Arnold Gehlen

Prospettive antropologiche

il Mulino, Bologna 2005

1.

Arnold Gehlen è uno dei primi studiosi che si è inoltrato sul terreno di un’antropologia che, senza rinunciare alla riflessione filosofia, integra e valorizza nella sua cornice i dati offerti all’epoca dalle discipline scientifiche. Si può ritenere, dunque, un precursore di una branca del sapere che io ho proposto di definire panantropologia.

In tutta la sua opera, Gehlen si riconduce all’intuizione originaria che è alla base del suo pensiero: la definizione della specie umana come una specie singolarmente carente di capacità ad attive istintive, consapevole di questa carenza e pertanto aperta al mondo per adattarlo ai suoi bisogni, vale a dire costretta a produrre la cultura.

Con questa definizione, Gehlen naturalizza la condizione dell’uomo di essere gettato nel mondo a cui, già nel 1927, era pervenuto Heidegger sulla base di una riflessione strettamente filosofica. Nonostante l’apparente convergenza nella definizione dello statuto umano, tra i due autori si dà una differenza radicale, che Gehlen ha sempre rimarcato.

Anche se egli non si è mai dichiarato esplicitamente materialista, non è venuto meno nel corso della sua vita al principio per cui l’uomo è un singolare prodotto della natura il cui funzionamento postula il tenere conto delle strutture biologiche e di quelle culturali. Questo principio lo ha messo al riparo dalle suggestioni metafisiche cui indulge l’ultimo Heidegger e in opposizione rispetto alla tradizione spiritualista che caratterizza, da Kant in poi, la filosofia tedesca.

Prospettive antropologiche rappresenta una sintesi, per alcuni aspetti eccellente, del pensiero di Gehlen, del suo valore e dei suoi limiti, sui quali mi soffermerò in sede di valutazione critica.

Si tratta di una raccolta operata dall’autore stesso di dieci saggi, redatti in epoche diverse. I cui contenuti sono, pertanto, eterogenei, ma polarizzati su tre tematiche fondamentali nel pensiero geheliano: la natura umana, le istituzioni e la tecnica.

L’interesse per la natura umana è costante nella storia della filosofia, ma, ancora agli inizi del Novecento, appare caratterizzato da una tendenza a tenere poco conto degli apporti della scienza. Ciò dipende non solo da una certa presunzione metodologica e da una scarsa conoscenza, ma soprattutto dall’incidenza della distinzione introdotta da Cartesio tra res cogitans e res extensa.

Una scienza globale dell’uomo, nell’ottica di Gehlen, deve anzitutto sormontare tale distinzione:

“Esiste qui evidentemente una tematica biologica ed una pertinente alla scienza della cultura. Questa antica connessione nella quale furono visti in un primo tempo i due aspetti della cosa e nella quale ancora Kant li vide, non è forse casuale: ha sicuramente le sue buone ragioni. L'uomo è un essere complicato nel quale questi due aspetti hanno palesemente pari rilevanza. Si pone di conseguenza la domanda se non si possa sviluppare una rappresentazione, un'immagine dell'uomo, portando avanti insieme di nuovo entrambi questi aspetti principali, mentre l'attività creatrice di cultura di un essere biologicamente organizzato in questo modo e la sua struttura biologica possono in qualche misura chiarirsi a vicenda.” (p. 27-28)

Oltre che essere formulata, però, tale domanda postula una nuova impostazione:

“Nelle scienze empiriche - e io ho inteso considerare tale la filosofia - è un modo di procedere legittimo quello di cambiare la domanda. Certi esempi in fisica, ma anche in psicologia, rendono legittima l'aspettativa che proprio attraverso modificazioni del modo di porre la domanda si potessero ottenere i risultati più sbalorditivi. Non si potrebbe - così si poteva formulare l'idea - trovare un tipo di tema-chiave tale che non vi si ponesse affatto il problema corpo-anima? E questo doveva essere un tema da affrontare in sede di scienza empirica se si voleva assicurarsi il vantaggio di eliminare, insieme al dualismo, tutte le domande metafisiche, cioè le domande alle quali non era possibile dare risposte. Il ruolo di un tale punto di partenza sembra poter essere svolto dall'azione, cioè dalla concezione dell'uomo come un essere in primo luogo agente, là dove «azione» in prima approssimazione deve designare l'attività indirizzata alla modificazione della natura in vista degli scopi dell'uomo.” (p. 33)

“Se si chiedesse da che cosa è caratterizzato in primo luogo il nostro schema, si dovrebbe rispondere: il lato fisico, corporeo dell'uomo e il suo lato interiore, spirituale possono venire concepiti insieme a una sola condizione: che noi osserviamo, dal punto di vista biologico di come un essere si conservi e prolunghi la sua esistenza, che il suo conservarsi intelligente e previdente viene ottenuto proprio attraverso determinate proprietà fisiche. Un essere organicamente così costituito è capace di vivere solo sulla base di una modificazione previdente della natura. Si deve perciò porre al centro di tutti i problemi e domande ulteriori l'azione, e definire l'uomo come essere agente.” (p. 76)

E la praxis, dunque, vale a dire la trasformazione della natura, e non il pensiero a differenziare l’uomo dagli altri animali. Tutti gli esseri viventi cercano di adattarsi all’ambiente, ma l’adattamento di cui l’uomo ha bisogno, e che è riuscito a realizzare, è di ordine del tutto diverso e riconosce la sua matrice in un’organizzazione biologica caratterizzata dalla “carenza”. Gehlen riprende da Herder questo concetto, ma lo elabora in maniera affatto personale:

“Non posso considerarmi innocente dalla colpa di avere insieme allargato il concetto di «essere carente» nonostante la confessata validità soltanto approssimativa di questo concetto, che in primo luogo deve servire soltanto a richiamare l'attenzione sul fatto che l'uomo in qualsiasi ambiente naturale è incapace di vivere per carenza di organi e istinti specializzati. Senza un ambiente specifico della specie al quale fosse adattato, senza uno schema innato di movimento e comportamento (e ciò negli animali significa «istinto»), per carenza quindi di specifici organi e istinti, povero di sensi, privo di armi, nudo, embrionale nel suo habitus, istintivamente insicuro già per via del farsi sentire interiore dei suoi impulsi, egli è chiamato all'azione, alla modificazione intelligente di qualsivoglia condizione naturale incontrata'. Mani e cervello potrebbero venire considerati organi specializzati dell'uomo, ma lo sono in un senso diverso da quello degli organi degli animali: ambigui nella utilizzazione, specializzati per compiti e prestazioni non specializzate, quindi all'altezza degli imprevedibili problemi del mondo illimitato. La prova di sé di un essere tanto arrischiato, cioè mantenersi in vita, può consistere nel suo strato di base solo in un superamento e in una compensazione della sua dotazione carente, e là dove scopriamo le più antiche culture, scopriamo anche gli attrezzi necessari alla vita, le amigdale, i coltelli di selce, le punte di lancia, sempre prodotte con tecniche andate perdute, le tracce di fuoco, eccetera.” (p. 137-138)

“L'uomo è qualificato già dal punto di vista fisico, dalla sua dotazione carente di armi organiche o di mezzi di difesa organici, dalla insicurezza e dallo stato di decostruzione dei suoi istinti, dalle modeste prestazioni dei sensi, in modo tale che io ho ritenuto praticabile a questo proposito l'uso dell'espressione «essere carente» introdotta da Herder... Si può in ogni caso affermare quanto segue: l'uomo, posto come un animale di fronte alla natura grezza, sarebbe in tutte 1e situazioni incapace di vivere con la sua physis innata e la sua carenza di istinti. Queste carenze vengono però compensate attraverso la capacità, che sa rispondere alla più urgente necessità: modificare questa natura grezza, e in realtà qualsivoglia natura, in qualunque modo ciò possa essere fatto, in modo tale che essa possa divenire per lui utilizzabile.” (p. 34)

Il fondamento scientifico dell’essere carente esiste. Gehlen è tra i primi a valorizzare le scoperte di L. Bolk sul ritardo dello sviluppo (neotenia) in rapporto agli altri animali:

“Si è notato già da tempo che l'uomo, considerato morfologicamente, rappresenta per così dire un'eccezione. I progressi della natura consistono per lo più nella specializzazione organica delle sue specie, e quindi nella costruzione di adattamenti naturali, sempre più adeguati alla prestazione, ad ambienti determinati. Un organismo animale «si conserva» in forza della sua specifica organizzazione in una struttura di condizioni, in quanto è «adattato», senza che ci poniamo qui la domanda sul modo in cui questa armonia si è realizzata. Ora, se si considera l'uomo in modo teoricamente spregiudicato, si notano alcuni tratti caratteristici, che in un primo momento sarà sufficiente elencare:

E «organicamente carente di strumenti», senza armi naturali, senza organi di offesa e di difesa o di fuga, con sensi incapaci di prestazioni particolarmente significative, in quanto ognuno dei nostri sensi sarebbe ampiamente superato dagli «specialisti» nel regno animale. E sprovvisto di rivestimento pilifero e senza adattamento alle intemperie, ed anche molti secoli di autoosservazione non gli hanno insegnato se egli possieda degli istinti in senso proprio e quali. Lo si è già notato da lungo tempo, e sia Herder (1772) sia Kant (1784) vi hanno già richiamato l'attenzione. Ma solo recentemente sulla base del contributo di Bolk, anatomista di Amsterdam recentemente scomparso, si è sviluppata una teoria che concepisce tutti i tratti caratteristici particolari della struttura dell'uomo dal punto di vista della «primitività». Con questo termine si intende da un lato la circostanza che certe particolarità organiche, come la dentatura senza interstizi, la mano con cinque dita ed altre, debbano essere «arcaiche», cioè vecchie dal punto di vista evolutivo, in quanto sono comprensibili solo come punto di arrivo di specializzazioni, quali quelle che troviamo presso le grandi scimmie (sviluppo all'infuori del canino, accorciamento del pollice); dall'altro lato l'altra circostanza che altre particolarità (mancanza di pelo, curvatura a volta del cranio con dentatura sottostante, struttura della regione del bacino, eccetera) sono da intendere come una condizione fetale fissata, divenuta durevole. Questo ritardamento, al quale l'uomo deve un habitus per così dire embrionale, è un principio esplicativo di grande valore, perché permette di comprendere anche altre proprietà umane, innanzitutto il tempo di sviluppo prolungato in modo sproporzionato, la lunga inettitudine della fase infantile, la ritardata maturazione sessuale, eccetera. Il complesso di questi tratti caratteristici può venire riassunto sotto la categoria della «non specializzazione».” (p. 73)

Il ritardo dello sviluppo dell’uomo attestato dalla biologia è la causa della sua “apertura al mondo” la quale:

“rientra come una proprietà interna nel contesto delle fondamentali proprietà esterne, delle quali Louis Bolk, il defunto geniale anatomista di Amsterdam, sostenne che sono nel complesso proprietà embrionali stabilizzate e divenute permanenti per tutto il corso della vita: così la curvatura a volta del cranio, la collocazione delle mascelle sotto la scatola cranica, l'assenza di rivestimento pilifero, la struttura del bacino dalla quale deriva l'andatura eretta, eccetera. Anche l'apertura al mondo dell'uomo rappresenta una caratteristica infantile di questo genere che permane stabilizzata, ed è perciò possibile, come afferma Portmann, comprendere una serie di proprietà, che a prima vista sono puramente fisiche, come la durata della gravidanza e il grado ritardato del perfezionamento degli strumenti di movimento e di comunicazione alla nascita, soltanto in interrelazione con la costruzione della nostra vita sociale, e anzi del complessivo modo di esistere aperto al mondo dell'uomo. L'intero afflusso, indeterminatamente aperto, di stimoli che si esercitano sul bambino diviene così addirittura una funzione parziale obbligatoria di maturazioni e sviluppi psichici, che si svolgono nella maggior parte dei mammiferi superiori interamente nel corpo materno.” (p. 89)

La non specializzazione, vale a dire l’assenza di un corredo istintivo che consenta un adattamento quasi automatico all’ambiente, è, per Gehlen, l’aspetto più singolare della specie umana, che proprio per ciò rappresenta un’eccezione. La povertà degli istinti comporta, infatti, come conseguenza che l’uomo si trova gettato in un mondo indeterminato:

“A differenza degli animali, infatti, l'uomo è consegnato a un mondo indeterminato, infinitamente aperto con una sovrabbondanza di possibilità non previste. Non gli è dato alcun organo adattato con precisione all'ambiente che, rispondendo a pochi istinti finalizzati, gli schiuda soltanto quel ritaglio del mondo che è importante per la vita e gli oscuri con delicatezza tutto il resto. L'uomo è invece gettato inerme, privo di istinti, non specializzato, cioè non adattato, in un mondo che proprio per questi motivi è tanto enormemente ricco di contenuti perché sopraffà e travolge con impressioni un essere a cui manca la protettiva limitatezza organica che possiede l'animale, il quale può vivere nel suo corpo perché l'ambiente si armonizza con questo.

La quasi totale mancanza di organi carichi di istinto, specializzati in grado elevato, il mondo come sfera indeterminata infinitamente aperta della sua esistenza e la necessità di vivere scegliendo e prendendo posizione incessantemente, e quindi di agire, tutti questi sono soltanto diversi aspetti della medesima situazione fondamentale umana. Questo mondo, che diversamente dall'ambiente dell'animale non è stato reso amico degli istinti da una sapienza superiore, deve anche venire interpretato agendo. Una percezione interpretata, un moto in preciso accordo con l'oggetto sono già prestazioni che presuppongono un lavoro applicato di mesi e anni della prima infanzia, in un periodo di esercizio lungo, protetto e difeso dall'esterno. L'appropriazione di un mondo aperto, indeterminato, con il risultato tardo e faticoso di credere di cogliere già percependo l'essere-così delle cose, questa appropriazione è, vista dall'altro lato, sviluppo delle nostre possibilità di azione, costruzione di capacità di prestazione e abilità che sono state in precedenza acquisite.” (p. 54)

“La povertà di istinti dell'uomo, vista da lungo tempo, sta in una interrelazione tanto stretta con la non specializzazione del suo habitus complessivo quanto con la sua apertura al mondo: perché che cosa sono - per dirlo brevemente - gli istinti se non coordinamenti innati dei movimenti di genere speciale, dei quali un essere tanto carente organicamente ne possiede solo pochi? E dato che gli istinti possono essere soltanto di elevata conformità allo scopo, in quanto rispondono a stimoli del mondo molto determinati e aggiustati, anche da questo punto di vista l'uomo non può essere un essere istintuale, perché nella sua situazione vitale nulla garantisce che egli incontri segnali di questo genere, esposto come è alla sfera aperta del mondo. Da qui però si origina nell'uomo un profluvio di forza pulsionale non vincolata, da orientare nel corso dell'esperienza e della contrapposizione al mondo, in larga misura eccedente l'ammontare di energia che sarebbe necessario per la mera conservazione della vita, e di conseguenza un bisogno di trasformazione, di disciplinamento, perfino di inibizione, che bisogna vedere e comprendere se si vogliono comprendere due tratti che sono anch'essi palesemente caratteristici: da un lato l'eccezionale energia pulsionale dispiegata in modo inesauribile con cui l'uomo ha trasformato la faccia della terra, e dall'altro lato ciò che vi è di pericoloso, arrischiato, in questione, nella sua organizzazione - «la complessiva debolezza della natura umana abbandonata a se stessa, non difesa da nessuna forma rigida» (Bachofen) - e con essa ancora il potere sovrano delle forme disciplinari, dei costumi, delle morali e delle sanzioni, degli ordinamenti del dominio e della guida, il potere del Leviatano.” (p. 82)

L’apertura dell’uomo al mondo, come conseguenza del suo essere carente, è la matrice dell’azione rivolta ad adattare il mondo ai suoi bisogni, vale a dire della cultura. Ma, nell’ottica gehliana, si tratta di una condizione drammatica, ben lontana dal razionalismo che attribuisce al pensiero un controllo e un dominio sulla realtà (esterna e interna).

2.

Negli animali gli istinti sono guide filogenetiche del comportamento, che aiutano l’individuo ad adattarsi all’ambiente utilizzando moduli già lungamente sperimentati. Anche se si ammette, oggi, che tali moduli non sono del tutto automatici e non escludono la necessità di un qualche apprendimento, è fuori di dubbio che essi riducono di gran lunga lo sforzo di interpretare l’ambiente.

L’allentamento degli istinti realizzatasi con la comparsa della specie umana, associata alla sprovvedutezza neotenica, pone l’uomo di fronte ad un mondo indeterminato, sovrabbondante di possibilità, che egli deve interpretare al fine di porre in essere comportamenti adattivi. L’uomo, insomma, si ritrova gettato nel mondo ed inerme, consapevole oltretutto di questa sua condizione.

Ricostruita a posteriori, l’adattamento intervenuto impedire di apprezzare il carattere drammatico dell’originaria condizione umana:

“L'uomo si è diffuso sulla terra e, nonostante le sue carenze di strumenti fisici, ha assoggettato la natura in misura crescente. Non è possibile indicare alcun «ambiente», alcun insieme di condizioni naturali e originarie che debbano venire soddisfatte perché «l'uomo» possa vivere, ma lo vediamo «conservarsi» ovunque, al polo e all'equatore, sull'acqua e in terra, in foreste, paludi, montagne e steppe. E in effetti egli vive come «essere culturale», cioè sulla base dei risultati della sua attività previdente, pianificata e complessiva, che gli permette, a partire dalle più casuali costellazioni di condizioni naturali, attraverso la loro modificazione provvidenziale e attiva, di mettere a punto le tecniche e i mezzi della sua esistenza. E perciò possibile chiamare «sfera culturale» di volta in volta l'insieme di condizioni originarie attivamente modificate, entro le quali soltanto l'uomo vive e può vivere.” (p. 73-74)

Alle sue origini, però, l’apertura al mondo è una condizione negativa. L’uomo, infatti, si trova investito da un profluvio di stimoli e da un eccesso pulsionale, che lo costringono ad agire, ma all’insegna di un’angoscia perpetua sottostante il suo essere:

“Per via della carenza di istinti e degli organi loro corrispondenti, univocamente adattati all'ambiente, cioè specializzati, per via dell'involuzione di numerosi organi di difesa, di attacco e di selezione che non sono negati all'animale, per via del singolare eccesso di impulsi che si accompagna alla carenza di istinti e non specializzazione, in breve per via della dipendenza, già dal punto di vista fisico, dell'uomo dal suo intelletto, ovunque lo vediamo, l'uomo possiede una certa disposizione alla degenerazione e una plasticità, che facilmente eccede diventando lussureggiante, e una deperibilità di una quantità di possibilità di adattamento spesso non sollecitate, e inoltre una tendenza alla degenerazione delle sue pulsioni che risiede nell'eccesso di impulsi già menzionati.” (p. 61)

“L'«apertura al mondo» dell'uomo (Scheler) è propriamente, considerata dal punto di vista biologico, uno stato di cose negative. All'animale la saggezza della natura ha schermato tutto ciò che non si presenta alla percezione come importante per la vita in quanto nemico, preda o segnale sessuale o, in altri casi, in un campo percettivo con contenuti biologici sovrabbondanti, solo l'oggetto del comportamento, ciò che è e può divenire istintualmente significativo. L'uomo è invece posto di fronte a un profluvio di stimoli, a una ricchezza del percepibile comprensibile da un punto di vista biologico soltanto se la si pone in relazione alla necessità di trovare occasioni per la propria attività di cui vive fisicamente, in condizioni qualsiasi, mai adatte, e quindi multiformi e svariate in grado fortuito. L'onere che ciò comporta viene da lui superato grazie alla sua attività, anche se vi è molta strada da fare prima che venga raggiunto lo sguardo d'insieme senza fatica, che venga riconosciuta la ricchezza di contenuti, che venga sviluppata ed esercitata la capacità di movimento e di lavoro manuale. Possiamo quindi designare questi sviluppi anche come processi di esonero.” (p. 77)

La difesa dall’angoscia è la produzione della sfera culturale, che implica le interpretazioni che l’uomo fornisce della sua condizione e del mondo in cui si trova gettato; gli strumenti tecnici che egli produce e le trasformazioni del mondo che, attraverso essi, realizza; le istituzioni sociali.

Gehlen scrive a riguardo:

“Proprio nella misura in cui il mondo si sottrae alla presa dell'uomo, nella misura in cui non offre alcun appiglio all'azione modificatrice e utilizzatrice dell'uomo, e quindi nelle sue entità immodificabili, esso viene interpretato a partire da un senso, e a queste interpretazioni vengono collegate per lo meno sequenze di azioni, più precisamente di natura simbolica. Dal punto di vista che sto sostenendo, una filosofia o visione del mondo o mitologia appare come una interpretazione del senso proprio delle entità del mondo non modificabili, là dove queste interpretazioni divengono moventi per un agire che in un primo tempo è culturale o rituale, che si pone in rapporto con quella parte del mondo alla quale bisogna rassegnarsi, come per esempio la morte. (p. 39)

L’uomo può sopravvivere attraverso il suo agire, ma rimangono comunque aspetti della sua realtà esistenziale e del mondo rispetto ai quali è letteralmente impotente. Lo scarto tra l’agire e l’impotenza è colmato per un verso dalla mitologia e per un altro dalla mistificazione per cui ogni cultura assegna ai suoi valori un carattere assoluto:

“Le norme giuridiche, religiose, estetiche, politiche e simili, in una società possono divergere pienamente da quelle che sono in vigore in un'altra società. Sorge l'impressione di un grado molto elevato di indeterminazione, almeno nel senso di imprevedibilità. Così mi sembra impossibile anche definire concetti come quello di «diritto» o di «religione» in modo tale che possano anche realmente comprendere tutti i fenomeni noti così informalmente definiti. Per esempio, che possa comprendere nel caso della religione anche il primo buddismo, cioè una religione redentiva (dottrina della redenzione? tecnica della redenzione?) che non conosceva dèi o creatori del mondo. Le diverse culture si differenziano nelle loro prospettive e negli elementi che le compongono in modo altrettanto radicale delle lingue, la cui infinita, e anzi categorica, diversità vale anche per gli altri campi culturali, e quindi per le forme della famiglia, della proprietà, del dominio, eccetera...

Ogni cultura esperisce le norme e conformazioni culturali da lei elaborate, per esempio il suo pensiero giuridico, le sue forme di matrimonio, la sua scala di interessi, passioni e sentimenti, come le sole naturali e secondo natura. Essa di regola esperisce le norme di un'altra cultura o società come curiose, comiche, particolari, per lo più però come innaturali, anormali, contro natura, o addirittura, procedendo oltre, come peccaminose e riprovevoli.” (p. 117)

La naturalizzazione delle norme culturali non ha nulla a che vedere con una matrice biologica: essa attesta semplicemente che esse non sono poste in dubbio.

Si tratta di una difesa che ogni gruppo culturale adotta nei confronti del mondo indeterminato dei possibili valori culturali. Essa, al tempo stesso, irrigidisce e fragilizza le culture. E’ inevitabile, infatti, che, nel corso della storia, intervengano confronti tra culture, che scuotendo i presupposti impliciti in ciascuna di esse, possono produrne la dissoluzione o la ristrutturazione:

“I modi culturali di comportamenti, i generi di pensiero e di esperienza, le forme di reazione, eccetera, sviluppati in una determinata società appaiono «naturali» a coloro che sono stati allevati entro questa società; invece quelli che se ne discostano appaiono ridicoli, inauditi o perversi. Quando queste norme vengono scosse - ciò che sempre avviene in qualche momento, anzitutto per opera di un contatto con l'esterno o di un certo grado di complicazione del sistema culturale - allora appaiono arbitrarie o convenzionali, e ad esse se ne contrappongono altre che si impongono come naturali. Ciò che può ora però ottenere il carattere di naturale sarà a sua volta determinato in ultima istanza dal sistema dei presupposti della cultura in questione, che quindi in ultima istanza si limita a sostituire un principio dei modi di comportamento culturalmente modellati, che ha perso l'apparenza della naturalità, con un altro che ha guadagnato questa apparenza. A partire dal 1885 l'autocomprensione di questo processo suole essere espressa con il termine «rivoluzione» (Karl Bleibtreu).” (p. 123)

Gehlen, dunque, è un antesignano del relativismo culturale.

La componente di drammaticità, però, che egli associa alla sprovvedutezza umana e all’angoscia dell’apertura ad un mondo indeterminato, lo porta ad una concezione delle istituzioni che è difficile non considerare conservatrice. Il conservatorismo gehliano ha una precisa ragione d’essere. L’allentamento critico dell’apparato istintivo nell’uomo, coincide, infatti, secondo Gehlen con un eccesso di energia pulsionale potenzialmente pericolosa che va incanalata per proteggere l’individuo e la società dalla “degenerazione:

“L'uomo è già fisicamente predisposto per il controllo, la disciplina, l'allenamento, un'ordinata sollecitazione dall'alto che non sembra già indirettamente garantita dal mero lavoro necessario per la vita; infatti noi vediamo ovunque un ordinamento di regole e consuetudini della condotta di vita ancora più perfezionato, anzi sviluppato fino nei particolari. I primi ambienti culturali ci mostrano nel modo più chiaro come il bisogno dell'intelletto di interpretazioni concordanti e ordinate sia congiunto a quello che il corpo ha di sollecitazione coerente, formata e metodica, e questa è soprattutto la funzione svolta da quei primi sistemi-guida che sono le religioni e le visioni del mondo. A questo proposito le difficoltà maggiori sono create dalla necessità di disciplinare la vita pulsionale umana, innanzitutto nella direzione di una certa regolarità che comprende occasionali privazioni. Infatti nella nostra natura non è prevista né un'assoluta regolarità né una stabilmente ordinata soddisfazione dei bisogni che non lascerebbe mai spazio a privazioni che occasionalmente mobilitino le riserve della nostra physis.” (p. 61)

“Va aggiunta a questo punto ancora un'altra proprietà fondamentale della vita pulsionale umana, cioè la sua cronica e ininterrotta vivacità ed eccitabilità, ciò che Max Scheler aveva chiamato eccesso pulsionale. Si ha talvolta l'impressione che diversi gruppi di residui istintuali siano fra loro in concorrenza nel campo dell'azione per il controllo durevole e contemporaneo dello stesso campo di espressione, cioè della facoltà motoria. Ciò li costringe a compiere grandi semplificazioni e fusioni, che poi noi designiamo come gelosia, ambizione, desiderio di guadagno, senso del dovere. Sicuramente i costumi, e le consuetudini giuridiche e le istituzioni di una società costituiscono la grammatica, secondo le cui regole devono articolarsi le nostre pulsioni; forse sono questi soprattutto i grandi semplificatori, che producono e sorreggono dall'esterno quelle grandi sintesi in cui i diversi impulsi si fondono in atteggiamenti. Se questi poteri di sostegno vengono scossi, allora queste intenzioni si sfasciano in impulsi mutevoli, che balbettano e si esprimono in modo incomprensibile perché hanno perduto la facoltà della parola nel suo complesso...

Possiamo affermare ora in generale: se consideriamo l'uomo come essere sociale, le istituzioni di una società, cioè le forme sociali, le forme della produzione, le forme del diritto, i riti, eccetera, costituiscono la grammatica e la sintassi e perciò le forme di espressione entro le quali devono muoversi le
ripartizioni degli impulsi e degli istinti degli esseri umani. Avviene come se questo repertorio di istituzioni funzionasse come una chiusa che canalizzasse determinati impulsi e ne trattenesse altri. (p. 94-95)

La necessità delle istituzioni si fonda per l’appunto sulla necessità di contenere l’energia pulsionale umana:

“L'interiorità umana è un territorio troppo mosso perché si possa fare reciproco affidamento su di esso. Le istituzioni operano come piloni di sostegno e come puntelli esterni, la cui mutevolezza è provata dalla storia e dalla storia della cultura umana nel loro complesso.” (p. 42)

“Gli istinti non determinano nell'uomo, come nell'animale, singoli svolgimenti del comportamento ben stabiliti. Invece ogni cultura estrae, dalla molteplicità dei possibili modi di comportamento umano, determinate varianti e le eleva a modelli di comportamento sanzionato socialmente, che sono vincolanti per tutti i membri del gruppo. Tali modelli culturali di comportamento o istituzioni significano per l'individuo un esonero da troppe decisioni, un indicatore stradale attraverso l'eccesso di impressioni e stimoli, dai quali l'uomo aperto al mondo viene sommerso.

Da questa prospettiva le istituzioni appaiono come la forma dell'esecuzione di compiti o del superamento di circostanze (importanti per la vita), dato che la riproduzione o la difesa o la nutrizione esigono una cooperazione regolata e durevole; dall'altro lato appaiono come le forze stabilizzanti: sono le forme che un essere per sua natura arrischiato o instabile, effettivamente sovraccarico di oneri, trova per sopportarsi vicendevolmente e per sopportare se stesso, qualcosa in virtù della quale si possa far conto e fare affidamento su se stessi e sugli altri. Da un lato in queste istituzioni gli scopi della vita vengono trattati e praticati collettivamente, dall'altro lato gli esseri umani in queste istituzioni si orientano a definitive certezze su ciò che va fatto e ciò che non va fatto, con lo straordinario guadagno di una stabilizzazione anche della vita interiore, di modo che essi non debbano in ogni circostanza contrapporsi affettivamente o estorcersi decisioni fondamentali.” (p. 105-106)

“L'interna instabilità della vita istintuale umana appare quasi senza limiti. Sono forme inibitorie fisse e sempre anche limitanti, lentamente sperimentate nel corso dei secoli e millenni quali il diritto, la proprietà, la famiglia monogamica, il lavoro diviso in modo determinato, che hanno spinto e disciplinato le nostre pulsioni e intenzioni in direzione delle esigenze in grado elevato esclusive e selettive che si possono chiamare cultura. Queste istituzioni come il diritto, la famiglia monogamica, la proprietà, non sono in alcun senso naturali, e possono venire molto rapidamente distrutte. Altrettanto poco naturale è la cultura per i nostri istinti e atteggiamenti, che devono piuttosto venire irrigiditi, contenuti e spinti verso l'alto da quelle istituzioni. E quando si abbattono i puntelli, noi ci primitivizziamo molto rapidamente. Perciò non vi è, come credeva Lorenz, una disgregazione di istinti originariamente sicuri, ma la reistintivizzazione, il ritorno alla fondamentale e costituzionale insicurezza e capacità di degenerazione della vita istintuale. Quando vengono meno e vengono distrutte le protezioni e stabilizzazioni esteriori che risiedono nelle tradizioni stabilite, allora il nostro comportamento diviene privo di forma, determinato dagli affetti, istintivo, non calcolabile, inaffidabile. In quanto anche in condizioni normali il progresso della civiltà procede distruggendo, cioè smantella tradizioni, sistemi giuridici, istituzioni, esso naturalizza l'uomo, lo primitivizza e lo ributta nella instabilità naturale della sua vita istintuale. I movimenti verso il decadimento sono sempre naturali e verisimii; i movimenti verso il grande, l'esigente e il categorico sono sempre forzati, faticosi e improbabili. Il caos, proprio come ritenevano i più antichi miti, è da collocare all'inizio e naturale, il cosmos è divino e minacciato.

Sostengo apertamente una posizione che è il rovescio di quella del Settecento: è giunto il tempo per un antiRousseau, per una filosofia del pessimismo e dell'esprzt de serieux. «Ritornare alla Natura» significa per Rousseau: la cultura sfigura l'uomo; lo stato di natura lo rivela in piena ingenuità, giustizia e ispirazione. Contro Rousseau, e all'opposto di quanto egli afferma, ci appare oggi che lo stato di natura nell'uomo è il caos, la testa della Medusa al vedere la quale si è pietrificati. La cultura è l'improbabile, cioè il diritto, la costumatezza, la disciplina, l'egemonia della moralità. Ma questa cultura divenuta troppo ricca, troppo differenziata, porta con sé un esonero che si è spinto troppo lontano e che l'uomo non sopporta. Quando si fanno avanti i prestigiatori, i dilettanti, gli intellettuali saltimbanchi, quando si alza il vento della pagliacciata generale, allora si allentano anche le istituzioni più antiche e i corpi professionali più rigidi: il diritto diventa elastico, l'arte nervosa, la religione sentimentale. Allora l'occhio esperto scorge già sotto la schiuma la testa di Medusa; l'uomo diviene naturale e tutto diventa possibile. Ciò deve significare: ritornare alla Cultura!” (p. 90-91)

Alla necessità delle istituzioni l’uomo deve arrendersi accettale al di là del grado di umanizzazione che esse consentono:

“La complicazione, l'unilateralità e spesso la bizzarria delle istituzioni umane possono venire concepite molto bene sullo sfondo di una concezione dell'uomo che afferma che egli è l'essere piantato in asso dall'istinto. Se è vero che l'uomo è aperto al mondo, che egli è determinabile nel suo comportamento da eventi esterni, da nuovi dati, se è vero che egli è impoverito e reso insicuro nel suo dominio istintuale, allora quella che possiamo chiamare la sua seducibilità diventa uno dei tratti caratteristici principali. Ed è notoriamente quella istanza che stabilisce direttive e nuclei di stabilizzazione nell'uomo, quella che è designata con il termine «morale», il cui senso consiste nel garantire la sicurezza e l'imperturbabilità del comportamento su una base di un fiducia reciproca. (p. 41)

3.

L’eccesso pulsionale della natura umana è la matrice di un altro concetto coniato da Gehlen di grande interesse: l’esonero. Si tratta di un concetto solo apparentemente complesso. In conseguenza della carenza e dell’apertura ad un mondo indeterminato, la condizione umana comporta un onere troppo pesante, che la cultura e le istituzioni tendono a ridurre in una certa misura esonerandolo, mettendolo cioè in condizione di vivere senza fare troppi sforzi.

L’esonero è semplificato anzitutto dal linguaggio, ma esso traspare da tutta la cultura ed è portato al suo massimo dalla tecnica:

“Questa accentuazione della polifonia della nostra sensibilità originaria e dell'instancabile attività attraverso la quale noi giungiamo a costruire insieme le prestazioni del percepire, del parlare, dell'utilizzazione motoria dell'azione, era importante allo scopo di mostrare come l'uomo nella sua dotazione carente di strumenti organici sia costretto ad appropriarsi e ad elaborare il mondo in tutti i particolari e a far crescere dentro di sé un sistema di consuetudini del comportamento vitale e dell'agire pratico. Di fatto, di questa immediata molteplicità di attività e questa vitale molteplicità di strati con cui il bambino si esercita nella scoperta del suo mondo, è soltanto il primo strato, peraltro quello fondamentale, che viene per lo più valutato dalla filosofia, soltanto perché la visione del mondo «adulta», che in realtà è un risultato, si presenta come originaria e perché essa tutto sommato contiene il contrario della prima: il nostro percepire sembra passivo, la nostra attività limitata ad azioni abituali, quotidiane, le cose appaiono unilaterali, conoscibili in modo sufficiente soltanto otticamente o addirittura concettualmente. Nel frattempo si è svolto infatti alle spalle della coscienza un infinitamente importante secondo passo della nostra esperienza e della nostra costruzione dell'esperienza: si sono costituite forme della percezione e in generale del sapere vitale più elevate, simboliche, cioè semplicemente abbreviate e quindi esoneranti, che esonerano intere concatenazioni esperienziali ampie e conquistate con difficoltà, in quanto le mettono in cortocircuito. Così vediamo il peso, la durezza, la mollezza, l'umidità o la secchezza delle cose, o i loro «valori di maneggiabilità», senza tendere la mano per constatare questa impressione che originariamente è certamente tattile, o senza dover mettere in moto i nostri organi motori. Noi in conclusione vediamo «simbolicamente», e il nostro vedere può diventare un gettare lo sguardo/trascurare (Ubersehen) nel doppio senso: un gettare lo sguardo a grandi linee, per il quale è sufficiente che le cose siano accennate in modo meramente simbolico, e un trascurare in modo regolato ciò che al momento non interessa o non attrae.” (p. 56-57)

“Si faccia ora attenzione: quando noi abbiamo «appreso» a vedere i valori di maneggiabiità, siamo esonerati dal primo compito della scoperta e siamo divenuti disponibili per una utilizzazione delle cose, per la quale è necessario un mero indizio di ciò che è stato scoperto. Il bambino impara così a trasporre in conoscenze meramente simboliche gli stati di fatto scoperti. Questo è il risultato proprio di quella coordinazione in cui consiste un autentico processo esperienziale compiuto, disbrigante, disponente. Questo risultato è di natura pratica, e la nostra percezione è quella di un essere che deve riuscire a finirla con la scoperta delle cose, per passare alla loro utilizzazione. Una distinzione fra avvenimenti «fisici» e «psichici» sarebbe qui puramente dogmatica e innanzitutto irrealizzabile.” (p. 58-59)

“Il mondo conosciuto univocamente, privo di sorprese, dell'adulto di oggi, che ammette la sua ampia misura di passività e inattenzione, è soltanto il modo di apparire di un mondo pienamente dominato, in cui si fa attenzione solo alle percezioni più importanti - nell'ambito del lavoro quotidiano - e ciò soltanto in pochi movimenti esercitati che sembrano già naturali e che nascondono un'infinità di prestazioni non ancora nate, di impressioni non ancora accennate, e di salutari momenti non ancora vissuti.” (p. 58)

Attraverso la cultura, le istituzioni e la tecnica, dunque, l’uomo, in virtù dell’esonero che essa hanno progressivamente prodotto, si è posto al riparo dall’eccesso pulsionale che caratterizza la sua natura. Ma, secondo Gehlen, se ne è posto troppo al riparo con il duplice rischio che l’assuefazione lo passivizzi, inibendo la sua apertura creativa ad un mondo che rimane per molti aspetti indeterminato, e che l’eccesso pulsionale frustrato si canalizzi in direzioni degenerative.

Il conservatorismo di Gehlen implica una critica alla società industriale che non è molto distante da quella espressa da Freud ne Il disagio della civiltà. Purtroppo la ben nota adesione di Gehlen al nazismo e la sua teoria, sicuramente conservatrice, delle istituzioni hanno indotto a squalificare quella critica. A ben vedere, però, e pur partendo da diversi presupposti, essa non è radicalmente diversa da quella di Marcuse.

4.

Se si prescinde da una critica ideologica, il pensiero di Gehlen rappresenta un contributo di grande interesse ai fini della costruzione di una panantropologia. in esso, però, vanno distinti due aspetti.

L’assunzione dell’uomo come prodotto della neotenia, come essere sprovveduto e carenziale, benché ripresa da Herder, che lo definisce addirittura “spoglio e indifeso, timido e inerme e per colmo di sventura defraudato di tutte le guide dell’esistenza”, è un approdo definitivo dell’antropologia, confermato inconfutabilmente dalla biologia evoluzionistica più recente.

L’angoscia intrinseca a questa condizione naturale ha indotto la nostra civiltà a negare questo dato e ad identificarlo con la condizione propria del bambino, a cui si contrapporrebbe quella dell’uomo adulto, maturo e padrone di sé. Ma proprio l’orientamento adultomorfo della nostra cultura, che cattura sempre più precocemente anche gli adolescenti, attesta che quell’angoscia esiste e, per essere lenita, richiede il confronto consapevole con essa piuttosto che la fuga e la rimozione.

Non è un’impresa semplice, perché, come ha giustamente rilevato Gehlen, la cultura e la tecnica concorrono entrambe ad esonerare l’individuo da quel confronto.

Un cambiamento culturale a riguardo può avvenire solo restituendo agli esseri umani la consapevolezza della loro origine naturale, del carattere eccezionale della specie cui appartengono e delle singolari caratteristiche psichiche della stessa. Incentrandosi su di un’ottica naturalistica, tale cambiamento si contrappone radicalmente al tentativo della religione di sfruttare l’angoscia inerente la consapevolezza esistenziale a fini metafisici.

Tra le singolari caratteristiche psichiche rientra senz’altro l’apertura al mondo di cui parla Gehlen. Non vi è alcun dubbio che tale apertura apre l’uomo sul fronte dell’infinito, che implica indefinite possibilità di organizzazione della cultura e delle istituzioni, nonché l’esercizio illimitato della creatività simbolica. La consapevolezza di tale apertura, però, può (o potrebbe) comportare anche il superamento dell’etnocentrismo, l’interazione tra diverse culture nella direzione dell’integrazione tra i loro sistemi di valore, e il procedere verso un’organizzazione istituzionale della società che sia più conforme ai bisogni intrinseci della natura umana.

Perché ciò eventualmente avvenga, c’è però un nodo antropologico da affrontare e da risolvere.

L’eccesso pulsionale di cui parla Gehlen è semplicemente identificabile con l’avvento di una indefinita libertà prodotta dall’allentamento del corredo istintivo. Che l’uomo abbia avuto e abbia ancora oggi un atteggiamento ambivalente nei confronti di questa indefinita libertà, nel senso di aspirare ad essa e, allo stesso tempo, di temerla, è fuori di dubbio.

In un’ottica naturalistica, però, occorre ammettere che sia la carenza che l’apertura al mondo non sono l’espressione di un maligno tiro della natura nei confronti dell’essere umano, bensì le condizioni ontologiche che hanno favorito la socializzazione e la strutturazione sociale. rappresentano, insomma, i presupposti sulla cui base l’uomo ha riconosciuto se stesso consapevolmente come essere radicalmente bisognoso dell’Altro.

Su questa base, tali presupposti possono essere interpretati univocamente come atti a sancire il bisogno di appartenenza come bisogno primario della natura umana.

L’apertura al mondo, però, comporta anche l’intuizione da parte di ogni individuo di molteplici possibilità di porsi nel mondo e di interagire con esso sulla base del consenso o del dissenso rispetto alle tradizioni, alla cultura e alle istituzioni. Molla motivazionale socializzante, essa, non di meno, si configura come matrice del bisogno di individuazione, che tende ad esplorare i mondi e i modi di essere possibili per l’uomo.

Non è impossibile, sulla carta, ipotizzare un mondo che dia spazio ad entrambi i bisogni, la cui soddisfazione porta l’uomo al di là dell’angoscia esistenziale.