'unico gene noto che si sta evolvendo proprio ora negli esseri umani. Il progetto genoma dello scimpanzé ne ha identificati altri quindici che si stanno allontanando da una versione che era perfettamente normale nelle scimmie nostre progenitrici e che funziona bene anche in altri mammiferi ma che, in questa forma antica, è associata negli umani moderni con l'Alzheimer e il cancro. Alcune malattie colpiscono solo gli esseri umani o hanno maggiore frequenza negli umani rispetto agli altri primati. Sono in corso ricerche sulla funzione dei geni coinvolti, e si sta tentando di capire perché le versioni ancestrali di questi geni siano divenute sfavorevoli negli esseri umani. Questi studi potrebbero aiutare i medici a identificare i pazienti che hanno una maggiore probabilità di essere colpiti da una di queste gravi malattie, nella speranza di aiutarli a evitarla. Inoltre potrebbero aiutare l'identificazione e lo sviluppo di nuove terapie.

Il male viene con il bene

Combattere le malattie in modo da poter tramandare i nostri geni alle generazioni future è stato un tema costante nell'evoluzione dell'uomo, come lo è per tutte le specie. In nessun altro luogo questa battaglia è così evidente come nel sistema immunitario. Quando si esamina il genoma umano alla ricerca di indizi di selezione positiva, i migliori candidati sono spesso coinvolti nell'immunità. Non è una sorpresa il fatto che l'evoluzione armeggi così tanto con questi geni: in assenza di antibiotici e vaccini, l'ostacolo più probabile per la trasmissione dei geni di un individuo sarebbe stata un'infezione potenzialmente mortale contratta prima della fine dell'età riproduttiva. Un'ulteriore accelerazione dell'evoluzione del sistema immunitario è dovuta al costante adattamento dei patogeni alle nostre difese, che causa una corsa evolutiva agli armamenti tra i microrganismi e gli ospiti.

Queste battaglie hanno lasciato segni nel nostro DNA. E particolarmente vero per i retrovirus, come l'HIV, che sopravvivono e si propagano inserendo il loro materiale genetico nel nostro genoma. Il DNA umano è pieno dei residui delle copie di questi piccoli genomi retrovirali, provenienti da virus che causavano malattie milioni di anni fa e ora potrebbero anche essere scomparsi.

Nel tempo, le sequenze retrovirali accumulano mutazioni casuali come ogni altra sequenza, così che le diverse copie sono simili ma non identiche.

Esaminando la divergenza tra queste copie si possono usare tecniche relative all'orologio molecolare per datare l'infezione retrovirale originaria. Le cicatrici di queste antiche infezioni si vedono anche nei geni del sistema immunitario dell'ospite, che si adattano costantemente a combattere i retrovirus in continua evoluzione.

PtERVl è uno di questi relitti virali. Negli umani moderni, una proteina chiamata TRIM5a lavora per impedire la replicazione di PtERVl e di retrovirus simili. Indizi genetici suggeriscono che un'epidemia di PtERVl colpì scimpanzé, gorilla e ominidi che vivevano in Africa circa 4 milioni di anni fa. Per osservare le diverse reazioni dei primati a PtERVl, nel 2007 un gruppo del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle ha usato le tante copie mutate di PtERVl nel genoma dello scimpanzé per ricostruire la sequenza originale di PtERVl e ricreare questo antico retrovirus. Sono poi stati compiuti esperimenti per vedere fino a che punto le versioni del gene TRIM5ol presenti nell'uomo e nelle grandi scimmie riescono a limitare l'attività di questo virus resuscitato. I risultati hanno mostrato che un unico cambiamento in TRIM5cc umano ha con ogni probabilità consentito ai nostri antenati di combattere l'infezione da PtERVl più efficacemente rispetto ai nostri cugini primati. (Ulteriori cambiamenti nel gene TRIM5oc umano si sono probabilmente evoluti in risposta a retrovirus imparentati). Altri primati hanno mutazioni in TRIMSol, molto probabilmente in seguito alle battaglie retrovirali vinte dai loro predecessori.

Sconfiggere un tipo di retrovirus non garantisce però necessariamente il successo con altri. Per quanto le mutazioni in TRIM5ol ci abbiano aiutato a sopravvivere a PtERVl, questi stessi cambiamenti ci rendono più diffìcile combattere l'HIV. Questa scoperta sta aiutando a capire perché l'infezione da HIV porta all'AIDS negli umani, ma non nei primati non umani. Chiaramente, l'evoluzione può fare un passo avanti e due indietro, e a volte i ricercatori hanno la stessa sensazione. Abbiamo identificato molti candidati interessanti per spiegare le basi genetiche dei caratteri distintivi umani, ma nella maggior parte dei casi conosciamo solo le basi della funzione di queste sequenze genomiche. Le lacune sono particolarmente grandi per regioni come HARl e HAR2 che non codificano per proteine.

Queste sequenze in rapida evoluzione e unicamente umane indicano però una strada. La storia di ciò che ci ha reso umani probabilmente non si concentrerà sui cambiamenti nei mattoni che costituiscono le nostre proteine, ma su come l'evoluzione li ha assemblati in modo nuovo, cambiando dove e quando si accendono e si spengono i diversi geni nell'organismo. Gli studi sperimentali e computazionali in corso in migliaia di laboratori di tutto il mondo promettono di spiegare ciò che accade nel 98,5 per cento del nostro genoma che non codifica per alcuna proteina. E ogni giorno che passa è sempre più improprio chiamarlo «DNA spazzatura»

Katherine S. Pollard è una biostatistica dell'università della California a San Francisco. Nel 2003, dopo il dottorato e un postdoc all'università della California a Berkeley, ha avuto una borsa di studio in genomica comparata all'università della California a Santa Cruz, durante la quale ha preso parte al sequenziamento del genoma dello scimpanzé. Ha usato questa sequenza per identificare le regioni del genoma umano a più rapida evoluzione. Vincitrice della Sloan Research Fellowship in biologia molecolare evoluzionistica e computazionale, ha recentemente intrapreso lo studio dell'evoluzione dei microrganismi che vivono nel corpo umano.

 

Evoluzione e regolazione
di Sean B. Carroll, Benjamin Prud'homme e Nicolas Gompel
  «Le Scienze» n. 479, luglio 2008
 

A prima vista, l'elenco degli animali può far pensare a uno zoo come tanti. Ci sono l'elefante, l'armadillo, l'opossum, il delfino, il bradipo e il riccio. Ci sono pipistrelli grandi e piccoli, due specie di toporagno, vari pesci, un macaco, un orango, uno scimpanzé e un gorilla, per citare solo qualcuna delle creature più familiari. Ma questo serraglio non somiglia a nessuno degli zoo costruiti fino a oggi. Non ci sono né gabbie né bancarelle di souvenir. Anzi, in realtà non ci sono neanche gli animali. E uno zoo «virtuale», che di questi animali contiene solo le sequenze del DNA, le lettere che costituiscono il codice del DNA di cui è fatta la «ricetta genetica» di ciascuna specie.

I visitatori più eccitati di questo nuovo zoo molecolare sono i biologi evoluzionisti, perché dentro di esso si trova un vastissimo e dettagliato archivio dell'evoluzione. È da molti decenni che gli scienziati aspirano a capire in che modo sia emersa la grande diversità delle specie viventi. Da mezzo secolo sappiamo che i mutamenti dei caratteri fisici, dal colore del corpo alle dimensioni del cervello, derivano da mutamenti nel DNA. Determinare però con esattezza quali siano, nella vasta distesa delle sequenze del DNA, i cambiamenti che danno agli animali il loro aspetto peculiare, diverso da tutti gli altri, è rimasto al di là della nostra portata fino a tempi recenti.

Ora i biologi stanno decifrando l'archivio del DNA per individuare le istruzioni che rendono diverse l'una dall'altra le varie specie di mosche, pesci e fringuelli, e che rendono noi esseri umani diversi dagli scimpanzé. Questa ricerca ci ha condotto a un profondo mutamento di prospettiva. Per la maggior parte dell'ultima quarantina d'anni, l'attenzione si è concentrata prevalentemente sui geni, le sequenze nucleotidiche del DNA che codificano le catene di amminoacidi che costituiscono le proteine. Con grande sorpresa, però, è risultato che le differenze di aspetto sono ingannevoli: animali molto diversi hanno insiemi di geni assai simili. Risalendo le tracce dell'evoluzione, nel DNA si stanno trovando meccanismi - «interruttori» genetici - che non codificano per alcuna proteina, ma regolano invece il quando e il dove vengono usati i geni. I cambiamenti che avvengono in questi interruttori hanno un ruolo cruciale nell'evoluzione dell'anatomia, e ci offrono nuove possibilità di capire come si sono evolute le forme apparentemente infinite del regno animale.

Il paradosso del codice

Si è pensato a lungo che le differenze anatomiche tra gli animali si riflettessero in chiare differenze nel contenuto dei rispettivi genomi. Ma confrontando genomi come quelli di topo, ratto, cane, uomo e scimpanzé si vede che i rispettivi cataloghi di geni sono notevolmente simili. Il numero approssimativo di geni nei genomi di ciascun animale (circa 20 000, più o meno), e la posizione relativa di molti di essi si sono conservati piuttosto bene in 100 milioni di anni e più di evoluzione. Ciò non vuol dire che non vi siano differenze nel numero e nella posizione dei geni. Ma, almeno a prima vista, non c'è nulla in questi inventari di geni che dica con evidenza «topo», «cane» o «essere umano». Per esempio confrontando il genoma di topo con quello umano si identifica un analogo murino per almeno il 99 per cento dei nostri geni.

In altre parole non è vero, come era stato ipotizzato, che noi esseri umani abbiamo più geni dei nostri animali da compagnia, di quelli che ci rovinano i raccolti o di quelli che alleviamo. E neppure di un semplice pesce palla. Sarà una delusione, ma non c'è altro da fare che accettare il fatto.

Guardando in dettaglio i singoli geni, la somiglianza tra le varie specie è di nuovo la regola. Solitamente le sequenze del DNA di due versioni qualsiasi di un gene, come quella delle rispettive proteine per cui codificano, sono simili, in una misura che riflette semplicemente l'intervallo di tempo trascorso dal momento in cui le due specie cominciarono a divergere a partire da un antenato comune.

Questa conservazione delle sequenze codificanti nel corso dell'evoluzione lascia particolarmente perplessi quando si considerano i geni coinvolti nella realizzazione dell'architettura e della forma del corpo. Solo una modesta frazione di tutto il complesso dei geni - meno del 10 per cento - è consacrata alla realizzazione dell'architettura e della forma del corpo animale nel corso dello sviluppo dell'uovo fecondato nell'individuo adulto. Il resto di essi è coinvolto nei compiti quotidiani svolti dalle cellule nei vari organi e tessuti.

Nelle differenze anatomiche fra gli animali - che riguardano numero, grandezza, forma o colore delle varie parti del corpo - devono essere in qualche modo coinvolti i geni relativi alla costruzione del corpo stesso. Anzi, lo studio del ruolo centrale svolto nell'evoluzione dai geni e processi associati allo sviluppo anatomico si è guadagnato un nomignolo: «evo-devo» (dalle parole inglesi evolution e development, «evoluzione» e «sviluppo»). Per gli specialisti di quest'area di ricerca, la scoperta che le proteine coinvolte nella costruzione del corpo sono in media ancora più simili fra loro delle altre è stata fonte di particolare perplessità e interesse, a causa del paradosso cui sembrava metterci di fronte: animali diversi come il topo e l'elefante assumono la propria forma mediante uno stesso insieme di proteine di costruzione del corpo fra loro assai simili, indistinguibili dal punto di vista funzionale.

Lo stesso vale per gli esseri umani e i loro più stretti parenti: la maggior parte delle nostre proteine differisce da quelle degli scimpanzé soltanto per uno o due amminoacidi fra le centinaia di cui è fatta ciascuna di esse, e il 29 per cento delle nostre proteine ha esattamente la stessa sequenza. Come spiegare tanta disparità fra questi due livelli dell'evoluzione, quello delle proteine e quello dell'anatomia? Da qualche parte, in tutto il DNA che compone il genoma, devono esserci differenze significative dovute all'evoluzione. Si trattava di trovarle; e, per farlo, si è trattato di decidere dove cercarle. E venuto fuori che queste zone sono più diffìcili da localizzare degli stessi geni.

Interruttori genetici

Negli esseri umani, i tratti di DNA che codificano per le proteine sono appena l'I,5 per cento circa del genoma: in realtà i geni sono piccole isole di informazione in un vasto mare di sequenze di DNA. Gran parte del DNA non codificante non fa nulla, almeno a quanto ne sappiamo, ma alcune di queste sequenze partecipano all'importantissimo compito di regolare l'espressione dei geni. E queste sequenze regolatrici sono la chiave dell'evoluzione.

L'espressione di un gene comporta la trascrizione della sequenza di DNA in una versione a RNA, l'RNA messaggero (mRNA), e la traduzione dell'mRNA in una sequenza proteica. L'espressione della maggior parte dei geni è regolata a livello trascrizionale: le cellule non sprecano energia nel fabbricare mRNA e proteine di cui non hanno bisogno. Molti geni, di conseguenza, sono espressi solo, in maniera specifica, in un dato organo, tessuto o tipo cellulare. Alcune sequenze non codificanti del DNA hanno un ruolo critico nel determinare dove e quando ciò accade: fanno parte di «interruttori genetici» che accendono e spengono i geni nell'organismo al momento e nel posto giusto. Alcune proteine, i fattori di trascrizione, che si legano al DNA in un modo che dipende dalla sua specifica sequenza, costituiscono l'altra parte dell'interruttore e riconoscono queste sequenze, spesso identificate con il nome di enhancer («intensificatore», dal verbo inglese to enhance). Dal legame dei fattori di trascrizione all'enhancer nel nucleo di una certa cellula dipende se, in quella cellula, l'interruttore, e quindi il gene, risulta acceso o spento.

Ciascun gene ha almeno un enhancer. Contrariamente ai geni veri e propri, le cui regioni codificanti sono immediatamente identificabili grazie alla relativa semplicità della grammatica del codice genetico, gli enhancer non si possono riconoscere solo in base alla loro sequenza di DNA: bisogna identificarli per via sperimentale. In genere gli enhancer hanno una lunghezza di alcune centinaia di coppie di basi, e possono trovarsi sia prima sia dopo un gene, o persino far parte di una sequenza non codificante all'interno di un gene. Ma possono anche trovarsi a migliaia di nucleotidi di distanza dal gene stesso.

Di grande importanza per questa discussione è il fatto che alcuni geni hanno parecchi enhancer distinti, e questo è vero in particolare per i geni che codificano per le proteine che determinano la forma anatomica. Ogni enhancer regola in maniera indipendente l'espressione del gene in parti diverse del corpo e in diversi momenti del ciclo di vita dell'individuo, per cui l'espressione del gene nel suo complesso è un mosaico di siti di espressione molteplici e a controllo indipendente. Questi enhancer permettono che lo stesso gene sia usato più e più volte in diversi contesti, e così espandono notevolmente la versatilità funzionale dei singoli geni.

La logica modulare di questo sistema di regolazione genica è illustrata da un gene coinvolto nella colorazione delle diverse parti del corpo del moscerino della frutta. Un gene - il cui nome, Yellow, «giallo» in inglese, può dar luogo a qualche confusione - codifica per una proteina che promuove la formazione di una pigmentazione nera (a essere gialli sono i moscerini mutanti privi della proteina). Il gene Yellow è dotato di diversi enhancer, che lo attivano durante lo sviluppo di svariate parti del corpo del moscerino, fra cui le ali e l'addome.

Dato che il gene Yellow svolge un ruolo nello sviluppo di tanti tessuti, le sue eventuali mutazioni potrebbero essere disastrose se dovessero alterare o disabilitare la funzione della proteina; colpirebbero infatti la funzione della proteina della pigmentazione Yellow in tutte le parti dell'organismo. Al contrario, cambiamenti in uno solo degli enhancer del gene riguarderanno soltanto la funzione di quel particolare enhancer, e soltanto i casi in cui l'espressione del gene Yellow è governata proprio da quell'enhancer, lasciando intatta l'espressione e la funzione della proteina negli altri tessuti.

Le implicazioni evoluzionistiche della regolazione modulare dei geni che determinano la forma del corpo sono profonde: in teoria, le mutazioni degli enhancer consentirebbero la modifica selettiva di singoli tratti del corpo senza cambiamenti dei geni o delle proteine. E in questi ultimi anni sono emerse prove dirette che l'evoluzione di varie parti del corpo e di vari aspetti della sua organizzazione è avvenuta proprio in questo modo.

L'evoluzione degli interruttori

In biologia, una delle strategie principali è individuare i modelli sperimentali più semplici del fenomeno che si desidera capire. Rispetto all'evoluzione dell'aspetto generale del corpo, un modello adatto è la colorazione, una delle caratteristiche più ovvie degli animali, che ha un ruolo di grande importanza nel modo in cui interagiscono fra loro e con l'ambiente. Nei moscerini della frutta, i modelli di colorazione corporea si sono rapidamente diversificati in varie specie strettamente imparentate, e l'analisi di come questi moscerini hanno acquisito macchie e strisce illustra bene come e perché l'evoluzione degli interruttori genetici dirige l'evoluzione delle forme anatomiche.

In alcune specie, i maschi presentano intense macchie nere all'estremità delle ali, mentre in altre ne sono privi. In alcune di quelle stesse specie, sull'addome dei maschi c'è una banda nera (che poi è il motivo per cui il più famoso dei moscerini della frutta, Drosophila mela-nogaster, si chiama cosi: melanogaster in greco significa «dalla pancia nera»), mentre i maschi di altre specie non ce l'hanno. Abbiamo scoperto che nelle specie con le macchie la proteina Yellow è prodotta a livelli molto alti nelle cellule che daranno origine alla macchia, e a bassi livelli nelle altre cellule delle ali. Nelle specie senza macchie, la proteina Yellow è prodotta a bassi livelli in tutta l'ala, e genera soltanto una leggera spruzzata di pigmento nero.

Per capire come mai la proteina Yellow sia prodotta in modo da generare le macchie alari in alcune specie e non in altre, abbiamo esaminato le sequenze che fiancheggiano il gene Yellow, alla ricerca degli enhancer che ne controllano l'espressione in varie parti del corpo. Nelle specie prive di macchie si trova un enhancer che conduce a un basso e uniforme livello di espressione di Yellow in tutta l'ala. L'attività di questo enhancer genera il colore grigio chiaro delle ali del moscerino. Quando è stato analizzato il corrispondente tratto del DNA di una specie maculata, abbiamo trovato che conduce sia a questa modalità di espressione del gene sia a quella, più intensa, delle macchie. Quel che è avvenuto durante il percorso evolutivo delle specie maculate è che nella sequenza del DNA dell'enhancer alare di Yellow si sono evoluti nuovi siti di legame per alcuni fattori di trascrizione fabbricati nell'ala. Ciò ha dato luogo a un nuovo modello di espressione (le macchie alari) senza alterare né dove è prodotta né come funziona la proteina Yellow in altre parti del corpo. La storia dell'evoluzione della banda nera dell'addome è simile, ma ha una particolarità in più. Di solito viene naturale pensare che la presenza di una caratteristica in una specie e la sua assenza in un'altra a essa correlata sia il risultato di un guadagno da parte della prima, ma spesso non è così. L'altro lato dell'evoluzione, la perdita di determinate caratteristiche, è molto frequente, anche se è assai più raro che se ne tenga conto. La perdita di certi caratteri del corpo illustra forse nel modo più efficace le ragioni per cui l'evoluzione degli enhancer costituisce il cammino più probabile per l'evoluzione dell'anatomia.

Uno degli enhancer del gene Yellow controlla la sua espressione nell'addome. Nei maschi delle specie dotate della banda nera, questo enhancer conduce ad alti livelli di espressione del gene Yellow nelle cellule della parte dorsale dell'addome. Alcune specie però, come Drosophila kikkawai, hanno perso questa banda pigmentata nel corso dell'evoluzione. In D. kikkawai, l'enhancer non è più in grado di condurre ad alti livelli di espressione di Yellow nella zona dorsale dell'addome perché le mutazioni hanno scompaginato alcuni dei relativi siti di legame ai fattori di trascrizione.

Il gene Yellow — è importante sottolinearlo - rimane attivo in altre parti del corpo, e la sua funzione biochimica è intatta. La selezione naturale, infatti, non avrebbe permesso che la perdita della banda nera avvenisse attraverso mutazioni che inattivassero il gene Yellow e la relativa proteina, perché la perdita della funzione di Yellow in altre parti del corpo avrebbe avuto conseguenze dannose per l'organismo.

La perdita di certe caratteristiche può essere vantaggiosa o meno per la sopravvivenza e il successo riproduttivo, ma in alcuni casi può avere un valore adattativo perché facilita cambiamenti nel modo di vita. Gli arti posteriori, per esempio, sono più volte andati perduti nei vertebrati (in serpenti, lucertole, balene) e quei casi di perdita sono associati all'adattamento ad habitat e stili di locomozione diversi.

I precursori, in senso evolutivo, degli arti posteriori dei vertebrati a quattro zampe sono le pinne pelviche dei pesci. L'evoluzione ha prodotto anche notevolissime differenze nell'anatomia delle pinne pelviche in popolazioni di pesci strettamente imparentate. Lo spinarello è un pesce che in molti laghi dell'America settentrionale si trova in due forme diverse: una forma d'acqua profonda, dotata di una spina pelvica pienamente sviluppata, e una forma che vive in acque poco profonde, in cui pelvi e spine sono marcatamente ridotte. In acque aperte, le lunghe spine proteggono il pesce dai predatori, ma sul fondo di un lago sono un punto debole, perché le larve di libellula che si nutrono dei giovani spinarelli potrebbero usarle per attaccarsi a essi.

Differenze nella morfologia pelvica di questi pesci si sono evolute più volte nei 10 000 anni trascorsi dall'ultima era glaciale. Gli spinarelli oceanici, dotati di spina lunga, hanno colonizzato numerosi laghi separati, dove le forme ridotte si sono evolute più volte in maniera indipendente. Poiché questi pesci sono strettamente imparentati, e si possono incrociare in laboratorio, i genetisti sono stati in grado di mappare i geni coinvolti nella riduzione della pelvi dello spinarello. Si è così dimostrato che alla riduzione pelvica sono associati cambiamenti nell'espressione di un gene coinvolto nella costruzione della parte pelvica dello scheletro. Come la maggior parte dei geni che dirigono la costruzione del corpo, nello sviluppo dei pesci il gene Pitxl svolge molteplici compiti. La sua espressione risulta però selettivamente perduta nella zona corporea del pesce che darà origine alla gemma della pinna pelvica e del relativo aculeo. Responsabili, ancora una volta, sono i cambiamenti evolutivi avvenuti in un enhancer. Nella codifica della proteina Pitxl, invece, non vi sono differenze tra le diverse forme di spinarello.

Yellow, Pitxl e la maggior parte dei geni che determinano la costruzione e la forma del corpo sono geni «pleiotropici», nel senso che influenzano la formazione o l'aspetto di molteplici tratti. Le mutazioni nella sequenza codificante di un gene pleiotropico hanno molteplici effetti su tutti i tratti controllati da quel gene, ed è improbabile che un livello di cambiamento così drastico possa essere tollerato dalla selezione naturale. La lezione essenziale dell'evoluzione di macchie, bande e scheletri è che le mutazioni che avvengono nelle sequenze regolatrici aggirano gli effetti pleiotropici delle mutazioni nella sequenza codificante e permettono la modificazione selettiva di singole parti del corpo. Le mutazioni delle sequenze regolatrici non sono l'unica modalità dell'evoluzione, a esclusione di tutte le altre, ma sono il cammino evolutivo più probabile quando un gene svolge ruoli diversi e uno solo di essi risulta selettivamente modificato.

Geni in comune, varietà infinita

L'evoluzione degli enhancer non è limitata ai geni che influiscono sulla forma del corpo, né ai moscerini della frutta e a certi strani pesci. Un buon numero di casi di modifiche evolutive avvenute nelle sequenze regolatrici e che alterano l'espressione genica è stato dimostrato anche per alcuni tratti della specie umana.

Uno dei casi più notevoli nell'evoluzione della nostra specie in tempi recenti è un adattamento, attraverso la perdita selettiva dell'espressione di un gene, a un ambiente in cui è endemica la malaria. Accanto ai gruppi sanguigni A, B e 0, sono stati studiati a fondo diversi altri gruppi sanguigni, detti minori. Uno di questi è definito dalla situazione di una proteina chiamata Dufify, presente sulla membrana dei globuli rossi del sangue. La proteina Dufify fa parte del recettore usato dal parassita Plasmo-dium vivai, uno di quelli che provocano la malaria, per infettare i globuli rossi; ma nell'Africa occidentale questa proteina è assente dal sangue di quasi il 100 per cento della popolazione, il che rende gli individui resistenti all'infezione. Il gene Duffy risulta espresso anche in parecchi altri tessuti del corpo, e in particolare in cellule della milza, dei reni e del cervello. Nella popolazione africana, l'espressione di Duffy in questi altri tessuti è conservata. Come era prevedibile, quindi, gli individui Dufify-negativi sono portatori di una mutazione di un enhancer del gene Duffy che elimina il sito di legame per un fattore di trascrizione che attiva l'espressione di Duffy nelle cellule destinate a divenire globuli rossi, ma non ha effetto sulla produzione della proteina Duffy in altre parti del corpo.

Uno degli aspetti più interessanti della biologia umana emersi finora tra quelli che si sono evoluti attraverso mutazioni negli enhancer di più geni riguarda le divergenze tra le sequenze regolatrici delle grandi scimmie e quelle umane che controllano il gene Prodynorphin, che codifica per una serie di piccole proteine oppioidi prodotte nel cervello e coinvolte nella percezione, nel comportamento e nella memoria. In risposta agli stimoli, il gene umano è espresso a livelli più alti della versione dello scimpanzé, e vi sono forti indizi che suggeriscono che la sequenza regolatrice umana si sia evoluta sotto la pressione della selezione naturale, cioè che sia stata conservata perché vantaggiosa.

Come illustrano questi esempi, le mutazioni delle sequenze regolatrici hanno senz'altro avuto un ruolo nell'evoluzione, e le variazioni di questo tipo potrebbero essere una fonte importante anche delle differenze fisiche fra gli individui. Dato che gli scienziati non possono giocare con il DNA di esseri umani vivi come fanno con quello dei moscerini e dei pesci, è ben più difficile studiare certi esempi di cambiamenti avvenuti nel DNA di regolazione e che sono responsabili della divergenza della nostra specie da altre, ma alcuni nuovi metodi di analisi dei genomi stanno offrendo spunti di indagine interessanti.

Siamo ancora agli inizi delle ricerche sull'evoluzione delle sequenze di DNA che regolano i geni. E nello zoo virtuale dei genomi ci sono centinaia di migliaia di interruttori genetici ancora da scoprire e studiare. I biologi, però, stanno già scoprendo nuovi principi, che hanno un valore predittivo per le ricerche future: i mutamenti evolutivi relativi all'anatomia, in particolare quelli che coinvolgono i geni pleiotropici, accadono più probabilmente attraverso cambiamenti degli enhancer dei geni che attraverso il cambiamento dei geni medesimi.

Questo fenomeno chiarisce anche come mai gruppi di animali assai diversi possano condividere la maggior parte dei geni coinvolti nel dar forma al corpo, se non tutti: contrariamente a quanto si attendevano gli scienziati, a dar vita alle diverse forme del regno animale è soprattutto il come e dove vengono usati quei geni. Se vogliamo davvero capire che cosa rende la forma degli esseri umani diversa da quella delle altre grandi scimmie o che cosa renda un elefante diverso da un topo, molta di questa informazione non si trova nei rispettivi geni e proteine, ma in un aspetto del tutto diverso dei nostri genomi, ancora tutto da esplorare.

Sean B. Carroll, Benjamin Prud'homme e Nicolas Gompel collaborano da anni per decifrare il modo in cui l'evoluzione delle sequenze regolatrici del DNA determina la morfologia animale. Carroll è ricercatore dell'Howard Hughes Medicai Institute e professore di biologia molecolare e genetica all'università del Wisconsin a Madison. Prud'homme e Gompel, che hanno lavorato entrambi nel laboratorio di Carroll, oggi studiano l'evoluzione delle forme e del comportamento animale in un proprio laboratorio, in Francia, presso l'Istituto di biologia dello sviluppo di Marsiglia Luminy.

 

Tracce di un lontano passato
di Gary Stix
 «Le Scienze» n. 481, settembre 2008

Una società di proprietà del fratellastro di Osama Bin Laden aveva annunciato nel 2007 di voler costruire un ponte attraverso il Bab el Mandeb, o Porta delle Lacrime, lo stretto che congiunge il Mar Rosso all'Oceano Indiano. Se quest'ambiziosa opera fosse realizzata, le schiere di pellegrini africani che percorressero uno dei ponti più lunghi del mondo per arrivare alla Mecca camminerebbero alcune centinaia di metri sopra il probabile itinerario del viaggio più memorabile della storia umana. Tra 50 000 e 60 000 anni fa, infatti, un piccolo gruppo di africani attraversò lo stretto a bordo di minuscole imbarcazioni, senza fare più ritorno.

La ragione per cui lasciarono la propria patria nell'Africa orientale non è chiara. Forse il clima era cambiato, forse le riserve di molluschi, un tempo abbondanti, si erano esaurite. Ma qualche certezza c'è. Quei primi emigranti portarono con sé tratti fisici e comportamentali - un cervello di grandi dimensioni e il linguaggio - che caratterizzano gli esseri umani moderni.

Dai loro bivacchi in quello che oggi è lo Yemen, partirono per un viaggio che durò migliaia di anni, attraversando continenti e istmi, fino alla Terra del Fuoco, la punta estrema dell'America meridionale.

Gli scienziati sono riusciti a farsi un'idea di queste migrazioni grazie al ritrovamento di ossa fossili o punte di freccia. Ma i resti lasciati dai nostri antenati sono spesso troppo scarni per darci un quadro completo di questa storia remota. Negli ultimi vent'anni la genetica delle popolazioni ha iniziato a riempire le lacune nei dati paleoantropologici ricostruendo le tracce genetiche delle primissime migrazioni degli esseri umani moderni.

Quasi tutto il nostro DNA - il 99,9 per cento dei tre miliardi di «lettere», o nucleotidi, che costituiscono il genoma umano - è identico da persona a persona, ma in quell'ultimo 0,1 per cento si nascondono differenze significative. Un confronto tra africani orientali e nativi americani, per esempio, può rivelare indizi fondamentali sulle origini umane e sull'inesorabile progredire delle colonizzazioni da un continente all'altro. Fino a pochi anni fa, il DNA trasmesso esclusivamente pervia paterna o per via materna è servito ai genetisti quale equivalente delle impronte fossili. Le ultimissime ricerche permettono di aggiustare il tiro, allargando il campo di indagine da pochi, isolati frammenti di DNA, a centinaia di migliaia di nucleotidi disseminati nell'intero genoma.

È così diventato possibile realizzare mappe di migrazione globale di una risoluzione senza precedenti, alcune delle quali sono state pubblicate soltanto negli ultimi mesi. Queste ricerche offrono ulteriore sostegno alla tesi dell'origine africana degli esseri umani moderni, mostrando che il continente è stato un serbatoio di diversità genetica che a poco a poco si è diffusa al resto del mondo: un albero genealogico che ha alle sue radici il popolo san in Africa e gli indios sudamericani e gli abitanti delle isole del Pacifico nei rami più giovani.

Lo studio della variabilità genetica umana risale alla prima guerra mondiale, quando due medici che lavoravano a Salonicco scoprirono che i soldati di stanza nella città greca presentavano un'incidenza maggiore o minore di un certo gruppo sanguigno a seconda della nazionalità. A partire dagli anni Cinquanta, Luigi Luca Cavalli-Sforza iniziò a formalizzare lo studio delle differenze genetiche tra popolazioni esaminando la diversità delle proteine dei gruppi sanguigni. Le variazioni delle proteine rispecchiano le differenze dei geni che le codificano.

Poi, nel 1987, Rebecca Cann e Allan Wilson, dell'università della California a Berkeley, pubblicarono uno studio rivoluzionario basato sull'analisi del DNA contenuto nei mitocondri, gli organelli cellulari addetti alla produzione di energia, che sono trasmessi per linea materna. I due ricercatori riferivano che gli esseri umani delle varie popolazioni discendevano tutti da un'unica femmina vissuta in Africa circa 200 000 anni fa: un risultato che portò immediatamente la stampa a celebrare la scoperta dell'«Eva mitocondriale». (Nonostante l'allusione biblica, quell'Eva africana non fu la prima donna: la sua discendenza, tuttavia, è l'unica a essere sopravvissuta.)

A proposito di Eva

Il ritmo rapido e relativamente prevedibile delle mutazioni mitocondriali «neutre» - né vantaggiose né dannose - fa sì che questi organelli funzionino come orologi molecolari. Contando le differenze nel numero di mutazioni (i ticchettii dell'orologio) tra due gruppi, o lignaggio, si può ricostruire un albero genealogico che riconduce a un progenitore comune: l'Eva mitocon-driale o un'altra donna capostipite di un nuovo lignaggio. Il confronto tra le età dei lignaggi di regioni diverse permette di costruire una linea temporale delle migrazioni umane.

Dal 1987, la banca dati sulla diversità umana si è ingrandita, includendo il cromosoma Y, il cromosoma sessuale trasmesso solo dai padri ai figli maschi. Il DNA trasmesso per via patrilineare contiene molti più nucleo-tidi di quello mitocondriale (decine di milioni, in confronto ad appena 16 000), migliorando così la capacità di distinguere tra una popolazione e l'altra. L'analisi del DNA mitocondriale e di quello del cromosoma Y delle popolazioni umane ha fatto scoprire centinaia di marcatori genetici (i siti di DNA con mutazioni identificabili e specifiche di un particolare lignaggio).

La rotta seguita dagli esseri umani per spostarsi dall'Africa alle Americhe nel corso di decine di migliaia di anni può ora essere seguita sulla mappa come se i viaggiatori avessero seguito, sia pure con estrema lentezza, una serie di autostrade intercomunicanti. Le sigle alfanumeriche delle strade, per esempio A80, possono essere «tradotte» in marcatori genetici alfanumerici. Nel caso del cromosoma Y, per esempio, si attraversa il Bab el Mandeb sull'autostrada (il marcatore genetico) MI68, che diventa M89 quando ci si dirige a nord attraverso la penisola araba. Imboccando la M9 a destra si va verso la Mesopotamia e oltre. Raggiunta un'area a nord del-l'Hindu Kush, si gira a sinistra sulla M45. Arrivati in Siberia, si va a destra e si segue la M242 finché non attraversa l'istmo che porta in Alaska. Si prende la M3 e si prosegue verso l'America meridionale.

Il DNA mitocondriale e il cromosoma Y sono potenti strumenti d'analisi. La National Geographic Society, la IBM e la Waitt Family Foundation hanno creato una collaborazione finanziata privatamente con 40 milioni di dollari fino al 2010, il cui impegno primario è l'uso di questi strumenti. Con il sostegno di dieci istituzioni accademiche regionali, il cosiddetto Genographic Project sta raccogliendo il DNA di circa 100 000 individui di popolazioni indigene in tutto in mondo. «Il nostro obiettivo principale è definire i dettagli di come le persone hanno effettuato i viaggi» spiega Spencer Wells, che dirige il progetto. In un recente rapporto, i suoi ricercatori hanno riferito che i khoi-san dell'Africa meridionale sono rimasti geneticamente separati dagli altri africani per 100 000 anni. In un altro studio hanno dimostrato che una parte del pool genico dei maschi libanesi può essere fatta risalire ai crociati cristiani e ai musulmani della penisola arabica.

Nuovi strumenti

I genetisti hanno analizzato il DNA di molti individui che vivono lungo i percorsi migratori che hanno scoperto. Eppure a volte l'apparente certezza dei dati inganna. Chi studia le origini umane continua a preferire un fossile, che si può toccare con mano, a un albero genealogico. Il DNA non è come gli isotopi radioattivi usati per datare i fossili: il tasso di velocità delle mutazioni può variare da un segmento di DNA all'altro.

Ma i paleoantropologi sono in stallo. I resti fossili sono rari e troppo spesso incompleti. La primissima migrazione dall'Africa all'Australia si manifesta nel DNA mitocondriale e nel cromosoma Y (grazie agli abitanti delle isole Andamane, tra gli altri), ma i reperti fisici lungo il percorso mancano ampiamente all'appello.

Alla penuria di pietre e ossa si risponde con più DNA, di qualsiasi provenienza. Per rafforzare la causa della genetica, sono stati studiati i microrganismi che hanno avuto un «passaggio» dagli esseri umani, esaminandone i geni alla ricerca di modelli analoghi di migrazione. Tra quegli «autostoppisti» si contano batteri, virus e persino pidocchi. Oltre ai microrganismi, il Progetto genoma umano e gli studi correlati per indagare su interi genomi hanno prodotto una serie di potenti strumenti che stanno aiutando a compensare le carenze dei metodi genetici. «È possibile osservare una grande varietà di siti nel genoma di molti individui e molte popolazioni, ottenendo così più potere statistico quando si tratta di verificare ipotesi diverse» afferma Tim Weaver, professore di antropologia all'università della California a Davis.

In questo decennio, i ricercatori hanno fatto importantissime scoperte grazie al confronto simultaneo di molte varianti, o polimorfismi, che punteggiano i tre miliardi di nucleotidi del genoma. I primi studi sull'intero genoma condotti all'inizio del decennio hanno analizzato le differenze tra popolazioni in brevi segmenti ripetitivi di DNA, noti come microsatelliti. Più di recente, la portata dell'indagine si è ulteriormente raffinata. In febbraio sono stati pubblicati due articoli -uno su «Science», l'altro su «Nature» - con i risultati delle indagini più vaste condotte finora sulla diversità umana. Entrambi hanno esaminato oltre 500 000 polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) - la sostituzione di un nucleotide con un altro in un punto specifico del DNA - presi dallo Human Genome Diversity Panel. Le linee cellulari derivano da circa 1000 individui di 51 popolazioni di ogni parte del mondo, e sono conservate dal Centro per lo studio del polimorfismo umano (CEPH) a Parigi.

I due gruppi di ricerca hanno analizzato questa miniera di dati in vari modi. Hanno confrontato direttamente gli SNP tra popolazioni distinte, analizzando anche gli aplotipi, blocchi di DNA che contengono numerosi SNP che vengono ereditati intatti attraverso molte generazioni. Il gruppo che firma l'articolo su «Nature» ha inoltre esplorato una nuova tecnica per sondare la variazione umana, confrontando ripetizioni o delezioni di segmenti di DNA lunghi fino a un milione di nucleotidi nel genoma di un individuo, in sintonia con la generale tendenza a cercare un numero sempre più alto di marcatori nel genoma. «Qualsiasi pezzo singolo del genoma avrà una storia che non riflette necessariamente l'ascendenza del genoma nel suo insieme» dice Noah A. Rosenberg dell'università del Michigan a Ann Arbor e primo firmatario dell'articolo di «Nature». Ma osservando molte aree contemporaneamente, spiega, si può superare l'ostacolo: «Con migliaia di marcatori, possiamo determinare la storia complessiva delle migrazioni umane».

Rapporti di parentela

Osservare centinaia di migliaia di SNP ha permesso di chiarire le identità di singole popolazioni, verificando come parentele geneticamente prossime si siano disperse in lungo e in largo. L'ascendenza dei nativi sudamericani è stata ricondotta al popolo siberiano e ad altri popoli asiatici. Gli han, il principale gruppo etnico cinese, hanno due popolazioni distinte, a nord e a sud. I beduini sono imparentati con gruppi europei, pakistani e mediorientali.

Questi risultati, che sono coerenti con precedenti ricerche di antropologia, archeologia, linguistica e biologia, hanno anche fornito un fondamento statistico più ampio alla tesi dell'origine africana dell'uomo moderno, rafforzando l'ipotesi che una piccola popolazione umana sia uscita dal continente e sia poi aumentata di dimensioni in una nuova patria finché un altro sottogruppo di «fondatori» se ne è staccato per trasferirsi altrove: un processo che si è ripetuto fino a colonizzare il mondo intero.

Lungo il cammino, questi gruppi emarginarono le popolazioni arcaiche — Homo neanderthalensis e Homo erectus— senza che avvenisse interfecondazione, o quasi. Il nuovo lavoro sul DNA indica che ogni volta che un gruppo più ristretto si staccò, portò con sé solo una sottoserie della diversità genetica originariamente presente nella popolazione africana. Così, via via che la distanza dall'Africa e il tempo aumentano, la diversità diminuisce, offrendo un mezzo per seguire i movimenti delle popolazioni. Il genoma dei nativi americani, protagonisti delle ultime grandi migrazioni continentali, presenta molta meno varietà di quello degli africani.

Molti scienziati ritengono che il peso delle prove, sostenute ora da grandi analisi statistiche come quelle citate, dia ai fautori della tesi dell'origine africana un chiaro vantaggio nell'annoso dibattito sulle origini umane.

Sono pochi gli scienziati che si schierano ancora a favore di una rigida interpretazione del multiregionalismo. Ma continuano a circolarne versioni modificate, soprattutto come tentativi di stabilire se H. sapiens rechi le firme genetiche dei nostri incontri con altri cugini ominidi. Negli ultimi anni Vinayak Eswaran, dell'In-dian Institute of Technology, in collaborazione con Henry Harpending e Alan Rogers dell'università dello Utah a Salt Lake City, ha condotto una serie di simulazioni che suggeriscono che gli umani moderni si siano ibridati in modo intensivo con specie arcaiche come H. erectus, dopo la migrazione dall'Africa. Il modello di Eswaran indica che l'80 per cento del genoma dell'essere umano moderno può essere stato soggetto, a un certo punto, agli effetti di questo tipo di ibridazione.

L'impronta genetica non è tanto visibile quanto ci si potrebbe aspettare se vi fosse stata ibridazione, tuttavia Harpending propone una spiegazione. Un gruppo di geni vantaggiosi portati dagli emigranti africani, forse quelli utili alla riproduzione, conferì un vantaggio selettivo che alla fine avrebbe cancellato la firma di alcuni geni arcaici. «Il risultato è che la popolazione sembra imparentata più strettamente con la popolazione [africana] fonte dei geni favoriti di quanto sia in realtà» afferma.

Siamo un po' neanderthaliani?

Eswaran e Harpending non sono i soli a suggerire accoppiamenti interspecie. Alcuni resti fossili di scheletro di H. sapiens presentano caratteristiche che ricordano ominidi precedenti, e anche i record genetici degli esseri umani contemporanei hanno alimentato le discussioni.

Secondo i diagrammi ad albero delle linee genetiche, alcune varianti geniche mostrano una «profonda ancestralità»: sono molto più antiche di quanto dovrebbero essere se gli esseri umani si fossero evoluti da un unico gruppo omogeneo non più di 200 000 anni fa, un indizio di possibile ibridazione. In uno studio del 2006, Bruce Lahn e colleghi dell'università di Chicago hanno riferito che una versione del gene della microcefalina, coinvolto nel controllo della dimensione del cervello, contiene un aplotipo che può essere stato trasmesso durante un incontro con i Neanderthal 40 000 anni fa.

Una risposta più definitiva potrebbe essere prossima. Il Neanderthal Genome Project - una collaborazione tra il Max Planck Institut fur evolutionàre Anthropo-logie di Lipsia e 454 Life Sciences, una società di sequenziamento del Connecticut - dovrebbe completare entro la fine dell'anno una prima bozza di circa il 70 per cento delle sequenze di DNA ricavate da ossa di Neanderthal di 40 000 anni fa provenienti da uno scavo in Croazia. I risultati dovrebbero essere pubblicati sei mesi dopo.

Finora il progetto non ha rivelato alcun segno di schema genetico che suggerisca un trasferimento di DNA tra le due specie. «Non ne vediamo alcuna prova, ma non possiamo neanche escluderlo» spiega Svante Pààbo, il professore del Max Planck Institut responsabile del progetto. Una precedente pubblicazione del suo gruppo su un'indagine su un milione di nucleotidi, una minuscola frazione dell'intero genoma, suggeriva che potrebbero essersi verificati alcuni scambi genici, ma in seguito si scopri che era stato un falso segnale causato dalla contaminazione del campione. I ricercatori non si sono ancora imbattuti nella variante di microcefalina citata da Lahn.

Maneggiare un campione, o persino respirarci sopra, è un grosso ostacolo al lavoro con il DNA antico: alcuni archeologi si dedicano agli scavi indossando ingombranti tute asettiche come quelle usate nella produzione di microprocessori. Dopo quel passo falso, il laboratorio di Pààbo ha modificato le procedure usate nella «camera pulita» del Max Planck Institut. I ricercatori collocano dei contrassegni costituiti da quattro nucleotidi di DNA sintetico all'inizio di ogni frammento di materiale genetico neanderthaliano, e ogni frammento che esce dalla macchina sequenziatrice è sottoposto a un controllo di identità molecolare.

Capire la composizione genetica del cugino più stretto della linea umana - stime derivate da studi precedenti mostrano che i due genomi sono simili al 99,5 per cento - potrebbe offrire la migliore dimostrazione pratica di genomica comparata che si sia avuta finora, permettendo l'identificazione di siti nel genoma umano dove l'ibridazione ha seguito il suo corso e dove la selezione naturale ha favorito certi tratti. «Se si è interessati all'evoluzione umana, i Neanderthal sono un'occasione unica» afferma Pààbo. «Sono i nostri parenti più stretti, e abbiamo accesso al loro genoma, anche se è tecnicamente complicato. Per la maggior parte di altri gruppi umani ancestrali, ciò non sarà possibile.»

Nuovi studi, ancora non pubblicati, rivelano che il cromosoma Y dei Neanderthal è diverso da quello umano. «Nessun essere umano ha un cromosoma Y simile a quello dei Neanderthal» osserva Pààbo, il che rispecchia risultati precedenti secondo cui anche il DNA mitocondriale umano e quello dei Neanderthal sono facilmente distinguibili. Nel novembre scorso Pààbo e il suo team hanno riferito una somiglianza tra le due specie. Resti di Neanderthal scoperti in Spagna avevano una versione del gene FOXP2 identica a quella del gene umano che partecipa allo sviluppo del discorso e del linguaggio. Anche in questo caso, ci si è chiesti se il gene possa essere il risultato dell'ibridazione, benché l'eventualità di una contaminazione non sia da escludere.

Come ci siamo adattati?

Mentre si continua a sequenziare il DNA da frammenti di vecchie ossa per capire se gli esseri umani si siano accoppiati con altre specie del genere Homo, qualcuno ricorre ad analisi sull'intero genoma per vedere quali tratti geneticamente controllati siano cambiati per deriva genetica (mutazioni casuali) e selezione naturale via via che gli emigranti si adattavano ai nuovi habitat.

Uno studio pubblicato in febbraio su «Nature» ha illustrato le conseguenze del declino della diversità genetica con il progressivo allontanamento di Homo sapiens dall'Africa. Confrontando oltre 40 000 SNP in un gruppo di venti americani di origine europea e quindici di origine africana, si è scoperto che gli euroamericani avevano una percentuale più alta di modificazioni genetiche dannose, alcune potenzialmente legate a malattie, rispetto agli afroamericani.

La ricerca mostra ciò che Carlos Bustamante ha definito una «eco genetica di popolazione» dei colonizzatori dell'Europa. Con l'espansione demografica, la scarsa diversità genetica della piccola popolazione europea iniziale permise a una serie di mutazioni dannose di diffondersi ampiamente, e a nuove mutazioni dannose di emergere.

Gli studi sull'intero genoma stanno anche cominciando a fornire una panoramica sul modo in cui la selezione naturale ha aiutato gli emigranti ad adattarsi ai nuovi ambienti. Negli ultimi due anni una serie di studi ha cercato le mutazioni genetiche avvenute dopo che gli esseri umani lasciarono l'Africa o divennero agricoltori e che appaiono vantaggiose per sopravvivere nelle nuove circostanze. I ricercatori hanno sfruttato l'International HapMap, un catalogo degli aplotipi e dei 3,9 milioni di SNP in essi contenuti, provenienti da nordamericani con ascendenti nell'Europa nordoccidentale e da abitanti di Nigeria, Cina e Giappone.

Così diversi, così uguali

Uno studio, di cui Harpending è coautore, ha mostrato che negli ultimi 40 000 anni la velocità di cambiamento del DNA, e dunque il ritmo dell'evoluzione, ha accelerato. Un altro studio, condotto da Pardis Sabeti e colleghi del Broad Institute di Cambridge, in Massachusetts, ha evidenziato che la selezione è ancora all'opera in centinaia di regioni del genoma, tra cui aree che controllano la resistenza alle malattie e lo sviluppo del colore della pelle e dei follicoli piliferi, che regolano il sudore.

Questi risultati implicano che le popolazioni umane stanno continuando ad adattarsi alle differenze regionali nell'esposizione al sole, nell'alimentazione e nei patogeni incontrate dopo aver abbandonato la loro patria africana ancestrale. E che anche gli africani si sono evoluti in armonia con i cambiamenti del loro habitat.

Uno degli studi più recenti, guidato da Lluis Quin-tana-Murci dell'Institut Pasteur di Parigi, ha mostrato che 580 geni, tra cui quelli che hanno un ruolo nel diabete, nell'obesità e nell'ipertensione, sono attualmente sottoposti a selezione in modo diverso nell'ambito delle popolazioni HapMap, il che forse spiega le differenze geografiche nella distribuzione delle malattie e offre indizi per nuovi obiettivi nello sviluppo di farmaci.

A volte l'analisi dei processi che sono alla base della diversità umana si muove al di là delle dimensioni dei follicoli piliferi e della capacità di digerire il latte. Il dibattito su che cosa siano le razze e le etnie può facilmente rientrare nel quadro. Che cosa comporta che una variante genica legata alla cognizione ricorra con più frequenza negli europei che negli africani? Una migliore comprensione della genetica da parte del pubblico - il fatto che un singolo gene non agisce come un interruttore che accende o spegne l'intelligenza - può evitare congetture sbagliate.

Capire la genetica farà sì che parole come «asiatico» o «cinese» siano sostituite da classificazioni più sottili, basate sulle differenze nella composizione genetica ancestrale scoperte nelle analisi del genoma, come la distinzione tra i gruppi han meridionali e settentrionali. «Non ci sono razze» dice Quintana-Murci. «Ciò che vediamo [dal punto di vista della genetica] sono gradienti geografici. Non ci sono differenze nette tra europei e asiatici. Dall'Irlanda al Giappone, non ci sono soglie inequivocabili dove qualcosa cambia completamente.»

Il viaggio attraverso la storia evolutiva descritta dalla genomica comparata è ancora agli inizi. Nel frattempo l'esigenza di dati, algoritmi e computer più potenti non ha limiti. La costruzione di database più estesi - un consorzio internazionale ha annunciato a gennaio di voler sequenziare 1000 genomi di varie popolazioni regionali - consentirà ai ricercatori di produrre simulazioni ancora più realistiche di modelli alternativi dell'evoluzione umana e valutare le probabilità di ciascuno di questi, fino a produrre lo scenario migliore mai realizzato di chi siamo e da dove veniamo.  

Gary Stix, giornalista scientifico, è senior editor della rivista «Scientific American».