Dean Falk

Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio

Bollati Boringhieri, Torino 2011

Indice
Prefazione
Lingua madre
1. Il silenzio è d'oro
La maternità stile scimpanzé,
Attaccati a costo della vita,
Gesti e vocalizzazioni degli scimpanzé,
Comunicazione fra madre e figlio: una via a doppio senso
2. Consolare parlando
La maternità in stile umano
Il parto nel mondo
Aggrapparsi e lasciarsi andare
Comunicazione madre-figlio: una differenza musicale
3. E il bimbo cade giù
Gli esperimenti di Harlow
Come agisce l'evoluzione
La deambulazione eretta: il catalizzatore di un esperimento preistorico
Prima dei marsupi
4. In che modo i nostri antenati trovarono la loro voce
Il turno di notte
Lo scalpiccio dei piedini fossili
Il bimbo viene messo giù
5. L'origine del linguaggio
Dissodare il terreno
Dal pianto alla lallazione
Il maternese è universale?
6. Che cosa c'è in un nome?
Dalla lallazione alle parole
La grammatica
Il grande dibattito sulle origini del linguaggio
Che cosa c'è in un nome?

7. Lei avrà la sua musica
Il significato della musica
La musica in culla
Da dove viene la musica?
8. Gesti antichi, arte moderna
Che cosa c'è in un gesto?
Il ruolo della comprensione della mente altrui
Gesti, voci e origini del linguaggio
Arte congelata
Ghirigori nella polvere
9. Ritrovare la nostra lingua
L'evoluzione del cervello
Dalle mani prensili ai cervelli «prensili»
Gli specchi del cervello, 233 Dov'è tom ?
Un futuro affascinante
Madri e figli, passato e futuro
Ringraziamenti
Bibliografia
Indice analitico
Prefazione

Come abbia avuto origine il linguaggio è un problema intellettualmente, filosoficamente ed emotivamente stimolante. Il tema delle origini dell'uomo, dell'intelligenza e della nostra unicità come specie suscita pareri contrastanti, che si riflettono nelle domande che oggi ci si pone: il linguaggio emerse milioni di anni fa, evolvendosi lentamente, oppure ebbe origine molto più recentemente e in modo improvviso? Il linguaggio primitivo (protolinguaggio) derivò dai suoni animali dei nostri antenati più remoti, oppure derivò dai gesti? Il linguaggio si evolse principalmente per il pensiero, oppure fu sempre usato per la comunicazione sociale? E qual è il nesso tra la lingua e lo sviluppo della musica?

Molte sono le teorie, in reciproco contrasto. Credo, tuttavia, che la maggior parte dei ricercatori cerchino le origini del linguaggio nel periodo di tempo sbagliato: si concentrano sulla recente evoluzione dell'Homo sapiens degli ultimi duecentomila anni, perdendo così una parte cruciale del puzzle. Questo libro offrirà una panoramica più vasta. La chiave per capire le origini del linguaggio non si trova dopo lo sviluppo del protolinguaggio, circa due milioni di anni fa; ma prima, in quel periodo di passaggio, avvolto nel mistero, che va dalla separazione dei nostri antichi progenitori dagli altri primati, fra i cinque e i sette milioni di anni fa, fino alla prima apparizione del protolinguaggio.

Particolare anche più importante: molti ricercatori hanno mancato di cogliere gli indizi su come il linguaggio potrebbe essere emerso che ci vengono forniti ogni giorno dai neonati e dai bambini che muovono i primi passi. Mentre i bambini imparano la lingua, i genitori parlano con loro in un modo speciale, conosciuto come linguaggio bambinesco, linguaggio musicale o maternese. Alcuni linguisti hanno argomentato che il maternese non è universale, ma io dimostrerò che il maternese esiste in tutte le società, talvolta in forme mascherate, adattate ai vari usi e costumi e ai tabù culturali.

Una delle ragioni per cui non si è capito il ruolo svolto dal maternese nello sviluppo del linguaggio potrebbe avere a che fare con assunzioni relative al genere. Almeno fin dai tempi di Darwin, gli uomini sono stati visti come i principali promotori dell'evoluzione, in ragione del loro ipotetico ruolo in attività come la caccia, la produzione di utensili e la guerra. Più recentemente, alle donne è stato concesso l'onore di essere pure considerate dei propulsori evolutivi, per via del ruolo che avevano nella raccolta di cibo e nell'assistenza alle figlie nell'allevamento della progenie. Tuttavia, nonostante l'intenso e continuato interesse circa le origini del linguaggio, non si è prestata molta attenzione su come abbia avuto origine il maternese. Questo libro vuole dimostrare come il maternese sia il linguaggio comune ai bambini di tutto il mondo, che lo utilizzano per imparare a esprimersi, dal momento in cui nascono fino a quando cominciano a parlare e a camminare, e quanto queste osservazioni possono dirci sulla comparsa del linguaggio nella nostra specie.

Partendo dalle testimonianze fossili dei nostri antenati, fino ad arrivare alle più recenti scoperte sullo sviluppo infantile, traccerò un quadro completamente nuovo delle origini del linguaggio. I fossili mostrano un dilemma evolutivo, che si presentò quando i nostri antenati cominciarono a camminare su due gambe. Il restringimento del canale del parto, associato con l'assunzione dell'andatura eretta, rese il parto estremamente doloroso e pericoloso. Come spesso accade, questa situazione critica fu risolta da una mossa evolutiva equilibrante: solo i bambini più piccoli, meno sviluppati (e le loro madri) sopravvissero alle ordalie del parto. A causa della loro immaturità fisica, a questi neonati mancava la capacità di aggrapparsi alle madri senza essere sostenuti, una capacità che i cuccioli delle scimmie e delle scimmie antropomorfe sviluppano molto rapidamente. Prima dell'invenzione dei marsupi, le donne non avevano altra scelta che portare i loro bambini indifesi appoggiati sui fianchi o tra le braccia. E, cosa ancor più importante, erano costrette a mettere giù i loro neonati mentre raccoglievano il cibo.

Senza alcun dubbio i bambini, separati dalle loro madri, si saranno agitati, proprio come fanno oggi, e le affaccendate mamme preistoriche avranno tentato di calmarli. Queste interazioni madre-neonato furono la prima tessera nella sequenza di eventi che portarono alle prime parole dei nostri progenitori e, più tardi, alla comparsa del protolinguaggio.

Il maternese può essersi fatto strada tra i nostri giovani antenati in altri affascinanti modi. Così come ci sono contrastanti teorie sulle origini del linguaggio, allo stesso modo gli esperti sono divisi su quando, come e perché nacque la musica, e se essa avesse o meno una funzione evolutiva. Alcuni, come Steven Pinker, credono che la musica rappresenti un divertente ma altrimenti inutile allargamento (una «torta alla panna uditiva») della macchina neurologica, che si evolse per scopi diversi. Altri ricercatori respingono l'idea che la musica sia scaturita dal linguaggio, e sono a favore della teoria inversa, secondo le riflessioni fatte tanto tempo fa da Charles Darwin. Una cosa è certa: i bambini, ovunque, hanno una grande sensibilità musicale, quindi non sorprende che la gente, da un capo all'altro del mondo, canti loro ninne nanne e suoni per loro canzoni. Spiegherò perché credo che la musica e il linguaggio siano nati simultaneamente e nella loro completezza in milioni di anni di evoluzione mentre, lentamente, i due emisferi del cervello preposti alla musica e al linguaggio, il destro e il sinistro, si allargavano e miglioravano l'elaborazione dei suoni complessi.

Anche il gesto potrebbe aver giocato un ruolo, non solo nell'evoluzione del linguaggio ma anche nella nascita dell'arte. Il moderno sviluppo artistico dei bambini eguaglia la prima, sensazionale apparizione e il successivo sviluppo delle espressioni artistiche degli ominini, osservabili attraverso la documentazione archeologica. Così come la musica, anche disegni e pitture sembrano essere apparsi molto prima di quanto molti ricercatori credano.

Anche alcuni processi mentali, come l'abilità di sintetizzare i dati, si sviluppano nei bambini durante la loro crescita e contribuiscono al fiorire delle loro capacità verbali, musicali e artistiche. Tali abilità devono essersi evolute mentre i nostri antenati diventavano esseri parlanti e creativi, e noi vedremo come questi cambiamenti nel cervello ne facilitarono il processo.

Il libro focalizza in particolare l'attenzione su quanto i genitori di bambini piccoli vedono, sentono e fanno ogni giorno. Queste osservazioni fanno pensare che, durante la straordinaria evoluzione della nostra specie, i neonati abbiano avuto un ruolo cruciale. Se Madre Natura non avesse favorito la nascita di bambini più piccoli, meno sviluppati, a scapito di neonati più robusti, i nostri antenati non avrebbero mai inventato il maternese. E senza il maternese, i talenti artistici e intellettuali della nostra specie non sarebbero sbocciati. Non avremmo ora i computer, Internet, o i libri tramite i quali scoprire il mistero delle nostre origini. Non saremmo diventati quelli che siamo oggi. Ma, come vedremo, Madre Natura favorì bambini piccoli e indifesi, e le prove che essi affrontarono influenzarono radicalmente le interazioni con le loro madri. Il resto, come si dice, è preistoria.

2. Consolare parlando

Una madre stringeva il suo bambino Una madre stringeva / il suo bimbo al seno / e mentre lo confortava diceva / per placare il suo dolore / dormi dolcemente mio caro, / dormi profondamente bimbo mio / poiché tu sei il mio tesoro / la mia estasi la mia gioia.

Ninna nanna gallese

Cercando indizi sull'evoluzione delle cure maternali, dobbiamo riferirci alle culture contemporanee che più assomigliano a quelle dei nostri primi antenati. Poiché la maggior parte dell'umanità è stata radicalmente trasformata dall'industrializzazione, gli antropologi hanno ragionato sull'evoluzione umana concentrandosi sulle società non industrializzate (o "tradizionali") in via di estinzione. In questo capitolo faremo come loro. Dobbiamo tenere a mente, tuttavia, che per quanto lo stile di vita delle società tradizionali somigli a quello dei nostri primi antenati, sarebbe un errore equipararle.

Le società moderne che vivono di caccia e raccolta, ad esempio, si avvalgono di una serie di invenzioni moderne: mezzi di trasporto, condivisione del cibo all'interno del gruppo, accampamenti, case base, insediamenti. Esse usano anche moderni utensili e tecnologie, quali trappole, arco e frecce, reti, tagliole, pentole per cucinare, e vestiti.1 Come ha spiegato Frank Marlowe, un antropologo evoluzionista della Florida State University, dobbiamo ignorare gli effetti che questa tecnologia ha sui moderni cacciatori e raccoglitori se vogliamo confrontare il loro stile di vita a quello dei nostri antenati.

Questo capitolo quindi si focalizza su alcune culture non industrializzate per scoprire l'essenza della maternità contemporanea, delle pratiche di allevamento dei bambini e della comunicazione fra madre e figlio. Che cosa c'è di universale in ciò? Che cosa no? Le donne condividono qualche comportamento materno con gli scimpanzé? Più specificamente, possono le società non tradizionali gettare luce su come sono emerse le vocalizzazioni tra madri e figli che contraddistinguono la nostra specie?

La maternità in stile umano

Come abbiamo visto, le femmine delle scimmie antropomorfe partoriscono facilmente perché le teste e le spalle dei loro piccoli sono così piccole. Per le madri della nostra specie, invece, può trattarsi di un processo molto doloroso. E una realtà che conosco di prima mano, avendo fatto l'esperienza di un parto senza assistenza medica per entrambe le mie figlie. Nonostante il fatto che i nascituri umani siano più robusti di quelli dei primati, non è questo il fattore che rende difficoltosa l'espulsione, e nemmeno il fatto che i feti siano relativamente più larghi rispetto alle madri o, contrariamente all'opinione comune, che sia la notevole dimensione della testa.2 Il travaglio è reso difficoltoso per le donne dalla modificazione pelvica che ha dovuto accogliere la nuova disposizione dei muscoli preposti all'andatura eretta,3 un processo che ha fatto perdere al canale del parto la sua ampiezza.

Si tratta di un momento difficile non solo per le donne: la discesa lungo il canale del parto può essere pericolosa anche per il nascituro. Secondo Sarah Blaffer Hrdy:

Il momento della nascita, quando l'alieno e spettrale mondo dei feti viene in contatto con il mondo umano, è periglioso. Se le cose si mettono male durante il passaggio del largo cranio del bambino nel canale del parto, quel mondo spettrale può facilmente reclamare la vita della madre. E il neonato a mediare fra questi due mondi e deve rimanere nel limbo dopo la nascita finché sarà messo al sicuro.4

Uno studio condotto su varie migliaia di nascite, avvenute prima dello sviluppo della moderna ostetricia, ha accertato che un bambino su venti moriva entro il primo mese di vita,5 ed è noto che un alto tasso di mortalità infantile affligge tuttora le società non industrializzate.6 Data la difficoltà del passaggio lungo il canale del parto, gli antropologi si sono a lungo chiesti perché i feti umani accumulavano notevoli strati di grasso - fino al sedici per cento del loro peso alla nascita - prima della nascita.7

Per rispondere a questa evidente stranezza, la Hrdy propone quattro ipotesi.8 L'ipotesi dell'isolamento termico spiega lo strato di grasso del neonato con la necessità di proteggerlo dal freddo notturno quando i primi ominidi cominciarono a dormire al suolo. In seconda istanza gli strati di grasso potrebbero essere una polizza assicurativa nel caso il neonato si ritrovi orfano o per qualche ragione la madre non possa allattarlo (ma allora, si chiede la Hrdy, perché questo non avviene per gli altri primati?). In questo contesto è interessante notare che ci vuole qualche giorno prima che le puerpere abbiano la montata lattea e che i neonati subito dopo la nascita hanno un calo di peso, che tuttavia in un paio di settimane viene recuperato.9

L'ipotesi del cibo per la mente suggerisce che il grasso neonatale sia un accumulo metabolico per alimentare l'incredibile rapida crescita del cervello, che avviene nei bambini durante il primo anno di vita.10 Infine, presupponendo che i bimbi più robusti abbiano maggiori possibilità di sopravvivenza, la Hardy propone una quarta ipotesi, ì'autopromozione: l'idea è che le madri percepiscano un neonato grasso come sano e quindi vitale. A favore di quest'ultima ipotesi vale la pena di ricordare che nella nostra cultura gli orgogliosi neogenitori, insieme al lieto evento, sono soliti annunciare anche il peso del neonato.11 Tenendo presente che l'infanticidio è stato tradizionalmente praticato da varie società umane (e in alcuni casi lo è ancora), questa ipotesi non dovrebbe essere considerata banale.

In ciascuna di queste quattro ipotesi possono esserci elementi di verità, ma c'è anche un'ulteriore possibilità. I feti ingrassano fino al momento della nascita e potrebbero rivestirsi di grasso per proteggersi mentre vengono spinti lungo il canale del parto, contornato dai bordi appuntiti dell'osso pelvico e dalla punta ricurva dell'osso sacro. I feti che nascono al termine dei nove mesi durante il parto premono il mento verso il basso, incrementando così l'esposizione del collo e delle spalle, e questo potrebbe spiegare perché i nascituri accumulino il grasso, tra l'altro, nella parte posteriore del collo e tra le scapole. L'accumulo di grasso non dovrebbe influire più di tanto sulla dimensione della testa e la cervice materna dovrà dilatarsi a una certa ampiezza sia che il feto sia grasso oppure no. Uno strato più spesso di grasso può rendere più difficoltoso il travaglio, ma può anche favorirne la scorrevolezza. Se doveste viaggiare lungo un tunnel

dalle pareti appuntite e costellate di protuberanze e poteste scegliere se farlo rivestiti con un indumento ben imbottito che aumenti la scorrevolezza o compiere la discesa nudi ma con un po' meno pressione da parte di quelle pareti, che cosa scegliereste? Io so quale sarebbe la mia risposta.

Il parto nel mondo

Poiché il parto risulta così difficoltoso per le donne, l'Homo sapiens è il solo fra i primati che si avvalga normalmente di persone che aiutano la madre durante il travaglio e il parto.12 Tuttavia, al contrario degli altri primati, le norme umane riguardanti il parto e l'allevamento dei bambini variano molto a seconda dei tabù culturali locali, delle preoccupazioni spirituali e delle pratiche religiose.13

A ogni modo, nelle piccole società tradizionali le donne in genere possono far conto poco o niente sull'aiuto di altri al momento del parto, e lo dimostra il popolo degli Ifaluk, che vive su due minuscole isole coralline della Micronesia. Secondo Huynh-Nhu, della George Washington University, fino al 1995 la popolazione contava solo seicento persone che vivevano di pesca, della coltivazione del taro (una radice) e della raccolta dei frutti dell'albero del pane e delle noci di cocco.14 Secondo la tradizione le donne Ifaluk partorivano in un'apposita capanna, accudite solo da altre donne della famiglia (oggi possono essere presenti anche delle levatrici). Le donne presenti tuttavia si limitavano a osservare le nascite, anche se intervenivano dopo il parto per seppellire la placenta e prendersi cura del neonato. Le partorienti erano incoraggiate a estrarre da sole il loro piccolo ed esortate a non gridare per non ricoprire di vergogna loro stesse e le loro famiglie.

In molte società tradizionali le donne normalmente partoriscono in ginocchio, sedute o accovacciate, aiutate da una o più assistenti. Ad esempio, le donne Beng, che vivono in piccole fattorie rurali della Costa d'Avorio, in Africa occidentale, quando inizia il travaglio siedono per terra, divaricano le gambe e si piegano all'indietro, sostenute dai membri femminili della famiglia.15 Anche alcune donne mussulmane che vivono in villaggi di campagna della Turchia partoriscono sedute, aiutate dalle suocere (che ne frizionano la schiena) e da una levatrice (che eventualmente le massaggia sull'addome).16 In questo caso le future madri siedono su bassi sgabelli sistemati dentro una vasca da bagno; durante le contrazioni esse stendono le gambe e le premono contro i lati della vasca, alla quale inoltre si attaccano con le mani. Tra una contrazione e l'altra è possibile che le partorienti passeggino o perfino mangino, se vogliono. Le donne hindu dell'isola di Bali, invece, si accovacciano su stuoie nuove, a casa loro, e partoriscono con l'aiuto di una levatrice e in compagnia dei mariti e dei familiari,17 non aderendo al tabù, presente in molte culture, che vieta la presenza degli uomini.

In tempi più lontani, presso i semi-nomadi Warlpiri, che fino a tempi recenti vivevano di caccia e raccolta nel deserto dell'Australia centrale, e per i quali il parto era tradizionalmente un affare privato, i mariti non erano mai presenti alle «nascite».18 Spesso era presente una sola donna ad aiutare la futura madre nel parto, di norma sua nonna. Se le doglie sopravvenivano durante un lungo viaggio, intrapreso dal gruppo per cacciare o raccogliere, la partoriente e l'aiutante si fermavano per il parto e raggiungevano il resto del gruppo in seguito. Secondo quanto annota Sophia Pierroutsakos della Furman University (Carolina del Sud):

Se una donna era costretta a partorire nella boscaglia, la levatrice la faceva accovacciare: sostenendola per le spalle e massaggiandole il ventre ne facilitava il parto. Con la donna accovacciata il neonato veniva espulso direttamente sul terreno. La terra è nostra madre e provvede a tutte le nostre necessità, è quindi importante che una nuova vita arrivi direttamente sulla sua superficie.19

L'aiutante allestiva anche un fuoco, «che forniva calore e teneva lontane le mosche mentre la donna giaceva nuda per terra». Dopo il parto la levatrice o la madre seppellivano la placenta ai bordi del campo, mentre il neonato veniva «affumicato», cioè esposto al fumo di foglie di acacia, per dargli vigore.

Fra i pastori Fulani, in Africa occidentale, che vivono in piccoli villaggi o in campi semi-permanenti, si ritiene molto importante per il neonato entrare in contatto con il suolo, per stabilire un potente legame tra lui e la sua nuova casa.20 Anche le partorienti Fulani, come quelle Ifaluk, sono tradizionalmente incoraggiate a partorire da sole, e a evitare di fare troppo chiasso:

Preparatevi a partorire da sole o con una compagna. Quando sentite arrivare le doglie, che noi chiamiamo luuwa, «la lotta» - accendete un fuoco e accovacciatevi a terra nel vostro rifugio. Quando le contrazioni si intensificano stringete i denti, chiudete gli occhi e sistematevi sulle ginocchia. Cercate di stare calme e fate di tutto per evitare di urlare. E una vergogna mostrare paura del parto, e se le altre mogli o la suocera vi sentono, ve lo rinfacceranno per sempre.21

Le compagne della puerpera entreranno nel suo rifugio solo quando sentiranno il neonato gridare. Allora l'aiuteranno a tagliare il cordone ombelicale e seppelliranno la placenta nel punto in cui il neonato ha toccato terra.

Naturalmente queste pratiche sono solo una piccola parte dell'ampia gamma usata nel mondo dalle comunità non industrializzate. Il tema comune di molte culture è che è meglio per la donna partorire in posizione eretta piuttosto che stesa sulla schiena, il che è logico se si tiene conto della gravità (occorre oltretutto ricordare che negli altri primati è questa la posizione normale). Esistono poi altre analogie tra le culture rispetto al trattamento riservato ai nuovi nati. Immediatamente dopo la nascita i neonati vengono accuratamente ispezionati e viene tagliato loro il cordone ombelicale. La placenta viene eliminata, con o senza cerimonie, prevalentemente sotterrandola. Una volta venuti alla luce, i neonati di solito ricevono, spesso da parte della nonna o della levatrice, quello che sarà il loro primo (di molti) bagnetto quotidiano. Nelle culture tradizionali lo svezzamento avviene tra l'anno e i quattro anni e mezzo (in media i due anni e mezzo).22 Variano sia la quantità sia il momento in cui vengono introdotti gli altri cibi. In queste comunità i bambini piccoli dormono accanto alle madri, a volte per anni. Nelle società non industrializzate gli infanti sono tenuti in gran conto, a volte sono considerati addirittura alla stregua di trofei.

Ma non sempre: a seconda del tipo di cultura e delle circostanze, in casi particolari la madre (o suo marito) possono non accogliere con gioia un'altra bocca da sfamare. Nel caso nascano dei gemelli, o una creatura di un certo sesso, oppure in presenza di un altro figlio in fasce, o se il neonato presenta qualche deformità, si può assistere ad atteggiamenti di semplice incuria, di abbandono o addirittura di infanticidio.23 Naturalmente questo tipo di comportamento può presentarsi anche nelle società industrializzate, ma con minor frequenza, anche in conseguenza del fatto che l'aborto è più facilmente praticabile. La Hrdy è del parere che l'infanticidio da parte dei genitori venisse praticato già in epoche preistoriche, in contrasto con l'uccisione dei piccoli altrui, praticata da alcuni primati non umani, tra i quali gli scimpanzé.24 I resoconti degli infanticidi registrati dagli antropologi sono strazianti, ma diventano più comprensibili se visti in un contesto culturale. In alcune parti della terra, ad esempio, l'infanticidio aumenta le possibilità che un fratello più grande abbia latte a sufficienza per sopravvivere. Ed è questa una preoccupazione non da poco, considerando l'alto tasso di mortalità infantile che affligge le popolazioni non industrializzate.

Dato che i primati non umani raramente uccidono i propri nati, è interessante chiedersi, come fa la Hrdy, quando, come e perché questa pratica sia stata introdotta fra gli uomini. Quali ne siano le cause, tuttavia, l'infanticidio viene praticato quando si sospetta che il neonato non abbia possibilità di sopravvivenza. La percentuale di infanticidi va dallo zero tra molte culture tradizionali africane, al quaranta per cento negli anni settanta tra gli orticultori Eipo, in Papua Nuova Guinea, che preferivano figli maschi25 (dopo i contatti con i missionari la percentuale calò al dieci per cento). Studi culturali incrociati dimostrano che le cause più frequenti di infanticidio da parte dei genitori sono la mancanza di sostentamento paterno, sfavorevoli circostanze ambientali e la scarsa salute del neonato.26 Se il cibo è scarso o la madre sta ancora allattando il figlio precedente, doversi accollare le cure di un nuovo nato potrebbe minacciare la sopravvivenza degli altri piccoli e forse anche della madre. Nel caso di un neonato deforme, invece, l'energia necessaria al suo allevamento potrebbe essere meglio impiegata per darne alla luce più tardi un altro più sano. Visto sotto questo punto di vista, forse si può dire che, nella media, l'infanticidio serve ad aumentare le possibilità di sopravvivenza degli altri membri della famiglia.

Di contro alle grame prospettive che attendono alcuni neonati ci sono le cure, l'affetto e la pazienza di cui i neonati sono fatti oggetto nelle comunità tradizionali. Dato che i neonati sono una cosa così preziosa e che la mortalità infantile è molto alta, una delle più grandi preoccupazioni riguarda la loro crescita sana. Quest'ansia ha generato in varie parti del mondo una grande varietà di «trattamenti» per i neonati e i bambini nella prima infanzia, che agli occhi di un occidentale può apparire strana a prima vista. Per far crescere bene un piccolo i Faluk lo fanno sudare; per prevenire le malattie i Beng dipingono un punto arancione sulla fontanella del cranio del neonato, e i piccoli Fulani vengono fatti rotolare nello sterco di mucca per renderli meno attraenti per le streghe o altri che volessero rapirli. Le madri degli aborigeni Warlpiri ricoprono i propri neonati con cenere di acacia per evitare le scottature solari e li espongono al fumo prodotto dalle foglie bruciate per irrobustirli. Sia i bimbi Beng sia quelli di altre culture indossano gioielli e non solo per abbellimento, ma per proteggersi dalle malattie e dalle influenze maligne delle forze sovrannaturali.27 Se queste pratiche vi sembrano strane, rammentate che negli ospedali americani i neonati normalmente sono punzecchiati per avere campioni di sangue, foderati di pannolini, avvolti in coperte e decorati con cavigliere di identificazione e cuffiette rosa o azzurre.

La preoccupazione per la mortalità infantile spinge molte comunità tradizionali a rimandare il riconoscimento dell'inizio della vita del neonato. Secondo la tradizione i Fulani non sono riconosciuti come persone fino a quando, nell'ottavo giorno di vita, viene dato loro il nome; solo a dieci giorni dalla nascita gli Ifaluk sono considerati vere e proprie persone.28 Sempre presso gli Ifaluk è tabù parlare direttamente di un neonato prima che siano passati vari giorni dalla nascita e il piccolo sia ritenuto sano. Per i Beng, un neonato diventa una persona quando cade il cordone ombelicale, ma la trasformazione non è completa fino ai sei-sette anni.29 Presso i Balinesi il neonato diventa completamente umano in seguito a una speciale cerimonia che si celebra dopo duecentodieci giorni dalla nascita.30 Non sempre il processo richiede tanto tempo: il neonato di un villaggio turco diventa una persona nel momento in cui, maschio o femmina, dopo essere stato lavato e fasciato, viene presentato al nonno paterno, che gli sussurra all'orecchio dei versetti del Corano e gli impartisce il nome.31 Scopo di queste pratiche è di sospendere l'attaccamento emotivo verso dei neonati che possono morire. Come dice un avvertimento per le mamme dei Beng: «Se il tuo bimbo muore, ricorda che più piccolo è, più è sicuro che stesse ancora vivendo nello wrugbe [la terra dei morti]. Infatti, se il cordone ombelicale non è ancora caduto, il bimbo non ha ancora lasciato la terra degli antenati, e il capo villaggio non annuncerà il funerale».32

Aggrapparsi e lasciarsi andare

Come abbiamo visto, per un piccolo scimpanzé il prolungato contatto fisico con la madre è essenziale per il suo benessere fisico e psicologico. Già a tre settimane di vita i piccoli scimpanzé sono in grado di mantenere quel contatto attaccandosi all'addome della madre. Invece i piccoli dei nostri antenati persero la facoltà di aggrapparsi al ventre peloso delle madri allorché i bacini si adattarono alla postura eretta. Poiché i neonati erano costretti a passare attraverso canali di parto più stretti, i più piccoli, che rimandavano la crescita del cervello a nascita avvenuta, furono favoriti dalla selezione naturale. Così i piccoli dell'Homo sapiens nascono con cervelli piccoli ed estremamente immaturi, se paragonati alle dimensioni da adulti, tanto che non sviluppano l'abilità degli scimpanzé di aggrapparsi alle loro madri. Come faranno allora le povere madri umane, o i loro poveri piccoli, a mantenere il contatto fisico necessario alla sopravvivenza?

I piccoli hanno vari modi per assicurarsi questo contatto continuo. Il loro desiderio di stretto contatto fisico con le madri è forte quanto quello di Joni lo scimpanzé. Secondo la teoria dell'attaccamento, di cui fu pioniere lo psicoanalista John Bowlby, i bimbi piccoli sono disposti a tutto per evitare la separazione dalla madre (scalciare, urlare, piangere, aggrapparsi a una gamba) o per ristabilire il contatto fisico.33 La prospettiva evoluzionistica di Bowlby riconosceva che i comportamenti infantili (o determinati attributi, come l'essere accattivanti), che favoriscono l'attenzione dei genitori, danno ai loro piccoli possessori un vantaggio nella lotteria della sopravvivenza. Il neonato umano ovviamente non è in grado di aggrapparsi urlando alla gamba della mamma. Tuttavia può piangere, e dal momento della nascita è proprio questo il modo in cui i bimbi si ribellano alla separazione fisica dalle madri.

Il tono del pianto emesso dal neonato umano per richiamare l'attenzione aumenta e diminuisce in maniera simile ai richiami delle scimmie quando vengono separate dalle madri. Ma il pianto del neonato umano si differenzia per il ritmo in cui si alternano brevi espirazioni a lunghe inspirazioni.34 Nella loro prima settimana di vita i piccoli umani aumentano la frequenza del pianto, che raggiunge il picco verso le sei settimane. Così fa lo scimpanzé, nella misura in cui gli capita di piangere;35 poi verso i tre-quattro mesi il pianto gradualmente si stabilizza. Questo schema sembra costituire la norma in vari contesti culturali, così come la tendenza a concentrare i pianti nel tardo pomeriggio o in prima serata.36 Contrariamente agli scimpanzé, i nostri piccoli sviluppano anche la capacità di versare lacrime di commozione. Dopo i tre mesi di vita, il piccolo d'uomo inizia a modulare il pianto per esprimere rabbia, dolore e frustrazione. Il pianto diventa anche interattivo e intenzionale e, secondo quanto suggerito dall'antropologa Meredith Small, potrebbe costituire la fase precedente il linguaggio, proprio come la lallazione.37

Numerose ricerche hanno dimostrato che le madri di primati non umani riconoscono le vocalizzazioni dei loro piccoli, sicché non deve sorprendere che le donne riescano a distinguere il pianto per fame da quello di rabbia o di dolore. Ma a parte la comprensione dei vari stati d'animo del proprio neonato, che cosa ricavano da questi pianti le madri?

Per Joseph Soltis, che ha studiato a lungo il pianto dei bambini molto piccoli, è un mezzo che può fornire ai genitori una serie di informazioni: ad esempio il pianto di un bambino molto malato ha una tonalità molto acuta, talvolta accompagnata da altri suoni che denotano una sofferenza profonda e cronica. Se si chiede loro di descrivere questo tipo di pianto, i genitori lo definiscono di volta in volta come «contrariato, pressante, eccitato, stridulo, penetrante, angosciante, rattristante o malato».38 Molti studi hanno rivelato che, sebbene questi pianti provochino per lo più risposte positive nei genitori, in altri casi sortiscono sugli adulti l'effetto opposto, mettendo il bimbo malato a rischio di negligenza, maltrattamenti o infanticidio. Questo getta qualche luce sul fatto che l'infanticidio viene praticato nelle comunità non industrializzate, di solito quando si ritiene che i neonati non siano in grado di sopravvivere.

Il pianto patologico è diverso da quello colico, che è persistente e inconsolabile e ha luogo in maniera spontanea e senza causa apparente. Il pianto dei bambini soggetti a coliche è acusticamente sopportabile, come lo è la loro «curva del pianto», che raggiunge l'apice verso le sei settimane di vita, per poi stabilizzarsi e risolversi verso il quarto mese. Per queste ragioni Soltis classifica i bambini affetti da coliche come « casi limite di un altrimenti normale e universale incremento del pianto nei primi mesi di vita».39 Adottando un approccio evoluzionistico, egli arriva addirittura a ipotizzare che il pianto da colica potrebbe essersi evoluto per indicare che il bimbo è sano («vigoroso»), e quindi in grado di sopravvivere. Soltis sa che la sua è un'ipotesi controversa, ma essa potrebbe contenere un elemento di verità, come dimostrerebbe il comportamento registrato in una madre Eipo che aveva deciso di abbandonare il suo neonato, qualora fosse stato femmina. Dopo aver dato alla luce una neonata visibilmente sana, la madre osservò pensierosa la piccola che si agitava e piangeva con forza. Poi si allontanò, abbandonandola. Ma, contraddicendosi, due ore più tardi tornò a recuperare la figlia perché, disse, quasi per scusarsi, la bimba era troppo robusta per abbandonarla.40

Secondo la Small, la sensibilizzazione dei genitori al pianto è un comportamento adattivo che «si è evoluto per servire all'interesse del neonato: per assicurargli protezione, nutrimento adeguato, e cure nell'allevamento di un organismo che non può provvedere a se stesso. Per definizione il pianto serve a sollecitare una risposta, a innescare delle emozioni, a manipolare l'empatia dell'altro [...]. Chi si prende cura di un bambino ha sviluppato anche il meccanismo sensoriale che gli permette di capire che i pianti dei neonati sono segnali di infelicità, così da essere spinto a intervenire».41

Forse, come mia nonna mi diceva per rassicurarmi, i bambini piccoli a volte piangono per fame, per stanchezza oppure (ecco la mia ipotesi favorita) «per esercitare i loro piccoli polmoni». Nondimeno secondo numerosi studi la ragione principale del pianto dei neonati, perlomeno nelle società industrializzate, è quella di ristabilire il contatto fisico con chi si occupava di loro e si era allontanato.42 Il neonato piange quando viene separato dalla madre, e smette quando lei torna.43 Esperimenti in questo senso hanno dimostrato che i neonati fino ai quattro mesi di vita piangono quando la madre lascia la stanza; il pianto induce le madri a tornare e i neonati smettono di piangere.44 In circostanze particolari anche i piccoli di scimpanzé, che normalmente piangono poco, nei primi due mesi di vita possono piangere abbondantemente se sono separati dalle madri:45 come i neonati umani (a esclusione di quelli che soffrono di coliche) essi cessano immediatamente di piangere quando tornano a essere cullati (ricordatevi del grande bisogno da parte di Joni di essere tenuto in braccio da Nadia Kohts).

È interessante notare che in media il pianto dei neonati, sia umani sia scimpanzé, raggiunge la punta massima verso i sei mesi, età in cui i piccoli di scimpanzé sono sufficientemente sviluppati per aggrapparsi senza aiuto al ventre delle madri durante gli spostamenti. Ma perché il pianto di entrambe le specie si intensifica nel tardo pomeriggio e in prima serata, quando le madri scimpanzé si arrampicano sugli alberi per preparare il giaciglio notturno? Il pianto del piccolo scimpanzé segnala forse che quello è il momento di maggiore vulnerabilità, per lui almeno, perché rischia di perdere l'appiglio e cadere? E il suo pianto equivale a quello del bambino che muove i primi passi e alza le bracane per chiedere di essere sollevato in alto?

Pure notevole è il fatto che nel neonato umano il pianto incrementi la forza del riflesso prensile (questa scoperta risale agli anni trenta, quando gli esperimenti dimostrarono che l'abilità dei piccoli di sostenere il peso del proprio corpo in sospensione con una mano sola decresceva dalle scimmie agli scimpanzé, ed era estremamente limitata nei piccoli dell'uomo, nonostante il loro forte riflesso ancestrale).461 pianti dei piccoli umani, così unici, sono forse una compensazione per la perdita di mani e piedi prensili, con cui un tempo essi si aggrappavano alle loro madri ancestrali? L'evoluzione del modo umano di piangere, che è unico, iniziò forse dal tentativo dei piccoli di mantenere il contatto fisico con le madri? Può darsi. Una cosa comunque è chiara: quando un piccolo umano piange, a volte vuole semplicemente essere preso in braccio e cullato.

Qual è il ruolo della madre nel mantenimento del contatto fisico? La risposta dipende dal fatto che la mamma viva o no in una comunità industrializzata. In molti strati della società americana si tende a sviluppare l'indipendenza dei bambini piccoli e quindi a lasciarli piangere per prolungati periodi di tempo e a farli dormire nella loro cameretta, quindi separati dai genitori, che stanno nella loro camera. Inoltre è possibile che l'allattamento venga programmato e sia somministrato non al seno ma col biberon. I bimbi occidentali pertanto sono svezzati molto prima di quelli che vivono in comunità tradizionali. Nelle società tradizionali la cura dei neonati è fisicamente più impegnativa, poiché le nutrici di solito allattano al seno a richiesta, anche per alcuni anni, e durante il giorno mantengono uno stretto contatto fisico con i piccoli. In queste culture le madri dormono con i propri figli per anni, accondiscendendo alla loro necessità di nutrimento e abbracci ventiquattro ore su ventiquattro.47 Per questo i bambini baline-si sono sempre tenuti in braccio per i primi duecentodieci giorni della loro vita, mentre quelli che vivono nei villaggi turchi non sono mai lasciati soli o lasciati piangere, ma sono presi in braccio, tenuti e coccolati il più possibile. Così i piccoli Warlpiri possono poppare a piacimento: un bimbo che piange segnala agli altri che la madre non sta facendo il suo dovere, e i bimbi dormono abbracciati alla madre spesso fino agli otto anni. E una tradizionale madre Fulani che si separi dal suo piccolo per più di due ore al giorno viene vista di malocchio. Anche i piccoli degli Ifaluk non sono mai lasciati soli. Non può sorprendere, quindi, che i bambini delle società tradizionali piangano molto meno di quelli delle società industrializzate.

Ma come riescono quelle madri a sbrigare le faccende quotidiane e ad assicurare nello stesso tempo un contatto fisico continuo? La risposta sta in due innovazioni, una comportamentale e una tecnologica. In campo comportamentale, le donne hanno perso l'estrema riluttanza delle madri scimpanzé a permettere ad altri di tenere, trasportare e accudire i loro figli (una riluttanza sviluppata, ricordiamo, come meccanismo di difesa contro l'infanticidio). Nel primo capitolo abbiamo visto come i piccoli scimpanzé siano desiderosi di giocare o trasportare i nuovi fratellini. Quando sono più grandi le madri permettono qualche limitato contatto tra i fratelli, ma li tengono costantemente d'occhio (tenete presente che la madre di Getty permise alla nonna di accudirlo solo al raggiungimento dei dieci mesi di età). Anche i cuccioli d'uomo sono ansiosi di interagire con i fratelli più piccoli, e le loro madri sono più permissive delle madri scimpanzé.

Nelle società in cui le madri lavorano nei campi e negli orti, come nel caso dei Beng e degli Ifaluk, i neonati vengono curati durante il giorno da donne della famiglia, da altri adulti, fratelli più grandi (per lo più le sorelle), cugini o altri bambini. Quando i piccoli hanno fame, i loro sorveglianti li portano semplicemente alle madri perché li allattino. Questi babysitter (tecnicamente chiamati allomothers) sono spesso solo di qualche anno più vecchi dei loro assistiti. Mentre nelle società industrializzate alle bambine si danno delle bambole (come nel caso di Kylene, la mia nipotina di nove anni, cfr. figura 2.2), in altre culture esse hanno la responsabilità di bambini veri (come nel caso della bambina etiope).

Le condizioni ambientali sono in grado di determinare fino a che punto le madri possono permettere agli altri figli di accudire i piccoli. Gli Hadza, ad esempio, vivono di caccia e raccolta nel nord della Tanzania:48 la zona è ricca di vegetali commestibili, quindi le madri non sono costrette a spostarsi molto per la raccolta. L'ambiente in cui vivono, inoltre, è sufficientemente sicuro da permettere alle madri di lasciare i loro bambini fino ai due anni di età al campo, dove possono giocare senza troppa sorveglianza con ragazzi di varie età. Questi bambini sembrano cavarsela bene, e addirittura raccolgono anch'essi un po' di cibo. La tranquillità e l'abbondanza di cibo dell'ambiente circostante fanno sì che i piccoli possano prendersi cura l'uno dell'altro.

Non è sempre stato facile per i cacciatori e i raccoglitori trovare delle babysitter adatte. Fino a tempi recenti i !Kung San vivevano in una calda zona desertica nell'Africa meridionale: gli uomini andavano a caccia e le donne facevano lunghe spedizioni per la raccolta di cibo;49 le madri intraprendevano regolarmente lunghi viaggi, portandosi appresso abitualmente i loro piccoli di due o tre anni, alla ricerca di cibo. Ancora una volta l'ambiente aveva un ruolo decisivo: per la scarsità di acqua potabile, le madri garantivano l'idratazione dei bambini allattandoli al seno. Sarà interessante notare che il latte umano, come quello degli scimpanzé, ha un alto contenuto di acqua e che le madri San allattavano i loro figli fino a quattro volte ogni ora50 (e infatti i Beng chiamano il latte materno «acqua del seno»).51 La Hrdy sostiene che sistemi come quello seguito dagli Hadza probabilmente erano diffusi

anche prima del Neolitico e ogni qualvolta fossero presentì tutte le opzioni allomateme più fidate. Mi sembra che la prevalenza di relazioni madre-figlio durature ed esclusive possa essere un effetto del duro ambiente in cui i cacciatori-raccoglitori sono sopravvissuti abbastanza a lungo perché gli antropologi potessero studiarli; un effetto di madri che camminavano per grandi distanze alla ricerca di acqua e cibo, fra predatori in agguato e con sistemi di residenza in cui la madre viveva lontano dai propri parenti.52

In definitiva, la delega alle babysitter è un adattamento comportamentale derivato dalla esclusiva e perdurante relazione fra madre e figlio (simile a quella degli scimpanzé) che avrebbe caratterizzato i nostri antichi progenitori.

La seconda novità che ha permesso alle donne di restare in stretto contatto fisico con i loro neonati indifesi è di tipo tecnologico: si tratta del marsupio. In tutto il mondo non industrializzato i neonati vengono trasportati dentro una specie di sacco dotato di bretelle e appoggiato al ventre, alle spalle o ai fianchi delle madri o delle babysitter. I Beng ne usano uno di stoffa per assicurare i piccoli sulla schiena di bambine di non più di sette anni,53 e tradizionalmente le madri Balinesi e Fulani sbrigano le loro faccende quotidiane tenendosi a tracolla i piccoli.54 In tempi andati le madri Warl-piri per trasportare i loro bambini li sistemavano in una specie di scodella di legno appoggiata sul fianco e sospesa alle spalle con delle cinghie.55 Credo che i primissimi marsupi fossero di cuoio, come quelli tuttora usati dalle donne dei San. Particolare interessante: sia le madri Beng sia quelle Fulani praticano ai loro piccoli un clistere due volte al giorno per evitare di essere sporcate mentre li trasportano nel marsupio. Secondo la tradizione dei Beng: «è una buona cosa, perché potrai affidare il tuo bambino a una leng kuli (una persona incaricata di trasportare il bambino) senza temere che i suoi vestiti vengano sporcati durante il trasporto, perché se accadesse sarebbe una vergogna per voi!»36

I marsupi permettevano di trasportare non solo i figli ancora da allattare, ma anche le piante commestibili che venivano raccolte man mano che maturavano nelle diverse zone visitate. Questa ulteriore utilità sarebbe stata di vitale importanza per il passaggio dal sistema di foraggiamento degli scimpanzé (che mangiano mentre si spostano) alla raccolta di una certa varietà di cibi da riportare alla casa base. Come in seguito vedremo, lo sviluppo di un «luogo centralizzato di raccolta», come lo ha definito Marlowe, potrebbe esser stato d'importanza fondamentale per il successivo emergere dei valori sociali dell'uomo.

Comunicazione madre-figlio: una differenza musicale

Madri e figli umani comunicano usando per lo più lo stesso linguaggio del corpo degli scimpanzé. Un neonato a tre mesi osserva attentamente il volto della madre e si esprime con il proprio viso e il piccolo corpo. Il modo di giocare, titillare e toccarsi tra madre e figlio umani è simile a quello degli scimpanzé. Anche il modo di ridere durante il gioco è simile negli uomini e nelle scimmie, ma nell'uomo è prodotto in modo diverso, e ciò ha implicazioni importanti per capire l'evoluzione del controllo del respiro necessario per il linguaggio.57 Le madri di ambedue le specie esaminano, cullano, accarezzano, abbracciano e baciano i loro piccoli quasi nello stesso modo.

A tre o quattro mesi di età i neonati stabiliscono con le madri un'intensa relazione emotiva, espressa da una reciproca attività coordinata fatta di attenzioni, movimenti ed espressioni facciali. In tutto il mondo le madri guardano i loro bambini con sul viso un'espressione esageratamente amichevole, un tratto che ha avuto i suoi precursori in altri primati. Queste espressioni includono l'inarcamento rapido delle sopracciglia, lo scuotimento del capo, il sorridere e l'annuire. Madri e figli sono molto sensibili al reciproco comportamento, e ciascuno di loro «è in grado di penetrare il mondo temporale e lo stato emotivo dell'altro».58

Nonostante le similarità che esistono fra le madri degli scimpanzé e quelle umane, queste ultime differiscono notevolmente quando entra in gioco la comunicazione vocale madre-figlio. Abbiamo già visto come i neonati umani abbiano sviluppato particolari modi di piangere per richiamare l'attenzione di chi si prende cura di loro e fornire nel contempo informazioni sui loro bisogni e umori. I nostri neonati piangono per avere quello che vogliono. Da parte loro le madri emettono particolari suoni per calmare i piccoli agitati, suoni probabilmente nati molto tempo prima che venisse in uso il marsupio, forse addirittura prima delle babysitter. Non mi riferisco al linguaggio infantile, ma a un altro tipo di comunicazione vocale: la ninna nanna.

Le ninne nanne sono usate in tutto il mondo per cullare il bimbo e farlo addormentare.59 Si tratta di qualcosa di diverso dalle altre canzoni, tanto che gli adulti che ascoltano una melodia in una lingua a loro non familiare riescono a distinguere una ninna nanna da una nenia altrettanto lenta.60 E i bimbi le adorano. I risultati di alcuni esperimenti dimostrano che preferiscono ascoltare le ninne nanne piuttosto che canzoni per adulti, specialmente se vengono cantate da una voce femminile. Anche altre persone incaricate di curare i neonati, uomini e ragazzi compresi, a seconda delle culture, possono cantare le ninne nanne e, al pari delle mamme, sono in grado di adeguarsi alle necessità e al grado di comprensione dei loro giovani ascoltatori. Le madri di solito ci mettono più sentimento dei padri nel cantare la ninna nanna, mentre i padri sono più espressivi quando cantano per i figli maschi che per le femmine.

Le madri di tutto il mondo non si limitano ad addormentare i loro figlioletti col canto, ma nel contempo li cullano:

Azioni come dondolare, scuotere e lanciare in alto i piccoli, che le mamme praticano così volentieri, soddisfano nel lattante il bisogno di stimolazione degli organi vestibolari. Cullandolo è possibile calmare un lattante inquieto. Presso le popolazioni tribali i lattanti passano la maggior parte del tempo in braccio alla madre o ad altre persone. Attraverso la stimolazione vestibolare essi sentono che non sono soli. I bambini ospedalizzati, ai quali manca in maniera quasi totale questo tipo di stimolazione, spesso sviluppano movimenti stereotipati che provocano un'autostimolazione.61

Una nota ninna nanna occidentale sottolinea la relazione tra il canto e il cullare dei bambini. Parla anche della caduta da un albero, evocando l'immagine di un piccolo scimpanzé che sta appeso pericolosamente a un ramo. Si potrebbe quasi ipotizzare (un po' bizzarramente) che questa ninna nanna calmi la paura primordiale concepita quando i nostri antenati dormivano ancora in «nidi» posti fra gli alberi (culle di rami), come fanno le madri di scimpanzé. Il rilievo primario è segnalato dalle lettere maiuscole e dalle sottolineature, quello secondario dalle sole sottolineature:

ROCK-a- // bye / ba- // by / ON the // tree / top /// WHEN the // wind / blows // the / CRA- /dle / will / rock /// WHEN the // bough / breaks// the CRA; / dle / will / fall /// And /// DOWN / will / come / Ba- // by / CRA-/_dle / and / all ///62

Ma che cosa trasmettono le ninne nanne ai bambini? Essi comprendono i messaggi? Il ritmo, la regolarità e la semplice struttura di una canzone per bambini aiutano a modellare e controllare le loro emozioni.63 Le madri cantano più velocemente (come in molte canzoni di gioco) per attirare l'attenzione del loro bambino, poi rallentano il tempo per mantenere quell'attenzione. I neonati partecipano al coordinamento della struttura di queste interazioni tramite le loro reazioni emotive, come i sorrisi, il tubare, i movimenti agitati degli arti. Il significato della canzone si manifesta attraverso le emozioni che provoca nel bambino.

I bambini capiscono. Anche senza le parole, i bambini sono in grado di afferrare il contenuto emozionale delle canzoni. Questa sembra essere una capacità umana universale, come lo è l'abilità degli adulti di tutto il mondo di percepire le sfumature emozionali delle vocalizzazioni.64

Nei prossimi due capitoli mostreremo come i pianti distintivi dei piccoli dell'uomo e la speciale vocalizzazione delle loro madri cominciò a evolversi nel momento in cui i nostri antenati iniziarono a camminare su due gambe, e i loro neonati persero l'abilità di aggrapparsi alle madri. Prima dell'invenzione dei marsupi, quando le manine e i piedini non erano più in grado di afferrarsi, e le mamme a volte non erano in grado di cullare i propri figli, queste vocalizzazioni furono l'unico mezzo per mantenere i legami madre-figlio.

Note

1 Cfr. Frank W. Marlowe, Hunter-Gatherers and Human Variation, «Evolution-ary Anthropology», XIV, 2, 2005, pp. 54-67.

2 Cfr. Adolph H. Schultz, Iprìmati, Garzanti, Milano 1974, pp. 194-96 (ed. or. 1969).

3 Per la precisione, tutto il bacino dell'ominine bipede venne compresso verticalmente, cosi a paragone di quello delle grandi scimmie si presenta più corto e largo. Le grandi ossa laterali si incurvarono dal retro verso i lati, delimitando nella parte inferiore una cavità chiamata «scavo pelvico». Nel frattempo l'assunzione della posizione eretta cambiò la spina dorsale, cosicché il coccige si è incurvato in prossimità della piccola pelvi, aumentando la cavità. Il risultato di queste modificazioni è un bacino umano che nella donna restringe il canale del parto.

4 Sarah Blaffer Hrdy, Istinto materno, Sperling & Kupfer, Milano 2001, p. 359 (ed. or. 1999).

5 Cfr. Stephen Jones, Naturai Selection in Humans, in Stephen Jones, Robert Martin e David Pilbeam (a cura di), The Cambridge Encyclopedia of Human Evolution, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 286.

6 Cfr. Judy DeLoache e Alma Gottlieb (a cura di), A World of Babies. Imagined Childcare Guides for Seven Societies, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

7 Cfr. Hrdy, Istinto materno cit., p. 362.

8 Cfr. ibid., pp. 363 sgg.

9 Secondo uno studio recente condotto su 1254 neonati, «la perdita di peso post nascita è un fenomeno ben noto ma poco studiato. Si tratta per lo più della perdita di liquidi, ma può anche includere perdita di grasso prima della montata lattea»: Charlotte M. Wright e Kathryn N. Parkinson, Postnatal Weight Loss in Term Infants. What Is «Norma!» and Do Growth Charts Allow for It?, «Archives of Disease in Childhood Fetal and Neonatal Edition», LXXXIX, 3, 2004, p. 255.

10 Le donne partoriscono neonati che pesano più del doppio dei neonati di scim-Danzé. ma le donne stesse sono niù arandi delle femmine adulte di scimoanzé. Dato che le dimensioni del cervello del neonato umano sono il doppio di quello di un neonato nato di scimpanzé (350 cm cubici contro 150), le dimensioni relative dei due cervelli (il volume del cervello diviso per il peso corporeo) sono identici alla nascita per le due specie. Entrambi al momento della nascita hanno un cervello che pesa il dieci per cento circa del peso corporeo. Questa proporzione diminuisce durante la crescita dell'individuo: pensate che aspetto avrebbe un adulto se la sua testa fosse grande come quella di un bambino! Questi sono dati interessanti perché le dimensioni relative del cervello di un uomo adulto sono assai più grandi di quelle di uno scimpanzé adulto. A paragone dei neonati di scimpanzé, i neonati umani presentano un'impressionante crescita del volume cerebrale durante i primi anni di vita, ed è per questo che il cervello di un uomo adulto è tre volte quello di una scimmia antropomorfa di equivalente peso corporeo.

11 Cfr. Hrdy, Istinto materno cit., p. 366

12 Per maggiori dettagli cfr. Karen Rosenberg e Wenda Trevathan, The Evoluiìon of Human Birth, «Scientific American», 285, 5, 2001, pp. 72-77, che comprende anche lo straordinario racconto di una donna che aveva partorito su un albero, dove si era rifugiata durante un'inondazione.

13 Cfr. DeLoache e Gottlieb (a cura di), A World of Babies cit.

14 Cfr. Le Huynh-Nhu, Never Leave Your Little One Alone. Raising an Ifaluk Child, ibid., pp. 199-220.

15 Cfr. Alma Gottlieb, Luring Your Child into This Life. A Beng Path for Infant Care, in DeLoache e Gottlieb (a cura di), A World of Babies cit., pp. 55-89.

16 Cfr. Carol Delaney, Making Babies in a Turkish Village, ibid., pp. 117-44.

17 Cfr. Marissa Diener, Giftfrom the Gods. A Balinese Guide to Early Child Rea-ring, ibid., pp. 91-116.

18 Cfr. Sophia L. Pierroutsakos, Infanti of the Dreaming. A Warlpiri Guide to Child Care, ibid., pp. 145-70.

19 Pierroutsakos, Infante ofthe Dreaming cit., p. 160.

20 Cfr. Michelle C. Johnson, The Viewfrom the « Wuro». A Guide to Child Rearingfor Fulani Parente, in DeLoache e Gottlieb (a cura di), A World of Babies cit., pp. 171-98.

21 Ibid., p. 179.

22 Cfr. Marlowe, Hunter-Gatherers and Human Variation cit., p. 62.

23 Cfr. Meredith F. Small, Kids. How Biology and Culture Shape the Way We Raise Young Children, Anchor Books, New York 2001, p. 204.

24 Cfr. Hrdy, Istinto materno cit., p. 395,

25 Cfr. Id., Fitness Tradeoffs in the History ani Evolution of Delegateci Mothering with Special Referente to Wet-Nursing, Abandonment and Infanticide, in Stefano Parmigiani e Frederick S. Vom Saal (a cura di), Infanticide and Parental Care, Harwood Academic, London 1994, pp. 3-42.

26 Cfr. Joseph Soltis, The Signal Functions of Early Infant Crying, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 4, 2004, pp. 443-58.

27 Cfr. DeLoache e Gottlieb (a cura di), A World of Babies cit.

28 Cfr. Johnson, The View from the «Wuro» cit.; Huynh-Nhu, Never Leave Your Little One Alone cit.

29 Cfr. Gottlieb, Luring Your Chili into This Life cit.

30 Cfr. Diener, Gift from the Gods cit.

31 Cfr. Delaney, Making Bahies in a Turkish Village cit.

32 Cit. in Gottlieb, Luring Your Child into this Life cit., pp. 80-81.

33 Cfr. John Bowlby, Attaccamento e perdita, I: L'attaccamento alla madre, n. ed. Bollati Boringhieri, Torino 1999 (ed. or. 1982).

34 Cfr. Ann Frodi, When Empathy Fails. Aversive lnfant Crying and Child Abuse, in Barry M. Lester e C. F. Zachariah Boukydis (a cura di), lnfant Crying. Theoretical and Research Perspectives, Plenum, New York-London 1985, pp. 263-77.

35 Cfr. Kim A. Bard, What Is the Evolutionary Basis for Colic?, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, p. 459.

36 Cfr. Soltis, The Signal Functions of Early lnfant Crying cit., p. 454.

37 Cfr. ibid., pp. 443-58.

38 Soltis, The Signal Functions of Early lnfant Crying cit., p. 450.

39 Ibid., p. 453.

40 Cfr. Irenaus Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 193-94 (ed. or. 1989).

41 Meredith Small, Our Babies, Oursebes. How Biology and Culture Shape the Way We Parent, Anchor Books, New York 1998, p. 156.

42 Cfr. ibid. e Peter H. Wolff, The Natural History of Cryingand Other Vocalizations in Early Infancy, in Brian M. Foss (a cura di), Determinanti of Infant Behavior, IV, Methuen, London 1969, pp. 81-109.

43 Cfr. Kyllike Christensson, T. Cabrerà, E. Christensson, Kerstin Uvnas-Moberg e Jan Winberg, Separation Distress Call in the Human Neonate in the Absence of Maternal Body Contact, «Acta Pediatrica», LXXXIV, 5, 1995, pp. 468-73.

44 Cfr. Silvia M. Bell e Mary Dinsmore Salter Ainsworth, Infant Ciying and Maternal Responsiveness, «Child Development», XLIII, 4, 1972, pp. 1171-90.

45 Cfr. Bard, What Is the Evolutionary Basis for Colic? cit.

46 Cfr. Henry M. Halverson, Studies of the Grasping Responses of Early Infancy. I, «Journal of Genetic Psychology», LI, 1937, pp. 371-92.

47 Cfr. DeLoache e Gottlieb (a cura di), A World of Babies cit.

48 Cfr. Nicholas G. Blurton-Jones, The Lives of Hunter-Gatherer Children. Effects ofParentalBehavior and ParentalReproductìve Strategy, in Michael E. Pereira e Lynn A. Fairbanks (a cura di), ]uvenìle Primates. Life History, Development, and Behavior, Oxford University Press, New York 1993, pp. 309-26.

49 Cfr. Patricia Draper, Social and Economie Constraints on Child Life Among the !Kung, in Richard B. Lee e Irven DeVore (a cura di), Kalahari Hunter-Gatherers. Study of the !Kung San and their Neighhors, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976, pp. 199-217.

50 Per saperne di più cfr. Small, Our Bahies, Ourselves cit.

51 Cfr. Gottlieb, Luring Your Child into This Life cit., p. 83.

52 Hrdy, Istinto materno cit., p. 379.

53 Cfr. Gottlieb, Luring Your Child into This Life cit., p. 82.

54 Cfr. Diener, Giftfrom the Gods cit., p. 109; Johnson, The View from «Wuro»cit., p. 185.

55 Cfr. Pierroutsakos, Infanti of the Dreaming cit., p. 163.

56 Cit. in Gottlieb, Luring Your Chìld into This Life cit., p. 86.

57 Cfr. Robert R. Provine, Walkie-Talkie Evolution. Bipedalism ani VocalProduction, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, PP- 520-21. Cfr. anche Id., Ridere. Un'indagine scientifica, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003 (ed. or. 2000).

58 Ellen Dissanayake, Antecedents of the Temporal Arts in Early Mother-lnfant Interaction, in Nils L. Wallin, Björn Merker e Steven Brown (a cura di), The Origins of Music, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2000, p. 391.

59 Cfr. Sandra E. Trehub, Laurei J. Trainor e Anna M. Unyk, Music and Speech Processing in the First Year of Life, «Advances in Child Development», XXIV, 1993, pp. 1-35. Gli autori fanno notare che le canzoncine consolatorie vengono cantate meno in Nord America e in Europa, dove i genitori o chi ne fa le veci di solito lasciano la stanza dei bambini prima che si addormentino.

60 Cfr. Sandra E. Trehub, Anna M. Unyk e Laurei J. Trainor, Adulti Identìfy In-fant-Directed Music Across Cultures, «Infant Behavior and Development», XVI, 1993, pp. 193-211.

61 Eibl-Eibesfeldt, Etologia umana cit., p. 136.

62 Cit., con alcune modifiche, da Laurei J. Trainor, Elissa D. Clark, Anita Huntley e Beth A. Adams, The Acoustic Basis of Preferences for Infant-Directed Singing, «Infant Behavior and Development», XX, 3, 1997, pp. 383-96.

63 Cfr. ibid.

64 Cfr. Laurei J. Trainor, Caren M. Austin e Renée N. Desjardins, Is Infant-Directed Speech Prosody a Result of the Vocal Expression of Emotion?, «Psychological Science», XI, 3, 2000, pp. 188-95.

3. E il bimbo cade giù

Ninna oh

Fai la nanna, piccolo, in cima all'albero! / Quando il vento soffia la culla dondola; / Quando si spezza il ramo la culla cade; / E il bimbo vien giù con culla e tutto.

Mamma Oca

Un piccolo di scimpanzé impara gioie e dolori della vita dapprima avvinghiato al petto della madre, poi dall'osservatorio privilegiato della sua schiena. All'inizio la madre aiuta il neonato a starle aggrappato, poi, a due mesi di età circa, il piccolo è abbastanza sviluppato per tenersi attaccato al suo petto senza aiuto. Lì può poppare a piacimento, mentre la madre procede appoggiandosi con le nocche delle mani o salta fra i rami. Questa capacità dei piccoli di viaggiare tenendosi attaccati alle madri mentre si spostano è di vitale importanza per i primati non umani, come viene dimostrato dalla coppia madre-figlio studiata da Jane Goodall. La madre, Madam Bee, aveva allevato con successo due piccoli prima di venire colpita dalla poliomielite. Durante i suoi spostamenti Madam Bee era fisicamente impossibilitata a sostenere il nuovo nato, Beehind, che reagiva lamentandosi, urlando e cadendo ripetutamente a terra. Così, a pochi mesi di età, Bee-hind morì, il corpo martoriato da ferite e abrasioni.1

Abbiamo visto come sia importante il contatto fisico per i neonati umani. Per avere maggiori informazioni sui contatti madre-figlio, mi sono rivolta a tre giovani informatori (quando studiano popoli e luoghi non familiari, gli antropologi spesso consultano gli appartenenti alla cultura in oggetto). Una delle mie informatrici, Sisa Uzendoski, è nata il 23 luglio 2003 ed è figlia di Michael, antropologo culturale e mio collega alla Florida State University, e di Edith, una madre a tempo pieno cresciuta in Ecuador, nella regione amazzonica. Ho saputo che, per quanto la culla di Sisa sia vicino al letto dei genitori, lei passa buona parte della notte rannicchiata fra di loro. Sisa non ha mai usato succhiotti né poppato dal biberon; quando i genitori la portano in visita dai parenti in Ecuador, lei viene accudita da ventitré cugini di primo grado. Sisa ha anche imparato simultaneamente tre lingue: inglese, spagnolo e quechua.

Un'altra informatrice, Josie Parkinson, è nata tre mesi dopo Sisa. Josie è cinese ed è stata adottata nel novembre 2004 dai suoi genitori americani, William e Betsy Parkinson. Betsy è insegnante elementare e William archeologo. Josie non aveva imparato a gattonare perché nell'orfanotrofio dove aveva passato il primo anno di vita non l'avevano mai messa seduta per terra. Dopo l'adozione, però, Josie veniva regolarmente fatta sedere sul pavimento, e lei si inventò un rapido ed efficiente modo per spostarsi rapidamente trascinandosi sul sedere (così muovendosi poteva tenere nelle mani degli oggetti). Betsy insegna il Linguaggio Americano dei Segni (asl), e Josie ha imparato sia l'inglese sia I'asl.

Nel corso dell'evoluzione degli ominini, i piccoli dell'uomo persero l'abilità di viaggiare a cavallo delle loro madri.2 Cionondimeno i nostri figli hanno mantenuto il desiderio profondamente radicato di uno stretto contatto fisico con chi li nutre. Josie cominciò a parlare a diciannove mesi. Una delle prime parole fu «su», che pronunciò davanti ai genitori, accompagnandola da un alzarsi delle braccia, nel gesto che significa «prendetemi su». Amava stringersi nella sua copertina speciale, e adorava essere cullata dal padre mentre le cantava la ninna nanna. Sisa invece non ha mai avuto una coperta speciale o un giocattolo da stringere, e nemmeno Claire, quattro anni, figlia di amici. Tuttavia Sisa voleva spesso essere allattata, e Claire aveva l'abitudine di chiamare i genitori di notte, e loro se la portavano nel letto matrimoniale e le permettevano di dormire accoccolata contro la schiena della madre. Per quanto queste piccole non passassero la giornata attaccate al corpo della madre, il loro bisogno di essere coccolate e di avere contatti fisici con i genitori sembrava forte quanto quello del povero Bee-hind. La necessità del prolungato contatto fisico tra madri e figli nei primati è molto forte e compare anche nei nostri distanti parenti, le scimmie. Questo vuol dire che l'abilità infantile di aggrapparsi ha radici ancestrali, e la sua perdita presso i piccoli dell'uomo è ancor più significativa.

Gli esperimenti di Harlow

Negli anni tra il 1950 e il 1960, lo psicologo Harry Harlow condusse una serie di famosi esperimenti sulle scimmie: alcuni piccoli macachi, appena nati, venivano isolati in gabbie rivestite di morbidi panni. Quando i panni venivano tolti, i macachi facevano i capricci come i piccoli umani che avevano sviluppato un particolare attaccamento a «coperte» o giocattoli imbottiti. Questa semplice osservazione generò una serie di esperimenti nei quali delle scimmie appena nate venivano tolte alle madri e allevate alla presenza di due surrogate «madri» artificiali. Una delle madri era fatta di fil di ferro e aveva un solo capezzolo al centro del torace che provvedeva all'allattamento. L'altra era priva dell'apparato di allattamento ma l'ossatura in ferro era ricoperta da un soffice panno marrone chiaro. «Il risultato», riferì Harlow, «fu di ottenere una madre morbida, calda, e tenera, una madre con una pazienza infinita, disponibile ventiquattro ore al giorno, una madre che non sgridava mai il suo piccolo, non lo picchiava o morsicava mai».3 Anche se le scimmie e i primati allo stato selvatico si aggrappano alle madri costantemente e si fanno allattare regolarmente, Harlow scoprì che quei macachi isolati passavano la maggior parte del loro tempo abbracciati alla madre surrogata avvolta nel panno morbido, sia pure priva di nutrimento, e si rivolgevano a quella in filo di ferro solo per soddisfare la fame.

Man mano che i piccoli crescevano, aumentava anche la preferenza per la madre morbida. Se questa veniva tolta dalla gabbia, i piccoli si accovacciavano e si abbracciavano da soli, freneticamente. Quando un piccolo e quel surrogato morbido di madre venivano posti in un ambiente estraneo, contenente oggetti stimolanti la curiosità, il piccolo inizialmente correva e si aggrappava al surrogato che, col tempo, diventava una fonte di sicurezza. Harlow osservò anche che in un primo momento i neonati non prestavano attenzione al volto del surrogato, ma a un mese di vita quella sfera di legno con due catarifrangenti al posto degli occhi diventava oggetto di una attenzione particolare. In un altro esperimento, la faccia del surrogato fu sostituita dalla maschera più realistica di una scimmia, e ciò spinse il piccolo a urlare, correre in un angolo e agitarsi furiosamente, presumibilmente perché quella non era più la faccia della «mamma». Per farla breve, il surrogato di panno divenne la sola madre che quelle scimmie avrebbero avuto. Non sorprenderà sapere che quando alcune di queste scimmie divennero adulte e partorirono, si rivelarono madri inadeguate.

L'esperimento di Harlow dimostrò che non solo i piccoli primati avevano un estremo bisogno del contatto fisico con le madri, ma anche che quel «contatto di conforto» è cruciale per lo sviluppo della capacità di amare e per una normale crescita emotiva. Harlow suggerì addirittura che la funzione principale dell'allattamento fosse quella di facilitare, attraverso il frequente contatto con le madri, il loro sviluppo emotivo. La sua conclusione - che l'esigenza di essere cullati nei primati appena nati è radicata quanto il desiderio di nutrimento - fu di primaria importanza negli anni cinquanta. Oggi i suoi esperimenti non sarebbero consentiti, ma a Harlow si attribuisce il merito di aver invertito la tendenza americana che era di moda allora, cioè di evitare di coccolare i neonati; una filosofia che discendeva dal consiglio dello psicologo John Watson, fondatore della scuola americana del behaviorismo, sull'educazione dei figli: «Non abbracciateli e non baciateli, non permettete loro di sedervi in grembo. Se proprio dovete, baciateli una sola volta sulla fronte quando vi danno la buona notte. Al mattino stringete loro la mano».4 Le scoperte di Harlow si possono estendere anche ai piccoli dell'uomo. Per quanto la nostra prole non sia in grado di aggrapparsi autonomamente alle madri, essa continua a presentare alla nascita un forte istinto ancestrale ad afferrare. Come le scimmie di Harlow, anche i neonati umani cercano istintivamente uno stretto contatto con le nutrici. Com'è stato dimostrato dalle ricerche americane, la motivazione principale del pianto nel neonato è il ripristino del contatto fisico con le nutrici da cui sono momentaneamente separati.5 E coerentemente il pianto aumenta la forza dei riflessi di presa del neonato.6 E sembrerebbe corretto anche il suggerimento di Harlow secondo cui il prolungarsi dell'allattamento del neonato umano ha a che fare più con il conforto da contatto che non col nutrimento, se si pensa all'effetto calmante del succhiotto e della suzione del pollice.

Io credo che le coperte alle quali i nostri figli si attaccano siano sostitutive dei petti pelosi delle madri ancestrali. Tuttavia, bisogna dire che l'attaccamento delle scimmie per i panni morbidi derivava dalle innaturali condizioni dell'isolamento sociale. D'altro canto i piccoli umani hanno perso l'abilità di afferrare, in conseguenza di cambiamenti naturali nell'evoluzione. In un certo senso, possiamo considerare l'impotenza dei nostri neonati come risultato di un «esperimento naturale» evolutivo, che tagliò il prolungato contatto fisico fra madre e figlio ominini.7 Ma le madri non erano completamente separate dai figli, come negli esperimenti di Harlow, e ciò, come vedremo, produsse un'importante differenza evolutiva. Tuttavia, prima di descrivere l'esperimento critico che ebbe luogo nella preistoria, dobbiamo considerare l'evoluzione stessa e in particolare come essa operi sulle madri.

Come agisce l'evoluzione

Nonostante il loro cavillare, i biologi evoluzionisti abbracciano di tutto cuore la teoria della selezione naturale sviluppata verso la metà del XIX secolo da Charles Darwin e Alfred Russel Wallace. In effetti, a favore di questa teoria sono state ammassate così tante prove che essa ormai può essere considerata una legge, al pari della legge di gravità. Il concetto di selezione naturale è facile da capire e ha una logica elegante: le specie producono più prole di quanto le risorse disponibili possano sostenere. Gli individui che l'anatomia e il comportamento rendono più adatti a competere per le risorse limitate sopravvivono e si riproducono, e i loro geni formano la popolazione futura.

La competizione per le risorse è di solito inconscia ed elusiva. I tratti adattivi che favoriscono la sopravvivenza possono includere una riuscita risposta immunitaria a certe malattie (come la peste o I'aids), un aspetto fisico che si armonizzi con l'ambiente, oppure una tendenza naturale a stabilire relazioni armoniose. Dato che tali caratteristiche spesso hanno una base genetica, esse possono essere ereditate dalla prole. Attraverso questo semplice meccanismo tali caratteristiche sono naturalmente trasmesse alle generazioni future, mentre i tratti negativi no. Questo processo di selezione naturale, se continua per lungo tempo, può cambiare una popolazione isolata a tal punto che i suoi membri non possono più accoppiarsi con quelli della popolazione primitiva: nasce così una nuova specie.

Il fattore vincente della selezione naturale è la buona riuscita della riproduzione, tuttavia a un animale non basta avere una prole per «essere selezionato». Anche la prole dev'essere in grado di riprodursi con successo. Nel caso dei mammiferi che allattano i loro nati, il ruolo primario, anche se non esclusivo, spetta alle madri, vere guardiane del futuro genetico della loro specie. Se un neonato viene allevato fino a raggiungere la maturità sessuale, probabilmente egli trasmetterà i geni dei suoi genitori alla generazione successiva.8

Qualsiasi comportamento che favorisca la riproduzione da parte di un individuo o di un gruppo, sarà favorito dalla selezione naturale. Questi comportamenti sono detti «strategie riproduttive». E importante notare tuttavia che gli animali (uomo compreso) non si rendono conto che i loro comportamenti risultano strategici in senso evolutivo. Ad esempio si può considerare una strategia riproduttiva la scelta, da parte di un uomo anziano, di una donna più giovane, poiché la sua maggiore fertilità aumenta le possibilità di avere dei discendenti. Quel vecchio tuttavia probabilmente sarebbe sorpreso nell'apprendere che la ragione che sta alla base della sua scelta risale ai suoi progenitori maschi, che preferivano donne fertili ed erano selezionati in maniera differenziata. Troppo spesso gli antropologi e i primatologi si esprimono come se gli animali (uomini compresi) si preoccupassero in maniera conscia di come massimizzare le loro opportunità riproduttive, mentre in realtà questi impulsi sono per lo più inconsci.

La razza umana fa parte dei primati e quindi scimmie comuni e scimmie antropomorfe sono eccellenti modelli per l'esplorazione dei comportamenti antichi e recenti dell'uomo. Come molti ammali, i primati maschi e femmine hanno diverse strategie riproduttive. Dato che i maschi non restano gravidi e quindi non sono tenuti a dedicare il loro tempo a partorire e allevare i figli, possono generare figli senza limiti, ed è loro interesse evolutivo impregnare quante più femmine possono. A seconda della specie, le caratteristiche che aumentano le opportunità di accoppiamento del maschio possono includere l'amicizia con la femmina e la difesa della medesima, l'aiuto fornitole per il trasporto o l'alimentazione dei figli, e il raggiungimento di uno status elevato all'interno della comunità maschile.

Tra i primati, ad esempio gorilla, scimmie urlatrici e alcuni tipi di babbuini, un maschio spesso vive insieme a molte femmine adulte, in quello che viene definito un «harem». In questi gruppi con un maschio solo, i maschi devono combattere contro gli outsider che cercano di estrometterli. Rispetto alle femmine, questi maschi adulti sono molto più grossi e hanno denti più grandi - armi anatomiche che sono state selezionate congiuntamente alla strategia del combattimento diretto maschio contro maschio. Un'altra strategia riproduttiva maschile contempla l'infanticidio, allorché un maschio cerca di assumere il controllo su gruppi con un solo maschio. In questi casi l'invasore uccide i lattanti per indurre le madri a ripristinare l'ovulazione e diventare sessualmente attive. Il nuovo maschio residente avrà allora l'opportunità di impregnare le femmine del gruppo, aumentando la sua capacità riproduttiva a spese del leader precedente.

Altri primati, come gli scimpanzé e le scimmie ragno lanose, vivono in gruppi con molti maschi e molte femmine. In questi gruppi i maschi sono un poco più grandi delle femmine, ma non in modo così vistoso come negli harem, e le femmine sessualmente pronte alla riproduzione si accoppiano con più partner. Sebbene i maschi non si azzuffino per le femmine quanto i maschi che vivono negli harem, essi possiedono testicoli più grandi, che si pensa servano a facilitare la competizione tra lo sperma dei potenziali padri dopo l'accoppiamento, attraverso un meccanismo chiamato «competizione dello sperma».

Le strategie riproduttive del maschio monogamo, come il gibbone, differiscono dal modello del combattimento diretto maschio contro maschio nell'harem; in queste specie i corpi e i denti dei due sessi sono pressappoco uguali e i maschi competono tra loro in combattimenti vocali.

Le femmine possono partorire un numero limitato di volte e quindi è nel loro interesse evolutivo concepire una prole che sia abbastanza sana da crescere e riprodursi. Le femmine scelgono un compagno che dia segno di possedere «buoni» geni, una strategia riproduttiva inconscia nota come «scelta femminile». Una femmina di primate sessualmente attiva preferirà un maschio di alto status, grosso o con un mantello di pelo appariscente. Le femmine potranno anche accoppiarsi con maschi che condividono con loro il cibo, le difendono o giocano con i loro figli: un maschio di questo tipo potrebbe essere di aiuto per la prole futura. Anche le donne esprimono tali preferenze, ma probabilmente attribuirebbero i loro desideri a un'attrattiva sessuale piuttosto che alla ricerca di contributi genetici positivi da parte del padre.

Poiché partorire, allattare, trasportare e allevare i figli sono attività fisiologicamente impegnative, le madri devono ottenere le necessarie risorse di cibo, acqua e rifugio. Piuttosto che combattere per l'altro sesso, le femmine lotteranno per ottenere risorse; una strategia consiste nel raggiungere un alto grado nella gerarchia dominante delle femmine. Anche se la gerarchia sociale femminile non è presente in tutte le specie, il successo di una femmina nell'ottenere cibo e nel generare figli è strettamente correlato al suo status all'interno di una specie gerarchica.

La responsabilità per l'allevamento della prole ricade pesantemente sulle madri, in parte perché i primati non umani non concepiscono il concetto di paternità. Le femmine adulte che vivono in un harem devono difendere se stesse e i loro piccoli dall'aggressività dei maschi, così le femmine si riuniscono in gruppo per proteggere i figli dai potenziali aggressori. Questo tratto «parentale» si estende ad altri aspetti dell'allevamento dei figli ed è comune in vari tipi di gruppi sociali. Si tratta di un comportamento più comune tra femmine geneticamente apparentate. Benché taluni parenti, come le zie e le nonne, possano essere fondamentali per la sopravvivenza di un neonato, l'attuale teoria dell'evoluzione (convalidata dalle scoperte di Harlow) indica nella madre l'individuo più importante nella vita di un neonato.

Quando alcune delle scimmie di Harlow furono inseminate artificialmente e partorirono, si dimostrarono talmente incapaci che i loro piccoli, allo stato brado, non sarebbero mai sopravvissuti. Isolate e private del contatto fisico con le loro madri (e anche con altre scimmie), queste scimmie avevano subito una selezione «al contrario», sebbene in maniera innaturale. Durante la fase preistorica denominine, anche i neonati dei nostri antenati venivano privati del costante contatto fisico con le madri, ma in condizioni completamente naturali. I sopravvissuti di questo esperimento naturale se la cavarono meglio delle scimmie di Harlow: infatti essi prepararono la scena per il futuro della nostra specie.

La deambulazione eretta: il catalizzatore per un esperimento preistorico

Quando le stirpi dell'ominine e degli scimpanzé, tra i cinque e i sette milioni di anni fa, cominciarono a divergere da una comune popolazione africana, i nostri antenati imboccarono un sentiero che li avrebbe condotti a uno dei più critici esperimenti naturali di tutta la preistoria umana.9 In questo esperimento naturale, come in quello di Harlow, i neonati furono privati del costante calore e della protezione del corpo delle loro madri. Abbiamo appreso che l'impulso che condusse a questo esperimento fu il passaggio dalla deambulazione a quattro gambe (andatura quadrupede) a quella a due gambe (bipedismo).

Anche se molti paleoantropologi pensano che la selezione verso la deambulazione bipede sia stato il fattore cruciale che causò la separazione fra ominine e scimmie antropomorfe, essi non sanno dire perché la postura eretta sia diventata un obiettivo della selezione naturale. Forse la sua funzione primaria fu di liberare le braccia in modo da fabbricare migliori utensili di pietra o portare meglio cibo, acqua, rami o rocce? Oppure la postura eretta fu prescelta quando gli ominini si alzarono da terra per raccogliere frutti, noci e insetti dagli alberi, o per osservare il terreno circostante al di sopra dell'erba alta, alla ricerca di selvaggina o di predatori? Dato che la possibilità di correre la maratona è una prerogativa unica dell'uomo, allora il vantaggio primario del bipedismo è dato dalla possibilità di inseguire le prede (caccia continua)?10 Oppure ancora, il vantaggio iniziale della postura eretta era di esporre una quantità di pelle minima all'azione dannosa dei raggi ultravioletti del bruciante sole africano.11

Impossibile districarsi tra queste ipotesi, nonostante alcune siano state recentemente criticate dopo la scoperta di nuovi fossili che potrebbero essere di ominine. In Africa centrale, più precisamente nel Ciad, nell'estate del 2002 una squadra francese diretta da Michel Brunet portò alla luce il fossile di ominine forse più antico che si conosca a oggi. Questa nuova specie, detta Sahelanthropus tchadensis (soprannominato Toumai, cioè «speranza di vita»), sorprese i paleo-antropologi sia per la sua età (tra i sei e i sette milioni di anni) sia perché aveva vissuto in una lussureggiante foresta invece che nella solita prateria della savana, come ci si sarebbe aspettati. Questo presunto bipede quindi non sarebbe stato spinto a scrutare al di sopra dell'erba alta, né avrebbe dovuto temere le scottature; per di più risultava inverosimile che Toumai usasse le mani e le braccia libere per farsi utensili di pietra, dato che questi non sarebbero apparsi nell'elenco dei fossili per almeno altri tre milioni di anni. Le stesse osservazioni valgono per un potenziale ominine di poco più giovane (circa sei milioni di anni), l’Orrorin tugenensis (cioè «uomo originario del Tugen»), scoperto nel 2000 in Kenya da Brigitte Senut e Martin Pickford. Pare quindi che gli scienziati siano ancora ben lontani dallo scoprire perché i nostri antenati abbiano adottato la postura eretta.

Anche se non c'è accordo sul perché si sia sviluppato il bipedismo, la documentazione dei fossili dimostra inequivocabilmente che esso comparve presso i nostri primi antenati, gli australopitecini. Il passaggio non fu rapido. Uno dei fossili più completi in grado di fornire dati fondamentali è lo scheletro parziale ritrovato in Etiopia della celebre Lucy, risalente a 3,2 milioni di anni fa. Sebbene adulta, Lucy era alta solo 107 centimetri; le ossa pelviche e della gamba dimostrano che era in grado di camminare con un'andatura bipede, ma aveva lunghe braccia scimmiesche e ossa delle dita ricurve, indicanti che la sua specie (Australopithecus afarensis) passava ancora diverso tempo - e probabilmente dormiva anche -sugli alberi. La disposizione dei legamenti muscolari del bacino di Lucy indica inoltre che la sua andatura bipede doveva essere meno fluida di quella degli esseri umani. Gli scimpanzé quando camminano su due zampe lo fanno ondeggiando, e probabilmente anche Lucy si muoveva un po' così.

La pelvi di Lucy non era tuttavia esattamente come quella di uno scimpanzé: ai lati era più corta e leggermente ricurva in avanti, pressappoco come la nostra. L'osso sferico che collegava la parte superiore della coscia di Lucy al suo bacino aveva un lungo «collo», il che indica che nella sua specie non era ancora intervenuta l'espansione evolutiva dei fianchi delle donne. Tra l'altro il volume del cervello di adulti e piccoli dei primi australopitecini era pari a quello degli scimpanzé. Queste scoperte mostrano che, sebbene il bacino si fosse chiaramente modificato per la locomozione bipede, le femmine della specie di Lucy continuavano a partorire abbastanza facilmente, come succede nei primati tuttora esistenti.12 I parti dolorosi e protratti che le donne sperimentano oggi sarebbero insorti successivamente, quando una combinazione fra cervelli più grandi e bacini più stretti avrebbe creato nel canale del parto della partoriente un passaggio insopportabilmente stretto per la testa del feto. Solo allora, cioè quando i bambini cominciarono a nascere sempre più immaturi e indifesi, sarebbe cominciato l'esperimento naturale della separazione madre-figlio.

Tracce di creature piccole e dalle lunghe braccia come Lucy furono registrate nella documentazione dei fossili per milioni di anni. Ad esempio lo scheletro parziale OH 62 (Homo habilis) ritrovato nella Gola di Olduvai, in Tanzania, somiglia a Lucy e risale a circa 1,8 milioni di anni fa (è dunque un milione e mezzo di anni più recente di Lucy). Nel 2004, inoltre, è stata scoperta una donna adulta, alta circa 107 centimetri, con bacino e arti di proporzioni simili a quelli degli australopitecini: si tratta del più controverso rinvenimento di un ominine da ottant'anni a questa parte.13 Molti ritengono che questo esemplare, soprannominato Hobbit, rappresenti una specie umana completamente nuova (Homo floresiensis), che visse fino a diciassettemila anni fa sull'isola di Flores, in Indonesia. Si tratta di una scoperta sconvolgente, se si considera la persistente convinzione che l'Homo sapiens fosse l'unico ominine a essere vissuto in tempi tanto recenti.

Nessuno è in grado di stabilire con sicurezza il grado di parentela, se mai ce ne fu uno, tra questi fossili, ma essi dimostrano tutti che una razza di ominine primitivo di piccola taglia esisteva da molto tempo. Il fatto che i parantropi (australopitecini di costituzione molto robusta) avessero un cranio piccolo come le scimmie antropomorfe e bacini diversi da quelli moderni, dimostra che partorire allora era meno traumatico. Per questi antichi progenitori non serviva una selezione naturale che favorisse dei neonati meno sviluppati e più indifesi. Questo sarebbe avvenuto dopo, quando il cranio del feto divenne troppo largo per scivolare lungo il ristretto canale del parto. I feti degli australopitecini avevano il tempo di crescere nel ventre materno e, come le scimmie comuni e antropomorfe, nascevano già abbastanza sviluppati da potersi aggrappare alla mamma, almeno con le mani.14 Come vedremo nel prossimo capitolo, i piedi si erano già talmente modificati per la deambulazione da aver perso un po' della primitiva forza di presa.

KNM-WT 15 000 è un altro significativo fossile rinvenuto in Africa orientale e risalente a 1,6 milioni di anni fa. Il reperto, scoperto da Alan Walker e Kamoya Kimeu, proviene da un sito chiamato Nariokotome del Turkana occidentale, in Kenya, ed è il più antico scheletro quasi completo di Homo erectus (vince il primo premio anche come fossile di ominine con più soprannomi: « 15 K», «Nariokotome», «Giovanotto di Turkana» e «Giovane vigoroso»). Quando nel 1985 fu annunciata la sua scoperta, questo ormai famoso scheletro stupì i paleoantropologi perché il suo corpo era radicalmente diverso da quello dei vicini australopitecini. WT 15 000 sono i resti fossilizzati di un ragazzo tra gli otto e gli undici anni, le cui braccia e gambe avevano le stesse proporzioni dell'uomo moderno. Inoltre, questo ragazzo aveva già raggiunto i 160 cm di altezza e da adulto avrebbe probabilmente superato i 180 cm, quindi non assomigliava affatto a Lucy, di bassa statura e dalle lunghe braccia, né al suo quasi contemporaneo OH 62.15

Il vigoroso adolescente era alto e le sue proporzioni simili a quelle dell'uomo moderno, ma il bacino era molto più stretto, tanto da far sospettare che il bacino e il canale del parto della femmina di Homo erectus fossero altrettanto stretti e i loro neonati fossero, alla nascita, più piccoli dei nostri;16 si tratta peraltro di un'ipotesi controversa.17 Gli antropologi misurano normalmente il volume della scatola cranica, definita capacità cranica, per stabilire le dimensioni del cervello. La capacità cranica di WT 15 000 era al di sotto dei 900 cm3, e se avesse raggiunto la maturità non sarebbe aumentata di molto,18 ma sarebbe stata il doppio di quella di un normale australopitecino adulto (450 cm3), e due terzi al di sotto di quella dell'uomo moderno (1350 cm3).

A causa dell'evolversi del bacino e dell'aumento delle dimensioni del cranio, il parto per le femmine dell'Homo erectus divenne più difficoltoso di quanto non lo fosse per le antenate australopitecine. Se così è stato vuol dire che il feto di Homo erectus, durante il primo anno di vita, subiva un significativo aumento dello sviluppo cranico, anche se minore di quello dei nostri bambini. Aver rimandato in parte lo sviluppo del cranio a dopo il parto sarà servito a facilitare il passaggio attraverso un bacino più piccolo, ma ciò ebbe un costo: lo sviluppo neurologico dilazionato dei neonati di Homo erectus avrà comportato uno sviluppo motorio più lento, ragion per cui aggrapparsi autonomamente alle madri sarà stato più difficile.

Probabilmente una madre di Homo erectus si sarà servita di un marsupio per trasportare il suo piccolo mentre raccoglieva cibo, acqua e altre cose utili. Sfortunatamente non sappiamo quando i marsupi entrarono in uso, ma, secondo Adrienne Zihlman dell'Università della California di Santa Cruz, essi furono probabilmente uno dei primi utensili inventati dall'uomo.19 Poiché i tessuti sono stati archeologicamente registrati in tempi relativamente recenti,20 dobbiamo presumere che i marsupi dell'Homo erectus non fossero di stoffa, e nemmeno di materiale vegetale intrecciato come hanno ipotizzato alcuni antropologi, ma fossero ricavati dalle pelli degli animali cacciati o dalle loro carogne.

Che cosa succedeva prima della comparsa dei marsupi? Per rispondere alla domanda dobbiamo prendere in considerazione gli antenati dell'Homo erectus, che si separarono dagli australopitecini circa due milioni di anni fa. In quel momento il bipedismo si scontrò con il progressivo aumento delle dimensioni del cranio. L'evoluzione iniziò a trasformare i piccoli bipedi, di dimensioni simili alle scimmie antropomorfe, in esseri umani alti, dalla camminata aggraziata, come nel caso del fanciullo di Homo erectus del Turkana, la cui prole tuttavia trovava sempre più difficile restare aggrappata al corpo della madre. Così ebbe inizio l'esperimento naturale che, come indicato dalla pelvi e dal cranio di 15 K, potrebbe risalire a più di 1,6 milioni di anni fa.21

Prima dei marsupi

Considerate quanto fosse opprimente la pressione evolutiva per l'Homo erectus. La ben documentata tendenza all'aumento del volume del cervello avrà aumentato la mortalità fra i neonati nati a termine: le loro grosse teste avranno avuto sempre maggiori difficoltà a passare attraverso i sempre più ristretti canali del parto. I loro geni furono eliminati dal patrimonio genetico non solo dalla loro morte, ma anche da quella delle loro madri, che spesso morivano durante il parto. Miriadi di neonati più grossi e di madri in travaglio saranno morti durante la lunga e difficile transizione verso il bipedismo. La selezione naturale deve essere stata così severa che il progressivo restringimento del canale del parto può essere visto come un «collo di bottiglia dell'evoluzione» che servì a rimodellare drasticamente la nostra specie. Ci saranno naturalmente state delle varianti nella tempistica di questo passaggio: i neonati le cui teste restavano relativamente piccole fino a dopo la nascita saranno riusciti a scendere più o meno bene lungo gli stretti canali pelvici, e quindi a sopravvivere. Il drammatico passaggio verso neonati inermi e immaturi cominciò quando la selezione naturale decise di favorire chi presentava uno sviluppo più lento.

Si sarà trattato di un processo graduale ma in costante crescita. Da principio, per gli antenati dell'Homo erectus il parto sarà stato più lungo e doloroso. Mentre la selezione naturale continuava a spingere verso un costante aumento del cervello, la mortalità di feti e puerpere avrà raggiunto livelli senza precedenti e, col tempo, i neonati sopravvissuti avranno parzialmente rimandato lo sviluppo a dopo la nascita. A fronte dei loro parenti scimpanzé, questi neonati sottosviluppati saranno diventati vieppiù dipendenti dalle cure fisiche materne.

Come abbiamo visto, le madri scimpanzé usano inizialmente un braccio per sostenere i loro piccoli, ma non a lungo perché presto i piccoli hanno la forza di aggrapparsi autonomamente. Presso i primi ominini, le madri avranno senz'altro mantenuto l'abitudine degli scimpanzé di cullare tra le braccia i neonati. Ma la crescita continua del cervello e la conseguente incapacità di aggrapparsi precocemente alla madre saranno sfociate nell'impossibilità di sviluppare la forza e la coordinazione motoria necessarie. Questi neonati presto sarebbero diventati troppo pesanti da trasportare per le loro mamme. E allora, che fare?

Indurre qualcun altro a dare una mano nel trasporto dei neonati può esser stata una soluzione: le femmine adolescenti di scimpanzé hanno un forte interesse per i neonati, e questo probabilmente valeva anche per i primi ominini. Così forse fra le femmine antenate dell'Homo erectus si accentuò il comportamento «da balia». Ma ben presto queste «balie» avrebbero concepito e partorito i propri figli, andando incontro a loro volta alla necessità di procacciarsi il cibo. I maschi adulti sarebbero stati di ben poco aiuto, come hanno dimostrato gli scimpanzé della Goodall, che passano la maggior parte del loro tempo lontano dalle femmine e dagli adolescenti. L'esperimento naturale cominciò ben prima che apparissero nella documentazione archeologica le tracce di insediamenti, quindi le madri non lasciavano i neonati a casa, alle cure di altri. In alcuni casi le madri avranno forse nascosto temporaneamente i piccoli nel sottobosco, fra le foglie, ma non era certo una soluzione ideale, a causa dei predatori.

Io credo che le nutrici antenate dell'Homo erectus, che ancora allattavano, continuarono a portare i bambini in braccio o sul fianco mentre andavano a raccogliere cibo, acqua o cercavano un rifugio (forse le madri ominine, durante i loro spostamenti, tenevano i figli col braccio sinistro perché i piccoli preferivano il confortante battito cardiaco materno. Se così fosse, questa abitudine potrebbe aver contribuito alla nostra propensione per l'uso della mano destra?) Durante gli spostamenti le madri avranno periodicamente fatto delle soste per riposare con i loro piccoli, così come le madri delle scimmie antropomorfe. Durante la raccolta però, le madri avranno avuto bisogno di entrambe le mani per prendere bacche, scavare in cerca di radici, o per altre cose del genere, e le «balie» o altri parenti magari non erano nelle vicinanze per tenere i bambini. Restava una sola opzione: mettere il piccolo per terra. Quelle antiche madri saranno comunque restate vicino ai piccoli così separati, e li avranno tenuti d'occhio anche mentre stavano lavorando. Per la prima volta nella preistoria, i neonati furono così privati di quel costante e intimo contatto con il corpo delle madri, di cui avevano estremo bisogno.

Come nel caso del povero Bee-hind (per non parlare delle scimmie di Harlow), quei piccoli saranno stati molto stressati da questo cambiamento. E in effetti i miei giovani informatori mi dimostrano che i bambini moderni chiaramente preferiscono restare in costante contatto fisico con i genitori. Quando ho cominciato a scrivere questo libro, Josie aveva appena scoperto come fare i capricci: aveva deciso di farli su un pavimento senza moquette, dove poteva fare rumore battendoci sopra con il palmo della mano. Non appena ebbe imparato a camminare, Josie si mise a fare i capricci pestando i piedi sul pavimento. «Perché tutte queste bizze?», chiesi alla madre di Josie. «Perché vuole essere presa in braccio», mi rispose, e sembrò sorpresa che dovessi farle una domanda simile.

Anche se fu altamente drammatico per i nostri antenati, e resta tuttora difficile oggi per bimbi come Josie, la perdita del costante contatto tra madre e figlio è stata fondamentale per l'umanità. Il risultato più importante fu che aiutò i nostri antenati a trovare la loro voce.

Note

1 Cfr. Frans X. Plooij, The Behavioral Development of Free-Living Chimpanzee Babies and Infanti, Ablex, Norwood (NJ) 1984.

2 Il termine «ominini» significa la stessa cosa di «ominidi» (cioè i nostri antenati bipedi e noi stessi, ma non le scimmie), anche se qualcuno continua a preferire il termine «ominidi». L'uso più recente di «ominidi», tuttavia, comprende anche le grandi scimmie. Dato che non esiste un sistema chiaro per capire che cosa si intenda quando si parla di «ominidi», mentre il termine «ominini» ha un unico significato - e del resto oggi lo si preferisce per indicare i nostri parenti bipedi e noi stessi -, in questo libro usiamo «ominini».

3 Harry F. Harlow, The Nature of Love, «American Psychologist», XIII, 1958, p. 678.

4 John B. Watson, Psychological Care of Infant and Chili, Norton & Co., New York 1928, pp. 81-82.

5 Cfr. Meredith F. Striali, Our Babìes, Ourselves. How Biology and Culture Shape the Way We Parent, Anchor Books, New York ^98; Peter H. Wolff, The Naturai History ofCryìng and Other Vocalizations in Early Infancy, in Brian M. Foss (a cura di), Determinanti of Infant Behavior, IV, Methuen, London 1969, pp. 81-109.

6 Cfr. Henry M. Halverson, Studies of the Grasping Responses of Early Infancy. I, «Journal of Genetic Psychology», LI, 1937, pp. 371-92.

7 II dizionario Webster definisce «esperimento» una «qualsiasi azione o procedimento intrapreso per scoprire qualcosa di non ancora conosciuto o per dimostrare qualcosa di conosciuto». Questa definizione implica l'esistenza di uno sperimentatore cosciente, mentre l'espressione «esperimento naturale» no. Quest'ultimo si riferisce a un evento o procedimento che avvengono in modo spontaneo e dai quali possiamo ricavare ulteriori informazioni su qualcosa o imparare qualcosa di nuovo. Ad esempio, il fatto che Madam Bee sia stata colpita dalla poliomielite e dopo abbia dato alla luce Bee-hind, fu un esperimento naturale. Mentre i primi due nati di Madam Bee prosperarono, Bee-hind morì subito dopo la nascita perché non riusciva a stare attaccata alla madre; ciò significa che il prolungato contatto fra i neonati e le loro madri è essenziale non solo per le scimmie comuni, ma anche per le scimmie antropomorfe.

8 È stupefacente che Darwin e Wallace abbiano formulato la loro teoria senza saper nulla dei geni. Oggi noi li conosciamo grazie a Gregor Mendel. I geni sono le particelle dei cromosomi portatrici dei caratteri ereditari e sono responsabili dei cambiamenti evolutivi: come abbiamo visto, essi vengono disseminati da una riproduzione riuscita.

9 Malgrado miriadi di studi di genetica comparativa e molecolare, nonché l'evidenza della documentazione sui fossili, convergano in questa stima circa la datazione della separazione tra ominine e scimpanzé, tra gli esperti qualcuno comincia a sussurrare che questa data sia in effetti troppo recente. Restate sintonizzati!

10 Cfr. Dennis M. Bramble e Daniel E. Lieberman, Endurance Running and the Evolution of «Homo», «Nature», 432, 7015, 2004, pp. 345-52.

11 Cfr. Pete E. Wheeler, Stand Tall and Stay Cool, «New Scientist», XII, 12 maggio 1988, pp. 62-65.

12 Poiché le scimmie antropomorfe sono i migliori modelli viventi dell'ominine, sappiamo che partorire non sarà stato complicato prima che la forza irresistibile del volume cerebrale in aumento venisse a scontrarsi con la realtà delle modifiche del bacino legate al bipedismo. Le scimmie antropomorfe hanno cavità pelviche più ampie delle teste dei loro neonati, quindi i parti sono veloci e facili. I corpi dei neonati delle scimmie antropomorfe sono piccoli rispetto agli adulti ma dopo la nascita recuperano rapidamente; i loro cervelli invece non crescono quanto quelli dei neonati umani.

13 Cfr. Peter Brown, Thomas Sutikna, Michael J. Morwood, Radien P. Soejono, Jatmiko, E. Wayhu Saptomo e Rokus Awe Due, A New Smatt-Bodied Hominin from the Late Pleistocene ofFlores, Indonesia, «Nature», 431, 7012, 2004, pp. 1055-87; Michael J. Morwood, Radien P. Soejono, Richard G. Roberts, Thomas Sutikna, Chris S. Turney, Kira E. Westaway, W. Jack Rink, Jian-xin Zhao, Gert D. van den Bergh, Rokus Awe Due e al., Archaeology and Age of a New Hominin from Flores in Eastem Indonesia, «Nature», 431, 7012, 2004, pp. 1087-91.

14 La natura della nascita rimane una questione aperta per quanto riguarda la specie vivente molto più recente, ovvero Homo floresiensìs, perché il volume di LBi (la sigla museale dello Hobbit) era pressappoco simile a quello dell'australopitecino. Cfr. Dean Falle, Charles Hildebolt, Kirk Smith, Michael J. Morwood, Thomas Sutikna, Peter Brown, Jatmiko, E. Wayhu Saptomo, Barry Brunsden e Fred Prior, The Brain ofLBi, «Homo Floresiensis», «Science», 308, 5719, 2005, pp. 242-45.

15 Anche un terzo ominine, Paranthropus (o «australopitecino robusto»), è vissuto circa 1,5 milioni di anni fa, ma questo gruppo raramente viene considerato come un possibile antenato diretto dell'uomo.

16 Cfr. Alan Walker e Christopher B. Ruff, The Reconstructìon ofthe Pelvis, in Alan Walzer e Richard Leakey (a cura di), The Nariokotome «Homo Erectus» Skeleton, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) t993, pp. 221-33.

17 Mentre questo libro va in stampa, l'ipotesi che le femmine dell'antico Homo erectus avessero un ristretto canale del parto è messa in discussione dall'annuncio della scoperta di quello che potrebbe essere il primo bacino quasi completo di una femmina di Homo erectus: cfr. Scott W. Simpson e al., A Vernale «Homo erectus» pelvis from Gona, Ethiopia, «Science», 322, 5904, 2008, pp. 1089-92.

18 I neonati di scimpanzé hanno in media una capacità cranica (un buon indicatore del volume del cervello) di circa r5o cm3, contro i 375 cm3 circa degli scimpanzé adulti, quindi nascono con il 40 per cento della capacità che avranno da adulti, e questa non è una cattiva stima per gli australopitecini. Il neonato dell'uomo nasce con una capacità cranica di circa 350 cm3, e raggiungerà i 1 350-1 400 cm3 circa in età adulta: il neonato umano quindi nasce con un 25 per cento di capacità cranica rispetto a quella che avrà da adulto. Se la capacità cranica dell'Homo erectus fosse stata una via di mezzo fra quella degli australopitecini e quella degli umani (com'è nel caso di WT 15 000), allora essa sarebbe stata del 33 per cento, ossia un terzo, della capacità da adulto, il che ci darebbe circa 300 cm3. Per informazioni più dettagliate sul volume del cervello dei neonati cfr. Jeremy M. DeSilva e Julie J. Lesnik, Brain Size at Birth Throughout Human Evolution. A New Method for Estimating Neonatal Brain Size in Hominins, «Journal of Human Evolution», X, 2008, pp. r-ir. I calcoli di De Silva e Lesnik sul volume del cervello dei neonati sono molto vicini a quelli qui presentati, a eccezione dei neonati umani che, secondo le loro stime, nascono non con il 25 per cento, ma con il 30 per cento della massa cerebrale di un adulto. Secondo il nuovo rapporto citato nella nota precedente (Simpson e al. 2008), il volume massimo del cervello del neonato che la pelvi attribuita a una femmina di Homo erectus avrebbe potuto partorire sarebbe stato di 315 cm3, il che corrisponde grosso modo ai 300 cm3 qui citati per WT 15 000.

19 In risposta all'ipotesi dell'uomo-cacciatore, Adrienne Zihlman ha scritto spesso riguardo a quella che è divenuta nota come l'ipotesi della donna-raccoglitrice. Cfr. ad es. Adrienne L. Zihlman, Gathering Stories for Hunting Human Nature, «Feminist Studies», XI, 1985, pp. 365-77. Insieme ad altri antropologi, Zihlman sostiene che le donne potrebbero essere le responsabili delle più antiche invenzioni di utensili, inclusi i marsupi. Cfr. anche Sally Linton, Woman the Gatherer. Male Bias in Anthropology, in Sue-Ellen Jacobs (a cura di), Women in Cross-CulturalPerspective. A Prelimìnary Sourcebook, University of Illinois Press, Champain-Urbana (111.) 1971, pp. 9-21.

20 Cfr. James M. Adovasio. Olga Soffer e Jake Page. The Invisible Sex. Uncovering the True Roles of Women in Prehistory, Harper Collins, New York 2007.

21 Se solo potessimo scoprire i fossili determinanti! A tutt'oggi la documentazione fossile non è in grado di dirci quando ebbe origine l'Homo erectus, né dove (presumibilmente in qualche punto dell'Africa, anche se di recente si è sentito mormorare dall’Asia).

4. In che modo i nostri antenati trovarono la loro voce

Non piangere

Non piangere, figlio mio, / Oh non piangere, piccolo mio, / Perché io, tua madre, sono qui, / Oh non piangere, figlio mio.

Ninna nanna nigeriana

Molto tempo prima dell'invenzione dei marsupi le madri mettevano a terra i loro neonati quando dovevano occuparsi delle faccende quotidiane. I piccoli non avranno gradito di essere separati, sia pure momentaneamente, dalle loro mamme, più di quanto non lo siano state le scimmie di Harlow, i piccoli scimpanzé, o i bambini della nostra epoca. E come questi ultimi, anche i bambini dei nostri antenati avranno protestato con pianti e lamenti.

A questo punto dell'evoluzione, io credo che le madri abbiano iniziato a mantenere il contatto con i figli vocalmente. La voce rasserenante avrà ogni tanto sostituito il conforto dell'abbraccio, mentre la madre altrimenti occupata conciliava il sonno del bimbo, assicurandolo della sua presenza. Questa idea, che ho chiamato ipotesi del «mettere giù il bimbo» (Putting the Baby Down, ptbd),1 è conforme alle nuove scoperte paleo-antropologiche sull'intervallo di tempo tra i cinque-sette milioni di anni fa, quando i nostri antenati si separarono dagli scimpanzé, e i 1,6 milioni di anni fa, al tempo in cui l'Homo erectus disponeva sia di marsupi per trasportare i neonati sia di una primitiva forma di linguaggio. Fu durante questo lungo e misterioso intervallo che i nostri antenati iniziarono a comunicare verbalmente.

Il turno di notte

Gli ominini subirono un cambiamento radicale nel loro stile di vita, soprattutto quando scesero dagli alberi per vivere a terra. Una volta pensavamo che i primi ominini avessero perfezionato l'andatura bipede viaggiando nelle praterie aperte, ma questa teoria è stata smentita dalla scoperta dei fossili di antenati che vissero da sette a tre milioni di anni fa in zone boscose dell'Africa. I fossili dimostrano che Sabelantbropus, Orrorin e Lucy (Australopithecus afarensis) camminavano molto probabilmente su due gambe. Le ossa delle dita di mani e piedi di alcuni ominini sono state ritrovate anche in aree boscose dell'Africa, e quelle ossa risultano un po' ricurve, come quelle delle scimmie che vivono sugli alberi, e non dritte come le nostre. Le lunghe braccia di Lucy hanno fatto sospettare che i suoi simili passassero il loro tempo sia sugli alberi sia a terra. Come dice Martin Pickford del Collège de France di Parigi: «Si considera probabile che il bi-pedismo si sia evoluto nelle foreste o in ambienti boscosi, e che solo successivamente gli ominini bipedi si avventurarono in spazi più aperti. Quindi l'andatura bipede fu uno sviluppo che consentì agli ominini l'invasione dello spazio aperto, e non il contrario, come spesso si è ritenuto».2

Ovviamente i nostri antenati non solo continuarono a vivere in habitat boscosi o nelle foreste per molto tempo ancora dopo la loro separazione dagli scimpanzé, ma continuarono anche a passare del tempo sugli alberi, pur proseguendo nel perfezionamento dell'andatura bipede; e ciò per ottime ragioni: gli alberi offrono una scappatoia dai famelici leopardi e leoni, e consentono sonni sicuri e tranquilli. I nostri antichi predecessori avranno ereditato dagli scimpanzé l'abitudine di arrampicarsi sugli alberi di notte per costruirsi un confortevole giaciglio, e sarebbe sorprendente se non avessero trasmesso tale comportamento di salvaguardia alle generazioni successive.

Anche le altre scimmie spesso dormono sugli alberi per evitare i predatori, ma non si costruiscono i giacigli. Lo speciale comportamento che consiste nell’arrampicarsi su un albero, trovare il giusto ramo biforcuto, piegare e intrecciare i rami a formare un giaciglio si sviluppò solo presso le grandi scimmie, che se ne servivano per evitare le cadute e a scopo di mimetizzazione. Quando il «nido» è pronto, la scimmia si arrampica (con il suo piccolo, se ne ha uno) e si sistema per dormire, spesso chiamando a destra e a manca le scimmie più vicine. Le grandi scimmie, come gli esseri umani, dormono distese in orizzontale, e come le grandi scimmie anche gli esseri umani dormono ancora nei «nidi» (noi li chiamiamo letti), anche se noi tendiamo a usare lo stesso giaciglio notte dopo notte.

Naturalmente i nostri antenati a un certo punto smisero di dormire sugli alberi. Probabilmente questo cambiamento fu provocato dalla volubilità del clima africano, che trasformò i luoghi abitati dalle scimmie antropomorfe e dagli ominini in zone più secche, per cui gli alberi cominciarono a scomparire. Tre milioni di anni fa il clima divenne più stagionale e arido e durante i seguenti due milioni di anni la prateria sostituì le foreste.3 Mentre l'ambiente cambiava, gli antenati degli scimpanzé e dei gorilla furono confinati nelle poche aree boscose rimaste, o nei rifugi. Ancor oggi i discendenti di quei primati vivono nelle stesse aree boscose dell'Africa. Invece i nostri antenati presero una via del tutto diversa: quando gli alberi cominciarono a scarseggiare, essi iniziarono a costruirsi i loro «nidi» a terra, come fanno tuttora i grandi gorilla.4

Questo ebbe profonde conseguenze per l'evoluzione umana. Lo psicologo Frederick Coolidge e l'archeologo Thomas Wynn pensano che nel trasferimento a terra i ritmi del sonno degli umani siano cambiati, differenziandoli dagli scimpanzé, a causa del pericolo costituito dai predatori notturni.5 I primi ominini probabilmente diminuirono la durata del sonno, aumentando nel contempo la fase rem (contraddistinta dal rapido movimento degli occhi), dal quale potevano essere svegliati più facilmente.6 La fase rem è importante per gli uomini moderni perché aiuta a consolidare nella memoria i meccanismi che servono ad esempio a imparare a giocare a scacchi o le regole grammaticali.7 Questo spiega probabilmente perché i nostri neonati passano quattro volte più tempo degli adulti nella fase rem, accompagnando il sonno con movimenti labiali di suzione e fluttuazioni delle palpebre. La fase rem è anche quella in cui si sogna più vividamente: sogni in cui si affrontano pericoli, si ripassano le interazioni dei rapporti sociali, si fanno collegamenti che danno luogo a lampi di comprensione o ispirazione.8 Coolidge e Wynn ipotizzano che mettersi a dormire per terra abbia provocato nuove abitudini che, col tempo, hanno contribuito all'evoluzione della creatività e dell'innovazione. Ne parleremo più diffusamente nel cap. 9.

Nonostante questo vantaggio, i nostri antenati devono aver passato notti agitate. I pericoli insiti nel giacere a terra saranno diventati più insidiosi quando, tre milioni di anni fa, i neonati cominciarono a nascere sempre più indifesi. In questo periodo di difficile transizione, molti piccoli saranno stati mortalmente feriti cadendo dalle braccia delle madri. I reperti fossili suggeriscono che l'adozione della vita a terra da parte dei nostri antenati portò probabilmente all'uso dei marsupi nel periodo in cui visse il ragazzo di Turkana, 1,6 milioni di anni fa. Ma quanto tempo prima le madri avranno cominciato a posare a terra i loro neonati e a mormorare per calmarli? Quando cominciò a essere usato il maternese?

Lo scalpiccio dei piedini fossili

Nel 2006 fu annunciata la scoperta dello scheletro di una bimba di tre anni di 3,3 milioni di anni fa:9 i resti provenivano dalla regione etiopica di Dikika, e questo scheletro fu affettuosamente soprannominato Baby Dikika.

Sia Lucy sia Baby Dikika appartengono alla medesima specie, Australopithecus afarensis, ma di Baby Dikika si rinvennero non solo il cranio intero e il torso completo, scapole comprese, ma anche lo ioide, il piccolo osso del collo10 che ha avuto un posto preminente nelle discussioni sull'origine del linguaggio e che fino a quel momento non era mai stato trovato negli australopitecini.11 Per di più la piccola aveva varie dita delle mani intatte e un piede quasi completo, e ciò ha permesso di raccogliere informazioni vitali sul sistema di vita degli australopitecini.

Alcuni particolari dell'anatomia di Baby Dikika, ad esempio la dimensione del cervello e la forma dell'orecchio interno, il naso, i denti da latte frontali, e l'osso ioide, sono simili a quelli delle giovani scimmie antropomorfe. Le sue scapole, le due ossa piatte e triangolari situate sulla faccia posteriore del torace, sono rivolte verso l'alto nel punto dove si congiungono alle braccia, come nel gorilla, mentre negli umani esse sono rivolte verso i lati. L'orientamento delle ossa scapolari determina il portamento delle braccia e in una certa misura anche i loro movimenti. L'orientamento delle scapole del gorilla è compatibile con le frequenti estensioni delle sue braccia al di sopra della testa per le arrampicate sugli alberi, e così l'orientamento della scapola di Baby Dikika indica che gli altri della sua specie facevano la stessa cosa, specialmente da quando vissero nei boschi. La riprova è fornita dalle ossa delle dita che, contrariamente alle mie e alle vostre, sono lunghe e ricurve. In effetti «un dito era ancora incurvato, come stretto in un piccolo pugno».12 Si direbbe che questa bimbetta sapesse ancora attaccarsi.

La parte inferiore del corpo, tuttavia, sembrerebbe suggerire altrimenti. Come gli altri della sua specie, gli arti inferiori di Baby Dikika erano fatti per camminare, come dimostrano la forma e gli angoli dei femori, le rotule, le ossa della parte inferiore della gamba, il calcagno e la pianta del piede sinistro. Il suo straordinario scheletro dimostra che gambe e piedi si stavano sviluppando più del resto del corpo e che la sua specie si aggirava sia a terra sia sulle piante. Dice Zeresenay Alemseged: «Io vedo gli A. afarensis come bipedi che facevano provvista di foraggi [...] arrampicandosi sulle piante quando necessario, specialmente da piccoli».13

Ma Baby Dikika era ancora in grado, come ogni buon scimpanzé, di aggrapparsi al corpo della madre? La prensilità delle dita delle sue piccole mani lo farebbe supporre, i piedi invece sollevano qualche dubbio. Le scimmie antropomorfe hanno un alluce flessibile che sporge ai lati dei piedi, quasi come i nostri pollici opponibili; gli alluci dell'uomo sono più rigidi e sono allineati con le altre dita, una configurazione più efficiente per distribuire il peso del corpo durante la camminata. Passando alla deambulazione bipede, i nostri alluci cessarono di funzionare come un altro paio di mani, divennero non opponibili e noi perdemmo la possibilità di afferrare con i piedi.

Anche se il calcagno e la pianta del piede sinistro di Baby Dikika suggeriscono l'andatura eretta, non sappiamo se il suo alluce fosse ancora prensile: un alluce separato e fossilizzato appartenente a Baby Dikika è imprigionato nell'arenaria calcarea. Quando verrà estratto sapremo se la piccola si stringeva alla madre sia con le mani sia con i piedi, oppure se le stava attaccata usando solo le dita delle mani.

Le madri degli ominini dovrebbero aver speso più energie per sostenere e trasportare i loro piccoli, ormai incapaci di attaccarsi con mani e piedi. Così se l'alluce della piccola Dikika non era prensile, le madri potrebbero aver cominciato a poggiare a terra i loro figlioletti anche prima di tre milioni di anni fa. E questo potrebbe essere stato il primo passo in epoca preistorica verso un cambiamento drastico nella cura dei figli. Dopo la morte di Baby Dikika, le aree boscose si restrinsero sensibilmente, gli ominini cominciarono a dormire per terra, e l'abbinamento tra un cervello più grande e un canale del parto più stretto diede origine a neonati più piccoli, meno sviluppati, dipendenti in tutto e per tutto dalle madri. Da quel momento la comunicazione verbale tra le madri e i loro piccoli, messi lì accanto, sarebbe diventata importante.

Altri indizi suggestivi ricavabili dai fossili fanno supporre che la transizione completa verso l'usanza di dormire per terra abbia richiesto un tempo lunghissimo. Per buona parte della preistoria i nostri antenati vissero in Africa. Circa due milioni di anni fa, alcuni cominciarono e migrare fuori dall'Africa, iniziando quel lungo processo che portò alla colonizzazione umana di buona parte del pianeta. Quelle prime migrazioni avvennero a piedi e i paleoantropologi hanno per molto tempo supposto che i primi nomadi assomigliassero a WT 15 000, il longilineo ragazzo dalle proporzioni umane vissuto 1,6 milioni di anni fa.

Le più recenti scoperte hanno tuttavia dimostrato che gli ominini che sembravano più primitivi avevano lasciato l'Africa e si erano stabiliti in Eurasia già circa 1,8 milioni di anni fa. I teschi di questi ominini, rinvenuti a Dmanisi, in Georgia, hanno fattezze che si collocano fra gli australopitecini e i primi esemplari di Homo erectus. Uno degli esemplari, ad esempio, ha una capacità cranica di circa 600 cm3, più grande quindi dei 450 cm3 comuni fra gli australopiteci-ni, ma inferiore ai 900 cm3 di WT 15 000.15 Dato il carattere di passaggio di questi teschi e dato che gli australopiteci-ni e i primi Homo erectus avevano una costituzione corporea del tutto diversa, gli scienziati erano ansiosi di sapere come erano fatti i corpi appartenenti a quei teschi. Sarebbero stati simili a Lucy o a WT 15 000, o una via di mezzo?

David Lordkipanidze del Museo Nazionale della Georgia e i suoi colleghi analizzarono gli scheletri di tre nuovi ominini portati alla luce a Dmanisi, uno grande e due più piccoli, e anche lo scheletro parziale di un adolescente (che potrebbe essere di poco più vecchio di WT 15 000).16 Essi scoprirono che gli ominini di Dmanisi erano transizionali sia nella struttura corporea sia nelle dimensioni del cervello. Gli adulti erano alti tra i 150 e i 160 cm, più alti quindi dei 107 cm di Lucy, ma più bassi dell'altezza che avrebbe avuto da adulto WT 15 000, calcolata in 182 cm circa. D'altra parte le gambe degli Dmanisi erano lunghe come quelle degli uomini moderni e le proporzioni delle loro spine dorsali e degli arti appaiono più moderne di quelle degli australopi-tecini. Secondo Lordkipanidze, gli ominini camminavano tenendo i piedi rivolti leggermente all'interno, esercitando una pressione pressoché uniforme su tutte le dita dei piedi, contrariamente a quanto avviene quando gli esseri umani camminano a grandi passi, ma questa interpretazione è stata messa in discussione.17 La conclusione, alla fin fine, è stata che questi ominini primitivi erano in grado di percorrere lunghe distanze.

Per quanto fossero chiaramente bipedi esperti, gli ominini di Dmanisi avevano scapole angolate verso l'alto, quindi compatibili con l'abitudine di arrampicarsi sugli alberi, proprio come nel caso di Baby Dikika 1,5 milioni di anni prima. È interessante notare che quest'ultima caratteristica cambiò assai bruscamente: duecentomila anni dopo gli ominini di Dmanisi, le scapole di WT 15 000 non avevano più l'angolazione verso l'alto.18

Se le madri di Dmanisi usavano ancora le lunghe braccia scimmiesche per arrampicarsi sugli alberi, i loro piccoli, privi dell'alluce opponibile, probabilmente furono vittime della selezione naturale, finendo per sfuggire alle madri e precipitare a terra. E i gruppi di ominini che permettevano alle mamme e ai loro piccoli di dormire da soli in terreno pericoloso saranno stati scartati. Saranno state probabilmente le madri di neonati sempre più indifesi a smettere di dormire sugli alberi, attirando il resto del gruppo fuori dal «nido» arboreo, giù al suolo. Dopo il passaggio dall'albero al suolo e la conseguente perdita dell'abilità nell'arrampicarsi, i primi ominini avevano bisogno sia di maggiore protezione contro i predatori, sia di nuovi metodi per prendersi cura dei piccoli, e la soluzione a entrambi i problemi poteva venire solo dall'ambito sociale. Possiamo così concludere con sicurezza che circa 1,8 milioni di anni fa, al tempo degli ominini di Dmanisi, l'esperimento naturale che spinse le madri ad appoggiare regolarmente a terra i figli era felicemente in corso.

Il bimbo vien messo giù

Frank Marlowe ha condotto un'approfondita ricerca sul passaggio degli ominini dal riposo sugli alberi a quello al suolo.19 Egli descrive il ritmo quotidiano degli scimpanzé nella formula «mangia mentre ti sposti (e dormi dove ti trovi)», e i primissimi ominini dimoranti sugli alberi avrebbero seguito la stessa regola. Cambiando il clima e diminuendo le zone boscose, il cibo fu più ampiamente sparso nel territorio; perché tutti avessero di che cibarsi, i nostri progenitori si suddivisero in piccoli gruppi, che si spostavano di giorno. Ma quando cominciarono a dormire al suolo avranno sentito l'esigenza di avere la protezione di un gruppo più numeroso, specialmente di notte. Questo avrà spinto, secondo Marlowe, i piccoli gruppi di cercatori a incontrarsi in un centro di riunione dove dormire, ed è quanto fanno esattamente alcuni babbuini della savana per difendersi dai predatori.20

Marlowe ritiene che in un primo tempo i nostri antenati si riunissero solo per dormire,21 mentre in seguito presero a portare il cibo raccolto nel luogo centrale del riposo notturno e a dividerlo con gli altri. Se ha ragione, il «punto centrale di raccolta», come lo chiama, avrebbe radicalmente cambiato lo stile di vita degli ominini, compreso l'allevamento dei piccoli.22 Ma quando è avvenuta questa cruciale trasformazione? La risposta di Marlowe si basa su un vasto lavoro di ricerca sul campo presso gli Hadza, i cacciatori-raccoglitori che vivono sulle rive del lago Eyasi, nella Tanzania settentrionale.

Oggi gli Hadza sono rimasti in mille e Marlowe ogni estate visita i loro insediamenti. Gli uomini raccolgono il frutto di una cucurbitacea dalla polpa commestibile (una specie di zucca chiamata baobab) e il miele, e usano arco e frecce per cacciare, spesso da soli, mammiferi e uccelli. Le donne invece, ogni giorno per diverse ore, vanno a raccogliere bacche e baobab e a cavare tuberi. Spesso vanno in cerca insieme a poche altre donne o ai bambini più grandi, portandosi i lattanti legati sulla schiena. Come la maggior parte degli altri raccoglitori, anche le donne Hadza partoriscono in media ogni tre anni,23 quindi si ritrovano con un poppante mentre il figlio precedente è ancora piccolo, per cui spostarsi con entrambi è molto faticoso. Secondo Marlowe «le mamme umane, già ingombrate da contenitori per il raccolto, possono legarsi i lattanti sulla schiena mentre vanno alla ricerca di cibo, ma i bimbi già svezzati sono troppo pesanti da portare in braccio e troppo piccoli per seguirle da soli. Le donne risolvono il problema lasciando i piccoli svezzati nel centro di riunione, dove altri resteranno ad accudirli».24

Così i bambini dai due ai quattro anni, e più, passano la maggior parte del loro tempo nei campi di riunione degli Hadza, dove restano anche bambini più grandi, gli anziani, i disabili e coloro che sono temporaneamente malati o feriti. Alyssa Crittenden, dopo essersi laureata con Marlowe, da un po' di tempo sta studiando le consuetudini degli Hadza nel babysitteraggio.25 La Crittenden ha constatato che il babysitteraggio (o allomothering) è di tipo collaborativo, anche se per lo più sono i membri della famiglia a fornire assistenza, che consiste nel custodire e trasportare i piccoli. Importantissimo il ruolo delle nonne, il cui contributo è fondamentale per la sopravvivenza dei nipoti, ma anche dei figli.26 Un aiuto proviene anche dai padri o da altri aiutanti al di fuori della cerchia familiare. Persino gli adolescenti, maschi compresi, fanno i babysitter. Le madri Hadza sono costrette a lasciare i figlioletti appena svezzati nei campi comuni, dove sono affidati a volonterosi babysitter, ed è forse questa la funzione più importante del centro di riunione.

Secondo Marlowe le mamme degli ominini cominciarono a lasciare i propri neonati nei campi comuni solo dopo che i raccoglitori erano riusciti ad aumentare le scorte di selvaggina e altro cibo, in modo da sostentare i babysitter. L'abbondanza di cibo avrà fornito inoltre maggiori calorie per ulteriori gravidanze, e la possibilità di uno svezzamento anticipato (per gli Hadza, ad esempio, un impasto ricavato dal baobab è usato nello svezzamento).27 La spartizione del cibo nei centri di riunione è largamente praticata presso i popoli che vivono ancora di caccia e raccolta, e Mariowe ritiene che la capacità di portare il cibo in sovrappiù nel centro di raccolta sia stata cruciale nell'evoluzione della condivisione del cibo.

Per il trasporto dei piccoli, gli Hadza usano larghe sciarpe o marsupi ricavati da pelli di animali (che Marlowe chiama karosses), oggetti che divennero largamente disponibili dopo che gli ominini si perfezionarono come cacciatori e raccoglitori. E chiaro che i marsupi furono inventati per compensare la perdita evolutiva, da parte dei piccoli, dell'abilità di aggrapparsi alle madri durante gli spostamenti, ma Sarah Blaffer Hrdy fa notare che tale accorgimento avrà dato origine alla «sacca da viaggio», che consentiva alle madri di trasportare, insieme ai neonati, anche il cibo raccolto.28 Tutte le volte che viaggio attraverso l'Africa vedo continuamente madri che trasportano i loro piccoli, e altre cose, nei marsupi, e mi sorprende sempre constatare quanto robuste siano quelle donne e come felici sembrino i bambini così trasportati. Come abbiamo già detto, i piccoli delle culture tradizionali piangono meno spesso, forse grazie al prolungato contatto con nutrici e babysitter. Anche le madri nelle società industrializzate usano i marsupi, ma lo fanno occasionalmente: invece di passare del tempo nei marsupi, godendo del ritmo del passo materno, i nostri piccoli vengono trasportati in auto o messi nelle culle a dondolo per favorirne il rilassamento e il sonno.

Secondo quanto documentato da Marlowe, le madri Hadza «quando vanno alla cerca si portano dietro i figlioletti dentro il kaross o sulla schiena. La donna terrà il poppante sulla schiena anche quando estrarrà i tuberi, spostandolo ogni tanto davanti per allattarlo».29 Ho chiesto a Marlowe se le donne qualche volta appoggiano il piccolo a terra mentre cavano fuori i tuberi e con grande soddisfazione ho saputo che fanno proprio così.

Si sa che i primati hanno bisogno del costante contatto tra madre e figlio, quindi se ne deduce che le primitive madri degli ominini, come le Hadza d'oggigiorno, si saranno spostate insieme ai figlioletti. La perdita dell'alluce prensile potrebbe essere avvenuta anche prima che i nostri antenati scendessero dagli alberi (verosimilmente 3,3 milioni di anni fa), provocando l'inabilità dei neonati e dei lattanti a restare attaccati alla madre; per di più l'aumento del volume del cervello e il restringimento del canale del parto avranno reso i viaggi con i neonati inermi sempre più faticosi. Da qui l'invenzione dei marsupi, risalente a 1,6 milioni di anni fa, una soluzione tuttora adottata dagli Hadza e da molte altre madri del pianeta.

Pur sollecitando l'aiuto dei bambini più grandi o di altri parenti, le antiche madri, prima dell'invenzione dei marsupi, saranno certamente state costrette ad appoggiare i neonati a terra, mentre erano intente a cavare i tuberi dal terreno, raccogliere bacche o anche semplicemente cogliere fiori. A questo punto non ci sarà voluto molto per scoprire che una voce dolce e rassicurante tranquillizzava i piccoli inquieti. Io credo che quelle melodiche vocalizzazioni abbiano portato al linguaggio infantile. Nei prossimi due capitoli parleremo del ruolo cruciale che il baby talk30 moderno ha nel-l'aiutare i bambini piccoli di tutto il mondo a imparare a parlare e, per estensione, del ruolo che esso ebbe, in tempi preistorici, nell'accendere la prima scintilla del linguaggio.

Note

1 Questa ipotesi è stata pubblicata per la prima volta in Dean Falk, Prelinguistic Evolution in Early Hominins. Whence Motherese?, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 4, 2004, pp. 491-541.

2 Cit. da Martin Pickford, Paleoenvironments, Pakoecology, Adaptations, and the Origins of Bipedalism in «Hominidae», in Hidemi Ishida, Russell Tuttle, Martin Pickford, Naomichi Ogihara e Masato Nakatsukasa (a cura di), Human Origins and Environmental Backgrounds, Springer, New York 2006, p. 19.

3 Cfr. Peter deMenocal, African Climate Change and Faunal Evolution During the Pliocene-Pleistocene, «Earth and Planetary Science Letters», 220, 2004, pp. 3-24.

4 Cfr. Dean Falk, Primate Diversity, Norton, New York 2000.

5 Cfr. Frederick L. Coolidge e Thomas Wynne, The Effects ofthe Tree-to-Ground Transition in the Evolution of Cognition in Early «Homo», «Before Farming», IV, 2006, art. 11, pp. 1-18.

6 Cfr. Emmanuel Balzamo, R. J. Bradley e J. M. Rhodes, Sleep Ontogeny in the Chimpanzee. From Two Months to Forty-One Months, «Electroencephalography and Clinical Neurophysiology», XXXIII, 1972, pp. 47-60.

7 Cfr. Benedict Carey, An Active, Purposeful Machine That Comes Out at Night to Play, «New York Times», 23 ottobre 2007.

8 Cfr. Michael S. Franklin e Michael J. Zyphur, The Role of Dreams in the Evolution of the Mind, «Evolutionary Psychology», III, 2005, pp. 59-79.

9 Cfr. Zeresenay Alemseged, Fred Spoor, William H. Kimbel, René Bobe, Denis Geraads, Denné Reed e Jonathan G. Wynn, A Juvenile Early Hominin Skeleton from Dikika, Ethiopza, «Nature», 443, 2006, pp. 296-301.

10 Tra mandibola e laringe. [N.d.T.]

11 In effetti, tra tutti i fossili di ominini che sono stati ritrovati si conosce solo un altro ioide, ed esso appartiene a un Neanderthal.

12 Chris P. Sloan, The Origin of Childhood, «National Geographic», 210, novembre 2006, p. 157.

13 Alemseged e al., A Juvenile Early Hominin Skeleton from Dikika cit., p. 156.

14 Alemseged e al., A ]uvenile Early Hominin Skeleton from Dikika cit., p. 156.

15 Secondo David Lordkipanidze e altri, l'estensione della capacità cranica nei Dmanisi va dai 600 ai 775 cmJ, e una capacità di 600 cm3 è pressappoco la capacità media di un'altra specie africana coeva, l'Homo abilis. Ma c'è un problema, a causa della natura frammentaria dei fossili attribuiti all'Homo abilis, che, secondo alcuni, dovrebbero essere attribuiti all'Australopithecus. Cfr. David Lordkipanidze, Tea Ja-shashvili, Abesalom Vekua, Marcia S. Ponce de Leon, Christoph P. Zollikofer, G. Philip Rightmire e al., PostcmnìalEvìdencefront Early «Homo» from Dmanisi, Georgia, «Nature», 449, 7160, 2007, pp. 305-10.

16 Cfr. Lordkipanidze, Jashashvili, Vekua, Ponce de Leon, Zollikofer, Rightmire e al., Postcmnial Evidence from Early «Homo» from Dmanisi, Georgia cit., pp. 305-10.

17 Cfr. Ian J. Wallace, Brigitte Demes, William L. Jungers, Martin Alvero e Anne Su, The Bipedalism of the Dmanisi Homìnins: Pigeon-Toed Early «Homo»?, «American Journal of Physical Anthropology», 136, 4, 2008, pp. 375-78.

18 Cfr. Susan G. Larson, William L. Jungers, Michael J. Morwood, Thomas Su-tikna, Jatmiko, E. Wahyu Saptomo, Rokus Awe Due e Tony Djubiantono, «Homo Floresiensis» and the Evolution of the Hominin Shoulder, «Journal of Human Evolution», LIII, 6, pp. 718-31.

19 Cfr. Frank W. Marlowe, Central Place Provisioning. The Hadza as an Example, in Gottfried Hohmann, Martha M. Robbins e Christophe Boesch (a cura di), Feeding Bcology in Apes and Other Primates. Ecological, Physicaland Behavioral Aspects, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 359-77.

20 I primatologi chiamano «fissione-fusione» lo schema di comportamento sociale che consiste nel suddividersi a volte in sottogruppi e nel fondersi altre volte in gruppi più grandi. Tale comportamento si riscontra negli scimpanzé e in altri primati.

21 Cfr. Frank W. Marlowe, Hunter-Gatherers and Human Variation, «Evolutionary Anthropology», XIV, 2, 2005, pp. 54-67.

22 Cfr. Id., Central Place Provisioning cit.

23 Marlowe fa notare che l'intervallo fra una nascita e l'altra negli scimpanzé è di circa 5,6 anni, che non è nemmeno il doppio di quello riscontrabile nei foraggiatoti umani. Questo intervallo fra le nascite si fece più breve durante l'evoluzione degli ominini, forse in parte a causa di un migliore nutrimento (e della conseguente maggiore fertilità).

24 Cfr. Marlowe, Centrai Place Provìsioning cit., p. 370.

25 Cfr. Alyssa N. Crittenden e Frank W. Marlowe, Allomaternal Care Among the Hadza of Tanzania, «Human Nature. An Interdisciplinary Biosocial Perspective», XIX, 3 settembre 2008, pp. 249-62.

26 Cfr. Kristen Hawkes, Grandmothers and the Evolution of Human Longevity, «American Journal of Human Biology», XV, 3, 2003, pp. 380-400.

27 Poiché lo svezzamento favorisce il ritorno della fertilità materna, gli svezzamenti precoci resi possibili dagli alimenti adatti a quello scopo avranno anch'essi contribuito a un globale incremento della fertilità di gruppo.

28 Cfr. Sarah Blaffer Hrdy, Istinto materno, Sperling & Kupfer, Milano 2001, p. 159 (ed. or. 1999).

5. L'origine del linguaggio

Vinoso, mentoso

Vinoso, mentoso, piacevole grano, / Seme di mela e spina di mela; / Filo, rovo, nodo sciolto, / Cinque oche in uno stormo, / Siedono e cantano a una sorgente, / F-U-O-R-I e poi dentro di nuovo.

Mamma Oca

Appena mi mettono in braccio un neonato mi sento costretta a cullarlo, dargli piccole pacche sulla schiena e tubare. Pare che molte donne condividano questo mio atteggiamento. Il baby talk è universalmente usato dalle donne, da molti uomini e anche da bambini molto giovani. I bambini, a loro volta, sviluppano abilità linguistiche attraverso l'influsso del maternese. Questo capitolo prende in esame il maternese da un punto di vista interculturale, ed esamina il modo in cui esso aiuta i bambini a imparare a parlare, anche prima della loro nascita.

Che il baby talk aiuti a imparare a parlare è un'idea controversa, in parte perché il maternese può essere definito in vari modi. In senso stretto il maternese è quel modo particolare, cantilenante, con cui gli adulti si rivolgono ai bambini piccoli, e in tal senso è definito anche «linguaggio musicale», «linguaggio infantile» o, piuttosto seccamente, «discorso rivolto ai bambini piccoli».1 Gli esperimenti hanno dimostrato che i bambini piccoli preferiscono il maternese al meno melodico linguaggio diretto agli adulti, e che questa preferenza aumenta con l'aumentare dei mesi di vita.2 Gli adulti usano il maternese con bambini fino a tre anni di età, ma lo usano molto più spesso con i piccoli dai tre ai cinque mesi di vita.3 Il maternese è enfatizzato, allunga alcune sillabe all'interno delle parole e certe parole all'interno della frase:

Ma TU sei proprio un bravo bambino! Brava BAMBINA, che bevi tutto il tuo LATTE.

Guarda, guarda, è una giRAFFA. Vero che è una BELLA giRAFFA? CAGNOlino, ecco il CAGNOlino. Hai visto che bel CAGNOlino?4

In confronto al linguaggio diretto agli adulti, il maternese si presenta più lento e ripetitivo, ha un'intensità di tono più alta, usa un vocabolario più semplice, che comprende parole speciali, come «cagnolino» o «ciao ciao». E’ contraddistinto da frasi brevi e parole concrete che descrivono l'ambiente che circonda il bambino; contiene un buon numero di domande e aumenta di complessità man mano che il bimbo cresce, perché le madri adattano progressivamente i loro discorsi alle possibilità di comprensione dei loro figlioletti.

Il maternese è soprattutto noto per la sua musicalità, o prosodia, che fornisce l'intensità e la modulazione del tono di voce nel linguaggio degli adulti, conferendole sfumature e manifestando emozioni. Può inoltre costituire un forte stimolo e un aiuto mnemonico, ad esempio nelle canzoncine per imparare l'alfabeto.3 La prosodia dovrebbe essere familiare a chiunque abbia usato qualche volta il linguaggio infantile, ma si potrà ascoltare il maternese in qualsiasi negozio, bar, parco giochi o altri luoghi frequentati da madri con bambini piccoli.6

Il maternese non si limita ai suoni verbali, ma comprende anche espressioni facciali, linguaggio del corpo, toccatine, carezze, risate e solletico. Questa ampia definizione tiene conto della complessità della comunicazione sociale: mentre parliamo, noi gesticoliamo, muoviamo le spalle e diamo ulteriore significato alle parole tramite le espressioni facciali. Per lo più il linguaggio del corpo è inconscio e viene intuitivamente compreso dagli ascoltatori. Alcuni linguisti considerano la gestualità secondaria rispetto alla parola, ma il linguaggio del corpo è una importante fonte di comunicazione e, anzi, per certi versi è più forte delle parole. La nostra abilità nel decifrare anche fuggevoli espressioni facciali ci consente talvolta di scoprire che chi ci parla sta mentendo. Dato che il maternese comprende, oltre alla vocalizzazione, anche il linguaggio del corpo, alcuni lo definiscono «multimodale», e di conseguenza concentrano le loro ricerche sulle espressioni facciali e sulla gestualità.

Si discute su chi davvero usi il maternese. Per parte mia, non intendo dire che lo usano solo le madri. Ad esempio negli Stati Uniti ho notato che il baby talk viene impiegato, oltre che dalle madri, anche da padri, parenti, bambini (alcuni molto piccoli), zii, nonni ed estranei. Alcuni usano il maternese perfino con gli animali da compagnia e con gli stranieri. In questo libro ci concentriamo soprattutto, anche se non esclusivamente, sulle madri, perché la prospettiva evolutiva accentua il confronto con gli scimpanzé selvatici. E gli scimpanzé hanno una strettissima relazione con le madri, mentre per contro non riconoscono i loro padri.

Parlando del maternese è importante sottolineare che i bambini prendono parte attiva nel processo: la comunicazione da parte delle madri, sia vocale sia con altri mezzi, si modula in base alle risposte dei piccoli. I bambini non aspettano passivamente l'imbeccata dei genitori, ma giocano un ruolo attivo nel programmare il proprio sistema nervoso, fino ad arrivare allo sviluppo del linguaggio.

Il maternese fa molto di più che attivare l'abilità linguistica. Proprio come le ninne nanne e le canzoncine cantate ai bambini in tutto il mondo, la melodia del maternese all'inizio trasmette un significato più emotivo che linguistico.7 Fin dalla nascita tutti i poppanti sono predisposti a rispondere alle vocalizzazioni melodiche che di volta in volta li svegliano, li tranquillizzano, li gratificano oppure li mettono in allarme.8 A causa della ricettività del loro sistema nervoso, il baby talk contribuisce alla messa a punto emozionale dei bambini e, successivamente, alla loro maturazione sociale. Alcuni linguisti sostengono che le funzioni del maternese si fermano qui, ma in realtà appare sempre più evidente che il contatto con esso aiuta i bambini a imparare il linguaggio in modo sequenziale, adatto alle varie età.9 Ora vedremo come il maternese assolve questo compito basilare.

Dissodare il terreno

Spesso i linguisti osservano il maternese dall'alto. In che modo, si domandano, il «tubare» melodico delle madri può aiutare i bambini ad afferrare il concetto di grammatica (le regole che definiscono il linguaggio) e la sintassi (le regole per ordinare le parole nella frase e le frasi nel periodo), la relazione di ricorrenza (successione infinita e numerata di proposizioni) e la semantica (la branca della linguistica che studia il significato delle parole e delle frasi)? Da questo punto di vista la loro incredulità sembra ragionevole. Tuttavia il problema sta nel fatto che così facendo essi considerano lo sviluppo del linguaggio e il baby talk come due entità separate, come se si trattasse di mele e arance, mentre in realtà l'acquisizione del linguaggio e il maternese sono imparentati, come la mela e i suoi semi.10

Un modo per capire come il linguaggio emerga nei bambini (psicolinguistica dello sviluppo) consiste nell'esaminare le loro esperienze prenatali con i suoni. Gli scienziati lo fanno mettendo minuscoli microfoni all'esterno dell'utero delle colleghe incinte (consenzienti), oppure usano gli ultrasuoni per misurare i cambiamenti nello scalciare del feto e nel suo

ritmo cardiaco in risposta a suoni specifici trasmessi attraverso il liquido amniotico. Negli esperimenti effettuati con queste tecniche, i feti hanno saputo cogliere la differenza tra le parole e gli altri suoni, ad esempio i rumori bianchi, e hanno reagito al cambio di genere musicale, ad esempio il passaggio da una musicaccia a Mozart. Usando il computer per misurare l'alterazione nel ritmo della poppata in corrispondenza a vari suoni (incluse le voci delle madri), si è riusciti ad avere ulteriori informazioni sulle esperienze uditive dei neonati. Un altro metodo viene applicato con bambini più grandi, che sono stati addestrati a rivolgere la testa verso un dispositivo, come una luce lampeggiante, in modo da azionare dischi con incisi dei suoni: quando voltano la testa da un'altra parte, il disco si ferma. In tal modo questi bambini controllano la durata di ascolto di determinati suoni; la preferenza accordata all'uno o all'altro dimostra che essi sono in grado di distinguere certi suoni (ad esempio «ba» da «da»).11 Grazie a esperimenti di questo tipo ora sappiamo che fin dalla nascita i neonati riconoscono la voce della madre, anche se da quel momento la parola non è più attenuata dal liquido amniotico. I poppanti succhiano più forte il succhiotto quando ascoltano l'idioma nativo che non quando ascoltano una lingua straniera, che ha ritmi diversi. Queste capacità giocano un ruolo importante nella sopravvivenza, sia perché incoraggiano i neonati a fare attenzione alla voce della madre, sia perché contribuiscono a rafforzare il legame che subito si crea tra madre e figlio.12 Gli studi condotti con le tecniche ora descritte forniscono inoltre un quadro affascinante su quel che fanno i feti a termine mentre attendono di nascere:

Fin dalla ventesima settimana di gestazione il sistema uditivo del feto è abbastanza sviluppato da elaborare alcuni dei suoni che filtrano attraverso il liquido amniotico. Il mondo del feto è riempito da una cacofonia di suoni, brontolìi e gorgoglìi prodotti dal corpo della madre, e dal costante ritmo del battito cardiaco della medesima. Questi rumori sono gli stimoli per lo sviluppo della precoce stimolazione uditiva. I suoni più stimolanti sono tuttavia quelli prodotti dal linguaggio. Dal sesto mese di gestazione in avanti, il feto trascorre molta parte del suo tempo di veglia elaborando questi speciali suoni linguistici, familiarizzandosi con le specificità della voce materna e con la lingua, o le lingue, da essa parlate. Diventa altresì sensibile alla prosodia - l'intonazione delle frasi e lo schema ritmico interno alle parole - che dà struttura ai discorsi della madre. Negli ultimi tre mesi nel grembo materno, il feto è impegnato a origliare le conversazioni di sua madre [...]. Il neonato viene al mondo preparato a prestare speciale attenzione al linguaggio umano, e più specificamente alla voce della madre. Queste prime esperienze intrauterine forniscono al neonato l'input del linguaggio.13

Così come gli adulti che stanno imparando una lingua straniera cominciano ad afferrare il significato delle parole e delle frasi molto prima di poterle pronunciare, allo stesso modo il complicato processo di apprendimento comincia nel feto attraverso il semplice ascolto. Ovviamente il feto e il neonato non capiscono il significato delle parole, assorbono invece le intonazioni, i ritmi, l'accento e la musicalità della voce della loro madre.

In definitiva il primo passo del bambino nel lungo viaggio per l'apprendimento del linguaggio consiste nel percepirne l'aspetto musicale. Non stupisce, quindi, che la qualità melodica del maternese sia un veicolo importante per la comprensione e la successiva articolazione della parola.

Se qualcuno di voi ha sperimentato, come me, le difficoltà che si incontrano nell'apprendere una lingua straniera da adulti, si ricorderà certamente di come all'inizio i discorsi sembrino troppo veloci perché se ne possa afferrare il senso, e restino quindi a tutti gli effetti privi di significato. Un principiante non è in grado di capire quando una parola finisce e quando ne comincia un'altra, ma persistendo lo studente comincia a sentire il ritmo del linguaggio, impara le singole parole che risaltano dal fluire del discorso, altrimenti incomprensibile; con il passare del tempo l'ascoltatore inizia a comprendere piccole parti del flusso linguistico e così via. Poi inizierà ad analizzare il discorso, suddividendolo in riconoscibili unità di parole e frasi, e tentando nel contempo di decodificarne il significato. Si tratta di un compito non facile anche per un adulto che abbia familiarità con il concetto di linguaggio e che possa usare l'immaginazione e il contesto per interpretare i significati. Ad esempio chi non sappia lo spagnolo sarà ugualmente in grado di capire un parlante che, alzando un boccale di birra vuoto, dica al barista: «Otra cerveza, por favor».

Il feto, d'altra parte, non ha alcun aiuto visivo: si affida solo a dei rumori attutiti. Nel terzo trimestre di gestazione il suo compito consiste nel riconoscere i ritmi, gli accenti, le intonazioni, i flussi melodici del linguaggio che poi ascolterà da neonato.14 Si presume che ciò non avvenga nel feto a termine di uno scimpanzé: l'evoluzione ha scolpito la mappa di questo intricato sentiero verso il linguaggio solo nell'essere umano. E un fatto straordinario che i neonati nascano pronti a imparare a parlare in accordo con le madri, mentre le madri si sono evolute in modo da incoraggiare istintivamente i loro piccoli a usare proprio il mezzo (la prosodia) che essi hanno così faticosamente assimilato nel grembo materno. Quando le madri riversano il maternese sui loro neonati, esse spesso non hanno la minima idea del fatto che, oltre a esprimere il loro amore, stanno enfatizzando certe parti del discorso e sottolineando alcune combinazioni di suoni e di grammatica. Proprio grazie al maternese i neonati arrivano più facilmente a dividere il discorso in parole e proposizioni, molto tempo prima di poterne decifrare il significato.

Sono vari i metodi con cui gli scienziati studiano la percezione della lingua nei bambini, e uno di essi consiste nel mettere sulla testa del bambino una reticella cosparsa di elettrodi da elettroencefalogramma (eeg), che servono a misurarne l'attività cerebrale: ad esempio ai piccoli viene fatta ascoltare una voce registrata che ripete un singolo suono (fonema) prima di passare a uno successivo. Se il bambino percepisce la differenza, nella registrazione dell'EEG compare un suono acuto. Le stesse reticelle possono essere usate anche per studiare la percezione musicale nei bambini molto piccoli. In precedenza abbiamo visto che un altro sistema per capire se i bambini sentono suoni contrastanti consiste nel condizionarli in modo che voltino la testa verso la variazione di suono, così da comunicare che se ne sono accorti.

Usando questi metodi, Patricia Kuhl e il suo gruppo di lavoro all'Università di Washington (Seattle) hanno scoperto che a sei mesi di età il neonato può distinguere tutti i suoni di tutte le lingue del mondo - un'impresa non da poco, visto che ci sono circa seicento consonanti e duecento vocali.13 In vista del traguardo del primo anno d'età, tuttavia, i bambini iniziano a percepire soprattutto i suoni che sono importanti nella loro lingua madre (una quarantina circa); al tempo stesso diminuisce la loro capacità di distinguere i suoni di una lingua straniera.161 neonati giapponesi, ad esempio, all'inizio percepiscono suoni separati per la «r» e la «1» (come in «rima» e «lima»), ma man mano che crescono perdono la capacità di capire questa distinzione «straniera», mentre diventano sempre più esperti nell'interpretare le parole giapponesi. Come tutti i bambini, essi passano da essere «cittadini del mondo» a essere ascoltatori «culturalmente limitati».17 Si tratta di un fenomeno che si accorda con quanto predetto da Patricia Kuhl circa le relazioni tra la precoce esposizione del neonato al linguaggio e la sua futura capacità di apprendimento della lingua.18

Per il neonato si tratta di un compito molto difficile, perché la lingua parlata, contrariamente a quella scritta, non possiede le nette divisioni che indicano gli stacchi tra le parole.

Provate a leggere la seguente frase: «Dainovemesinpoiineonatisannodistinguereisuonichericorronoconpiùfrequenzada-quellichenonlofanno» («Dai nove mesi in poi i neonati sanno distinguere i suoni che ricorrono con più frequenza da quelli che non lo fanno»). Un lettore italiano può leggere la frase anche senza la spaziatura, perché conosce le parole e sa dove andrebbero le interruzioni, ma se la frase, invece che scritta, fosse pronunciata, per l'ascoltatore sarebbe molto più difficile raccapezzarsi, poiché sentirebbe una lunga sequenza di sillabe pronunciate con la stessa intonazione. Vediamo così quanto l'intonazione delle sillabe sia fondamentale per la comprensione del linguaggio. Per decifrare le singole parole un neonato deve dapprima familiarizzarsi con le intonazioni della voce della madre, in modo da capire le differenze fra le parole. Per avere un'idea delle difficoltà che si trova ad affrontare un neonato, proviamo a pensare alle difficoltà che incontreremmo se dovessimo decifrare la frase che abbiamo citato più sopra qualora fosse formata soltanto da parole sconosciute.

Molto prima di imparare a parlare, i neonati diventano sensibili alle frequenze delle combinazioni di sillabe e alle loro differenze entro e al di là dei confini delle parole. Kuhl usa l'esempio della frase «pretty baby» e fa notare che nella lingua inglese la possibilità che «pre» sia seguito da «ty» è più alta della possibilità che «bay» faccia seguito a «ty». Così, alla lunga, i neonati cominciano a capire che potenzialmente «pretty» è una parola, prima ancora di capirne il significato.19 Anche gli elementi metrici insiti nel linguaggio sono d'aiuto. Nell'inglese parlato, ad esempio, moltissime parole hanno l'accento sulla prima sillaba, come nelle parole «monkey» e «jungle».20 In altre lingue questo schema predominante forte-debole (o tonico-atono) è rovesciato. Quando un neonato inglese raggiunge i sette mesi e mezzo di età, avverte spontaneamente il binomio forte-debole, ma non lo schema inverso, debole-forte. Quindi quando i neonati sentono «guitar is», essi percepiscono «taris» come un elemento unico, perché comincia con una sillaba accentata.21 Abbiamo visto così che la musicalità cantilenante del maternese è di enorme aiuto nel segnare la divisione tra le parole.

È anche interessante notare che i neonati che a sette mesi di età, nel laboratorio della Kuhl, erano più bravi nel percepire i suoni delle parole, quando diventarono più grandicelli ottennero il punteggio più alto nei test che conteggiavano il numero di parole che erano in grado di pronunciare e la complessità dei loro discorsi.22 Anche se lo sfoltimento evolutivo dei suoni del linguaggio che il neonato può percepire spiana la strada al riconoscimento e alla comprensione delle parole dell'idioma nativo, il discernimento delle parole non è il solo fattore critico nell'apprendimento precoce del linguaggio. La chiarezza del maternese a cui i neonati sono esposti è collegata allo sviluppo della loro abilità di riconoscimento delle parole.23 Questa abilità è stata messa in rapporto con l'interesse sociale dei neonati verso il tipo di linguaggio che nutrici o babysitter rivolgono loro.24 Non sorprende, pertanto, che il maternese non abbia influssi benefici sullo sviluppo del linguaggio nel bambino autistico, «che è privo di interesse nella comunicazione sociale».25

Una volta un linguista mi ha obiettato che il maternese non ha niente a che fare con l'acquisizione del linguaggio, perché è semplicemente un meccanismo fortemente emozionale per saldare il rapporto fra madre e figlio. Nessuno nega che una delle funzioni importanti del maternese sia appunto questa. Ma ciò non esclude che il maternese aiuti i neonati a imparare a parlare, come ha dimostrato un importante studio che ha preso in esame il tipo di voce delle madri quando si rivolgono ai loro neonati di sei mesi, ai cani, ai gatti e ad altri adulti.26 L'esperimento ha constatato che le madri parlano ai loro neonati e agli animali da compagnia (ma non ad altri adulti) con una emozione più intensa, espressa nel tono di voce e nel ritmo del discorso.

Lo stesso studio ha rilevato anche un'altra differenza: le madri, quando si rivolgono ai loro neonati, tendono inconsciamente ad accentuare la pronuncia delle vocali, ma non lo fanno con gli animali da compagnia, il che significa che, oltre a esprimere amore, il maternese fornisce le basi (in questo caso informazioni sulle vocali) necessarie ai neonati per imparare la loro lingua madre. Questa peculiarità non si applica solo alle madri americane, perché anche le madri inglesi, russe, giapponesi, svedesi accentuano la pronuncia delle vocali solo quando parlano ai loro piccoli, e non quando si rivolgono agli adulti.27 Questa peculiarità della pronuncia delle vocali è in stretta relazione con la percezione che i neonati hanno della parola: maggiore è l'accentuazione materna nella pronuncia delle vocali, migliore sarà la prestazione del neonato.28 (I risultati di uno studio dimostrerebbero che anche i computer trovano più facile imparare le vocali quando sono presentate in maternese piuttosto che attraverso i discorsi rivolti agli adulti.)29

L'enfasi nella pronuncia delle vocali è solo una delle differenze nel modo in cui le madri parlano ai loro neonati, rispetto a quando si rivolgono agli animali da compagnia: una buona parte delle parole rivolte dalla madre al suo neonato (e non a un animale o a un adulto) sono di ammaestramento, cioè danno informazioni su qualcosa.30 Ad esempio la mamma dice al bimbo: «Questo è un micino».31 Allo stesso modo le mamme fanno ai bimbi, ma non agli animali di casa, domande da insegnante, tipo: «Che colore è questo?» E in ogni caso le madri non si mettono a «conversare», sostenendo le due parti, con i loro cani, mentre lo fanno spesso con i loro piccoli. Ad esempio la mamma chiede: «Che cosa è successo al tuo ginocchio?» e si risponde: «Oh, povero piccolo, si è fatto la bua».

Dopo la nascita, naturalmente, la comunicazione fra madre e figlio contempla un rapporto a doppio senso, nel quale ciascun partner reagisce al comportamento dell'altro. Se, ad esempio, voi mostrate la lingua a un neonato, probabilmente lui imiterà il vostro gesto.32 Come ha dimostrato Andrew Meltzoff, dell'Università di Washington, un neonato da dodici a ventun giorni di vita è in grado di imitare almeno quattro gesti dell'adulto: mostrare la lingua, spingere in avanti le labbra, aprire la bocca e muovere le dita.33 Ciò starebbe a significare che c'è un legame innato tra la percezione del gesto e la sua riproduzione.34 Nel crescere, i neonati correggono il loro comportamento imitativo e registrano mentalmente i modelli che poi imiteranno a memoria. Sorprendentemente, lo studio di Meltzoff ci rivela che i neonati non solo possiedono l'innata facoltà di imitare gli altri, ma sanno anche riconoscere quando gli altri li imitano. L'imitazione reciproca potrebbe in effetti essere la prima pietra nello sviluppo della capacità di comunicare:

Gli esseri umani non solo sanno imitare, ma si accorgono di essere imitati dagli altri. La reciproca imitazione è parte essenziale dello scambio della comunicazione. Un ascoltatore spesso dimostra la sua attenzione verso il suo interlocutore adottandone l'atteggiamento. Se chi parla aggrotta la fronte, così fa l'ascoltatore; se l'oratore si frega il mento, così farà chi ascolta. I genitori usano, inconsciamente, la stessa tecnica per stabilire rapporti interpersonali con i loro neonati preverbali.35

I neonati prestano molta attenzione alle facce e dai quattro mesi in poi preferiscono ascoltare i suoni delle parole abbinati all'immagine visiva della bocca che li pronuncia.36 Detto altrimenti, essi imparano a prestare attenzione alla forma della bocca, che corrisponde a ciò che qualcuno sta dicendo. L'espressione facciale della madre rafforza il mater-nese e, contemporaneamente, le espressioni e le vocalizzazioni del neonato dimostrano la sua attenzione e quel che prova. Questi e altri comportamenti coregolati creano dei rapidi scambi, che costituiscono una specie di conversazione tra madre e figlio.37 Le madri stabiliscono questi scambi attraverso il contatto visivo e l'uso del baby talk. Non appena comprendono che i loro piccoli reagiscono, agitando le gambe e le braccia, «tubando» e gorgogliando, le madri si mettono a interagire con loro. Anche se all'inizio queste conversazioni sono a senso unico, esse preparano il neonato alle future, vitali, interazioni.38

Così, grazie al maternese e alle sue acute capacità di osservazione, il neonato diventa ricettivo rispetto al particolare suono delle parole nel suo idioma nativo. Mentre crescono, i neonati usano questi indizi per imparare altri aspetti del linguaggio, come la natura delle sillabe, delle parole, delle frasi, delle proposizioni39 (parleremo più diffusamente di questo processo nel cap. 6). Sarebbe sbagliato tuttavia concludere che i neonati capiscano il significato linguistico di ciò che sentono, o che imparino a parlare gradino dopo gradino, metodicamente. In realtà i neonati sono dei piccoli geni con una metodica elaborazione, che sviluppano una particolare sensibilità ai vari aspetti della loro lingua nativa, e ciò avviene in maniera complessa e integrata.40 Ma la percezione della parola non equivale di per sé all'acquisizione del linguaggio. I neonati, prima di poter capire il linguaggio e di poterlo usare, dovranno sviluppare la capacità di riconoscere i suoni delle parole e l'abilità necessaria a riprodurli.

Dal pianto alla lallazione

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l'abilità nel calmare il pianto dei neonati aiutò a diminuire la possibilità che predatori affamati localizzassero gli inermi piccoli di ominini, o le loro madri. Nonostante gli sforzi di innumerevoli madri preistoriche per tenere a freno i loro neonati insoddisfatti, il vagito continuò a esistere e proseguì con una propria evoluzione. I neonati umani piangono in modo diverso dai piccoli degli altri primati; il loro pianto può segnalare ai genitori sia la malattia sia la buona salute, e loro potranno decidere di non «investire» in un discendente malato. Inoltre, il vagito del neonato e la sensibilità materna a quel pianto si sono evoluti in parte per adattarsi alle esigenze di protezione e nutrimento del piccolo. Infine, i neonati spesso piangono semplicemente perché sentono il bisogno del contatto fisico con la madre. Non abbiamo però fin qui parlato dell'importante ruolo del pianto nello sviluppo del linguaggio, un ruolo che non è ancora universalmente riconosciuto.

Il pianto potrebbe in effetti essere l'anello mancante nelle teorie relative a come si impara il linguaggio e a come esso emerse nei primi ominini.41 Nel 1985 Kathleen Wermke e Werner Mende si occuparono della creazione di modelli per la diagnosi di disfunzioni e malattie cerebrali, e a tal fine registrarono e analizzarono il pianto dei neonati. A quel tempo la maggior parte dei ricercatori pensava che il pianto non avesse alcuna relazione con la comparsa del linguaggio nei bambini molto piccoli. Tuttavia Wermke e Mende ben presto scoprirono che il pianto, nei primi mesi di vita, subisce profonde trasformazioni, e che il complesso sviluppo del pianto infantile poteva aprire la strada per scoprire dei modelli capaci di indicare malattie specifiche. Così Wermke e Mende ricostruiscono la loro ricerca: «Questo cambiò la nostra idea che il pianto infantile fosse una specie di allarme biologico. Un allarme, se cambiasse continuamente il proprio segnale, perderebbe la sua validità. Trovammo un'altra spiegazione: interpretammo lo sviluppo della melodia del pianto come sviluppo sistematico verso il linguaggio, tramite l'applicazione di un principio di composizione modulare che usava gli archi melodici come blocchi per costruzioni».42 Un arco melodico è una semplice salita e discesa di tono nel suono che un neonato produce in un'espirazione d'aria. Wermke e Mende scoprirono che le melodie ad arco semplice emesse dai neonati nelle prime settimane di vita col tempo si sviluppano in pianti sempre più complessi, che contengono numerosi archi melodici. Molto prima che i neonati comincino la lallazione o a usare le parole, le ripetizioni di semplici archi conducono a un pianto più complesso, che contiene due, tre o più archi melodici in ogni singolo respiro.43 Sorprendentemente Wermke e Mende scoprirono che gli archi melodici doppi dei neonati nati in Germania erano accentati in un modo che poteva costituire la base per riprodurre l'accentazione tipica della lingua tedesca.44 Essi notarono anche che, in aggiunta alla capacità di emettere melodie complesse, i neonati ben presto erano in grado di produrre suoni altamente stabili, comparabili al canto di precise note musicali. I due ricercatori interpretarono lo sviluppo di melodie complesse nel pianto dei piccoli neonati come il primo scalino verso l'espressione vocale di emozioni e bisogni.45

I suoni delle parole non provengono solo dalle corde vocali: le onde d'aria prodotte dalle corde vocali sono trasformate nelle varie componenti del linguaggio - vocali, consonanti, parole - dalle parti dell'apparato fonatorio: trachea, laringe, lingua, bocca e denti. Mi piace immaginare che parlare significhi espellere dalla bocca pezzi d'aria sminuzzata. In altri termini, l'intero apparato vocale modella le correnti d'aria in vibrazione che sono prodotte dalle corde vocali, e ne fa degli specifici suoni linguistici. È un processo molto rapido, che potrete controllare voi stessi: mettete una mano sulla gola, parlate ad alta voce e fate attenzione a quello che fanno la lingua e la bocca. Dal punto di vista neurofisiologico, la produzione di onde sonore da parte delle corde vocali (fonazione) e la sua articolazione in suoni di parole dipendono da due diversi sistemi di controllo, per cui i due procedimenti devono accordarsi l'un l'altro durante lo sviluppo. Le ricerche condotte da Wermke e Mende sul pianto hanno mostrato che i due sistemi cominciano a sincronizzarsi quando i neonati hanno raggiunto il terzo mese di vita, e al raggiungimento del quarto o quinto mese i neonati pronunciano suoni simili alle vocali e delle quasi sillabe. Intorno ai sette mesi il neonato entra nella fase della lallazione, e le sillabe che produce sono ben formulate.46 Così il pianto, nei neonati pre-lallazione, subisce un «violento sviluppo» che allena le corde vocali e l'apparato della fonazione a eseguire la complicata e veloce ginnastica necessaria a produrre il linguaggio intenzionale.47

Christopher, il protagonista del grafico del pianto nella fig. 5.2, è passato attraverso questo genere di sviluppo.

Christopher cominciò a emettere pianti melodici a due mesi, cominciò la lallazione a quattro mesi, e tra i nove e i dieci mesi si mise a pronunciare sillabe di consonanti e vocali. A undici mesi emetteva melodie complesse e pronunciava le prime parole, «Marna» e «ein Teddy» (un orsacchiotto). Da quel momento Christopher fu affascinato dai libri e se li leggeva «da solo», voltando le pagine e imitando gli schemi prosodici che la madre aveva usato quando gli aveva letto quei libri, parecchi giorni prima.

Nelle loro ricerche la Wermke e i suoi colleghi fecero un passo in più per mostrare come il cambiamento del pianto dei neonati porti allo sviluppo del linguaggio.48 Per prima cosa valutarono l'abilità linguistica di trentaquattro bambini tedeschi sani di due anni e mezzo, quindi registrarono il numero di parole pronunciato da ciascun bambino; infine per ognuno determinarono il grado di comprensione e di capacità di produrre parole e frasi. Successivamente i bambini furono suddivisi in due gruppi sulla base della loro abilità linguistica: ventiquattro erano nel gruppo normale, dieci invece dimostravano un rallentamento nello sviluppo del linguaggio (il secondo gruppo era piuttosto folto, perché alcuni dei bambini erano stati prescelti per questa ricerca proprio in quanto tendevano ad avere un ritardo nello sviluppo del linguaggio). A quel punto Wermke e colleghi passarono a esaminare e a paragonare i vagiti di ciascun bambino, registrati negli ospedali o in casa a intervalli di due settimane dal momento della nascita fino alle quattro settimane di vita. I risultati furono strabilianti: i neonati i cui pianti nel secondo mese di vita presentavano una scarsa frequenza di melodie complesse avevano fino a cinque volte più possibilità di presentare, al raggiungimento dei due anni e mezzo, un rallentamento nello sviluppo del linguaggio. Questi risultati indicavano che il secondo mese di vita è un periodo critico nell'apprendimento delle capacità melodiche che sono necessarie per un normale sviluppo linguistico, e ciò significa che il pianto gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio.

Dato il mio interesse nel maternese, ho chiesto alla Wermke e a Mende se il comportamento materno influenza la modulazione del pianto infantile. Anche se non hanno ancora condotto uno studio scientifico su questo particolare aspetto, è loro convinzione che le madri effettivamente esercitino un influsso sulla melodica del pianto dei neonati. Dalle registrazioni del pianto dei neonati quando sono a letto e cominciano ad agitarsi e a urlare, i due scienziati hanno notato che i piccoli cercano il contatto visivo con la madre e quindi iniziano a piangere più forte. Le madri allora parlano ai neonati e li prendono in braccio; a questo punto i neonati cambiano la modulazione del loro pianto.

Come abbiamo detto, le ricerche di Wermke e Mende sono condotte su neonati tedeschi. Ma le modulazioni del pianto cambiano se i neonati sono esposti a una lingua diversa? Dovremmo forse parlare di pianto tedesco, pianto russo, pianto inglese? I neonati di culture con linguaggi provvisti di suoni metallici piangono con modulazioni diverse, che li aiutano a imparare la loro lingua? Sono tutte domande affascinanti e, con un po' di fortuna, in futuro si potranno avere delle risposte.

A ogni modo, per ora gli studi di Wermke e Mende hanno dimostrato che le capacità di percepire, produrre ed elaborare melodie sono essenziali per lo sviluppo del linguaggio nel neonato. I due studiosi vedono nelle melodie una specie di filtro semantico in grado di estrarre informazioni vitali dal complicato flusso linguistico dei genitori.49 Essi ritengono che la melodia sia alla base del linguaggio orale, e abbia giocato un ruolo molto importante nella nascita del linguaggio in epoca preistorica. Non si tratta di un'idea balzana: basti ricordare il gradimento, da parte dei neonati, della componente melodica del maternese, e il fatto che le ninne nanne, che condividono quelle componenti, sono presenti in tutto il mondo. Gli studi di Wermke e Mende, durati più di vent'anni, hanno anche ampiamente dimostrato che le melodie del pianto precedono la lallazione, e che la lallazione è essenziale nell'apprendimento del linguaggio.

Nei primi mesi di vita i neonati riscaldano le loro corde vocali emettendo suoni inarticolati: vagiscono, «tubano», si agitano, fanno le bolle con la saliva e rumori come di pernacchia. A quattro mesi cominciano a fare degli esercizi vocali, articolando suoni che sembrano vocali o quasi sillabe, e sviluppano pianti melodici complessi, che spianano la strada alla lallazione.50

Sebbene sia affascinata dai bambini piccoli di ogni età, credo che siano davvero adorabili verso i sette mesi, quando cominciano a sorridere, balbettano sequenze di sillabe senza senso e poi si fermano e ti guardano, come per dire: «Non è forse così?». Da questo momento i piccoli pronunciano delle vere e proprie combinazioni di sillabe, come «ba», «da» e «gu». La ripetizione di queste combinazioni permette ai neonati di balbettare seguendo i ritmi e le melodie della loro lingua (gu-gu, babà, dadada). Durante il periodo della lallazione avvengono due fatti: per prima cosa i neonati continuano a imparare come usare la gola, la bocca, la lingua e le labbra per riprodurre i suoni che hanno ascoltato. Il motivo per cui la lallazione sembra così simile al linguaggio è che la sua prosodia riflette quella della lingua madre. Ad esempio, il neonato francese allunga le parole quando balbetta, cioè usa lo schema basato sulle sillabe finali che è predominante nella sua lingua, mentre i neonati inglesi non lo fanno.31 La lallazione, inoltre, rappresenta un importante collegamento tra la capacità del neonato di riprodurre i suoni della sua lingua madre e quella di pronunciare le prime vere parole; di ciò parleremo in seguito.

L'idea che la lallazione sia una pietra miliare nell'apprendimento del linguaggio è supportata dalla scoperta che i neonati finlandesi, inglesi e francesi usano il lato sinistro del cervello quando sono impegnati nella lallazione, ma non quando emettono altri suoni, proprio come gli adulti.52 Naturalmente in molte comunità la lallazione si sviluppa in un contesto sociale che coinvolge il rapporto imitativo figlio-madre, la reciprocità e il linguaggio speciale usato con i bambini. Tuttavia alcuni linguisti antropologi hanno sostenuto che in alcune culture i neonati imparano a parlare senza essere esposti al maternese. Ripensando a quanto abbiamo detto finora, una simile affermazione ci appare affascinante e sorprendente. Ma è anche vera?

Il maternese è universale?

Chi si occupa di scienze sociali ha cercato a lungo di scoprire dei tratti comuni tra i vari baby talk. Trent'anni fa Charles Ferguson classificò circa trenta caratteristiche comunemente riscontrabili nel linguaggio infantile di ventisette lingue indo-europee, africane e dell'Oceania.53 Prevedibilmente egli scoprì che i tratti più importanti dei discorsi rivolti ai bambini comprendevano un tono più alto, inflessioni esagerate e una rapidità ridotta - ovvero caratteristiche prosodiche. Ferguson concluse che il «tono di voce» del baby talk è universale nel linguaggio umano, e fornì tre possibili spiegazioni: primo, chi parla a un bambino cerca probabilmente di imitare il grado d'intensità della voce infantile, molto più alta di quella di un adulto a causa della forma e della dimensione dell'apparato vocale. Secondo: il baby talk corrisponde alla capacità sensoriale del bambino e quindi attira la sua attenzione. Infine, la prosodia del baby talk aiuta il neonato a scomporre il flusso delle parole, dandogli modo di capire la struttura della lingua madre. Abbiamo potuto constatare che le idee di Ferguson sono state in anni recenti puntualmente confermate. Ma non è solo il tono di voce a contraddistinguere il maternese: come vedremo nel cap. 6, il baby talk tende universalmente alla duplicazione delle sillabe («mamma», «papà», «pappa»); è un linguaggio speciale che comprende un'alta percentuale di vocaboli che riguardano le parti e le funzioni del corpo umano, il cibo, gli animali e il gioco («cucù», «bombo»), e costruzioni speciali, come nella ripetizione del verbo in «vai vai». Rivolgendosi ai bambini, gli adulti di varie culture usano di solito i verbi al tempo presente, fanno molte domande e usano dei modi di dire, come «okay?» o «mh?» Le frasi rivolte ai neonati sono brevi e più semplici rispetto a quelle rivolte agli adulti, e includono spesso delle ripetizioni. Man mano che i neonati crescono e diventano più articolati nel parlare, chi li ha in cura, ovunque nel mondo, modifica il proprio linguaggio. E si tenga presente che Ferguson concluse sì che il baby talk è universale, ma anche che la composizione e la frequenza dei suoi tratti caratteristici variano da cultura a cultura.54

Si tratta di un'osservazione importante perché l'universalità del maternese è stata contestata sulla base di osservazioni compiute su alcune culture eccezionali. Ad esempio, parlando dell'«estensione vocale del baby talk», un antropologo osservò che «noi adesso sappiamo che il processo di apprendimento del linguaggio non dipende da questo ambiente socio-linguistico. Gli abitanti delle Samoa occidentali, i Kaluli della Nuova Guinea e i bambini della classe lavoratrice nera americana non sono sottoposti a linguaggi semplificati [...] tuttavia nel corso di uno sviluppo normale diventano parlanti perfettamente adeguati».35

Le tre culture di cui si parla sopra, insieme ad alcune altre, vengono normalmente citate per concludere che il maternese non è universale, perciò ho deciso di studiare queste culture, per vedere se i loro bambini crescono davvero senza essere esposti in alcun modo al maternese. Quel che ho scoperto è stato al contempo interessante e istruttivo per capire in che modo il linguaggio venga plasmato sia dalla natura sia dall'educazione.

I Kaluli costituiscono una piccola società egualitaria e illetterata che vive nella foresta pluviale tropicale sugli altipiani meridionali di Papua, in Nuova Guinea. Negli anni settanta, dopo aver vissuto tra i Kaluli, l'antropologa Bam-bi Schieffelin riferì che i membri di quel popolo non usavano il baby talk, perché «sostengono che il risultato sarebbe quello di ottenere un bambino puerile».56 Questa studiosa ha documentato alcune interessanti differenze tra le interazioni sociali che coinvolgevano bambini della classe media bianca americana e quelle dei bambini Kaluli; tali differenze dipendono in parte dal fatto che i Kaluli vivono in famiglie allargate, che risiedono in ampie abitazioni solo in parte suddivise da pareti, per cui le conversazioni di solito tendono a coinvolgere non due, ma più persone alla volta. Il risultato è che le madri Kaluli non parlano direttamente al loro bambino come fanno invece alcune madri americane. Per quanto i Kaluli non abbiano parole speciali in baby talk,

Lo studio della Schieffelin suggerisce che il maternese possa essere presente tra i Kaluli e che il loro metodo di cura parentale possa essere simile a quelli di cui abbiamo parlato in precedenza. Ad esempio: «Nei primi due anni di vita i bambini trascorrono quasi tutto il tempo con le madri e i fratelli. Le madri, che primariamente li accudiscono, prestano attenzione ai piccoli e sono fisicamente reattive. Quando i neonati, trasportati nella sacca a rete, si mettono a piangere, le madri li fanno saltare ritmicamente su e giù per calmarli.

Il movimento è spesso accompagnato da ripetuti "shh", e questo tipo di attività viene chiamata h nulab, cioè "persuadere, distrarre, tacitare"».57

La Schieffelin ha notato che i neonati stavano sempre a contatto fisico con le madri, sia che fossero tenuti fra le braccia sia che dormissero nelle sacche a rete accanto al corpo materno. Le madri non lasciavano mai i loro bimbi piccoli e solo raramente li affidavano ad altri. Nei primi mesi di vita del neonato, le madri li salutavano chiamandoli per nome e usavano delle «vocalizzazioni espressive».58 Le madri tuttavia non guardavano direttamente negli occhi i neonati, come invece avviene normalmente nelle interazioni fra adulti. Anche se alcuni sostengono che le madri Kaluli non intrattengono verbalmente i loro piccoli, ci sono altri modi culturalmente accettabili per esporre i neonati Kaluli ai dialoghi, ed essi contemplano l'uso dei toni acuti del baby talk:

A una settimana circa dalla nascita, le madri Kaluli agiscono in un modo che sembra voler intenzionalmente coinvolgere il neonato (tualun) in dialoghi e interazioni con gli altri. Al contrario di quanto avviene presso le madri di madrelingua inglese, le Kaluli non fissano direttamente il bambino, ma per lo più lo rivolgono verso gli interlocutori, quelli che fanno parte del gruppo sociale, in modo che il piccolo e gli altri possano vedersi reciprocamente. I bambini più grandi salutano i neonati e si rivolgono loro, al che le madri rispondono rivolgendo i neonati verso l'esterno e, mentre li spostano, parlando in un tono speciale, dal timbro più alto e nasale (simile a quello che i Kaluli usano quando parlano ai cani). In questo modo sembra che i neonati stiano parlando con qualcuno, mentre sono le madri a parlare per loro.59

Quando i neonati sono cresciuti (fra i sei mesi e l'anno di età), gli adulti si rivolgono loro con saluti, domande retoriche, ordini o semplici «battute di spirito».60 Quando i neonati cominciano la lallazione, «gli adulti e i bambini più grandi ripetono occasionalmente le vocalizzazioni dei piccoli (età dodici-sedici mesi), riferendole ai nomi delle persone di casa o a termini familiari».61 Quando un neonato strilla perché tormentato dai bambini più grandi, la madre interviene pronunciando (come se interpretasse il grido del neonato) invettive che si tradurrebbero come: «non voglio».621 Kaluli mettono in pratica questi aspetti del maternese nonostante pensino che il linguaggio non cominci prima che il bambino sappia usare le parole «mamma» e «seno».63 Da quel momento in poi i neonati imparano a parlare spinti dalle continue richieste di ripetere le parole pronunciate dalle madri, con l'esortazione di una parola speciale, eterna, che significa «devi dire così».64 Le madri Kaluli intervengono anche per correggere la pronuncia e la scelta dei vocaboli dei figli. Tutti questi particolari dimostrano che in effetti i Kaluli possiedono il maternese, sia pure modificato per esigenze culturali, proprio come ipotizzato da Ferguson una trentina di anni fa.

Cosa dire degli abitanti delle Samoa occidentali, che pure sarebbero privi del maternese? L'antropologa Elinor Ochs ha studiato, nei tardi anni settanta, l'acquisizione del linguaggio nell'isola di Upolu, nelle Samoa occidentali. Nel suo studio ha riferito che le tradizionali abitazioni samoane sono prive di pareti e, proprio come nel caso dei Kaluli, le conversazioni coinvolgono più di due individui, sicché i neonati di solito vengono tenuti rivolti verso il gruppo sociale. I Samoani hanno una società estremamente stratificata e le madri abitualmente ordinano alle persone socialmente inferiori di prendersi cura dei loro neonati, che sono pure considerati di basso rango sociale, e di parlare con loro. Secondo la Ochs, «il linguaggio usato dagli educatori non viene semplificato [...] perché tale pratica è accantonata quando l'interlocutore è socialmente inferiore all'oratore».65

Le osservazioni della Ochs sono state largamente interpretate come conferma che i Samoani occidentali sono privi del maternese, ma molti dei suoi commenti fanno ritenere esattamente l'opposto.

Ai neonati, fino ai sei mesi, ci si riferisce con il termine pe-pemeamea, che vuol dire «neonato cosa cosa», e ci si rivolge loro con la prosodia tipica del maternese. Ad esempio «si canta ai neonati e ci si rivolge loro con tono amorevole per distrarli dalla fame o per farli addormentare, o, più semplicemente, per divertirli».66 Durante i primi sei mesi di vita,

il piccolo trascorre le ore di riposo o di sonno accanto a loro, e tuttavia isolato, adagiato su un grande cuscino e protetto da una zanzariera attaccata a una trave. I momenti di veglia li trascorre tra le braccia della madre, qualche volta del padre, ma più spesso in braccio ad altri bambini, che lo ridanno alla madre per nutrirlo, e che in genere sono ritenuti responsabili del suo benessere. [...] Il linguaggio rivolto al neonato tende ad assumere la forma di canti o di vocalizzazioni ritmiche, con una tonalità cantilenante. [...] Quando il neonato si fa un po' più grande e diventa più mobile [...] il tono della voce cambia rispetto a quello solitamente adoperato per i più piccoli. L'intonazione raggiunge il livello delle interazioni ordinarie usate tra adulti.67

Crescendo, i bambini imparano a parlare con metodi simili a quelli riferiti ai Kaluli, comprese le continue richieste di ripetere le parole.68

Anche dei lavoratori afro-americani si è detto che sono privi del maternese.69 Mentre conduceva una ricerca, negli anni settanta, presso una comunità afro-americana della Carolina del Sud con un basso tenore socioeconomico, l'antropologa linguista Shirley Brice Heath osservò che gli adulti della comunità non si rivolgevano ai loro piccoli parlando più lentamente o adottando un tono speciale, né semplificavano il loro vocabolario sostituendo suoni più semplici a quelli più complicati, o usando parole speciali del baby talk. Le ricerche più recenti di Monique Tenette Mills, tuttavia, danno indicazioni diverse. La Mills ha studiato il modo di parlare di quattro donne afro-americane di Columbus, nell'Ohio, quando si rivolgevano ai figli o ai nipoti.70 Le parole rivolte ai neonati avevano un tono più alto ed esagerato di quello usato per gli altri adulti. Rivolgendosi ai bambini, le donne studiate dalla Mills semplificavano il loro vocabolario, inserendovi ripetutamente delle domande. Venivano usate spesso ripetizioni come «notte-notte», «ma-mangia» o «na-naso», e alcune parole del baby talk venivano storpiate, ad esempio «shonno» invece di «sonno», o abbreviate, come nel caso di «lotto» invece di «bambolotto». Queste donne chiaramente usavano il maternese.

Per spiegare risultati così diversi da quelli della Heath, la Mills addusse varie ragioni: il diverso sistema nella raccolta dei dati, ma anche l'influsso delle differenze culturali esistenti tra la comunità della Carolina del Sud presa in esame dalla Heath e quella da lei studiata nella città settentrionale di Columbus, in Ohio. Secondo la Mills si deve anche tener presente che lei stessa è afro-americana e parla I'aave, cioè l'inglese dialettale afro-americano, il che potrebbe aver creato un clima di maggior agio e rilassatezza nei soggetti da lei studiati.

Questi studi dimostrano che il maternese in qualche modo è vincolato culturalmente: se si considera poco educato fissare negli occhi l'interlocutore, questo tabù sarà probabilmente incorporato nel maternese. Se la conversazione avviene normalmente fra più persone, il maternese ascoltato dal neonato probabilmente proverrà da più fonti. Se le madri si sentono socialmente a disagio nel parlare con persone considerate inferiori, come i neonati, possono allora incaricare individui di rango inferiore di parlare con i loro piccoli. Nelle loro indagini e speculazioni sul maternese, molti antropologi linguisti si concentrano sull'insegnamento deliberato del linguaggio ai piccoli che muovono i primi passi - uno stadio molto tardo nell'acquisizione del linguaggio. L'esposizione prenatale e neonatale alla prosodia del linguaggio insegna ai neonati i ritmi della lingua madre, nonostante le madri non siano sempre consapevoli dei loro tentativi di insegnamento. Come abbiamo visto, nelle culture in cui il maternese non dovrebbe esistere, i neonati sono comunque esposti all'atto del cullare, a sussurri amorevoli, a canzoni, ai toni di voce insiti nel baby talk. Tali caratteristiche sono, naturalmente, una delle manifestazioni universalmente tipiche del maternese.

È stata tuttavia segnalata una cultura nella quale il linguaggio rivolto ai neonati è privo dei toni acuti unanimemente associati al maternese. Nel 1977 il linguista Clifton Pye studiò il modo di parlare ai neonati in uso presso le madri di lingua quechua nell'altopiano occidentale del Guatemala. I soggetti studiati da Pye includevano solo tre madri e i loro piccoli, il più giovane dei quali aveva ventidue mesi. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, il tono di voce delle madri, quando si rivolgevano ai figli, restava lo stesso, o si abbassava leggermente, il che portò Pye (e altri) a rigettare l'ipotesi che il maternese abbia caratteristiche universali.71 D'altra parte il quechua è una lingua maya, nella quale, ipotizzò Pye, era possibile che i toni acuti fossero usati solo per rivolgersi a personaggi di alto lignaggio. Se così fosse, «qualsiasi tendenza ad alzare il tono di voce con i neonati, come avviene in molte altre culture, si sarebbe trovata in opposizione con la funzione dogmatica che riservava i toni acuti alle persone di riguardo».72 Come nei casi delle altre lingue di cui abbiamo discusso, a un esame più attento (come precisò lo stesso Pye) il linguaggio quechua diretto ai neonati presenta alcune caratteristiche riscontrabili anche presso altre comunità linguistiche, più alcune che appaiono uniche.73 Pye, significativamente, concluse che le regole socio-linguistiche per esprimere deferenza nella lingua quechua modificavano le parole rivolte ai bambini, e che ciascuna comunità imponeva al linguaggio riservato ai piccoli le proprie limitazioni. Per quanto questi studi mettano in evidenza il fatto che le regole sociali pongono restrizioni alla comunicazione fra madre e figlio, essi non riescono a dimostrare che in alcune culture manchi del tutto il maternese. Proprio come il linguaggio è universale, ma si manifesta in modo diverso nelle diverse culture - ad esempio il cinese è molto diverso dall'inglese -, così avviene anche per il maternese. Man mano che il bimbo cresce e si concentra sull'apprendimento della sua lingua madre, il maternese che ascolta cambia in maniera culturalmente appropriata. La scoperta di Pye che il quechua è privo dei toni acuti nei discorsi rivolti ai neonati potrebbe far risaltare l'importanza di questa particolare caratteristica nell'acquisizione del linguaggio, perché le sue ricerche sollevano anche il dubbio che i bimbi quechua possano imparare a parlare più tardivamente di altri bambini:

I miei assistenti mi hanno riferito che i genitori non si preoccupano del ritardo linguistico del figlio prima che questi raggiunga i tre o quattro anni. I bambini che non cominciano a parlare prima dei tre anni non godono di nessun trattamento particolare. Esistono tuttavia dei rimedi tradizionali per il ritardo linguistico. I Tenejapa Tzeltal credono che sia utile picchiare gentilmente la testa del bambino, di tanto in tanto, con un recipiente largo e corto, usato per tenere al caldo le tortillas. Ai bambini di tre o quattro anni che mostrano difficoltà di pronuncia, ritardi nel parlare o problemi a parlare correttamente si danno da mangiare cicale arrostite.74

Questi e altri studi interculturali confermano che una forma di maternese è universalmente essenziale alla maturazione sociale come pure al normale sviluppo emotivo e linguistico dei neonati. Dal momento della nascita, e forse anche mentre sono ancora nel ventre materno, i genitori non dovrebbero esitare a esporre i neonati al linguaggio loro riservato.

Note

1 Cfr. Laurel J. Trainor, Caren M. Austin e Renée N. Desjardins, Is Infant-Directed Speecb Prosody a Result of the Vocal Expression of Emotions, «Psychological Science», XI, 3, 2000, pp. 188-95.

2 Cfr. Robin P. Cooper, Jane Abraham, Sheryl Barman e Margareth Staska, The Development of lnfants' Preference for Motherese, «Infant Behavior and Development», XX, 4, 1997, pp. 477-88.

3 Cfr. Daniel N. Stern, Susan Spieker, R. K. Barnett e Kristine MacKain, The Prosody of Maternal Speech. Infant Age and Context Related Changes, «Journal of Child Language», X, 1, 1983, pp. 1-15.

4 Kyra Karmiloff e Annette Karmiloff-Smith, Pathways to Language. Proni Vetus to Adolescence, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 47.

5 L'introduzione della prosodia nel linguaggio umano arriva principalmente dalla parte destra del cervello, mentre il linguaggio è per lo più generato dalla parte sinistra. Anche se ci occuperemo dei substrati neurologici del linguaggio nel cap. 9, vai la pena notare qui che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni linguisti, il tono di voce non è completamente separato dal linguaggio, ma anzi ne è una componente estremamente importante, ed è stato probabilmente ancor più cruciale per la comunicazione dei nostri antichi progenitori non verbali. Quindi, invece di ignorarla, la prosodia andrebbe analizzata, per portare alla luce i segreti sull'evoluzione in essa nascosti - e il tono di voce è nulla se non è musicale.

6 La mia agente, Deirdre Multane, mi ha raccontato una cosa che mi ha divertito. Stava bevendo un caffè in un locale, mentre leggeva la proposta editoriale per questo libro, e proprio quando arrivò alla parte dedicata al maternese notò che nel tavolino accanto una madre era impegnata a parlare in maternese col suo bambino piccolo. Mi ha detto che è stato come avere un illustratore dal vivo.

7 Cfr. Sandra E. Trehub, Laurei J. Trainor e Anna M. Unyk, Music and Speech Processing in the First Year ofLife, «Advances in Child Development», XXIV, 1993, pp. 1-35. Gli autori fanno notare che le canzoncine tranquillizzanti sono meno usate in Nord America e in Europa, dove genitori e babysitter si ritirano dalla camera dei bambini prima che questi si addormentino.

8 Cfr. Anne Fernald, Human Materna! Vocalizations to Infants as Biologically Re-levant Signals. An Evolutionary Perspective, in Jerome H. Barkow, Leda Cosmides e John Tooby (a cura di), The Adapted Mind. Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford-New York 1992, pp. 391-428, poi in Paul Bloom (a cura di), Language Acquisìtìon. Core Readings, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994, pp. 51-94.

9 Cfr. Marelee Monnot, Function of Infant-Directed Speech, «Human Nature. An Interdisciplinary Biosocial Perspective», X, 1999, pp. 415-43; Fernald, Human Matemal Vocalizations cit.

10 Questo modo di pensare è evidente in altri aspetti dell'antropologia, ad esempio nella controversa discussione su come meglio interpretare la variante umana. Gli antichi navigatori che salparono per le Americhe notarono che lì le persone erano molto diverse da quelle che si erano lasciate alle spalle, e questo portò alla categoriz-zazione degli esseri umani in razze differenti. Gli antropologi contemporanei, come C. Loring Brace, hanno invece un punto di vista diverso. Brace osserva che per quanto riguarda il fattore anatomico, gli esseri umani cambiano gradualmente man mano che aumentano le distanze (si chiama cline: è la variabilità continua di uno o più caratteri morfologici e fisiologici lungo una linea di transizione tra ambienti diversi). Ad esempio, se in Europa si viaggia verso est, la frequenza del gene per il sangue di tipo B gradualmente aumenta. Studiando le varianti umane in tutta la loro complessità, risulta evidente che gli impercettibili e graduali cambiamenti delle frequenze dei geni attraverso grandi espansioni geografiche andavano perduti agli occhi degli esploratori, che venivano catapultati via mare al di là di grandi distanze. Nel caso del linguaggio, il maternese sta da una parte dell'oceano, mentre il linguaggio si trova sull'altra sponda. I linguisti che ritengono che non ci sia alcun rapporto tra i due non riescono a vedere i legami che apparirebbero loro chiaramente se fossero sulla terraferma.

11 Per ulteriori particolari su questa «procedura per segnalare la preferenza tramite il volgere della testa», e su altri metodi, cfr. Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit.

12 Cfr. ibid., p. 44.

13 Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., pp. 1-2.

14 Se dovessi ricominciare da capo - cosa che come norma di sei nipoti non vorrei - parlerei, accarezzerei, canterei e suonerei della musica per il mio pancione incinto!

15 Cfr. Peter Ladefoged, Votoels and Consonanti. An Introduction to the Sounds of Language, Blackwell, Oxford 2004.

16 Cfr. Greg Miller, Lìsten, Baby, «Science», 306, 5699, 2004, p. 1127.

17 Cfr. Janet F. Werker e Richard C. Tees, Cross-Language Speech Perception. Evi-dencefor Perceptual Reorganization During the First Year ofLife, «Infant Behavioral Development», VII, 1984, pp. 49-63.

18 Cfr. Patricia K. Kuhl, A New View of Language Acquisition, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», XCVII, 22, 2000, pp. 11850-57. Secondo l'ipotesi di Kuhl sull'impegno neurale del linguaggio nativo (nlnc), l'«acquisizione del linguaggio genera centri nervosi specializzati che codificano gli schemi della lingua madre. L'ipotesi si focalizza sugli aspetti del linguaggio appreso precocemente - le regolarità statistiche e prosodiche dell'introduzione del linguaggio, che portano all'apprendimento della fonetica e della parola - e su come essi influenzino la futura abilità del cervello nell'apprendimento del linguaggio. Secondo questa teoria, l'impegno neurale per le regolarità statistiche e prosodiche della lingua madre favorisce l'uso futuro di questi schemi appresi in elaborazioni di ordine superiore nella lingua madre. Al contempo nlnc interferisce con l'elaborazione degli schemi delle lingue straniere che non si conformino a quelli già appresi»: Id., Early Language Acquisìtion. Cracking the Speech Code, «Nature Reviews Neuroscience», V, n, 2004, p. 838.

19 Cfr. Kuhl, Early Language Acquisition cit., p. 834.

20 Cfr. Erik D. Thiessen e Jenny R. Saffran, Learning to Leam. Infants' Acquisition of Stress-Based Strategies for Word Segmentation, «Language Learning and Development», III, 2007, PP- 73-100.

21 Cfr. Peter W. Jusczyk, Derek M. Houston e Mary Newsome, The Beginnings o/WordSegmentatìon in English-Learning Infanti, «Cognitive Psychology», XXXIX,

3-4, 1999, PP- 159-207.

22 Cfr. Miller, Listen, Baby cit.; Feng-Ming Tsao, Huei-Mei Lìu e Patricia K. Khul, Speech Perception in lnfancy Predicts Language Development in the Second Year ofLìfe. A LongìtudìnalStudy, «Child Development», LXXV, 4, 2004, pp. 1067-84.

23 Cfr. Huei-Mei Liu, Patricia K. Kuhl e Feng-Ming Tsao, An Association Between Mothers' Speech Clarity and Infanti' Speech Dìscrìminatìon Skills, «Develop-mental Science», VI, 2003, ff. 1-10.

24 Cfr. Patricia K. Kuhl, Sharon Coffey-Corina, Denise Padden e Geraldine Dawson, Links Between Social and Lìnguistic Processing of Speech in Preschool Children with Autìsm. BehavioralandElectrophysiologicalMeasures, «Developmental Science», VIII, 1, 2005, ff. 1-12.

25 Ibid., f. 10.

26 Cfr. Denis Burnham, Christine Kitamura e Uté Vollmer-Conna, What's New, Pussycat? On Talking to Babies andAnimals, «Science», 296, 5572, 2002, p. 1435.

27 Cfr. Jean E. Andruski, Patricia K. Kuhl e Akiko Hayashi, Point Vowels in Japanese Mothers' Speech to Infants and Adulti, «The Journal of the Acoustical Society of America», CV, 2, 1999, pp. 1095-96; Burnham, Kitamura e Vollmer-Conna, What's New, Pussycat? cit.; Patricia K. Kuhl, Jean E. Andruski, Inna A. Chistovich, Ludmilla A. Chistovich, Elena V. Kozhevnikova, Viktoria L. Ryskina, Elvira I. Stolyarova, Ulla Sundberg e Francisco Lacerda, Cross-Language Analysis ofPhonetìc Units in Language Addressed to Infants, «Science», 277, 5326, 1997, pp. 684-86.

28 Cfr. Liu, Kuhl e Tsao, An Assocìation hetween Mothers' Speech Clarity cit.

29 Cfr. Bart de Boer e Patricia/K. Kuhl, Investìgatìng the Role of Infant-Directed Speech with a Computer Model, «Acoustics Research Letters Online», IV, 4, 2003, pp. 129-34.

30 Cfr. Kathy Hirsh-Pasek e Rebecca Treiman, Doggerel. Motherese in a New Context, «Journal of Child Language», IX, 1, 1982, pp. 229-37.

31 Queste enunciazioni sono dette «deittiche», un aggettivo (dal greco déixis, «indicazione») legato a «indice», che significa dimostrare indicando o tramite altre forme di riferimento. Spesso chi compie queste enunciazioni lo fa puntando il dito indice.

32 Cfr. Andrew N. Meltzoff, Imitation, Objects, Tools and the Rudiments of Language in Human Ontogeny, «Human Evolution», III, 1-2, r988, pp. 45-64; Id., «LikeMe». A Foundation for Social Cognition, «Developmental Science», X, 1, 2007, pp. 126-34.

33 Cfr. Andrew N. Meltzoff e Jean Decety, What Imitation Tells Us About Social Cognition. A Rapprochement Between Developmental Psychology and Cognitive Neuroscience, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B: Bio-logical Sciences», 358, 1431, 2003, pp. 491-500.

34 Qui entrano in azione i cosiddetti neuroni specchio, di cui si parla al cap. 9.

35 Meltzoff e Decety, Whatlmitatìon Tells Us AboutSocial Cognition cit., p. 494. Cfr. Patricia K. Kuhl e Andrew N. Meltzoff, Speech as an Intermodal Object of Perception, in Albert Yonas (a cura di), Perceptual Development in Infancy. The Minnesota Symposium on Chili Phonology, Erlbaum, Hillsdale (NJ) 1988, pp. 235-66.

37 Cfr. Stephen J. Cowley, Sheshni Moodley e Agnese Fiori-Cowley, Grounding Signs of Culture: Primary Intersubjectivity in Social Semiosis, «Mind Culture and Activity», XI, 2, 2004, pp. 109-32.

38 Cfr. Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit.

39 Cfr. Thiessen e Saffran, Learning to Learn, cit.

40 Ripensandoci, è assai sorprendente che i feti comincino a distinguere le intonazioni e i ritmi del linguaggio prima che possano vedere le fonti da cui provengono i suoni che sentono. I neonati, d'altra parte, lavorano a percepire tanto gli schemi visivi quanto quelli uditivi, come può constatare chiunque abbia a che fare con un bambino. Provate, ad esempio, a mettere un neonato di fronte a una finestra che filtri la luce attraverso le tendine: il neonato osserverà la scena con evidente interesse, affinando in questo procedimento la percezione della forma tridimensionale e della profondità. Il neonato sta imparando a vedere. I neonati applicano queste capacità, che hanno affinato durante l'ascolto prenatale, al compito di sviluppare e integrare le informazioni che traggono dall'ascolto, dalla vista, dal movimento e dalle sensazioni. Un compito non facile.

41 Questa rivelazione è dovuta in buona parte al duro lavoro dei ricercatori tedeschi Kathleen Wermke dell'Università di Würzburg, Werner Mende dell'Accademia delle Scienze di Berlino-Brandeburgo, e dei loro colleghi.

42 Comunicazione personale all'autrice contenuta in una lettera di Werner Mende e Kathleen Wermke, 26 settembre 2006. Citazione autorizzata.

43 In tal senso i primi pianti dei neonati sembrano manifestare quella ricorsività di cui si preoccupano tanto i linguisti. Cfr. W. Tecumseh Fitch, Marc D. Hauser e Noam Chomsky, The Evolution of the Language Faculty. Clarifications and Implications, «Cognition», 97, 2, 2005, pp. 179-210.

44 Cfr. Kathleen Wermke, Werner Mende, Claudia Manfredi e Piero Bruscaglioni, Developmental Aspects of Infanti Cry Melody and Formanti, «Medicai Engineering & Physics», XXIV, 7-8, 2002, pp. 501-14.

45 Cfr. Kathleen Wermke e Werner Mende, Melody as a Primordial Legacy from Early Roots of Language, «Behavioral and Brain Sciences», XXIX, 2006, p. 300.

46 Wermke, Mende, Manfredi e Bruscaglioni, Bevelopmental Aspects of lnfants' Cry Melody and Formants cit.

47 Quindi mia nonna non aveva tutti i torti quando diceva che i neonati piangono «per esercitare i loro piccoli polmoni»; diciamo che semplicemente non teneva conto di altre parti della loro anatomia!

48 Cfr. Kathleen Wermke, Daniel Leising e Angelica Stellzig-Eisenhauer, Relation of Melody Complexity in Infantis’ Cries to Language Outcome in the Second Year of Life. A Longitudinal Study, «Clinical Linguistics and Phonetics», XXI, n-12, 2007, pp.961-73.

49 Cfr. Wermke, Leising e Stellzig-Eisenhauer, Relation of Melody Complexity cit.

50 Siobhan Holowka e Laura Ann Petitto, Left Hemisphere Cerebral Spaciatization for Babies While Babbling, «Science», 297, 5586, 2002, p. 1515, definiscono le lallazioni come vocalizzazioni che contengono una serie ridotta di possibili suoni linguistici (unità fonetiche), hanno un'organizzazione sillabica duplicata, o ripetuta (alternanze di consonante-vocale), e sono prodotte senza significato apparente.

51 Cfr. Andrea G. Levitt e Jennifer G. Aydelott Utman, Front Babbling Towards the Sound Systems ofEnglìsh and Frencb. A Longitudinal Two-Case Study, «Journal of Child Language», XIX, 1, 1992, pp. 19-49.

52 Cfr. Toshiaki Imada, Yang Zhang, Marie Cheour, Samu Taulu, Antti Ahonen e Patricia K. Kuhl, Injanl Speech Perception Actìvates Broca's area. A Developmental Magnetoencephalography Study, «NeuroReport», XVII, io, 2006, pp. 957-62; Ho-lowka e Petitto, Left Hemisphere CerebralSpecialization cit.

53 Cfr. Charles A. Ferguson, Talking to Children. A Searchfor Universals, in Joseph H. Greenberg (a cura di), Universals of Human Language, Stanford University Press, Stanford 1978, 4 voli., I, pp. 176-89.

54 Secondo Ferguson «tali modificazioni hanno una base innata nei comportamenti pan-umani di chi si prende cura dei bambini, ma i dettagli del linguaggio di ogni comunità sono in larga misura convenzionalizzati (culturalmente modellati) e in parte nascono direttamente dalle necessità interattive e dall'imitazione nel comportamento dei bambini. Le caratteristiche modificative hanno un'incidenza variabile, ma costituiscono un insieme sorprendentemente coeso di caratteristiche linguistiche, che possono essere considerate come un "registro" del repertorio dell'utente del linguaggio. Questo registro del baby talk costituisce un fattore importante per la socializzazione dei bambini, essendo evidentemente di ausilio nell'apprendimento della struttura linguistica, nello sviluppo degli schemi interattivi, nella trasmissione dei valori culturali e nell'espressione della relazione affettiva dell'utente verso i destinatari»: Ferguson, Talking to Children cit., p. 215.

55 Elinor Ochs, Indexing Gender, in Alessandro Duranti e Charles Goodwin (a cura di), Rethinking Context. Language as an Interactive Phenomenon, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 349.

Elinor Ochs e Bambi B. Schieffelin, L'acquisizione del linguaggio e la socializzazione. Tre percorsi evolutivi e le loro implicazioni, in Richard A. Shweder e Robert LeVine (a cura di), Mente, Sé, emozioni. Per una teoria della cultura, Argo, Lecce 1997, p. 338 (ed. or. 1984).

57 Bambi B. Schieffelin, The Give and Take o/Everyday Life. Language Socialization of Kaluli Children, Cambridge University Press, Cambridge 1990, p. 70.

58 Ibid., p. 71.

59 Schieffelin, The Give and Take of Everyday Life cit.

60 Ochs e Schieffelin, L'acquisizione dellinguaggio e la socializzazione cit., p. 335.

62 Ibid.

63 Cfr. ibid., p. 336.

64 Ibid.

65 Ochs e Schieffelin, L'acquisizione del linguaggio e la socializzazione cit., p. 341.

66 Elinor Ochs, Talking to Children in Western Samoa, «Language in Society», XI, 1982, p. 89.

67 Ochse Schieffelin, L'acquisizione del linguaggio e la socializzazione cix., p. 340.

68 Ibid.,p. 343.

69 Cfr. Shirley Brice Heath, Ways Witb Words. Language, Life and Work in Communities and Classrooms, Cambridge University Press, Cambridge 1983.

70 Cfr. Monique Tenette Mills, Phonological Features of Afrìcan-American Vemacular English in Chìld-Dìrected Versus Adult-DirectedSpeech, tesi di M. A., Ohio State University, Columbus 2004.

71 Cfr. Clifton Pye, Quiche Mayan Speech to Children, «Journal of Child Language», XIII, I, 1986, pp. 85-100.

72 Nan B. Ratner e Clifton Pye, Hìgher Pitch in BTh Not Universa!. Acoustic Evi-dencefrom Quiche Mayan, «Journal of Child Language», XI, 3, 1984, p. 521.

73 Cfr. ibid., p. 520.

74 Clifton Pye, The Acquisition of K'iché Maya, in Dan Isaac Slobin (a cura di), The Crosslìnguìstic Study of Language Acqusition, Lawrence Erlbaum, Hillsdale (NJ) 1991, III, p. 244.

6. Che cosa c'è in un nome?

Pasticcio di Cottleston

Pasticcio di Cottleston, Cottleston, Cottleston, / Una valigia si porta ma una porta non si valigia, / Fammi un indovinello e ti risponderò: «Pasticcio di Cottleston, Cottleston, Cottleston».

A. A. Milne

Gli strettissimi legami fra madre e figlio erano essenziali alla sopravvivenza dei piccoli preistorici, per questo si svilupparono dei meccanismi visivi, vocali e fisici che resero possibile a madri e figli di «entrare nel mondo temporale e nello stato d'animo l'uno dell'altro».1 Queste parole ben si adattano alla prosodia e ad altre caratteristiche del maternese. EUen Dissanayake, durante un seminario, descrisse minutamente come questi speciali comportamenti potrebbero aver dato origine alla musica, alla danza e al mimo, e ipotizzò che questi ultimi, a loro volta, potrebbero aver favorito i legami e la cooperazione tra gli adulti, necessari alla sopravvivenza. La cosa strana fu che molti dei partecipanti a quel seminario non diedero peso alla sua brillante esposizione.

Stimolata dallo studio della Dissanayake sul maternese e le arti maggiori, ho cominciato a esplorare il ruolo del baby talk nella nascita del linguaggio. Ho imparato che alcune forme di maternese si trovano ovunque nelle culture umane ma non esistono presso le grandi scimmie. Quindi il maternese stesso deve essere emerso a un certo punto dell'evoluzione umana. Ho anche scoperto che il maternese aiuta i neonati di tutto il mondo a imparare la loro lingua madre; sembrerebbe ragionevole, quindi, supporre che il maternese abbia preceduto il primo linguaggio (protolinguaggio) e abbia avuto un ruolo nella sua nascita. Ma perché i primi ominini cominciarono a usare il maternese? Ho riflettuto per alcuni anni su questa domanda prima di formulare l'ipotesi di «mettere giù il bambino», che ormai conoscete bene: la selezione naturale verso il bipedismo e il graduale aumento del cervello degli ominini provocò l'incapacità da parte dei neonati di avvinghiarsi al corpo della madre.2 Prima dell'invenzione dei marsupi, le madri erano le principali responsabili del sostegno e del trasporto dei loro neonati. Madri e neonati degli ominini cominciarono probabilmente a interagire con suoni rasserenanti e pianti quando le madri presero ad appoggiare a terra i piccoli per poter raccogliere il cibo. C'è una buona ragione, come vedremo, per credere che quelle preistoriche vocalizzazioni abbiano infine prodotto il protolinguaggio. Sei anni dopo aver assistito alla conferenza della Dissanayake, fui invitata a tenere un seminario per antropologi in una università della California. Ero desiderosa di condividere le mie idee sui comportamenti che avevano spianato la via al protolinguaggio. Mentre la dissertazione della Dissanayake era stata accolta dal silenzio, la mia fu salutata da aperto disprezzo. Un antropologo gettò via la matita mentre mi obiettava: «Lei non ha provato che il maternese abbia qualcosa a che fare con l'apprendimento del linguaggio. Certo, le mamme dispensano affetto, ma non ci sono prove che questo abbia a che fare con la futura comprensione della sintassi, della grammatica e della semantica da parte dei loro figli». Quando protestai che io intendevo mettere a fuoco l'attenzione sui precursori che avevano portato all'emersione del linguaggio, lui restò scettico. Un altro antropologo, un linguista, mi informò che le mie idee non potevano essere corrette perché le ricerche sui Kaluli e i Samoani avevano dimostrato che il maternese non era universale (un'asserzione di cui mi sono occupata nel precedente capitolo).

La reazione al mio intervento mi lasciò, più che sconvolta, sconcertata. Me ne andai ben decisa a esaminare quelle culture presumibilmente prive di maternese, e a scoprire inoltre quale relazione esistesse tra il maternese e l'evoluzione degli aspetti più formali del linguaggio. Cominciai anche a chiedermi se la mia conferenza (e quella della Dissanayake) fosse stata male accolta perché ambedue avevamo enfatizzato il ruolo delle donne e dei bambini, più di quello degli uomini, nell'evoluzione umana.

Ricordo che la mia ipotesi sul «mettere giù il bambino» voleva spiegare i comportamenti che avevano preceduto la comparsa del protolinguaggio presso i nostri antenati, e non fornire un resoconto della successiva comparsa del linguaggio stesso.3 Ma i linguisti volevano di più: «Gli esseri umani hanno una o due singolari forme di adattamento, che includono complessi simbolici e referenziali, e l'abilità di legarli in strutture con regole precise (e pressoché infinite). Alcuni di noi vorrebbero una spiegazione su questi adattamenti».4 Per una non linguista come me, rispondere a queste domande diventava una sfida, perciò chiesi alla mia amica antropologa Myrdene Anderson di elencarmi le caratteristiche, ritenute universali, dei linguaggi.3

La Anderson mi spiegò che tutte le lingue possiedono un sistema finito di suoni, chiamati fonemi, che possono venir combinati in vocali o consonanti; inoltre tutte hanno nomi e verbi e modi specifici per modificarli, che differiscono a seconda della lingua. Tutte poi hanno delle unità linguistiche minime dotate di significato, chiamate morfemi, che possono essere attaccate alle parole per modificarne il significato. In inglese, ad esempio, si può aggiungere una s per formare il plurale di una parola, aggiungendo ing al verbo si forma il participio presente, e con ed si fa il tempo passato. Tutte le lingue hanno dei modi per indicare le relazioni non solo con il tempo passato, presente e futuro, ma anche con lo spazio (anche se alcune lingue non hanno preposizioni separate). Dappertutto le persone usano parole interrogative (che ad esempio in italiano includono «chi?», «che cosa?», «dove?», «quando?», «perché?», «come?») o frasi interrogative: «La ragazza vide il ragazzo?». In tutto il mondo poi si usano modi quasi simili per contare, ma il concetto di numero e il modo per esprimerlo possono essere molto diversi. Ad esempio il Warlpiri, una lingua australiana, contempla solo i numeri «uno», «due» e «tanti». Tutti i linguaggi, inoltre, mi disse la Anderson, hanno suoni soprasegmentali, come il tono della voce (che è universale). Alzare il tono di voce alla fine di domanda, in inglese, è un esempio di fonema soprasegmentale.

Infine, e cosa più significativa di tutte, ogni lingua ha le proprie regole specifiche {sintassi) per la combinazione delle parole in frasi dotate di significato e delle frasi in periodi. La sintassi e le regole per la combinazione dei morfemi costituiscono la grammatica di una lingua. Dato che la possibilità combinatoria delle parole in ogni lingua è pressoché infinita, e le frasi possono essere inserite entro altre frasi all'infinito, ovunque le persone possono esprimere un'interminabile varietà di pensieri. Le usanze e i tabù culturali stabiliscono come e in quale misura questi tratti universali debbano comparire in ciascuna lingua, così come limitano le manifestazioni del maternese nelle diverse società.6 Per capire come il maternese abbia contribuito alla formazione di queste regole linguistiche universali, dobbiamo saperne di più su come i neonati moderni diventano degli esseri linguistici.

Finora abbiamo tracciato il percorso dello sviluppo prelinguistico, dall'origliare prenatale dei feti alla lallazione dei neonati di sette mesi circa. Abbiamo imparato che l'esposizione dei neonati al maternese rafforza la loro innata tendenza a estrapolare le caratteristiche salienti della voce materna e infine plasma la loro capacità di percepire parole e preposizioni nel rapido flusso del discorso. I bambini piccoli dimostrano in questo compito incredibili capacità linguistiche e di elaborazione degli schemi. Alcuni esperimenti fanno ipotizzare che la qualità del maternese ascoltata da singoli bambini possa essere associata, in una certa misura, alla loro abilità nel captare i suoni delle parole.

Mentre cercano di analizzare il flusso delle parole, i neonati sviluppano nel loro pianto melodie sempre più complesse. Come abbiamo appreso dalle ricerche di Werner Mende e Kathleen Wermke, il pianto induce infine il neonato a pronunciare le sillabe necessarie alla lallazione, secondo il ritmo e le melodie della lingua madre. Non solo i neonati riproducono le sillabe necessarie alla lallazione secondo i suoni elementari delle parole e della prosodia delle loro lingue madri, ma aspettano educatamente (e adorabilmente) il loro turno nella «conversazione». Nella lallazione, come nel linguaggio vero e proprio, viene messa in funzione la parte sinistra del cervello, il che offre un'ulteriore indicazione della relazione fondamentale tra lallazione e linguaggio. Ma certo un neonato allo stadio di lallazione non è ancora un bambino parlante.

Anche se abbiamo costruito un solido argomento a favore dell'importanza del maternese nell'acquisizione del linguaggio, non abbiamo ancora esteso la discussione oltre lo stadio della lallazione. In questo capitolo ci concentreremo su come il protolinguaggio sia scaturito dal maternese preistorico e si sia sempre più trasformato in un linguaggio provvisto di parole e sintassi. Non stiamo dicendo che l'antico maternese sia direttamente responsabile di tutte le sottigliezze del linguaggio, ma certo il maternese iniziò una catena di eventi cruciali per l'emersione del linguaggio primitivo e, di conseguenza, per l'evoluzione del linguaggio moderno.

Dalla lallazione alle parole

Gli esseri umani conoscono un impressionante numero di parole. In media lo studente liceale americano ne conosce circa sessantamila. I linguisti Steven Pinker e Ray Jackendoff osservano che: «l'assunto che le parole possano essere imparate si basa sulla predisposizione del bambino a interpretare i rumori emessi dagli altri come segnali significativi [...]. Buona parte del compito insito nell'apprendimento del linguaggio sta nel riuscire a capire quali concetti simboleggino quei rumori».7 Prima di imparare a padroneggiare il linguaggio, i bambini devono imparare le sue parti. Sarà stato così anche a livello evoluzionistico. Prima di imparare a parlare, i nostri progenitori hanno dovuto inventare le parole.

La creazione delle parole non sarà stato uno scherzo, dato che non si tratta di semplici nomi (anche se, come diremo più avanti, all'inizio potrebbe essere stato questo il caso).8 Come imparano i bambini alla scuola elementare, parole diverse hanno funzioni diverse: nomi, verbi, preposizioni e così via. Le parole moderne sono piene di informazioni importanti: specificazioni del tempo dei verbi, o indicazioni per il singolare o plurale delle parole. Le parole in realtà sono generiche, tranne nel caso dei nomi propri. Imparando che un oggetto si chiama palla, ad esempio, il bambino piccolo applica quella parola ad altre palle e assume che gli altri conoscano quella parola.9 Le parole sono «un insieme condiviso, organizzato di strutture fonologiche, concettuali e grammaticali».10

Ma come fanno i bambini a imparare per prima cosa che le parole hanno certi significati? Come abbiamo visto nel capitolo precedente, una lallazione ben formata compare nel neonato verso i sette mesi; verso l'inizio del secondo anno di età, la lallazione diventa più complessa e il bambino inizia a pronunciare le prime parole, e a questo stadio diventa difficile distinguere la lallazione dalle prime, vere, parole. Annette Karmiloff-Smith e Kira Karmiloff, madre e figlia che collaborano insieme, si domandano: «Quand'è che le sillabe ripetute "ma-ma-ma" diventano il simbolo per "madre"? Se il bambino indica una scarpa e contemporaneamente dice "scaa", si tratta ancora di lallazione, oppure il peculiare ma coerente suono per "scarpa" emesso dal bambino ha ora un reale credito referenziale?»11 La svolta decisiva, vale a dire l'attivazione della cosiddetta intuizione di denominazione,12 ha luogo quando il bambino ha circa due anni e si rende conto che i rumori prodotti dagli adulti sono simbolici. Quando gli adulti indicano il significato di alcune sillabe (come «papà», «bau-bau», «vai»), il bambino scopre che un certo suono è costantemente associato a una particolare persona, oggetto, o azione. Quando capisce che specifici significati, abbinati a specifiche vocalizzazioni, costituiscono la caratteristica delle parole, il bambino può cominciare a costruire il suo vocabolario, e da quel momento può iniziare a immaginare che cosa vogliano dire le parole e come usarle per ottenere quello che vuole.13 Per stabilire il significato delle parole, il bambino pone attenzione allo schema delle intonazioni, dell'enfasi e delle ripetizioni che sente, e ad altri indizi, come la direzione dello sguardo di chi parla, o le indicazioni manuali, oppure ancora il contesto.

Il numero e la complessità delle parole pronunciate nelle diverse età variano, ma la maggior parte dei bambini comincia a pronunciare delle parole tra i nove mesi e i due anni di età.14 Ricorderete quanto detto nel capitolo 5: i bambini che a sette mesi riuscivano meglio di altri a percepire i suoni del discorso nella lingua madre, a due anni erano in grado di pronunciare meglio di altri delle parole complicate.15 Quei bambini di sette mesi avevano imparato a sentire i suoni delle parole soprattutto attraverso l'ascolto del maternese. Quindi il maternese sembra influenzare indirettamente le parole che i bambini poi pronunciano e mettono insieme.

Le persone possiedono normalmente un vocabolario più vasto per ascoltare che per parlare, e questo succede anche ai bambini che cominciano ad acquisire le parole.16 La capacità innescata dal maternese di pescare le parole dal flusso del discorso, e di udire e pronunciare i suoni della lingua in grado di formare quelle parole, è ovviamente essenziale per formarsi un vocabolario, ma non si ferma qui. Il processo stesso di costruirsi un vocabolario contribuisce a quell'acquisizione del linguaggio cui il maternese ha dato il via aiutando i neonati a raffinare il loro «gruzzolo» mentale di parole:

Ad esempio, un bambino con un lessico composto da una sola parola che inizia con /m/, mamma, può essere abbastanza pigro da non volerne rappresentare e riprodurre la forma fonologica («ma»). Man mano che si aggiungono nuove parole che cominciano con /m/ (ad es. mela e muro), le rappresentazioni fonologiche devono diventare più complesse per poter distinguere le parole. La stessa cosa potrebbe essere vera per le rappresentazioni semantiche, provocando errori di denominazione mentre il bambino cerca di giungere a significati più esatti.17

I genitori danno il loro aiuto continuando il «gioco dei nomi», iniziato nel momento in cui hanno cercato di interpretare i primi balbettii del loro bambino. Gli studi condotti su genitori di lingua francese e inglese e sui loro figli da uno a due anni mostrano che l'impegno con cui i genitori continuamente nominano gli oggetti e incoraggiano la ripetizione dei nomi è associato all'arricchimento del vocabolario dei figli e alla loro capacità di manipolare e categorizzare gli oggetti.18 Rispetto agli altri figli, i primogeniti imparano i nomi delle cose più velocemente, forse perché i genitori hanno più tempo da dedicare al «gioco dei nomi».19 I bambini che acquisiscono presto un buon numero di parole tendono a concentrarsi sui nomi, mentre quelli che imparano più gradatamente sembrano acquisire un vocabolario più equilibrato di nomi e altri tipi di parole.20 La rapidità con cui i bambini imparano i verbi dipende dalla frequenza con cui le forme verbali compaiono nei discorsi che i genitori rivolgono loro.21 I verbi si imparano più velocemente se si trovano in fondo alla frase: «What's baby drinking?» invece di «Baby's drinking what?».

Inizialmente i neonati imparano meglio le singole parole, ma a diciotto mesi capiscono le parole familiari più rapidamente se le parole sono riunite in una frase, come: «Guarda la...», oppure: «Dov'è il...?»22 Il bambino rivolgerà più velocemente lo sguardo verso la foto di un cane se sente: «Dov'è il cane?» invece della semplice parola: «cane». Pare che il bambino tragga beneficio dalla prevedibilità legata all'udire le parole all'interno di brevi frasi a lui familiari, e i genitori sembrano capirlo intuitivamente perché, nel rivolgersi ai loro figli, usano con frequenza queste brevi frasi.23 Scrivono Karmiloff e Karmiloff-Smith: «Anche se i bambini, dai diciotto ai ventiquattro mesi di età, non capiscono tutto il discorso, ciò che i genitori dicono, e come lo dicono, può influenzare la natura della loro futura produzione verbale. La varietà delle parole usate, il modo in cui sono presentate, e la frequenza con cui ci si rivolge al bambino e lo si coinvolge in una interazione basata sulla conversazione, sono fattori che influiscono sulla velocità di apprendimento delle parole da parte del singolo».24

Alcune varianti più fini sono legate alla diversità fra le culture: i bambini cinesi e coreani, ad esempio, usano un maggior numero di verbi rispetto ai bambini di lingua inglese.25 Tuttavia i bambini delle varie culture passano più o meno tutti attraverso gli stessi stadi di apprendimento del linguaggio.26 Nonostante la diversità fra gli individui, la maggior parte dei bambini, raggiunti i due anni, hanno appreso una cinquantina di parole, che sembrano essere le medesime in ogni cultura o lingua: i nomi dei genitori («mamma», «papà») e altri familiari, di alcuni animali («micio»), di alcune funzioni corporali («pipì»), di oggetti («palla»), di alcune abitudini sociali («ciao-ciao») e dell'imperativo («su!»).27 Come abbiamo già detto, i bambini proferiscono le prime parole tra i nove e i ventiquattro mesi; pian piano aggiungono nuove parole, poi il ritmo aumenta. A due anni imparano a mettere insieme due parole, specialmente per le richieste: «ancora latte», ed è a questo stadio che le scimmie ammaestrate si fermano. Arrivati a possedere da cento a duecento parole, i bambini di solito cominciano a combinarle grammaticalmente. Lo fanno anche i soggetti dallo sviluppo ritardato, che iniziano a parlare più tardi degli altri.28

La grammatica

Il maternese non solo aiuta i bambini a formarsi un vocabolario, ma li mette in contatto con alcuni aspetti della grammatica: il baby talk, ad esempio, consente ai piccoli di acquisire le regole grammaticali attraverso le intonazioni, che dividono le frasi in combinazioni grammaticalmente corrette. Nonostante ci siano molte varianti individuali, si può dire che normalmente i bambini cominciano a dire frasi grammaticalmente corrette fra i quattordici mesi e i tre anni. Per definizione il linguaggio diventa grammaticalmente corretto quando il bambino si adegua alle regole stabilite per la combinazione delle parole, in modo da costruire frasi e periodi (sintassi).29 Dopo aver imparato come pronunciarle, alcune parole, come «ancora», «più» o «tutti andati», diventano utili «cardini» per formare locuzioni di due parole:

chiunque può interpretare quello che vuole il piccolo quando dice: «ancora biscotto», «niente succo» o «ancora cucù».30 L'ordine delle parole emerge presto nell'apprendimento dei bambini di lingua inglese, perché si tratta di una regola molto importante della sintassi, ed essi imparano, fin dall'età di diciassette mesi, la differenza tra «Big Bird fa il sol- ' letico a Cookie Monster» e «Cookie Monster fa il solletico a Big Bird».31

All'età di due anni i bambini capiscono la differenza tra i verbi transitivi e quelli intransitivi (es. «sollevare» nelle frasi: «Big Bird solleva Cookie Monster» e «Big Bird si solleva con Cookie Monster»). L'idea di Pinker è che una volta che il bambino ha imparato il significato dei nomi più importanti, riesce a intuire le sottigliezze dal contesto:

Ascoltando la frase «Il ragazzo sta accarezzando il cane», ad esempio, il piccolo deve imparare che cosa vogliono dire i nomi «ragazzo» e «cane» prima di poter analizzare grammaticalmente la frase. Poi, vedendo il gesto che accompagna la frase (cioè il ragazzo che tocca la schiena del cane), il bambino può usare la situazione reale per formulare la corretta analisi linguistica, attribuendo «il ragazzo» al soggetto della frase, e «accarezzando il cane» al verbo della frase contenente un oggetto diretto [...]. Potrà anche intuire dal contesto linguistico che «accarezzare» è un verbo transitivo che regge un complemento oggetto [...]. Se più tardi il bambino sente dire «il ragazzo corre», potrà abbinare la sua nozione di «ragazzo» con l'ovvia situazione di cui si parla, e concludere che «corre», una parola nuova, è il verbo della frase e significa muoversi velocemente.32

Chi è di lingua inglese impara a cambiare il significato delle parole combinandole con morfemi, tipo s, ed, ing, e un, e a usare parolette come «the», «a», «and», «on», «under», «in» e «out». Studi condotti sui bambini americani hanno indicato che, per quanto differisca l'età in cui i piccoli iniziano a usare i morfemi, essi generalmente imparano a usarli in un ordine ben preciso.331 bambini iniziano a usare ing per indicare un'azione continuata («daddy eating»). Dopodiché iniziano con le preposizioni «in» e «on», e aggiungono la 5 per formare il plurale. L'uso degli articoli «a» e «the» affiancati ai nomi compare più tardi, e successivamente entra in uso il tempo passato dei verbi (ed)?4 Le mamme inglesi aiutano i loro piccoli a imparare i morfemi ripetendo loro le parole con l'aggiunta delle lettere finali appropriate (come la s o ing). 35 Col tempo i bambini arrivano a usare abitualmente questi morfemi e riescono sempre meglio a combinare e spostare le parole all'interno delle frasi.

Il baby talk influisce anche sull'apprendimento di lingue come il francese, l'italiano, il serbo, il polacco e il russo, nei quali i nomi sono arbitrariamente classificati come maschili, femminili e neutri; imparare queste distinzioni, che non seguono alcuna logica, è difficile. Le madri aiutano i bambini a superare l'ostacolo usando molti diminutivi (in inglese, ad esempio, «doggie» invece di «dog»), che rendono più chiare queste distinzioni.36

Il maternese aiuta i bambini piccoli nell'apprendimento delle parole e della grammatica, tuttavia diventa sempre meno importante man mano che i bambini crescono e diventano linguisticamente più abili. Ed esso non avrebbe alcuna utilità se i neonati non avessero un sistema nervoso fatto su misura per l'apprendimento del linguaggio. Perciò natura ed educazione sono entrambe importanti nello sviluppo del linguaggio.37

Il grande dibattito sulle origini del linguaggio

La relazione tra baby talk e acquisizione del linguaggio nei bambini moderni prospetta l'interessante possibilità che il linguaggio primitivo possa essere scaturito da una preistorica forma di maternese. In realtà l'idea che lo sviluppo degli individui (ontogenesi) replichi lo sviluppo evolutivo a cui è andata incontro la loro specie (filogenesi) risale almeno al 1866, quando lo zoologo tedesco Ernst Haeckel coniò la frase «l'ontogenesi è il compendio della filogenesi». Ovviamente i biologi contemporanei non accettano l'ipotesi di Haeckel nel suo significato letterale; dopotutto gli embrioni umani non passano realmente attraverso i vari stadi, da pesce perfettamente formato ad anfibio e così via.

Generalmente parlando, tuttavia, si può dire che, se durante l'evoluzione (che conosciamo grazie ai fossili) una certa struttura è comparsa prima di un'altra, essa tende a precederla anche nel corso dello sviluppo individuale. L'embrione umano, ad esempio, sviluppa le parti più interne del cervello prima della parte esterna (la corteccia cerebrale), che si è evoluta più di recente.38 Del resto il bambino passa attraverso lo stadio di essere non parlante e che cammina gattoni prima di trasformarsi in un bipede loquace. E traballa (in modo incantevole) quando inizia a camminare, come facevano probabilmente i nostri progenitori quando ancora stavano perfezionando il bipedismo. Per di più, nel prosperante campo della biologia dello sviluppo evolutivo (nota in ambito anglosassone come evo-devo))9 adesso si accetta una versione modificata dell'affermazione di Haeckel, e cioè che «alterando l'ontogenesi si formula una nuova filogenesi».40 Questa nuova versione rivela che i biologi evo-devo studiano le radici del cambiamento evolutivo identificando i precisi meccanismi genetici e di sviluppo che alterano l'aspetto e la struttura del corpo in crescita.41 A un livello più ampio, l'idea della nuova «Haeckel Light», come mi piace chiamare questa versione più «leggera» della teoria di Haeckel, è coerente con i cambiamenti posturali (dall'andatura a quattro zampe al bipedismo) e con l'incremento del volume del cervello prodottisi nei nostri progenitori, e che continuano ad avvenire nello sviluppo degli individui. È coerente pure con l'idea che una forma preistorica di maternese sia stata importante per l'origine del linguaggio, così come lo è per l'apprendimento del linguaggio da parte dei neonati dei nostri tempi.

L'importanza del maternese nell'evoluzione è stata tuttavia messa in discussione soprattutto a causa dell'appassionato dibattito in corso sulle origini del linguaggio. Un problema particolarmente spinoso riguarda l'ipotesi che il linguaggio possa essere derivato dai richiami degli antichi primati. Una scuola di pensiero, cui appartengono per lo più i linguisti, sostiene di no.42 In alternativa c'è chi ipotizza che il linguaggio sia emerso gradualmente e progressivamente a partire dalle vocalizzazioni dei primati, sotto la spinta della selezione naturale. Basandosi sul dato ben noto che le innovazioni evolutive crescono spesso sui cambiamenti evolutivi precedenti, quest'ultima scuola di pensiero (che comprende anche me) non vede perché la parola, e anche altri aspetti del linguaggio, non possa essersi evoluta dalle prime comunicazioni dei nostri progenitori primati. Chi abbraccia questa teoria tende ad accettare l'ipotesi che il maternese abbia giocato un ruolo importante nell'evoluzione del linguaggio.

Come abbiamo visto, alcuni scienziati si concentrano su elementi specifici del linguaggio che sono peculiari degli esseri umani (come la sintassi), il che può condurre a una confusa separazione del linguaggio in aspetti che sono condivisi con altri animali e altri che non lo sono.43 Jackendoff e Pinker, seguendo un orientamento che approviamo, hanno studiato dialetti e proverbi e hanno finito per concludere che la grammatica risiede in memorie immagazzinate piuttosto che in una serie di innate regole universali.44 Invece di considerare la sintassi come il nucleo centrale del linguaggio, essi la vedono come un sofisticato sistema di registrazione, che organizza le relazioni significative tra parole, frasi e periodi.

Da questa visione del linguaggio come «base di una struttura di conoscenza lessicale», Jackendoff e Pinker traggono, abbastanza ragionevolmente, la conclusione che la sintassi potrebbe essersi evoluta solo dopo la nascita delle parole e dopo che le capacità fonologiche necessarie a produrle si erano affinate.45 Questo stesso percorso avviene con lo sviluppo dell'individuo: infatti la sensibilità dei bambini verso la grammatica (o la sintassi) si attiva solo dopo che essi hanno imparato un certo numero di parole e hanno affinato le capacità fonologiche grazie all'influenza del maternese. Tenendo presente la massima della «Haeckel Light», pare ragionevole affermare che una preistorica forma di baby talk abbia facilitato l'emersione delle parole e perfezionato le capacità fonologiche.

Che cosa c'è in un nome?

Le prime parole pronunciate dalle madri degli ominini ai loro figli erano probabilmente molto meno complicate delle parole moderne, e in effetti alcune di queste parole primitive si saranno forse sviluppate come segnali dai molteplici significati, come quelli usati dagli uccelli, dalle api e dai primati.46 Ad esempio, i ben noti richiami dei cercopitechi verdi sono una dimostrazione della potenziale complessità delle vocalizzazioni dei primati. I diversi gridi di allarme di queste scimmie segnalano la presenza di leopardi, serpenti e uccelli da preda e, udendoli, i membri del gruppo si comportano di conseguenza. Di conseguenza, il chirp emesso all'avvistamento di un leopardo spinge il gruppo che si trova a terra a rifugiarsi sugli alberi; il chutter che segnala un serpente spinge a una ricognizione visiva del terreno, e il rraup lanciato quando si è avvistata un'aquila spinge i cercopitechi verdi a guardare in su e correre al riparo.47 Ciascuno di questi richiami è un grido di paura, un allarme e un'informazione generale su un ben preciso predatore pericoloso, ma le scimmie non sono in grado, in altre situazioni, di usarli come parole.48 Allo stesso modo i nostri antenati non avranno pronunciato le prime vere parole fino a quando non avranno ampliato il loro repertorio di vocalizzazioni, in modo da comprendervi quelle specifiche espressioni che potevano essere usate in varie circostanze per indicare persone, oggetti o eventi.

Ma quale suono avevano quelle prime parole? Nel corso degli anni sono state formulate diverse congetture, alcune delle quali recavano fantasiosi nomignoli, come «yo-he-yo», «ding-dong» o «bau-bau». I sostenitori di «yo-he-yo» pensano che le parole potrebbero essersi evolute dai suoni prodotti dagli ominini durante attività fisiche collettive. D'altra parte le scuole di pensiero favorevoli a «bau-bau» e «ding-dong» ipotizzano che le prime parole degli ominini potrebbero essersi evolute per imitazione dei suoni naturali, e in particolare da quelli degli animali (come nel caso di «bau-bau», «muu» ecc.) per i sostenitori dell'ipotesi «bau-bau», oppure da altri suoni («crash», «bum», «clank») per quelli dell'ipotesi «ding-dong». Si tratta di suoni onomatopeici e, guarda caso, le madri li usano di frequente quando parlano con i loro bambini (e sono soprattutto le madri giapponesi a prediligere le onomatopee).49 Uno dei giochi preferiti dalle madri di lingua inglese, quando si divertono con i figli, è il seguente: «Come fa...?» chiede la mamma, che poi riempie i puntini: «il gattino?»; al che il bambino risponde: «miao». Anche gli esperimenti di laboratorio indicano che gli scimpanzé capiscono, meglio di altre parole, le onomatopee.50 È anche significativo il fatto che le parole onomatopeiche non siano astratte, ma assomiglino a oggetti del mondo reali (i suoni), ed è per questo che sono dette anche parole iconiche (torneremo sull'argomento nel cap. 8, quando parleremo di gestualità e arte).

Molti scienziati pensano che le prime parole siano state dei nomi.51 Potrebbero essersi riferite a una molteplicità di cose o concetti, ivi compresi alimenti, animali, predatori, arnesi, luoghi, condizioni del tempo, pericoli, disagi, nemici, membri della tribù o del parentado.52 In questo contesto, ricordiamoci che il vocabolario iniziale dei bambini moderni tende a essere concettualmente simile in tutte le culture del mondo, e a comprendere i nomi di persone di famiglia, di animali, di funzioni corporali, di oggetti, abitudini sociali e imperativi. Seguendo la teoria «Heckel dietetica» si potrebbe ipotizzare che lo sviluppo del vocabolario moderno in ciascun bambino potrebbe ripercorrere l'evoluzione del vocabolario nei nostri antenati.

Secondo Steven Mithen, studioso di preistoria, alcune delle prime espressioni vocali imparate dai bambini potrebbero essere state «puah!» o «eeeurrr!» o un'altra espressione di disgusto, come quelle riscontrabili in tutte le culture odierne; quando vengono espresse dai genitori, sono di solito accompagnate dall'arricciamento del naso e dalle pieghe all'in giù della bocca.53 Secondo Mithen si tratta di espressioni utili, per il fatto che i bambini moderni (e presumibilmente anche quelli preistorici) di per sé non reagiscono con disgusto di fronte a « secrezioni corporali, cibi marci e alcuni tipi di animali, come i vermi», se non tra i due e i cinque anni. Le madri allora avranno emesso suoni di disgusto per dissuadere i loro piccoli dall'ingerire sostanze pericolose. Mithen aggiunge che la sua idea ha almeno un critico, cioè sua moglie, la quale è convinta che «gnam-gnam» o «ium-ium», suoni emessi dai genitori quando cercano di invogliare il bambino a mangiare qualcosa, abbia avuto la priorità evolutiva su «puah! ».

Nella discussione sulle origini del linguaggio sono particolarmente significative le ricerche sulla parola inglese « ma-ma».54 Il linguista Peter MacNeilage fa notare che «mama» è una parola di due sillabe che inizia con una consonante, termina con una vocale e viene pronunciata muovendo la mascella inferiore e tenendo immobile la lingua55 (potete verificarlo facilmente voi stessi). MacNeilage ipotizza che questo genere di parole abbia caratterizzato il linguaggio primitivo. I neonati iniziano a dire «mama» verso i due mesi, di solito come parte di un vagito, e mentre alcuni si accontentano dell'attenzione loro rivolta da chi li cura, altri vogliono anche essere presi in braccio.561 genitori naturalmente interpretano quell'approssimativo «mama» come se volesse dire «mother» («mamma») e lo ritrasmettono ai loro piccoli. Verso i sei mesi, i neonati capiscono che la parola «mama» si riferisce esclusivamente alla loro madre e non a una donna qualsiasi. Ciò vorrebbe dire che, grazie alla ripetitività del maternese, essi hanno cominciato a mettere insieme un vocabolario di suoni che rappresenta persone specifiche.57 Mi piace pensare che una delle prime parole inventate e condivise dai nostri antenati possa essere stato l'equivalente di «marna». Dopo tutto, non sarebbe naturale che i neonati di allora, come quelli di adesso, avessero voluto dare un nome al viso che forniva loro le prime esperienze di calore, sicurezza e amore?

Risulta facile immaginare le madri dei primi ominini sussurrare e vezzeggiare i loro piccoli mentre li impegnavano giocosamente negli scambi vocali. Tali giochi avranno incluso la mimica e la ripetitività, e mentre il cervello di quelle antiche madri si ingrandiva, esse avranno cominciato ad attribuire un significato alle sillabe ripetute dei loro neonati. Da parte loro i neonati avranno in seguito cominciato a capire il significato di queste nuove parole che, in alcuni casi, avevano essi stessi, involontariamente, fatto nascere. Col passare del tempo, e sotto l'influenza della selezione naturale e culturale, queste interazioni avranno avuto un significativo impatto sullo sviluppo sia dei neonati sia dell'intera nostra specie. In altre parole, così come il maternese avrebbe accresciuto la buona forma riproduttiva delle madri e dei neonati degli ominini (argomenti di cui abbiamo parlato nel cap. 2), così gli ominini che avevano acquisito delle parole ed eventualmente il protolinguaggio dovrebbero aver avuto un deciso vantaggio rispetto a quelli che non lo avevano fatto.

Dopo l'invenzione delle parole, quale sarà stato il passo successivo? Come si è arrivati al protolinguaggio?58 Tutti sembrano essere d'accordo: a un certo momento i nostri progenitori, dopo aver accumulato una massa critica di parole, avranno cominciato a combinarle in semplici espressioni. Il linguaggio si sviluppò, verosimilmente, quando i nostri antenati cominciarono a capire di essere in grado di produrre vocalizzazioni deliberate, simboliche, di metterle insieme e di essere capiti dagli altri, ossia ciò che i bambini moderni scoprono nel corso del secondo anno di vita. E in effetti, un esempio di intuizione creativa presso i primati superiori ci mostra come una cosa del genere possa essere avvenuta.

Il Giappone è noto per le sue scimmie intelligenti e abili {Macaca fuscata). Si tratta di macachi diventati famosi per aver inventato nuovi trucchi che si sono diffusi nel mondo delle scimmie e che, sorprendentemente, sono stati trasmessi di generazione in generazione fin dagli anni sessanta. Per immaginare come le parole siano inizialmente emerse e siano state poi istituzionalizzate dai nostri progenitori, possiamo osservare il modo in cui i macachi giapponesi hanno sviluppato le loro nuove usanze. Ad esempio, le scimmie della neve dell'isola di Honshu si sono abituate a riscaldarsi durante l'inverno immergendosi nelle acque delle sorgenti calde naturali, un'abitudine introdotta fra loro da una scimmia femmina, che aveva fatto la prova dopo aver osservato alcuni bagnanti umani. Su un'altra isola, un'altra scimmia femmina, di nome Imo, prese l'abitudine di lavare le patate dolci per pulirle dai granelli di sabbia; più tardi cominciò anche a salarle immergendole nell'acqua di mare.59 Nel giro di nove anni, tutti i componenti del suo gruppo, tranne i più giovani e i più vecchi, avevano imparato a lavare e salare le loro patate dolci come Imo. E sorprendentemente, i discendenti di quelle scimmie lo fanno ancora oggi.

Ma la seconda trovata di Imo è ancora più sensazionale: sull'isola di Koshima, dove viveva Imo, i primatologi gettavano regolarmente sulla sabbia il grano per i macachi, che finivano per avere a disposizione una mistura sabbiosa poco appetitosa. Un giorno Imo raccolse un pugno di chicchi misti a sabbia e sostò in riva al mare. Guardava la mano e guardava il mare: come colta da ispirazione gettò la manciata di mistura nell'acqua. La sabbia colò a fondo e Imo raccolse e mangiò i chicchi puliti che galleggiavano. Era stata una intuizione logica? Non si potrà mai esserne sicuri, ma una cosa possiamo dire: dopo che Imo ebbe inventato questa tecnica, il resto del gruppo la adottò e la trasmise alle generazioni successive. Grazie a un'altra femmina, i macachi di Koshima hanno anche imparato a passare a guado, a tuffarsi e a nuotare nel mare. La capacità inventiva dei macachi giapponesi continua tuttora. Al momento stanno inventando nuove tecniche culinarie, la più recente delle quali consiste nel far rotolare le radici dell'erba sulle rocce in modo da lavarle.60

Ancor più rilevanti, riguardo alle origini del protolinguaggio presso i nostri progenitori, sono le fasi documentate che precedettero la comparsa di nuovi e diffusi comportamenti tra i macachi giapponesi.61 Nel primo «periodo di trasmissione individuale» furono i discendenti degli scopritori a insegnare i nuovi comportamenti ai loro pari (nei gruppi di gioco) e questi giovani a loro volta li insegnarono alle madri e agli altri fratelli. I maschi adulti furono gli ultimi ad acquisirli. Dopo che le nuove usanze furono assimilate da tutti i gruppi, iniziò un « secondo periodo di diffusione preculturale», durante il quale i nuovi nati le acquisirono direttamente dalle madri. Dopo di che l'uso fu trasmesso di generazione in generazione: la cosa importante è che i nuovi comportamenti dei macachi furono introdotti dalle femmine e poi si trasmisero attraverso le generazioni tramite la comunicazione madre-figlio.

I macachi giapponesi non solo gli unici primati presso cui le femmine sembrano essere il sesso più inventivo: gli scimpanzé che vivono nella Tai Forest in Costa d'Avorio, in Africa, sono famosi perché usano i sassi per aprire le noci, e le femmine si dedicano a questa attività molto più dei maschi.62 Si sa di madri che insegnano ai loro piccoli l'uso delle pietre come martello per aprire le noci. Recentemente i primatologi hanno appreso con stupore che degli scimpanzé che vivono in Senegal appuntiscono con i denti le estremità dei legnetti e quindi le usano per infilzare i bush babies,63, che poi mangiano. Finora si pensava che la preparazione di utensili e il loro uso nella caccia fosse una unicità degli esseri umani. E ancora una volta, pare che le femmine e i piccoli di scimpanzé adottino questo sistema molto più dei maschi adulti.64

Come potremmo ragionare in maniera sensata sull'insorgenza della parola durante l'evoluzione degli ominini, se non studiando i primati moderni? Jinyun Ke e i suoi colleghi della City University di Hong Kong hanno usato il metodo della simulazione e alcuni modelli matematici per esplorare la nascita evolutiva del vocabolario, e hanno raggiunto risultati sorprendenti.65 Per prima cosa essi hanno ipotizzato che ci sia stata una fase durante la quale i primi ominini si siano resi conto che le vocalizzazioni potevano avere significati simbolici. In altre parole essi avrebbero acquisito una «intuizione dei nomi» preistorica. All'inizio gli individui avranno prodotto «nomi» arbitrari che comprendevano molte categorie, come nel caso dei richiami di allarme dei cercopitechi verdi. Ma, si sono domandati gli scienziati, come è accaduto che alcuni di questi nomi alla fine siano stati accettati da tutti i membri del gruppo?

I «modelli ibridi» di Ke includono dei calcoli su come il vocabolario abbia potuto diffondersi orizzontalmente nella popolazione dei nostri antichi progenitori ed essere poi trasmesso verticalmente di generazione in generazione. Il modello assume che all'inizio i nostri antenati abbiano prodotto ciascuno per sé delle vocalizzazioni che si riferivano agli oggetti; poi l'imitazione sarebbe stata il catalizzatore della formazione di un comune vocabolario, man mano che gli individui interagivano e rinunciavano ai propri nomi arbitrari in favore di quelli usati dagli altri. Così facendo, «le azioni locali e individuali di molti parlanti, ascoltatori e acquisitori di lingue, attraverso il tempo e lo spazio, cospirano tra loro per produrre degli schemi di variazione non locali ma universali».66 Si potrebbe pensare che i primi ominini abbiano risposto a una sorta di pressione linguistica tra pari, che avrebbe causato l'adozione dei nomi presso tutti i gruppi. Certamente questa cosa accade ai giorni nostri: pensate solo alla diffusione su più regioni dei nuovi vocabolari usati dagli adolescenti.

Un aspetto importante del modello di Ke è la considerazione che le parole sono trasmesse da una generazione a quella successiva perché i bambini le imparano dai loro genitori. Col tempo questa trasmissione fa prevalere le parole coerenti e chiare a scapito di quelle fuorvianti o ambigue - una specie di «sopravvivenza del più adatto» applicata alle parole. Questo potrebbe essere avvenuto anche nel passato, col risultato di una selezione culturale (più che genetica) del vocabolario. Gli autori dello studio concludono che l'effetto combinato della diffusione orizzontale delle parole e della selezione culturale verticale avrebbe dato origine a una velocissima evoluzione del vocabolario. Da notare che la simulazione di Ke suggerisce l'ipotesi che i vocabolari convenzionali si siano sviluppati in gruppi né troppo numerosi né troppo esigui, diciamo da dieci a quindici individui. Secondo il modello, inoltre, dopo un lungo periodo di oscillazioni si affermò la tendenza abbastanza improvvisa a usare un vocabolario globale. Naturalmente una volta che il vocabolario divenne stabile all'interno di un gruppo, e fu trasmesso di generazione in generazione, un'esplosione demografica sarebbe stata sufficiente a diffonderlo.

Ripensiamo all'insorgenza della pratica di lavare e salare le patate dolci e di lavare i chicchi di grano da parte dei macachi giapponesi: la trasmissione orizzontale e verticale di queste invenzioni culturali ha seguito esattamente il percorso ipotizzato dal modello di Ke per l'insorgere del vocabolario tra i nostri antenati. Secondo me sarà successa la stessa cosa per la trasmissione orizzontale e verticale degli aspetti elementari della grammatica fra gli ominini, così come per le convenzioni per la composizione di frasi di due parole. In effetti, sia la trasmissione delle invenzioni culturali dei macachi giapponesi, sia il modello di Ke sono compatibili con l'ipotesi secondo cui i cambiamenti evolutivi nei primi ominini furono provocati dalla nascita della pietra miliare, il ma-ternese, in una catena di eventi che alla fine portarono all'evoluzione del linguaggio.

Per quanto sia essenziale rendersi conto che madri e figli contribuirono significativamente all'evoluzione del linguaggio, essi potrebbero aver anche contribuito a numerosi altri aspetti-chiave della comunicazione. Ad esempio, la gente comunica non solo con le parole, ma anche con i toni di voce, che io ritengo siano i predecessori della sorella del linguaggio, la musica. Di più: non solo noi parliamo, ma contemporaneamente gesticoliamo, e da qui potrebbero essere nate le arti maggiori. Ne discuteremo nei prossimi due capitoli.

Note

1 Ellen Dissanayake, Antecedenti of the Temporal Arts in Early Mother-Infant Interaction, in Nils L. Wallin, Björn Merker e Steven Brown (a cura di), The Origins of Music, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2000, p. 391. Ellen Dissanayake, della University of Washington, tenne una conferenza sulle interazioni ancestrali madre-figlio e sul loro ruolo nella nascita delle arti temporali nell'ambito di un seminario internazionale sulla biomusicologia al quale partecipammo entrambe, e che accese il mio interesse per il maternese.

2 Cfr. Dean Falk, Prelinguistic Evolution in Early Hominins. Whence Motherese?, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 4, 2004, pp. 491-503.

3 Cfr. Falk, Prelìnguìstic Evolutìon in Early Hominins cit., pp. 491-503.

4 Derek Bickerton, Mothering Plus Vocalization Doesn't Equal Language, «Beha-vioral and Brain Sciences», XXVII, 4, 2004, p. 505.

5 Myrdene Anderson, antropologa culturale, ha vissuto con i sami - un tempo chiamati lapponi - per cinque anni, durante i quali ha acquisito una buona padronanza della loro lingua, che è imparentata con il finlandese. Ha insegnato per molti anni linguistica antropologica (e altre materie) alla Purdue University.

6 Cfr. Daniel L. Everett, Cultural Constraints on Grammar and Cognitìon in Pirata, «Current Anthropology», XLVI, 2005, pp. 621-46.

7 Steven Pinker e Ray Jackendoff, The Faculty ofLanguage: What's Special About lt?, «Cognition», 95, 2005, pp. 202 e 210.

8 Cfr. Paul Bloom, How Children team the Meanings of Words, mit Press, Cambridge (Mass.) 2000.

9 Cfr. Paul Bloom, Language Capacities. Is Grammar Special?, «Current Biology», IX, 4, 1999, pp. rr. 127-28. Bloom, linguista della Yale University, ritiene che nell'apprendimento delle parole siano coinvolti almeno due meccanismi. Il primo viene applicato nell'apprendimento di nomi e verbi concreti, come «cane» e «sorridi», che secondo Bloom si fonda sullo stesso sistema inferenziale e mnemonico usato dai bambini quando acquisiscono la coscienza sociale. Il secondo meccanismo comprende le parole chiave grammaticali ed è usato per imparare nomi e verbi più astratti, come «storia» e «pensa».

10 Pinker e Jackendoff, The Vaculty of Language eie, p. 211.

11 Kyra Karmiloff e Annette Karmiloff-Smith, Pathways to Language. Vrom Fetus to Adolescence, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, p. 57.

12 La scoperta che le cose hanno un nome. [N. d. T.]

13 Cfr. Pinker e Jackendoff, The Faculty ofLanguage cit.

14 Cfr. Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., p. 132.

15 Cfr. Greg Miller, Listen, Baby, «Science», 306, 5699, 2004, p. 1127; Feng-Ming Tsao, Huei-Mei Liu e Patricia K. Kuhl, Speech Perception in Infancy Predicts Language Development in the Second Year ofLife. A LongitudinalStudy, «Child De-velopment», LXXV, 4, 2004, pp. 1067-84.

16 Cfr. Jinyun Ke, James W. Minett, Ching-Pong Au e S.-Y. Wang, Self-Orga-nìzation and Selection in the Emergency of Vocahulary, «Complexity», VII, 2002, pp. 41-54.

17 Jennifer Ganger e Michael R. Brent, Reexamining the Vocabulary Spurt, «Developmental Psychology», XL, 4, 2004, p. 621-32.

18 Cfr. Diane Poulin-Dubois, Susan Graham e Lorrie Sippola, Early Lexical Development. The Contribution of Parental Labelling and Infants' Categorization Abilities, «Journal of Child Language», XXII, 2, 1995, pp. 325-43.

19 Cfr. Ganger e Brent, Reexamining the Vocabulary Spurt cit.

20 Cfr. Beverly A. Goldfield e J. Steven Rexnick, Early Lexical Acquisition. Rate, Content, and the Vocabulary Spurt, «Journal of Child Language», XVII, I, 1990, pp. 171-83.

21 Cfr. Laetitia R. Naigles ed Erika Hoff-Ginsberg, Why Are Some Verbs Leamed Before Other Verbs? Effects of Input Frequency and Structure on Children's Early Verb Use, «Journal of Child Language», XXV, 1, 1998, pp. 95-120.

22 Cfr. Anne Fernald e Nerelda Hurtado, Names in Frames. Infants Interpret Words in Sentence Frames Faster than Words in Isolatìon, «Developmental Science», IX, 3, 2006, ff. 33-40.

23 Cfr. Thea Cameron-Faulkner, Elena Lieven e Michael Tomasello, A Construction-Based Analysis of Child-Directed Speech, «Cognitive Science», XXVII, 2003, pp. 843-73.

24 Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., p. 62.

25 Cfr. Edith L. Bavin, Language Acquisition in Crosslingutstic Perspective, «Annual Review of Anthropology», XXIV, 1995, p. 378.

26 Cfr. Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit.

27 Cfr. Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., p. 63.

28 Cfr. ibid., p. 77.

29 Cfr. ibid., p. 132.

30 Cfr. Martin D. Braine, Children's First Word Combinations. With Commentar) by Melissa Bowerman, University of Chicago Press, Chicago 1976.

31 Cfr. Roberta Michnik Golinkoff, Kathryn Hirsh-Pasek, Kathleen M. Cauley e Laura Gordon, The Eyes Have It. Lexicaland Syntactic Comprehension in a New Pa-radigm, «Journal of Child Language», XIV, 1, 87, pp. 23-46; Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., pp. 91-92.

32 Cit. ibid., p. 115.

33 Cfr. Roger Brown, La prima lingua, Armando, Roma 1979 (ed. or. 1973).

34 Karmiloff e Karmiloff-Smith, Pathways to Language cit., pp. 95-96.

35 Cfr. Michael Jeffrey Farrar, Discourse and the Acquisition of Grammatical Morphemes, «Journal of Child Language», XVII, 3, 1990, pp. 607-24.

Cfr. Vera Kempe e Patricia J. Brooks, The Role of Diminutives in the Acquisition of Russian Gender. Can Elements of Child-Directed Speech Aid in Leaming Morphology?, «Language Learning», LI, 20or, pp. 221-56.

La controversia centrale per il dibattito sull'importanza del maternese nella nascita del linguaggio riguarda fino a che grado le persone nascono con un senso innato per la grammatica. Da un lato ci sono i seguaci di Noam Chomsky, che riconosce all'uomo una capacità innata alla «grammaticalità» universale, che starebbe alla base di tutte le lingue. Già alcuni decenni fa, come si può vedere nel più recente La conoscenza del linguaggio. Natura, origine e uso (Il Saggiatore, Milano 1989, ed. or. 1986) Chomsky espresse appunto l'idea, oggi famosa, che gli esseri umani nascono con una innata «Grammatica Universale» che influenza la formazione delle parole, la loro combinazione e collocazione all'interno delle frasi per comporre domande, frasi subordinate relative ecc. In teoria, sarebbe la grammatica innata a permettere ai bambini l'apprendimento delle particolarità della lingua madre e a pronunciare le parole in maniera corretta, fluida e semplice. Questa idea, che continua a esercitare un forte ascendente negli studi di linguistica, sta forse alla base della riluttanza dei linguisti ad accettare l'importanza del maternese nell'apprendimento della grammatica e del linguaggio da parte dei bambini.

Sono in contrasto con quelle di Chomsky le ipotesi di Jackendoff e Pinker su come i bambini imparano a focalizzare le particolarità inusuali e le frasi idiomatiche proprie di una lingua: cfr. Ray Jackendoff e Steven Pinker, The Nature of the Language Faculty and Its Implicatìons for the Evolution ofLanguage (Reply to Fitch, Hauser and Chomsky), «Cognition», 97, 2, 2005, pp. 211-25. Molti di questi modi di dire hanno una sintassi normale, come in «figlio di un cane» (sintagma nominale), «il morale sotto i tacchi» (sintagma verbale) oppure «lo spettacolo è in onda» (frase), mentre altri, come «in linea di massima» e «lungi da me l'idea», no. Jackendoff e Pinker fanno notare che l'inglese (e presumibilmente altre lingue) contiene molte «follie sintattiche», e i modi di dire che ogni parlante conosce possono essere addirittura tanti quanti le parole che sono contenute nel suo vocabolario. E come le parole e le loro parti grammaticali, questi modi di dire restano fissati nella memoria. Mentre altri linguisti hanno più 0 meno ignorato le frasi idiomatiche o altre costruzioni inconsuete, Jackendoff e Pinker concludono che le regole del linguaggio risiedono più nei modi di dire immagazzinati nella mente che in una innata grammatica universale. «La visione del linguaggio "costruito su una base interpretativa", che emerge da queste considerazioni, se fosse corretta, avrebbe delle conseguenze sull'elaborazione, l'apprendimento e (per quanto riguarda la nostra discussione) l'evoluzione del linguaggio. Se la conoscenza della lingua da parte di chi la parla comprende tutte le parole, le costruzioni e le regole generali, codificate nella medesima struttura, allora non esiste alcuna coerente sottocategorizzazione del linguaggio che "delinei un nucleo astratto di operazioni computabili"» (ibid., p. 222).

Ci vuole una buona memoria per archiviare un gran numero di frasi idiomatiche e costruzioni inconsuete e che però « mobilitano lo stesso meccanismo di computabilità» usato per comporre in modo corretto le parole nel discorso. Ne consegue che l'aumento di volume del cervello nei nostri progenitori, nel corso dell'evoluzione, potrebbe esser stato in parte associato a un'acuta capacità nell'archiviare e richiamare le informazioni, ivi comprese quelle linguistiche.

38 Cfr. Barbara L. Finlay e Richard B. Darlington, Linked Regularities in the Developmentnand Evolution of MammalianbBrains, «Science», 268, 5217, 1995, pp. 1578-84.

39 Abbreviazione di evolutionary developmental (biology). [N. d. T.]

40 Corey S. Goodman e Bridget C. Coughlin, The Evolution of Evo-Devo Biology, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», XCVII, 9, 2000, pp. 4424-25.

41 Per citare Wallace Arthur, della National University of Ireland, «l'idea della ricapitolazione di Haeckel - la transitoria presenza negli embrioni di organismi superiori di alcune particolarità dei loro antenati - non è morta, nonostante molti resoconti contrari»: Wallace Arthur, The Search for Novelty, «Nature», 447, 7142, 2007, PP- 261-62.

42 Sebbene Robbins Burling, della Michigan University, concordi sul fatto che il tono di voce si sia evoluto a partire dai richiami dei primati, egli pensa anche che «si tratti dell'invasione nel linguaggio di qualcosa di fondamentalmente diverso» (Robbins Burling, Primate Calls, Human Language, and Nonverbal Communication, «Current Anthropology», XXXIV, 1, 1993, p. 30). Tuttavia, Burling dissente da altri linguisti che ritengono che il linguaggio sia emerso improvvisamente, e afferma: «Credo che il linguaggio sia emerso molto gradualmente da qualcosa di diverso dal sistema di richiami proprio dei primati» (Id., Prosody Does Not Equal Language, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, p. 509). In ogni caso Burling dubita che il maternese abbia avuto un ruolo importante nell'invenzione dei suoni delle parole o nelle regole per formare le frasi.

Diverso è il punto di vista di Derek Bickerton, un linguista della University of Hawaii, che immagina un protolinguaggio evolutosi fra i due e i tre milioni di anni fa nel contesto della ricerca del cibo. Egli scrive che con quello stile di vita «si era praticamente obbligati a un modello di ricerca del cibo in cui i gruppi si dividevano in piccole unità per la cerca, ma dovevano riunirsi per sfruttare i ritrovamenti più sostanziosi (come le carcasse di una mega-fauna dalla pelle coriacea, che gli ominini in possesso di utensili di selce scheggiata avrebbero potuto utilizzare prima di altri cercatori) . In questi casi ciascun sottogruppo doveva essere in grado di avvertire gli altri sottogruppi di quanto aveva trovato, per sfruttare al meglio le risorse. In tale contesto, l'emissione di richiami da parte di singole unità avrebbe fatto la differenza in termini di possibilità di sopravvivenza» (Derek Bickerton, Language Evolution. A Brief Guide for Linguists, «Lingua», 117, 3, 2007, p. 515). Derek ritiene che il protolinguaggio consistesse di «unità simboliche e referenziali» (parole) fondate in termini culturali, formate da nomi e verbi ma prive di struttura grammaticale. Egli lo paragona inoltre «alle frasi telegrafiche prodotte dai bambini prima dei due anni» (ibid., p. 516; si tratta dell'unico accenno a donne e bambini nello scenario da lui tracciato). Bickerton non contempla nessuno stadio intermedio tra il protolinguaggio di due-tre milioni di anni fa e il più recente linguaggio vero e proprio dotato di sintassi, che egli colloca fra i centoquaranta e i novantamila anni fa, in concomitanza con la comparsa dell'Homo sapiens. Contrariamente a Burling, Bickerton sembra credere nell'insorgenza improvvisa e non graduale di un linguaggio perfettamente formato. In un caso o nell'altro, i teorici come Burling e Bickerton sono assolutamente certi che il linguaggio sia troppo diverso dai richiami dei primati per essere stato originato da essi attraverso la selezione naturale. Essi sostengono invece che il linguaggio umano impose dei cambiamenti nel cervello, abbinati a una o più mutazioni genetiche avvenute per caso in una ristretta popolazione di Homo sapiens. Per quanto tale spiegazione appaia a prima vista ragionevole, essa è frustrante nella sua vaghezza e perde di vista la domanda posta dai linguisti, e cioè: come ebbero inizio esattamente i suoni e la sintassi del linguaggio, specialmente se apparvero praticamente da un giorno all'altro (geologicamente parlando) nel corso dell'evoluzione umana?

43 I problemi sorgono quando scienziati differenti tagliano la torta linguistica in modi differenti. Ad esempio, in quello che viene ritenuto un notevole distacco dai suoi primi lavori (cfr. Steven Pinker e Ray Jackendoff, The Faculty of Language: What's Special About It? eh.), Chomsky e i suoi colleghi attualmente dividono il linguaggio umano in due parti (Marc D. Hauser, Naom Chomsky e W. Tecumseh Fitch, The Faculty of Language. What It Is, Who Has It, and How Did It Evolve?, « Science», 298, 5598, 2002, pp. 1569-79). La prima parte è una facoltà linguistica ampia, che comprende caratteristiche condivise con altri animali, come l'abilità nel distinguere i suoni del linguaggio o nell'imitare la vocalizzazione (come nel caso dei pappagalli). La seconda è una facoltà linguistica ristretta, che si considera di recente evoluzione e unicamente umana. E limitata lo è certamente, dato che rappresenta il solo meccanismo del linguaggio che Chomsky (ora) ritiene esclusivamente umano, e per la precisione l'abilità di inserire qualcosa in qualcos'altro dello stesso tipo, che è detta «ricorsività» (recursion) e che crea un sistema illimitato e «aperto» per la comunicazione. Ecco la definizione di Pinker e Jackendoff: «La ricorsività consiste nell'inserire un componente in un componente dello stesso tipo, ad esempio una proposizione relativa dentro una proposizione relativa (un libro che era stato scritto dal romanziere che hai incontrato l'altra notte), il che automaticamente conferisce la capacità di fare la stessa cosa ad libitum (ad es., un libro [che era stato scrìtto dal romanziere [che hai incontrato la notte [che abbiamo decìso di comprare la barca [che ti piaceva tanto]]]]). La stessa cosa non esiste nella struttura fonologica: ad esempio una sillaba non può essere inserita in un'altra sillaba» (Pinker e Jackendoff, The Faculty of Language: What's Special About It? cit., p. 208).

Da quando Hauser, Chomsky e Fitch hanno diffuso le loro idee sulla ricorsività come unicamente umana, un altro gruppo di ricercatori ha dimostrato che «gli storni europei riconoscono perfettamente determinate configurazioni acustiche che sono definite da una grammatica ricorsiva, autoinclusiva e priva di contesto [...]. Quindi la capacità di classificare le sequenze in base a grammatiche ricorsive e centro-incluse non è esclusivamente umana» (Timothy Q. Gentner, Kimberly M. Fenn, Daniel Margoliash e Howard C. Nusbaum, Recursive Syntactìc Pattern Leaming by Songbìràs, «Nature», 440, 7088, 2006, p. t204).

44 Cfr. Jackendoff e Pinker, The Nature of the Language Faculty and Its Implica-tìonsfor the Evolution of Language cit.

45 Quindi, secondo Jackendoff e Pinker, «soltanto dopo che questi più basilari aspetti della comunicazione linguistica sono a posto potrà esserci un vantaggio adat-tivo agli sviluppati mezzi sintattici disciplinati del sistema per riordinare le parole in enunciati più ampi, in modo che le relazioni semantiche fra le parole possano essere espresse in forma convenzionale» {ibid., p 223). Nonostante siano dei linguisti, Pinker e Jackendoff prendono anche in considerazione la possibilità che il linguaggio sia stato un bersaglio della selezione naturale e che, in quanto tale, esso rappresenti un adattamento per comunicare consapevolezza e intenzioni. Se la loro ipotesi di una «base di conoscenza lessicale» nell'evoluzione del linguaggio fosse corretta, ciò vorrebbe dire che l'evoluzione di cervelli grandi, dotati di una memoria presumibilmente ampia, potrebbe esser stata importante per l'archiviazione di modi di dire ed espressioni che contengono il nucleo della sintassi.

Cfr. Mark D. Hauser, The Evolution of Communication, mit Press, Cambridge (Mass.) 1996.

47 Cfr. Dorothy L. Cheney e Robert M. Seyfarth, How Monkeys See the World. Inside the Mind of Another Specìes, University of Chicago Press, Chicago 1990.

48 Cfr. Ke, Minett, Au e Wang, Self-Organization and Selection in the Emergence of Vocabulary cit.

49 Cfr. Anne Fernald e H. Morikawa, Common Themes ani Cultural Variations in Japanese ani American Mothers' Speech to Infants, «Child Development », LXIV, 3, 1993, PP- 637-56.

50 Cfr. Shozo Kojima, A Searchforthe Origins of Human Speech. Auditor/ and Vo-cal Functions of the Chimpanzee, Kyoto University Press, Kyoto-Portland 2003.

51 Cfr. Pauline J. Home e J. Fergus Lowe, On the Origins of Naming and Other Symbolic Behavior, «Journal of Experimental Analysis of Behavior», LXV, i, 1996, pp. 185-241.

52 Cfr. Stevan Harnad, The Origin of Words. A Psychophysical Hypothesis, in Boris Velikovsky e Duane M. Rumbaugh (a cura di), CommunicatìngMeaning. The Evo-lution ani Development ofLanguage, Erlbaum, Mahwah (NJ) 1996, pp. 27-44.

53 Cfr. Steven Mithen, Il canto degli antenati. Le origini della musica del linguaggio, della mente e del corpo, Codice, Torino 2007, pp. 238-39 (ed. or. 2006). Mithen è professore di archeologia alla University of Reading, in Inghilterra.

54 Cfr. Falk, Prelinguistic Evolutìon in Early Hominins cit., pp. 502-03.

55 Peter F. MacNeilage, The Frame/Content Theory Of Evolution ofSpeech Production, «Behavioral and Brain Sciences», XXI, 4, 1998, pp. 499-546; Id., The Ex-planation of «Marna», «Behavioral and Brain Sciences», XXIII, 2000, pp. 440-41. MacNeilage insegna presso la University of Texas, a Austin.

56 Cfr. Herbert I. Goldman, Parental Reports of «MAMA» Sounds in Infanto. An Exploratory Study, «Journal of Child Language», XXVIII, 2, 2001, pp. 497-506.

57 Cfr. Ruth Tincoff e Peter W. Jusczyk, Some Beginnings ofWord Comprehen-sion in Six-Month-Olds, «Psychological Science», X, 1999, pp. 172-75.

58 Merlin Donald, neuroscienziato cognitivo, cosi definisce il protolinguaggio: «un prototipo, un'approssimazione del prodotto finito, che contiene alcune delle caratteristiche essenziali del linguaggio e che potrebbe essersi successivamente evoluto nel linguaggio vero e proprio». Cfr. Merlin Donald, Preconditions for the Evolution of Protolanguages, in Michael Corballis e Stephen E. G. Lea (a cura di), The Descent ofMind. PsychologicalPerspectives on Hominid Evolution, Oxford University Press, Oxford 1999, pp. 138-54.

59 Cfr. Masao Kawai, Newly Acquired Pre-Cultural Behavior of the Natural Troop of JapaneseMonkeys on Koshima blet, «Primates», VI, 1, 1965, pp. 1-30.

60 Cfr. Masayuki Nakamichi, Eiko Kato, Yasuo Kojima e Naosuke Itoigawa, Carrying and Washing of Grass Roots by Free-Rangingjapanese Macaques at Katsuya-ma, «Folia Primatologica», LXIX, i, 1998, pp. 35-40.

61 Cfr. Kawai, Newly Acquired Pre-Cultural Behavior of the Naturai Troop of JapaneseMonkeys on Koshima Islet cit., pp. 5 e 8.

62 Cfr. Christophe Boesch e Hedwige Boesch-Achermann, Ditti Forest, Bright Chimps, «Naturai History», 100, 1991, pp. 50-57.

63 Piccole scimmie della famiglia delle Galagidae. [N.d.T.]

64 Cfr. Jill D. Pruetz e Paco Bertolani, Savana Chimpanzees, «Pan troglodytes Ve-rus», Huntwith Tools, «Current Biology», XVII, 5, 2007, pp. 412-17.

65 Cfr. Ke, Minett, Au e Wang, Self-Organization and Selection in the Emergence of Vocabulary cit.

66 Cfr. Simon Kirby, Vunction, Selectìon ani Innateness. The Emergerne of Language Universals, Oxford University Press, New York 1999. Quello che Kirby descrive è un esempio di un processo spontaneo chiamato autoorganizzazione, che caratterizza molti sistemi dinamici.

7. Lei avrà la sua musica

Banbury Cross

Cavalca un cavallo a dondolo / Fino a Banbury Cross, / Per vedere una vecchia dama / Su un cavallo bianco, / Anelli alle dita, / Campanelli ai piedi, / Lei avrà la sua musica / Ovunque vada.

Mamma Oca

Come nel caso del linguaggio, anche sulle origini della musica si è molto dibattuto, almeno fin dal diciannovesimo secolo. Ma in senso evolutivo, qual è lo scopo della musica? E come si sviluppò? Alcuni studiosi pensano che la musica sia un inutile effetto secondario dell'evoluzione dell'apparato neurologico preposto al linguaggio. Essi sostengono che la musica è ciò che Stephen Jay Gould chiamava un «pennacchio».1 In architettura i pennacchi, cioè gli spazi decorati tra gli archi e le modanature degli edifici, non hanno una propria ragion d'essere architettonica. I biologi evoluzionisti hanno adottato questo termine per etichettare quegli aspetti che sarebbero prodotti o effetti secondari di altre caratteristiche, piuttosto che risultati in linea diretta della selezione naturale. Uno dei più noti sostenitori del «pennacchio» è Steven Pinker, che considera la musica un «dolce squisito», che avrebbe preso a prestito «alcuni apparati neurologici preposti al linguaggio - in particolare la prosodia». Quindi, secondo Pinker, la musica non è niente più che una «torta alla panna uditiva».2

Charles Darwin, dal canto suo, respingeva l'idea che la musica fosse derivata dal linguaggio. Prendendo spunto dal canto degli uccelli e dei gibboni, Darwin argomentava che il linguaggio sarebbe scaturito dalle note musicali e dai ritmi che si erano evoluti nei nostri antenati primati «per incantare il sesso opposto».3 Oggi parecchi studiosi condividono l'ipotesi darwiniana che la musica sia comparsa per prima, ma molti non sono d'accordo sull'idea che essa si sia sviluppata per attrarre un compagno.4

Prima di trattare a fondo lo scopo evolutivo della musica e la sua relazione con il maternese, dovremo definire il concetto di musica. Gli studiosi sono generalmente d'accordo sul fatto che la musica, come il linguaggio, è diffusa in tutte le culture e che le diverse culture, così come hanno lingue diverse, allo stesso modo hanno diverse tradizioni musicali. Nella maggior parte delle società, la musica è ascoltata e prodotta da molte persone. Nelle società occidentali, d'altra parte, tali attività sono spesso relegate all'attività di specialisti. Bisogna inoltre tener conto che la definizione di musica varia da cultura a cultura. Alcune società tradizionali non hanno nemmeno una parola per definire la musica, almeno nel senso che noi le attribuiamo. Nella lingua dei Piedi Neri, ad esempio, la parola saapup riunisce contemporaneamente i concetti di danza, canto e cerimonia.5

Il tentativo di trovare nella musica una condivisione universale è gravido di problemi, tuttavia l'etno-musicologo Bruno Netti ci dice che tutte le società possiedono la musica vocale e qualche tipo di strumento musicale, sia pure un tronco caduto su cui fare il tam-tam. Tutte le culture hanno musiche con una metrica o un ritmo, e musiche con solo tre o quattro tonalità. Ovunque nel mondo ci si serve della musica per accompagnare le danze o celebrare importanti avvenimenti; essa costituisce un fattore importante della ritualità, è presente anche in altri contesti associati al sovrannaturale, e viene usata per influenzare i sensi degli individui o l'atmosfera di una riunione sociale. Per quanto concerne il ruolo che le ninne nanne potrebbero aver giocato nella evoluzione musicale (di cui ci occuperemo più avanti in questo capitolo), sarà interessante aggiungere che Netti ritiene che il genere musicale più semplice e diffuso sia formato da canzoni composte da brevi frasi ripetute, proprio come quelle che vengono usate spesso nei giochi dei bambini nelle società che possiedono una musica più complessa.6

Vista la sua universalità, non può stupire il fatto che la musica ispiri tante diverse definizioni. Per alcuni «la musica, come il discorso, consiste in un intreccio di suoni complessi che variano col tempo».7 La tonalità e la struttura ritmica, che convogliano e suscitano emozioni sia nella musica sia nel ma-ternese, sono stati indicati come le due principali dimensioni della musica.8 Più in generale, la musica è stata definita come una «capacità comportamentale e motivazionale: ciò avviene quando i suoni e i ritmi vengono "musicati", cioè trasformati in musica».9 Steven Mithen si spinge più in là, facendo notare che una delle caratteristiche più sorprendenti della musica è la sua capacità di «coinvolgere il corpo»: la gente partecipa battendo il tempo con le dita delle mani e dei piedi e a volte muovendo tutto il corpo. Pertanto, non sarebbe corretto separare i suoni e i ritmi melodici (la musica) dai suoni e dai ritmi di movimento (la danza). Mithen usa la parola «musica» per «riferirmi sia al suono che al movimento».10 E ciò si avvicina al modo in cui la musica viene concettualizzata presso molte società tradizionali.11

L'essenza della musica è stata anche definita in maniera più formale. Così come il linguaggio ha una classificazione di suoni, dei limiti delle categorie sonore (parole, frasi) e delle regole per combinarle fra loro (sintassi), allo stesso modo i sistemi musicali presentano inventari di intonazioni (note), organizzate in scale, e una sintassi per sistemarle in sequenze accettabili.12 Poiché siamo abituati alla sintassi, la frase «Jane vedere Spot» suona sbagliata; così le quattro celebri note che aprono la Quinta sinfonia di Beethoven (da da da dum) suonerebbero infelici se mancasse l'ultimo dum. La sintassi musicale regola la formazione delle strutture armoniche (accordi, progressione melodica e tonalità) e causa le nostre aspettative per quello che dovrebbe venire in seguito. Come nel caso di una scarsa conoscenza grammaticale, anche una scadente grammatica musicale viene colta in maniera implicita dagli ascoltatori, ed è per questo che non è necessario avere un'educazione musicale per cogliere le note stonate.

Aniruddh Patel, del Neurosciences Institute di San Diego, si è occupato di come il cervello elabori la sintassi e del linguaggio e della musica, ed è giunto alla eloquente conclusione che le due cose sono più strettamente correlate di quanto si credesse.13 Patel spiega che gli ascoltatori collegano ciascun elemento del discorso (parole) o della musica (note) in arrivo ad altri elementi mentre il discorso o la musica si snodano, e fornisce l'esempio di una frase nella quale l'ascoltatore automaticamente collega «aveva mandato» a «reporter»: «Il reporter, che il fotografo aveva mandato dal direttore, sperava in un incarico». L'elaborazione sintattica è veloce, inconscia e insidiosa, e diventa ancor più complicata se la distanza fra i due elementi da connettere aumenta. La stessa cosa vale per l'elaborazione delle note della musica in entrata, che, via via che si sviluppa il tema musicale, trasmette agli ascoltatori stati di tensione e di risoluzione. E affascinante scoprire che le esperienze linguistiche e musicali condividono alcune fasi iniziali dell'elaborazione sintattica, e che queste fasi avvengono nella parte dei lobi frontali che includono l'area di Broca, cioè l'area che controlla i centri del linguaggio articolato.14 Per investigare più a fondo la relazione tra il linguaggio e la musica, Patel e i suoi collaboratori hanno misurato la durata e la tonalità delle vocali parlate dell'inglese e del francese, e le hanno poi confrontate con le melodie e i ritmi della musica strumentale delle due culture. Hanno potuto così constatare che i ritmi e le cadenze delle due lingue parlate sono riflesse nelle loro musiche nazionali.15

Il significato della musica

Nonostante le divisioni su che cosa la musica sia esattamente, i ricercatori sono unanimemente d'accordo su che cosa divide la musica dal linguaggio. Per quanto i due sistemi siano entrambi composti da unità distinte (note per la musica e parole per il linguaggio), solo le parole sono simboliche. Dato che si riferiscono a oggetti e concetti arbitrari, esse possono essere allineate insieme allo scopo di fornire un'informazione precisa. Non così le note, che possono essere allineate solo per esprimere ed evocare emozioni, mediante la creazione di diversi schemi di tensione e risoluzione.

E certo che le note provocano emozioni. A un primo livello la cosa è confermata dai pareri concordi delle persone circa il genere di musica che li fa sentire tristi, allegri, spaventati e così via. Provate a ricordare, ad esempio, la musica allarmante, acuta e stridente che accompagna la scena della doccia nel film Psycho. La risposta emotiva può essere talmente intensa che alcune persone sentono dei brividi quando ascoltano una musica particolarmente eccitante o commovente. Le emozioni provocate dalla musica sono associate alle pause tra le note e, in particolare, ai semitoni. I musicologi, ad esempio, hanno osservato che le emozioni positive, come l'amore, la calma e la gioia nella musica occidentale sono spesso espresse dalle scale maggiori, che hanno gli intervalli di semitono tra la terza e la quarta nota; le emozioni negative, invece, come paura e dolore, sono evocate dalle scale minori, dove i semitoni cadono tra la seconda e la terza nota.16

Solo recentemente gli studiosi di neuroscienze hanno incominciato a capire in che modo il cervello percepisca la musica.17

Robert Zatorre, della McGill University, ha dimostrato che il lobo frontale destro del cervello svolge un'importante funzione nel percepire le tonalità e ricordare la musica, al contrario del linguaggio, che viene prevalentemente elaborato nella parte sinistra del cervello;18 e in effetti la parte destra del cervello è generalmente ritenuta la parte «musicale», e rispetto alla sinistra ha una responsabilità maggiore nella comprensione e nell'espressione delle emozioni19 (da notare tuttavia che è l'emisfero sinistro a elaborare gli aspetti più analitici della musica, specialmente nei musicisti professionisti). L'emisfero destro del cervello eccelle anche nel decifrare i messaggi visuali, spaziali e il linguaggio figurato, ed è in vantaggio, rispetto al sinistro, nella capacità di riconoscere le facce e capire gli scherzi e le metafore. L'emisfero destro è intuitivo e afferra le situazioni in modo più globale rispetto alla parte sinistra, più verbale e analitica, sempre alle prese con sequenze di dettagli.

Si noti che è la parte destra del cervello a darci il tono di voce o la prosodia quando parliamo. La prosodia, come la musica, ha un intento emozionale: il tono di voce aggiunge una sfumatura emozionale al significato delle parole pronunciate. Mentre il lato sinistro del nostro cervello interpreta rapidamente il significato letterale delle parole che man mano vengono pronunciate, il lato destro decifra quello che il parlante vuole veramente dire interpretandone il tono di voce. A volte il tono di voce, così come il linguaggio del corpo, parla più forte delle parole: ad esempio, il tono di voce di Anthony Hopkins nel film Il silenzio degli innocenti accentua in maniera perfetta la terrificante figura del suo personaggio, Hannibal Lecter.

Dato che il tono di voce conferisce al discorso le sfumature emotive, esso oggi è una componente musicale integrante del linguaggio. Ma quanto furono funzionalmente importanti la vocalizzazione prosodica e la musica nel corso dell'evoluzione degli ominini? Erano semplicemente degli abbellimenti, o invece le vocalizzazioni prosodiche, il canto e gli altri modi di fare musica furono uno dei bersagli della selezione naturale?

Se vogliamo risalire alle nostre origini musicali, dobbiamo osservare i nostri più stretti parenti, i primati non umani. Il canto non è praticato dai primati, tranne che in due gruppi di proscimmie (il tarsio, una proscimmia asiatica, e il tarsio delle Filippine, detto anche tarsio spettro), una scimmia del Nuovo Mondo (il cebo) e il gibbone.20 In ognuno di questi quattro gruppi vivono coppie monogame di maschi e femmine che difendono il loro territorio, come pure, più o meno, l'esclusiva dell'accoppiamento col partner. La monogamia è rara fra i primati, ma quando è presente essa include il canto. Il canto più delizioso tra i primati, e a dire il vero fra tutti i mammiferi terrestri, appartiene a una dozzina circa di specie di gibboni, noti come scimmie minori perché sono più piccole delle tre specie di grandi scimmie (oranghi, gorilla e scimpanzé). Con il loro sontuoso mantello, i volti glabri e neri, a forma di trifoglio, e i grandi occhi, i gibboni sono, in una parola, belli.21 Sono anche ottimi arrampicatori, e saltano agilmente, usando esclusivamente le braccia, da un albero all'altro. I maschi di molte specie di gibboni cantano lunghi assolo poco prima dell'alba, ma a volte le femmine si uniscono a loro in duetti molto apprezzati dagli esseri umani. I canti dei gibboni hanno un messaggio principale: «Questo è il mio territorio, questa è la mia compagna. Io sono sano e forte, come potete capire dalla mia voce meravigliosa, quindi statevene lontani». Dato che sono uniti a un solo partner, i monogami gibboni non cantano per attrarre le femmine (anche se quelli non accoppiati sembrano farlo). Pare invece che il canto serva a rafforzare l'unione di coppia.22

Alla nascita i gibboni conoscono già i loro canti, cioè non devono impararli da altri, come capita agli uccelli canori e agli uomini.23 Nuovi dati proverebbero che i gibboni hanno un controllo sulle loro vocalizzazioni maggiore di quanto si pensasse prima,24 ma l'apprendimento dei canti giusti comporterebbe comunque un certo grado di istruzione, come dimostrerebbe il fatto che «spesso i neonati strillano durante i richiami delle madri, e gli adolescenti si uniscono ai duetti con suoni adatti al loro sesso, ma imperfetti».25

Sebbene i gibboni siano gli unici primati capaci di cantare, gli oranghi, i gorilla e gli scimpanzé usano le vocalizzazioni per controllare la distanza tra il gruppo e i singoli. Tutti questi richiami di controllo delle distanze presentano elementi propri dei canti dei gibboni, specie i forti richiami delle femmine, che consistono in un fraseggio di note ascendenti. Gli oranghi maschi, ad esempio, emettono richiami prolungati, spesso accompagnati dallo scuotere dei rami, che si possono udire da grandi distanze: «maschi, alla larga; femmine, venite qui». I gorilla maschi emettono una serie di urli, che possono terminare battendosi il petto, spezzando i rami e devastando il fogliame. Gli urli partono sommessamente, poi aumentano di intensità e possono essere uditi a più di un chilometro di distanza.26 Due o più di questi maschi sono stati uditi emettere delle vocalizzazioni che sembrano prefigurare il canto: «Uno di loro aveva cominciato a lanciare degli urli, per poi lasciarli spegnere prima di ricominciare. Poi un altro si unì a lui, e in seguito un terzo li imitò. I loro distintivi hu-hu si alzavano e si spegnevano mentre ciascuno di loro si fermava e ricominciava indipendentemente dagli altri. Ma quando uno di loro raggiungeva il culmine dell'intensità e cominciava a battersi il petto, gli altri lo imitavano. Poi di solito tutti si acquietavano per alcuni minuti prima di riprendere l'intera procedura».27

Anche gli scimpanzé, i nostri più stretti parenti, usano vocalizzazioni di lunga distanza, che sono chiamati pant-hoots. I maschi, che li usano più frequentemente delle femmine, emettono una serie di forti grida, che si alzano e si abbassano di tono e che spesso terminano con un urlo. Gli scimpanzé riconoscono chi sta urlando dal suo pant-hoot, che di solito viene lanciato mentre si cattura una preda o per rispondere agli altri, per segnalare la presenza di cibo o ancora per minacciare gli scimpanzé sconosciuti. I diversi branchi di scimpanzé hanno i loro particolari pant-hoots (simili agli accenti umani), il che vuol dire che i singoli gruppi di scimpanzé li adattano in modo da differenziarli da quelli dei gruppi vicini.28 In altre parole, le loro vocalizzazioni non sono soltanto determinate geneticamente, ma richiedono anche un apprendimento vocale. Anche se gli scimpanzé non cantano come i gibboni, Jane Goodall udì dei «cori» di pant-hoots di «botta e risposta» fra scimpanzé che stavano passando la notte in rifugi posti su alberi diversi.29 La Goodall ha anche notato che i maschi talvolta tambureggiano con mani e piedi sui tronchi degli alberi, sempre emettendo i loro pant-hoots.

A causa delle somiglianze esistenti tra i canti dei gibboni e i richiami delle grandi scimmie, il primatologo Thomas Geissmann ritiene che i canti e i richiami fra i primati derivino da una comune forma ancestrale. I canti ancestrali avrebbero contenuto semplici note, frasi convenzionali e un ritmo accelerato che si smorzava verso la fine. Soprattutto, quei richiami sarebbero stati abbastanza forti da essere uditi a lunghe distanze. Geissmann spiega anche che «la voce umana è spesso ritenuta il più antico strumento musicale», e ipotizza che i forti richiami dei nostri antenati siano stati la fonte del canto umano e, infine, della musica.30

Geissmann mette in evidenza alcune caratteristiche della musica umana che non si ritrovano nei canti o nei richiami delle grandi scimmie, il che suggerirebbe che questi tratti siano emersi dopo che gli ominini si divisero da esse. Le scimmie non sanno tenere il tempo, quindi il senso del ritmo costante deve essere apparso più recentemente dei canti e degli schiamazzi. Presumibilmente la musica dei nostri primi antenati sarebbe servita a «mettere in mostra e magari rinforzare l'unità di un gruppo sociale nei confronti di un altro gruppo. Negli esseri umani questa funzione risulta evidente a tutt'oggi, ogni volta che un qualche gruppo di persone, siano esse unite da fattori politici, religiosi, di età, o altro, definisce se stesso tramite la propria musica. Esempi di questo fenomeno, le cui origini potrebbero risalire agli albori dell'evoluzione umana, sono gli inni nazionali, le marce militari, i canti di battaglia dei tifosi o delle cheerleaders che incitano la squadra sportiva del cuore, o le precise preferenze musicali delle bande giovanili».31

Molti animali, primati inclusi, emettono un altro tipo di richiamo che pure controlla le distanze tra individui. Si tratta di vocalizzazioni di importanza vitale, e in quanto tali potrebbero essere state un bersaglio diretto, e diffuso, della selezione naturale. In effetti esse potrebbero essere la fonte di tutti gli altri richiami con funzione di regolazione delle distanze, inclusi quelli che poi si sarebbero trasformati nella musica degli esseri umani. Mi riferisco ai richiami di breve distanza che la madre e il neonato si scambiano quando vengono separati: i neonati smarriti producono dei pianti caratteristici, che le madri riconoscono come i pianti dei loro figli. I piccoli dei topolini domestici emettono richiami ultrasonici, gli opossum una specie di starnuto, i piccoli dei pipistrelli «ferro di cavallo» producono una grande quantità di suoni a banda larga, gli uccellini implumi caduti dal nido isolati pigolìi, infine i delfini neonati producono fischi di localizzazione quando si sono spinti a nuoto lontano dalle madri.

I richiami di contatto sono comuni anche tra i primati. Per citare solo alcuni dei gruppi coinvolti: i piccoli smarriti del potto dorato32 producono dei clicks e dei tsics; i neonati abbandonati di aye-aye emettono degli eeeps e degli creees; i neonati sperduti delle scimmie uistiti lanciano dei peeps personali caratteristici e facilmente localizzabili, mentre i piccoli di scimpanzé emettono degli hoos. Quale che sia la specie, le madri rispondono ai richiami di contatto con altri versi del tutto personali, quindi vanno alla ricerca dei figli. E chiaro che madri e figli che condividono queste capacità hanno migliori possibilità di sopravvivenza di chi ne è privo.

Secondo John Newman e i suoi colleghi dei National In-stitutes of Health di Bethesda, i circuiti cerebrali attivati dallo scambio madre-figlio si svilupparono presto nell'evoluzione dei mammiferi. Gli stessi circuiti, che aiutano a elaborare le emozioni, si attivano quando le madri umane sentono i vagiti dei loro neonati.33 La definizione di maternese potrebbe quindi comprendere la speciale vocalizzazione dei mammiferi che è riservata ai figli.34 Dato che le parti del cervello usate per la vocalizzazione fra madre e figlio sono in buona parte quelle che si usano per il linguaggio, Newman pensa che «il linguaggio parlato possa essere nato dalle vocalizzazioni delle femmine degli ominini rivolte ai loro figli».35 Anche altri scienziati hanno istituito dei paralleli tra i richiami di contatto delle madri dei primati e il maternese umano." Ad esempio l'uso delle tonalità acute e di diverso livello delle madri uistiti è stato paragonato all'uso del mater-nese presso gli umani.36

Come possono quindi i canti dei gibboni, gli schiamazzi delle grandi scimmie, i richiami di contatto di madri e figli, fare luce sull'evoluzione della musica negli uomini? Le ricerche di Nobuo Masataka, del Centro di Ricerca sui Primati dell'Università di Kyoto, in Giappone, partono proprio da questa domanda. Masataka è un esperto di comunicazione dei bambini e dei primati non-umani, ed è universalmente noto per le sue ricerche sulla musica, l'evoluzione, il linguaggio, il maternese e la lingua dei segni. Insieme ai suoi colleghi, ha dimostrato che quando le madri dei macachi giapponesi vogliono attirare l'attenzione dei figli, esse «tubano» in un modo che presenta dei punti di contatto con il maternese umano.37

Anche se gli esseri umani, entro il primo anno di vita, emettono gradualmente suoni simili al linguaggio, Masataka ha constatato che ciò avviene in due tappe, la prima delle quali, fra la sesta e l'ottava settimana di vita, consiste nell'emissione di suoni simili a vocali. In seguito i neonati imparano a produrre suoni attraverso gli scambi reciproci con chi si prende cura di loro, e la qualità delle risposte vocali degli adulti incide sulle vocalizzazioni del neonato in via di sviluppo. Secondo Masataka, lo stesso processo avviene presso i macachi giapponesi, che emettono dei coos, cioè suoni simili a quelli umani, non solo come richiami di contatto tra madri e figli, ma, sia pure con suoni leggermente diversi, al fine di rafforzare le relazioni e di mantenere i contatti con gli altri membri del branco. Masataka fa notare anche che i suoni emessi dai macachi giapponesi servono a mantenere la coesione del branco senza che vi sia contatto fisico: un interessante parallelo dell'ipotesi secondo cui le voci delle antiche madri degli ominini funzionassero come surrogato del cullare tra le braccia materne.

Negli scambi vocali tra macachi giapponesi adulti, «lo schema temporale di comportamento [...] tra due suoni coos consecutivi [...] era simile a quelli della diade umana madre-figlio; dopo aver emesso il suo richiamo, il macaco restava in silenzio per un breve intervallo, e se non arrivava nessuna risposta dalle altre scimmie, il macaco ripeteva il richiamo per parlare con gli altri membri del branco.38

Da queste osservazioni si capisce come i richiami delle madri verso i figli (e le risposte di questi ultimi) possano aver avuto un ruolo importante nell'evoluzione dei richiami più generali tra i membri di uno stesso gruppo. Ovvero, la comunicazione vocale tra i membri del gruppo sarebbe emersa da una specie di maternese delle scimmie, analogamente a quanto accaduto nel corso dell'evoluzione del linguaggio umano.

Il secondo stadio nello sviluppo del linguaggio umano, dice Masataka, consiste nella lallazione, che inizia verso gli otto mesi (come abbiamo visto nel cap. 5, i neonati dell'uomo superano i due stadi previsti da Masataka sviluppando la capacità di produrre melodie complesse nei loro vagiti). Anche se i primati non umani non sanno produrre la lallazione come i neonati umani, Masataka osserva che i loro richiami a lunga distanza sono simili alla struttura della lallazione infantile; egli vede dei paralleli tra la lallazione umana e le semplici tonalità, le frasi convenzionali e i ritmi accelerati descritti da Geissmann a proposito degli schiamazzi delle grandi scimmie e dei canti dei gibboni. Mentre Geissmann vede negli schiamazzi i precursori del canto e infine della musica umana, Masataka si spinge più in là, suggerendo che anche i canti dei gibboni avrebbero dato origine alla parola, forse attraverso un processo nel corso del quale i duetti del canto si divisero trasformandosi in assoli, che col tempo divennero il linguaggio.

Anche Darwin si concentrò sul canto dei gibboni, e giunse alla conclusione che il linguaggio umano derivava probabilmente dalle note musicali e dai ritmi evolutisi presso i nostri progenitori primati. Secondo Tecumseh Fitch, dell'Università scozzese di St. Andrews, l'ipotesi di Darwin risulta convincente, perché «le tante somiglianze tra la musica e il linguaggio significano che, come stadio evolutivo intermedio, la musica sta proprio a mezza strada e fornirebbe un'impalcatura adatta per l'evoluzione di un discorso intenzionalmente significativo».39 Darwin pensava inoltre che la musica si fosse sviluppata «per affascinare il sesso opposto». Anche se questa teoria ha i suoi fautori, Fitch dissente, e lo fa citando il primissimo sviluppo della percezione musicale e del canto nei neonati umani e l'uso universale di canzoncine tra madri e figli.40 Poiché, contrariamente alla capacità musicali dei neonati, i tratti selettivi sessuali non appaiono prima della maturità sessuale, Fitch conclude che «l'ipotesi legata alla cura e allevamento dei neonati rappresenta attualmente la spiegazione più accreditata, in base ai dati, della funzione adattiva della musica».41

Questa ipotesi evidentemente conferma che l'evoluzione della musica si deve alla comunicazione fra madre e figlio. Su questa falsariga Inge Cordes, dell'Università di Brema, in Germania, ha studiato le relazioni esistenti fra le melodie presenti nel maternese di tutto il mondo e le melodie presenti nelle canzoni di sessanta paesi.42 Nel maternese ci sono melodie ascendenti che attirano l'attenzione del neonato, sommesse armonie discendenti che servono a calmarlo, canti con modulazioni discendenti e ascendenti per esprimere approvazione, o con modulazioni più spiccate per scoraggiare comportamenti sbagliati. I quattro tipi di canto studiati dalla Cordes erano le ninne nanne, i canti per attirare l'attenzione, i canti di lode (per approvare un comportamento corretto) e le canzoni guerresche. La Cordes ha scoperto delle somiglianze tra gli schemi melodici di ciascun tipo e lo schema che nel maternese esprime identiche emozioni. I canti che servono ad attirare l'attenzione hanno melodie rapidamente ascendenti; i canti di lode e approvazione presentano morbide curve ascendenti e discendenti; le canzoni guerresche hanno per lo più cadenze bruscamente discendenti. Anche se le ninne nanne si sono rivelate più varie, la ricerca ha dimostrato che le melodie del maternese, associate a certe emozioni, si riscontrano sia nei canti diretti ai bambini sia in quelli diretti agli adulti.

E non è tutto: la Cordes ha anche misurato la durata media dei canti e l'ha confrontata con la durata di diversi richiami di animali. Nella maggior parte dei casi, i richiami attrattivi, destinati ad accorciare le distanze, hanno un crescendo lungo e prolungato, mentre quelli per respingere sono brevi e rumorosi, con un crescendo rapido.43 Di nuovo si riscontra una chiara corrispondenza: i canti di approvazione e le ninne nanne rispecchiano le prolungate melodie dei richiami attrattivi degli animali; i canti guerreschi invece sono immediatamente in crescendo. La Cordes ha osservato anche che i canti per riscuotere attenzione hanno melodie estremamente lunghe, simili ai richiami di allarme degli animali, per cui è portata a concordare con l'ipotesi di Darwin secondo cui la musica, e specialmente il canto, sarebbero derivati dalle primitive forme di comunicazione vocale dei primati.

La funzione primaria della musica, ovviamente, è quella di esprimere emozioni, come hanno illustrato i neuroscienziati Jaak Panksepp della Washington State University e Günther Bernatzky dell'Università di Salisburgo, in Austria. Insieme questi due ricercatori hanno studiato il genere di musica che provoca nelle persone brividi o sensazioni di gelo, come le canzoni agrodolci di amore respinto o di nostalgia, o la musica che esprime orgoglio patriottico.44 I brividi sembrano più frequenti nelle femmine che nei maschi, spesso in risposta a una nuova, inaspettata melodia o a un crescendo inatteso. La musica triste può anche comunicare un senso di gelo, e le osservazioni di Panksepp e Bernatzky sono particolarmente pregnanti alla luce sia dei richiami di contatto sia del maternese:

A nostro giudizio, un crescendo sostenuto da una tonalità acuta, una prolungata nota di dolore cantata da un soprano o suonata da un violino [...] è uno stimolo sufficiente a provocare dei brividi. Un assolo strumentale, ad esempio di una tromba o di un violoncello, che esca improvvisamente da una musica orchestrale di fondo, risulta in special modo suggestivo. Di conseguenza abbiamo preso in considerazione la possibilità che i brividi nascano in sostanza da emozioni scatenate da una musica triste che contenga caratteristiche simili ai richiami dei giovani animali dispersi, un primordiale grido di disperazione per sollecitare le nutrici a una maggiore attenzione. Forse i brividi provocati dalla musica rappresentano una risonanza naturale dei sistemi di separazione e angoscia presenti nel nostro cervello, la quale aiuta a mediare l'impatto emozionale della perdita sociale. L'impatto affettivo dei brividi indotti dalla musica potrebbe derivare, in parte, da primitive risposte termali omeosta-tiche, stimolate dalla percezione della separazione, che fornivano un'urgenza motivazionale per risposte miranti alla ricomposizione sociale. In altre parole, quando ci siamo persi noi sentiamo freddo, non soltanto in senso fisico ma forse anche in senso neurosimbolico, come conseguenza di una perdita sociale.45

La musica in culla

Ogni bimbo, in tutto il mondo, ha una straordinaria propensione musicale.46 Gli esperimenti hanno dimostrato che anche i bimbi piccolissimi sanno cogliere le più piccole differenze di tonalità e tempo che, in tutte le culture, possiedono un significato musicale.47 Come gli adulti, anche i bambini possono ricordare le melodie e le possono riconoscere anche dopo che sono state trasferite in un'altra tonalità o suonate con un altro ritmo.48 Già all'età di due mesi, i neonati preferiscono le sequenze musicali consonanti a quelle dissonanti. Questi «rudimenti dell'ascolto musicale» conclude Sandra Trehub, «sono doni di natura piuttosto che prodotti della cultura». D'altra parte, la sensibilità ad aspetti culturalmente specifici della struttura armonica e tonale emerge molto più tardi, tra i cinque e i sette anni.49

Non è strano quindi che le ninne nanne e le canzoncine infantili vengano cantate ai bambini in tutto il mondo (come abbiamo visto nel cap. 2). Ma allora, che cosa differenzia la musica destinata ai bambini dalla musica di altro tipo? Laurei Trainor e i suoi colleghi dell'Auditory Development La-boratory della McMaster University per scoprirlo hanno registrato dapprima i canti delle madri diretti ai loro piccoli, quindi gli stessi canti eseguiti quando i piccoli non erano presenti.501 risultati sono stati molto diversi e tutti, bambini compresi, potrebbero sentire la differenza. Le ninne nanne cantate direttamente ai bambini avevano un tono più alto, un tempo più lento e un ritmo più regolare, tutte qualità associate all'affetto, alla tenerezza, alla felicità e all'eccitazione. La presenza dei bambini sembrava anche alterare lo stato emotivo delle madri, il quale a sua volta influiva sulle voci. I ricercatori osservarono che solo quando le canzoni erano cantate direttamente ai bambini sembrava che le madri stessero sorridendo mentre cantavano.51 In effetti i bambini potrebbero aver preferito le canzoni cantate dal vivo a quelle registrate, perché «il canto calmante agisce tanto sulle madri quanto sui bambini».52

Poiché i neonati preferiscono generalmente ascoltare delle voci dal timbro più acuto rispetto a quelle dal timbro più grave, la Trainor ritiene che l'inconscia preferenza per l'uso di un tono di voce più acuto possa avere radici biologiche. Questo sarebbe coerente con l'associazione tra i suoni gravi e le esibizioni di aggressività e ostilità negli animali (ad es. nel ringhio grrr), e tra i suoni più acuti e situazioni più amichevoli (anche se i suoni acuti a volte sono usati per esprimere paura). Tuttavia altri fattori possono provocare questa preferenza. Ad esempio le caratteristiche del maternese destinate a confortare o trasmettere amore, come un timbro di voce più sommesso, un tempo più lento e un'intonazione che scende verso il basso, si ritrovano anche nelle ninne nanne, cantate più lentamente e con ritmo più regolare rispetto alle cantilene infantili.53 Le cantilene infantili sono più stimolanti, mentre le ninne nanne sono destinate a calmare i neonati e a indurli al sonno.

L'equipe della Trainor ha anche scoperto che le madri esageravano i suggerimenti sulla struttura musicale delle canzoni quando cantavano direttamente ai bambini, influenzando inconsciamente i neonati a sviluppare la percezione musicale, proprio come il maternese li aiuta a suddividere il flusso delle parole. Così il maternese e le canzoncine per l'infanzia avrebbero funzioni plurime e parallele: attirare l'attenzione dei neonati, comunicare e controllare le emozioni e insegnare ai bambini gli schemi del suono. Le ninne nanne e le canzoncine per bambini sarebbero allora il veicolo di una specie di maternese focalizzato sulla musica (una specie di «musichese»?) piuttosto che sul linguaggio. Non sono solo le madri a cantare in questo modo: la presenza di un neonato fa scattare modi simili di cantare anche nei padri, nelle babysitter, in altri parenti, persino in bambini in età prescolare.54

I neonati di tutto il mondo reagiscono favorevolmente al canto materno, e le canzoncine infantili catturano la loro attenzione ancor più del maternese.55 E in parte per questa ragione che Elena Longhi e Annette Karmiloff-Smith dell'University College di Londra sono convinte che il canto - più del maternese - possa aver preparato il terreno alle preistoriche interazioni madre-figlio.561 canti hanno una struttura musicale più regolare del discorso, sono più facili quindi da suddividere in unità più piccole, anche se i testi delle ninne nanne (e delle canzoni infantili) sono, dal punto di vista del neonato, del tutto irrilevanti:

La cruciale differenza tra il maternese e la canzone sta nel fatto che il maternese tende a dare enfasi al significato fianco a fianco con l'interazione sociale, mentre l'effettivo contenuto semantico delle canzoni è spesso del tutto irrilevante. Quel che conta nelle canzoni è la caratteristica ritmica, segmentata del messaggio vocale, e questo potrebbe voler dire che esse hanno preceduto la primitiva interazione linguistica.57

Longhi e Karmiloff-Smith insistono sul fatto che i neonati non ascoltano passivamente le canzoni delle madri, ma reagiscono con sorrisi e gridolini, e coordinano i loro movimenti con il ritmo delle canzoni.58 A loro volta le madri sottolineano gli stacchi tra le frasi delle canzoni scuotendo la testa, dando colpetti leggeri ai figli con movimenti sincronizzati e così via. Come il maternese, la canzone per bambini è in realtà una specie di dialogo multimodale, un duetto.59

Far saltellare i neonati sulle ginocchia a tempo con la musica serve a sviluppare in loro la sensibilità musicale.60 La Trainor aveva notato che i genitori non riuscivano a fare a meno di far saltellare, cullare o giocare con i piedini dei figlioletti mentre cantavano per loro, e si era domandata se questi movimenti fossero in qualche modo importanti per il loro sviluppo. Insieme alla collega Jessica Phillips-Silver, la Trainor chiese allora ad alcune madri di tenere in grembo i loro neonati di sette mesi mentre ascoltavano un ritmo senza cadenza suonato su un tamburo. Le madri creavano tuttavia una cadenza facendo saltellare i neonati. Metà delle madri ricevettero l'istruzione di far saltellare i piccoli ogni secondo battito, l'altra metà ogni terzo battito. Poi si controllò quali dei due ritmi i neonati ascoltavano con più gradimento, misurando la durata del tempo in cui i piccoli tenevano la testa rivolta agli altoparlanti che suonavano i due ritmi. Anche se essi avevano sentito la stessa musica priva di cadenza, i neonati preferivano ascoltare il ritmo che coincideva con quello del saltellare cui erano stati sottoposti. Trainor e Phillips-Silver conclusero che dev'esserci una connessione primordiale e forte tra l'elaborazione dei movimenti corporali e i ritmi che vengono ascoltati simultaneamente, e che si tratta di un fattore cruciale per lo sviluppo musicale nell'uomo.61

Sia le canzoni sia il maternese sono fondamentali perché i bambini piccoli possano comprendere e manifestare le emozioni. Quando i bambini pronunciano le loro prime parole, i genitori vanno in visibilio; non altrettanto apprezzato è il difficile raggiungimento, meno appariscente ma non meno importante, della progressiva abilità nell'elaborare ed esprimere le emozioni. In realtà è importantissimo imparare a decifrare l'atteggiamento e le emozioni di chi parla attraverso indizi non linguistici (velocità di parola, qualità della voce, variazioni di tono). Il tono di voce contribuisce enormemente allo sviluppo, da parte dell'ascoltatore, della capacità di interpretare parole e frasi del discorso.

Di fronte a indizi contrastanti, gli adulti giudicano i sentimenti di chi sta parlando da come dice quel che dice.62 Invece i bambini al di sotto degli otto anni giudicano i sentimenti di chi parla dal contenuto del discorso, non dal tono di voce. Anche se i bambini già a sette anni sono in grado di capire quando chi parla dice cose allegre con voce triste (e viceversa), essi non hanno ancora sviluppato l'abilità propria dell'adulto di interpretare, attraverso il tono di voce, lo stato emotivo del parlante. Questo dimostra che nonostante la prolungata esposizione alla prosodia del maternese, ci vogliono anni perché i bambini imparino a elaborare, attraverso sottili indizi non linguistici, il significato letterale delle parole pronunciate da un interlocutore (sullo stesso piano sta la comprensione, da parte di bambini molto piccoli, dell'ironia e del sarcasmo, che richiede la capacità di integrare indizi non linguistici e significati letterali).63 La precisa elaborazione dei sottotoni emotivi del linguaggio è un'abilità così difficile da raggiungere che si può pensare sia stata importante nel corso dell'evoluzione umana.

Da dove viene la musica?

L'evidenza fornita dai richiami di contatto degli animali e dalle vocalizzazioni dirette ai bambini suggerisce l'ipotesi che le vocalizzazioni prosodiche da cui scaturì' la musica siano state cruciali per la sopravvivenza durante l'evoluzione degli ominini. La caduta dal nido sarebbe diventata fatale se le madri non avessero riconosciuto i richiami di aiuto dei

loro figli e non fossero accorse a salvarli. Le madri preistoriche che lasciavano i loro neonati piangere incessantemente mentre raccoglievano bacche o cavavano tuberi, li mettevano alla mercé degli affamati predatori.

La nostra capacità di elaborare i toni di voce ci aiuta a definire gli stati mentali degli altri, un'abilità che alcuni scienziati ritengono venisse intensamente selezionata mentre i nostri progenitori si evolvevano.64 Io credo anche che la qualità musicale del normale linguaggio umano sia tuttora importante per la sopravvivenza individuale. Il tono di voce rivela le fluttuazioni degli stati emotivi di chi sta parlando e fornisce all'ascoltatore importanti indizi involontari. Dal tono di voce di chi parla noi percepiamo il suo coinvolgimento emotivo nella conversazione e possiamo vagliare le probabilità che ci stia dicendo la verità. Possiamo anche cogliere occasionali avvertimenti circa la possibilità che chi parla possa fare del male. Uno strano o inappropriato tono di voce risulta sconcertante all'ascoltatore, che potrebbe dare retta a quel senso di disagio e fargli evitare persone o situazioni potenzialmente pericolose.63

Tutte le persone normali imparano a parlare, ma non tutti suonano uno strumento o compongono sinfonie, ed è per questo motivo che molti scienziati (a un certo punto anch'io) hanno ipotizzato che solo il linguaggio, e non la musica, fosse l'obiettivo principale della selezione naturale.66 Ora non lo credo più. Con l'aiuto della parte destra del cervello, le persone fanno musica ogni volta che parlano; se il tono di voce è la musica del discorso, allora i testi delle canzoni sono i discorsi della musica (e il maternese è stato definito sia come «musica parlata» sia come «discorso musicale»).67 Oggi credo che la musica e il linguaggio si siano evoluti passo dopo passo, parallelamente, nel corso di milioni di anni, in seguito all'ingrandimento del cervello e alla messa a punto degli impulsi elettrici di ambedue gli emisferi cerebrali.68 Non voglio dire che i concerti per pianoforte di Beethoven siano il risultato diretto della selezione naturale, più di quanto non lo sia una lettura pubblica dei sonetti di Shakespeare o dei poemi di Walt Whitman. Tuttavia una cosa sembra chiara: sia la musica sia il linguaggio scaturiscono dalle antiche comunicazioni che all'origine mantennero e rafforzarono il doppio legame fra madre e figlio. Questi duetti primordiali non solo furono essenziali per la sopravvivenza delle madri preistoriche e dei loro figli, ma permisero anche la sopravvivenza dei loro discendenti, fra i quali, fortunatamente, ci siamo anche noi.

Di più: un fenomeno chiamato effetto Mozart ipotizza la possibilità che ascoltare musica aumenti il quoziente intellettivo. Per quanto l'effetto Mozart sia oggetto di controversie, ci sono prove del fatto che il regolare studio della musica (specie se intrapreso in giovane età) migliori a lunga distanza le prestazioni delle attività spazio-temporali e la memoria verbale.69 La connessione fra musica e memoria pare ovvia, ad esempio molti bambini imparano l'alfabeto tramite le canzoni, e l'ascolto della musica è utile alla salute dei neonati. Jayne Standley, mia collega alla Florida State University, è stata una pioniera nell'uso della musica come terapia per aiutare la guarigione dei bambini malati, e ha scoperto che i neonati prematuri sviluppano la capacità di poppare e acquistano peso se ascoltano una solista cantare la ninna nanna.70 Tutte insieme, queste scoperte mandano ai genitori un chiaro messaggio: la musica non è un inutile orpello. Piuttosto, essa ha contribuito a renderci quella specie intelligente e parlante che siamo diventati e, specialmente attraverso le ninne nanne e le canzoni per bambini, continua a elargire ai nostri figli il suo benefico effetto.

Note

1 Stephen Jay Gould e Richard C. Lewontin, The Spandrels ofSan Marco and the Panglossion Paradigm. A Critique of the Adaptationist Programme, «Proceedings of the Royal Society of London. SeriesB: Biological Science», 205, 1161, 1979, pp. 581-98.

2 Steven Pinker, Come funziona la mente, Mondadori, Milano 2000, pp. 572-76 (ed. or. 1977).

3 Charles Darwin, L'origine dell'uomo e la selezione sessuale, Newton Compton, Roma 2003, p. 572 (ed. or. 1871).

4 Che cosa sarà più credibile: la musica come aperitivo evolutivo che precedette il linguaggio, o come il dessert che lo seguì? La risposta dipende da come la musica viene definita, e se gli studiosi hanno un approccio top-down oppure bottom-up. Se si parte dalla prospettiva della musica in piena fioritura e si procede all'indietro, sarà difficile capire come Le quattro stagioni di Vivaldi, ad esempio, possano provenire dai semplici richiami degli scimpanzé. Difficile anche immaginare le funzioni specifiche che, nel passato, avrebbero indotto la selezione naturale a prendere di mira precisamente quella musica, nonostante oggi la si ascolti con intenso piacere. Una «torta alla panna uditiva», davvero! Ma se così fosse, lo stesso si potrebbe dire per i suoni e le immagini evocati dalla poesia, come questi versi, tratti da un sonetto di Elizabeth Barrett Browning, Come ti amo?: «In quanti modi t'amo? Lascia che conti. / Ti amo nell'alto, nel vasto, nel profondo, / cui l'anima si tende quando, sentendosi / non vista, si protende ai confini dell'Essere e dell'Ideale Grazia» (Sonetti dal portoghese, a cura di Bruna dell'Agnese, Edizioni Amadeus, Montebelluna 1991, p. 105). O per il soliloquio nichilista di Macbeth quando apprende della morte di Lady Macbeth: «Domani, e domani, e domani, s'insinua col suo piccolo passo, un giorno dopo l'altro, fino all'ultima sillaba del tempo segnato; e tutti i nostri ieri avranno servito a rischiarare ad altri stolti il loro viaggio alla polvere della morte. E spegniti corta candela! La vita non è che un'ombra in cammino, un pietoso guitto che sulla scena si pavoneggia e sbraccia quell'ora, e dopo non se ne parla più: una favola contata da un idiota - tutto rumore e furia - che non significa nulla» (William Shakespeare, Macbeth, atto V, scena V, vv. 19-28, in Id., Teatro, a cura di Cesare Vico Lodovici, IV, Einaudi, Torino 1960, p. 627).

Se la musica è una torta alla panna uditiva, allora sicuramente questi dolci suoni linguistici dovrebbero essere considerati una specie di evoluzionistico dessert, in quanto nati in un tempo relativamente recente e «messi da parte per ultimi». Per una discussione dei vari punti di vista, cfr. Steven Mithen, Il canto degli antenati. Le origini della musica, del linguaggio, della mente e del corpo, Codice, Torino 2007 (ed. or. 2006).

5 Cfr. Bruno Netti, An Ethnomusicologist Contemplates Universals in Musical Sound and Musical Culture, in Nils L. Wallin, Bjòrn Merker e Steven Brown (a cura di), The Origins of Music, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2000, pp. 463-72.

6 Sempre secondo Netti (ibid., pp. 468-69): «Molte società hanno nella loro musica, sia come stile predominante sia, e più comunemente, come repertorio speciale, qualcosa che potrei definire (e nel dirlo mi inchino umilmente, perché la complessità musicale non è facilmente misurabile ed è soggetta ai pregiudizi prodotti da una cultura che adora la complessità) "lo stile più semplice del mondo". Consiste in canzoni che hanno una breve frase ripetuta più volte o molte volte, con variazioni minime e tre o quattro toni su una scala di cinque. La cosa interessante è che si tratta di un genere musicale largamente diffuso [...]. Sembra sia stato il solo genere, o il genere principale, di popoli che vivevano in aree del mondo isolate e molto distanti fra loro. Ma lo si ritrova in società la cui musica è altrimenti più complessa, e in questi casi viene relegato ad accompagnamento dei giochi dei bambini, o dei giochi in genere, oppure viene riservato a rituali obsoleti. Abbiamo ragione di credere che si tratti di materiale antico, associato com'è a contesti sociali un tempo centrali per la cultura, ma in seguito superato da una musica più complessa».

7 Sandra E. Trehub, Laurei J. Trainor e Anna M. Unyk, Music and Speech Processing in the First Year of Life, «Advances in Child Development and Behavior», XXIV, 1993, pp. 3-4.

8 Cfr. Laurei J. Trainor, Caren M. Austin e Renée N. Desjardins, Is Infant-Directed Speech Prosody a Result of the Vocal Expression of Emotion?, «Psychological Science», XI, 3, 2000, pp. 188-95.

9 Ellen Dissanayake, If Music Is the Food of Love, What About Survival and Reproductive Success?, «Musicae Scientiae», Special Issue 2008, p. 169.

10 Mithen, Il canto degli antenati cit., p. 18.

11 Cfr. Jaak Panksepp e Günther Bernatzky, EmotionalSounds and the Brain. The Neuro-Affective Voundations of Musical Appreciation, «Behavioral Processes», LX, 2, 2002, pp. 133-55.

12 Cfr. Trehub, Trainor e Unyk, Music and Speech Processing in the First Year of Life cit.

13 Cfr. Aniruddh D. Patel, hanguage, Music, Syntax and the Brain, «Nature Neu-roscience», VI, 7, 2003, pp. 674-81.

14 Come argomenta Patel, la sovrapposizione neurologica nel processo sintattico tra linguaggio e musica è solo parziale. Cfr. anche Burkhard Maess, Stephan Koelsch, Thomas C. Gunter e Angela D. Friederici, Musical Syntax h Processed in Broca's Area. An UEGStudy, «Nature Neuroscience», IV, 5, 2001, pp. 540-45.

15 Cfr. Aniruddh D. Patel, John R. Iversen e Jason C. Rosenberg, Comparing the Rhythm and Melody of Speech and Music. The Case of British English and French, «Journal of the Acoustical Society of America», 119, 5/1, 2006, pp. 3034-47.

16 Così, ad esempio, l'intervallo musicale (la distanza tra due note) detto di terza maggiore (dal do al mi) è alla base del glorioso Inno alla gioia nella Nona sinfonia di Beethoven, mentre l'intervallo di terza minore (dal do al mi bemolle) è predominante nell'inquietante primo movimento della Quinta sinfonia, il famoso «il fato bussa alla porta» (cfr. Deryck Cooke, The Language of Music, Oxford University Press, Oxford 1959; per una discussione del libro di Cooke e di altri scritti su musica ed emozioni, cfr. Mithen, Il canto degli antenati cit., pp. 103-05). Questi lavori spiegano come il significato della musica si rivela mentre l'ascoltatore sperimenta degli schemi di tensione e risoluzione, anticipando e inconsciamente inseguendo gli intervalli fra le note; ad esempio secondo la sintassi musicale così eloquentemente discussa da Patel. A livello generale lo schema degli intervalli fra le note determina, in gran parte, se la musica sia percepita come dissonante 0 consonante. Ciò dipende dalle particolari vibrazioni che avvengono nella membrana della coclea dell'orecchio interno, poi trasmesse al cervello, dove vengono ulteriormente elaborate. 17 Isabelle Peretz dell'Università di Montreal, e Robert Zatorre della McGill University conducono ricerche in una speciale sala da concerto che fa parte dell'In-ternational Laboratory f or Brain, Music and Sound Research. Circa venticinque poltrone della sala sono provviste di sensori wireless che monitorano il ritmo cardiaco e le reazioni epidermiche e facciali degli ascoltatori durante le esecuzioni dal vivo. Possono anche registrarne, su dei palmari, le reazioni, man mano che si manifestano. Un altro sistema consiste nel servirsi della tecnologia usata in medicina, come la risonanza magnetica funzionale per immagini, per studiare quel che avviene nel cervello degli ascoltatori. Zatorre e i suoi colleghi hanno fatto delle scoperte sorprendenti. Ad esempio che la sensazione di «brivido lungo la schiena», causata a volte dalla musica, viene elaborata nella zona del cervello dove ci sono i centri del piacere, sensibili anche al cibo e al sesso. Per maggiori dettagli, cfr. M. Balter, Study of Music and the Mìnd Hits a High Note in Montreal, «Science», 315, 5813, 2007, pp. 758-59.

18 Cfr. Robert J. Zatorre, David W. Perry, Christine A. Beckett, Christopher F. Westbury e Alan C. Evans, Functìonal Anatomy of Musical Processing in Listeners with Absolute Pitch and Relative Pitch, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», XCV, 6, 1998, pp. 3172-77.

19 Per una discussione generale sulla lateralizzaziorie del cervello cfr. Dean Falk, Braindance. New Discoveries ahout Human Origins and Brain Evolution, n. ed., University of Florida Press, Gainesville 2004, pp. 104-09.

20 Cfr. Thomas Geissman, Gìbbon Songs and Human Music from an Evolutionary Perspective, in Wallin, Merker e Brown (a cura di), The Origins of Music cit., pp. 103-23.

21 Per maggiori informazioni sui gibboni e altri primati, cfr. Dean Falk, Primate Diversity, Norton, New York 2000.

22 Secondo Thomas Geissmann, studioso di gibboni dell'Università di Zurich-Irchel, ogni specie di gibbone ha la sua canzone caratteristica, ma tutti condividono alcuni elementi che erano probabilmente presenti nel canto di un primitivo antenato. Quindi l'antenato dei moderni gibboni cantava i duetti e produceva lunghe canzoni, rumorose e complesse, le cui frasi consistevano in pure note. Il contributo dei maschi si sarebbe sviluppato gradualmente, passando da frasi semplici a frasi più complesse. Le femmine probabilmente contribuivano con un maestoso richiamo, che accelerava leggermente e alla fine si smorzava, e a quel punto veniva accompagnato da esibizioni acrobatiche. Forse anche i maschi partecipavano a simili spettacoli, ma non è detto. Cfr. Geissmann, Gibbon Songs and Human Music cit.

23 Cfr. W. Tecumseh Fitch, The Evolution of Music in Comparative Perspective, «Annals of the New York Academy of Science», 1060, 2005, pp. 29-49.

24 Cfr. Hiroki Koda, Chisako Oyakawa, Akemi Kato e Nobuo Masataka, Experimental Evidence for the Volitional Control of Vocal Production in an Immature Gibbon, «Behaviour», 144, 6, 2007, pp. 681-92.

Donna Leighton, Gibbons. Territoriality andMonogamy, in Barbara B. Smuts e al. (a cura di), Primate Societies, University of Chicago Press, Chicago 1987, p. 140.

26 Cfr. Dian Fossey, Gorilla nella nebbia, Einaudi, Torino 1994 (ed. or. 1983). George B. Shaller, The Mountain Gorilla. Ecology and Behavior, University of Chicago Press, Chicago 1963, p. 223.

28 Cfr. Catherine Crockford, Ilka Herbinger, Linda Vigilant e Christophe Boesch, Wild Chìmpanzees Produce Group-Specific Calls. A Case for Vocal Leaming?, «Ethology», no, 3, 2004, pp. 221-43.

29 Cfr. Jane Goodall, The Chimfnzees of Gombe. Pattems of Behavior, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1986.

30 Cfr. Thomas Geissmann, Gibbon Songsand Human Music front an Evojuttonaty Perspective cit., p. 118. Per le sue osservazioni Geissmann fa riferimento a G. Ewens.

31 Cfr. Geissmann, Gìbbon Songs and Human Music from an Evolutìonary Perspective cit., p. 119.

32 Perodictico, una proscimmia. [N.d.T.]

33 Cfr. John D. Newman, Motherese by Any Other Name. Mother-Infant Commu-nìcatìon in Non-HomìninMammals, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, pp. 519-20; Jeffrey P. Lorberbaum, John D. Newman, Amy R. Horwitz, Judy R. Dubno, R. Bruce Lydiard, Mark B. Hamner, Daryl E. Bohning e Mark S. George, A PotentìalRolefor Thalamocingulate Circuitry in HumanMatemal Behavior, «Biologica! Psychiatry», LI, 6, 2002, pp. 431-45.

34 Cfr. Newman, Motherese by Any Other Name cit.

35 Ibid., p. 5r9.

36 Cfr Maxeen Biben, David Symmes e Deborah Bernhards, Contour Variables m Vocal Commumcation Between Squinel Monkey Mothers and Infanti «Develop-mental Psychobiology», XXII, 6, 1989, pp. 617-31.

37 Cfr. Nobuo Masataka, The Onset of Language, Cambridge University Press Cambridge 2003, p. 129.

38 Cfr. Nobuo Masataka, Music, Evolution and language, «Developmental Science», X, 1, 2007, p. 36.

39 Fitch, The Evolution of Music in Comparative Perspective cit., p. 42.

40 Cfr. Geoffrey F. Miller, Evolution of Music Through Sexual Selection, in Wal-lin, Merker e Brown (a cura di), The Orìgini of Music cit., pp. 329-360; Sandra E. Trehub, Human Processing Predisposìtions and Musical Unìversals, ibìd., pp. 463-72.

41 Fitch, The Evolution of Music in Comparative Perspective cit., p. 42.

42 Cfr. Mechthild Papousek, Hanus Papousek e David Symmes, TheMeaning of Melodies in Motherese in Tone and Stress Languages, «Infant Behavior and Develòp-ment», XIV, 1991, pp. 415-40; Inge Cordes, Melodie Contours as a Connecting Link Between Primate Communication and Human Singìng, in Reinhard Kopiez, Andreas C. Lehmann, Irving Wolther e Christian Wolf (a cura di), Proceedings oftheyth Triennial European Society far the Cognitive Sciences of Music (escom) Conference, Hanover University of Music and Drama, Hanover 2003, http://musictherapyworld.net.

43 Cfr. Peter Marler, Aggregation and Dispersal. Two Functions in.Primate Com-munication, in Phyllis C. Jay (a cura di), Primates. Studies in Adaptation and Variability, Holt, Rhinehart, New York 1968, pp. 420-28. Cfr. anche Giinter Tembrock, Biokommunikation. Informationsùbertragung im bìologischen Bereich, 2 voll., Akade-mie-Verlag, Berlin 1971, II.

44 Cfr. Panksepp e Bernatzky, Emotional Sounds and the Brain cit.

45 Panksepp e Bernatzky, Emotional Sounds and the Brain cit., p. 143.

46 Cfr. Trehub, Human Processing Predispositions and Musical Universals cit.

47 Cfr. Id., The DevelopmentalOrigins of Musicality, «Nature Neuroscience», VI, 7, 2003, pp. 669-73.

48 Cfr. Anna Volkova, Sandra E. Trehub ed E. Glenn Schellenberg, Infants' Memory for Musical Performances, «Developmental Science», IX, 6, 2006, pp. 583-89.

49 Cfr. Trehub, The Developmental Origins of Musicality cit., p. 670.

50 Cfr. Laurei J. Trainor, Elissa D. Clark, Anita Huntley e Beth A. Adams, The Acoustic Basis of Preferences for Infant-Dìrected Singìng, «Infant Behavior and Development», XX, 3, 1997, pp. 383-96.

51 Cfr. Trehub, Human Processing Predispositions and Musical Universals cit.

52 Sandra E. Trehub, Mothers Are Musical Mentors, «Zero to Three», XXIII, 1, 2002, p. 21.

53 In effetti uno studio recente dimostra che neonati tra i sei e i sette mesi, che non erano mai stati sottoposti all'esperimento delle ninne nanne, preferivano l'esecuzione con la tonalità più grave. Cfr. Volkova, Trehub e Schellenberg, Infants' Memory for Musical Performances cit.

54 Cfr. Trehub, Mothers Are Musical Mentors cit.

55 Cfr. Trehub, Mothers Are MusicalMentors cit.

56 Cfr. Elena Longhi e Annette Karmiloff-Smith, In the Beginning Was the Song. The Complex Multimodal Timing of Mother-Infant Musical Interaction, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, pp. 516-17.

57 Ibid., p. 517.

58 Quando raggiungono i tre mesi di vita, i neonati mostrano comportamenti sincroni più con i segmenti accentati delle canzoni cantate dalle madri che non con quelli non accentati.

59 Cfr. Dissanayake, If Music Is the Food of Love cit.; e anche Id., Antecedents of the Temporal Aris in Early Mother-Infant Interaction, in Wallin, Merker e Brown (a cura di), The Origins of Music cit., pp. 389-410.

60 Cfr. Jessica Phillips-Silver e Laurei J. Trainor, Feeling the Beat. Movementln-fluences Infant Rhythm Perception, «Science», 308, 5727, 2005, p. 1430.

61 Ciò avrebbe senso, perché il sistema vestibolare, preposto all'orientamento e all'equilibrio, include i canali semicircolari che fanno parte dell'orecchio interno.

62 Cfr. J. Bruce Morton e Sandra Trehub, Children's XJnderstanding ofEmotìon inSpeech, «Child Development», LXXII, 3, 2001, pp. 834-43.

63 Per una discussione cfr. ibid.

64 Cfr. Andrew Whiten e Richard W. Byrne, Machiavellian Intelligence, II: Ex-tensions and Evaluations, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1997.

65 E voi, vorreste andare a pranzo con Hannibal Lecter?

66 Cfr. Dean Falk, Hominid Brain Evolution and the Origini ofMusic, in Wallin, Merker e Brown (a cura di), The Origins of Music cit., pp. 197-216.

67 Cfr. Trehub, Mothers Are Musical Mentors cit.; Trainor, Clark, Huntley e Adams, The Acoustic Basis of Preferences for Infant-Directed Sìnging cit.

68 Per i dettagli cfr. Falk, Brain/lance cit.

69 Cfr. Frances H. Rauscher e Gordon L. Shaw, Key Componente of the Mozart Effect, «Perceptual and Motor Skills», LXXXVI, 3/1, 1998, pp. 835-41; Frances H. Rauscher, Mozart and the Mina. FactualanàEictionalEffects of Musical Enrichment, in Joshua Aronson (a cura di), Improving Academic Achìevement. Impact of Psychological Factors on Education, Academic Press, New York 2002, pp. 269-78; Yim-Chi Ho, Mei-Chun C. Cheung e Agnes S. Chan, Music Training Improves V'erbai But Not Visual Memory. Cross-Sectional and Longitudinal Exploration in Children, «Neuropsy-chology», XVII, 3, 2003, pp. 439-50.

70 Cfr. Jayne M. Standley, A Meta-Analysis of the Efficacy of Music Therapy for Premature Infants, «Journal of Pediatric Nursing», XVII, 2, 2002, pp. 107-13.

8. Gesti antichi, arte moderna

Fa una torta

Fa una torta, fa una torta, / Fornaio! / Sì signore, / Più veloce che posso / (Batti prima le mani del bimbo poi le tue) / Battila e pizzicala / (Fai finta di battere e poi pizzicare la pasta) / E disegnaci sopra una B / (Disegna una B in aria) / Mettila in forno / Per il bimbo e per me / (Batti le mani del bimbo poi le tue)

Mamma Oca

Il linguaggio del corpo è usato in tutto il mondo, ma assume forme molto diverse nelle varie società umane. Molti gesti, ad esempio il sorriso, sono simili in tutte le società, mentre alcune forme di linguaggio del corpo sono specifiche di una data cultura (ricordo la sorpresa che provai quando a Portorico vidi per la prima volta qualcuno raggrinzire la bocca e spingerla di lato per indicare qualcosa di nascosto). Come abbiamo visto, il tono di voce o il linguaggio del corpo di una persona possono essere anche più importanti del significato letterale delle sue parole. Provate a pensare come sia spiacevole interagire con una persona dal tono di voce piatto e dal viso privo di espressione. I corpi umani in movimento sono fondamentali per la trasmissione delle informazioni, tanto che, secondo alcuni, il linguaggio emerse non dai richiami degli animali o dalle canzoni, ma dai gesti.

A un certo livello, l'idea appare persuasiva:1 per quanto molti primati comunichino regolarmente attraverso un misto di vocalizzazioni, espressioni facciali, pose e movimenti, solo gli esseri umani e le grandi scimmie antropomorfe sono in grado di gesticolare con le braccia, le mani e, nel caso delle scimmie, con i piedi.2 A seconda del contesto sociale e delle tradizioni di un gruppo particolare, gli scimpanzé possono stendere le mani in gesti di preghiera o pacificazione, alzare le braccia per fare avances sessuali, toccare gentilmente gli altri per chiedere un contatto fisico (ad es. l'allattamento o il sesso), o stringere le mani di altre scimmie sopra la testa per richiedere la spulciatura. Oranghi, gorilla e scimpanzé assumono più spesso di altre scimmie la posizione eretta e questo consente loro maggiore agio nel gesticolare con braccia e mani.3 Anche per questo motivo possono imparare, sia pur limitatamente, il linguaggio dei segni.4

Dato che le scimmie antropomorfe possiedono un ricco repertorio gestuale, si ritiene di solito che così fosse anche per i nostri antenati. Avendo assunto l'andatura eretta, e quindi avendo maggiore libertà di movimento con gli avambracci, ai nostri predecessori sarà risultato più facile gesticolare. Possiamo fare ulteriori congetture sul ruolo della gestualità nell'evoluzione del linguaggio studiando il linguaggio del corpo dei bambini piccoli, poiché, secondo l'idea base della «Haeckel Light», che ho discusso in precedenza, l'evoluzione di un individuo riflette in certa misura quella della sua specie. Come ogni genitore sa, i bambini usano dire «ciao» agitando le manine molto prima di imparare a parlare. Normalmente i bambini esibiscono i primi gesti tra i nove e i dieci mesi, spesso indicando col dito le cose, mentre i nomi delle cose compaiono di solito tre mesi dopo i rispettivi gesti indicativi.5 Questo potrebbe far pensare che le parole per indicare oggetti o azioni siano emerse dopo che i nostri antenati avevano già sviluppato la gestualità necessaria a indicarli.

Dopo aver iniziato a pronunciare parole singole (di solito fra i dieci e i quattordici mesi), i piccoli continuano a usare i gesti insieme alle parole: ad esempio indicano la tazza e dicono tazza.6 La combinazione gesto-parola per indicare un oggetto precede la combinazione gesto-parola che si riferisce a due diversi concetti, ad esempio indicare la tazza e dire succo. Quest'ultima combinazione compare prima di quella che riunisce due parole (tra i diciassette e i ventitré mesi).7 Per concludere, i cambiamenti nella gestualità non solo precedono, ma prevedono i cambiamenti di linguaggio. In altre parole, nei bambini i primi gesti spianano la via all'apprendimento del linguaggio.8

Che cosa c'è in un gesto?

Al contrario di quanto avviene per le parole, i gesti possono essere così chiari che uno può capirli (o inventarli) senza aver prima appreso il loro significato. Un collega di base a Portorico una volta mi raccontò di un suo amico, di lingua inglese, che in un ristorante voleva ordinare uova per colazione, ma non conosceva la parola spagnola corrispondente (huevos). Risolse il problema indicando la propria bocca e poi mettendosi in piedi, starnazzando come una gallina e agitando le braccia come se fossero ali; poi fece un rumore sordo (plop), abbassò la mano come per acchiappare un uovo immaginario, e lo «porse» alla cameriera. La cameriera capì perfettamente: la pantomima era così chiara perché il cliente usò i gesti (svolazzi, mani a coppa) e i suoni (starnazzare) che fisicamente assomigliavano a ciò che egli voleva rappresentare. I gesti che assomigliano alla loro controparte reale vengono definiti iconici, e in effetti l'iconicità ha avuto un ruolo importante nell'evoluzione della gestualità, ma anche nella presa di coscienza della lingua parlata e del linguaggio dei segni.9 Come vedremo più dettagliatamente nei paragrafi successivi, essa fu decisiva per la nascita delle arti visive e della scrittura. Il fatto che pochi animali non-umani usino l'iconicità dimostra che la sua nascita può aver determinato una svolta significativa nella comunicazione faccia-a-faccia dei nostri progenitori.10

Grazie al libero uso degli arti superiori, i gesti di braccia e mani saranno stati estremamente importanti per i nostri antenati nelle loro comunicazioni faccia-a-faccia. Alcuni dei gesti più antichi probabilmente furono iconici, con l'inserimento di elementi del linguaggio, in maniera analoga ai gesti con braccio e mano che si fanno oggi, che contengono «frasi embrionali».11 Ad esempio un gesto iconico che voglia dire «afferra» o «prendi» consiste nel chiudere le dita di una mano intorno all'indice teso dell'altra mano.12 Si tratta di un gesto dal chiaro significato, che inoltre contiene una frase: il soggetto (la mano che si muove), un verbo (afferra) e un complemento oggetto (l'indice teso).13 Gesti ugualmente chiari avranno fornito ai primi ominini una chiave visiva, successivamente sfociata nello sviluppo della sintassi. Come sappiamo, la sintassi fu fondamentale per la nascita del linguaggio.14

Possiamo fare le stesse osservazioni per il linguaggio gestuale dei bambini moderni. Tutti siamo in grado di interpretare il gesto di un bambino quando sta di fronte a un adulto e gli tende le braccia con fare supplicante: in questo caso il gesto e il contesto (la vicinanza di un adulto) contengono una frase embrionale: «(Tu) prendimi in braccio!». Quando il bambino comincia a parlare, aggiungerà quasi certamente a quel gesto la parola «su», formando una combinazione gesto-più-parola.

Ma non tutti i gesti sono iconici, e neppure particolarmente trasparenti. Adam Kenton, noto esperto del linguaggio del corpo, ha proposto di interpretare i gesti attraverso un passaggio graduale: partendo da quelli più vaghi che accompagnano il discorso (ad es. i cenni delle mani) fino ai gesti specifici e convenzionali del linguaggio protocollare dei segni.15 Da parte loro David Armstrong, William Stokoe e Sherman Wilcox sono d'accordo sul passaggio graduale, ma suddividono la gestualità umana in quattro categorie.16 C'è un livello base dei primati, che contiene gesti associati all'intimidazione (cercare di sembrare più grossi gonfiando il petto, allargando le braccia il più possibile), o alla sottomissione (stringere le braccia per sembrare più piccoli, tremare). La seconda categoria comprende i gesti universalmente noti a qualsiasi persona abbia familiarità con gli oggetti o i concetti ai quali essi si riferiscono ma che, al contrario dei primi, non possono essere compresi dai non umani (un buon esempio è il classico gesto con pollice alzato e indice teso a simulare una pistola). Il terzo livello comprende i gesti che non sono universalmente comprensibili, ma lo sono a tutti quelli che vivono in una data società, come nel caso succitato del segnale delle labbra raggrinzite usato a Portorico. Il quarto livello, infine, contiene i gesti convenzionali usati nel linguaggio dei segni per i non udenti, che non sono compresi da chi non abbia familiarità con questo linguaggio.17 Anche se il sistema di Armstrong, Stokoe e Wilcox comprende più categorie di quello di Kendon, tuttavia le due opinioni sono compatibili e sottolineano l'importanza della gestualità nella nascita del linguaggio.

La lingua dei segni per i non udenti risulta molto interessante per gli scienziati che cercano il legame tra il gesto e la nascita del linguaggio, perché essa è un linguaggio naturale a tutti gli effetti, con molte delle caratteristiche e dei limiti propri delle lingue parlate.18 Anche se sono troppo sofisticate per essere usate come modello per il linguaggio primordiale, le lingue dei segni forniscono affascinanti illuminazioni nel dibattito relativo alla natura fondamentale del linguaggio.19 Il pionieristico studio di Susan Goldin-Meadow e dei suoi colleghi sui bambini non udenti in America e in Cina, ad esempio, ha dimostrato che i bambini che non erano stati esposti al linguaggio dei segni avevano spontaneamente sviluppato una comunicazione gestuale, che presentava le caratteristiche formali della lingua parlata.20 Si tratta di scoperte che suggeriscono una innata capacità per il linguaggio, supportata da altre ricerche sulla gestualità e sulla lingua dei segni.

Negli ultimi trent'anni, ad esempio, è stata creata una nuova lingua dei segni per i bambini non udenti che vivono in Nicaragua.21 Prima che a Managua venisse aperta una scuola elementare speciale, nel 1977, la lingua dei segni non esisteva in Nicaragua: i bambini non udenti se ne stavano a casa, dove sviluppavano una gestualità individuale («segni casalinghi»), per comunicare con i propri familiari. Ma quando la scuola fu aperta, gli adolescenti non udenti cominciarono a concepire un semplice sistema gestuale mettendo insieme i loro diversi segni «casalinghi».22 In seguito il sistema nicaraguense si trasformò in un primitivo linguaggio dei segni (così come le parlate pidgin o creole possono diventare lingue a tutti gli effetti). Quella primitiva lingua dei segni, che successivamente divenne nota come nsl (lingua dei segni nicaraguense), fu poi trasmessa ai bambini più piccoli che entravano nella comunità, e mentre una seconda e una terza ondata di bambini la imparava, essi cominciarono a trasformarla in un sistema più complesso, che «rapidamente acquistò la natura discreta e combinatoria che è la caratteristica del linguaggio».23 Inoltre, «I bambini che erano arrivati alla metà degli anni ottanta divennero la seconda ondata di allievi creativi del nsl, presero il testimone laddove i primi gruppi l'avevano lasciato e apportarono dei cambiamenti che non furono mai completamente acquisiti dalla prima ondata, ormai adolescente. La differenza che oggi si riscontra tra il primo e il secondo gruppo di parlanti coi segni indica ciò che i bambini riescono a fare e che invece adolescenti e adulti non possono fare. Parrebbe che i procedimenti di dissezione, ri-analisi e ricombinazione siano meno accessibili dopo l'adolescenza».24 Quando si è giovani è molto più facile imparare una lingua con un perfetto accento, e la storia della lingua dei segni nicaraguense fa ritenere che la stessa cosa avvenga anche per l'invenzione delle lingue. Nel cap. 6 abbiamo ricordato il fatto che i giovani macachi giapponesi avevano una responsabilità centrale nella diffusione del metodo di lavaggio delle patate dolci e di altre invenzioni, poi ereditato dalle generazioni successive, e che questa notevole scoperta era compatibile con le simulazioni al computer di Jinyun Ke su come in epoca preistorica potrebbe essere nato il vocabolario. Alla luce di questi esempi, possiamo pensare che i bambini prei- -storici potrebbero avere avuto un ruolo cruciale nello sviluppo di un protolinguaggio, mediante l'invenzione e la diffusione di gesti e parole primitivi. Che cosa ci dicono dunque i gesti, e in particolare la lingua dei segni, sul maternese? Il primatologo Nobuo Masataka ha scoperto che alcune caratteristiche del maternese si riscontrano nelle lingue dei segni americana e giapponese quando vengono usate con neonati non udenti; come avviene nel maternese, i segni vengono mostrati ai bambini non udenti molto più lentamente, e in modo più teatrale e ripetuto, di quando ci si rivolge agli adulti non udenti. Sia i bambini udenti sia quelli non udenti preferiscono il linguaggio dei segni rivolto a loro che non quello rivolto agli adulti, il che conferma la conclusione di Masataka: «il maternese è la forma prevalente di linguaggio trasmesso ai bambini, sia con i segni sia con la parola».25 Ancora più sorprendente è il fatto che i bambini udenti che non sono mai stati esposti alla lingua dei segni giapponese preferiscano vederli nella sua versione maternese, facendoci pensare che la preferenza accordata dai bambini al maternese (sia con i segni sia vocale) possa essere innata.

Un altro dato sulla gestualità dimostra che la capacità umana per il linguaggio esiste anche in bambini non udenti piccolissimi: Laura Ann Petitto e i suoi colleghi di Dartmouth hanno registrato un'attività gestuale in due gruppi di neonati quando avevano sei, dieci e dodici mesi di età.26 Un primo gruppo era formato da tre neonati udenti che non avevano mai visto la lingua dei segni; nel secondo gruppo c'erano tre bambini udenti con genitori completamente sordi che non erano ancora stati esposti alla lingua parlata, ma avevano visto solo i gesti della lingua dei segni. I risultati furono straordinari: solo i neonati udenti di genitori non udenti «balbettavano» con le mani, muovendole in modo simile a quello degli adulti non udenti. A differenza dei neonati di genitori udenti, questi piccoli gesticolavano principalmente in uno spazio ristretto, che corrisponde allo spazio usato dagli adulti che usano la lingua dei segni.

Quelle piccole mani «balbettanti» sembravano passare attraverso una specie di «riscaldamento» prelinguistico, simile a quello della lallazione vocale che ho descritto nel capitolo 5. La «lallazione gestuale», come quella vocale, non ha significati specifici: i neonati che la praticano si limitano a fare dei movimenti (gesti) semplici e discreti, imitando anche il ritmo che hanno visto usare dagli adulti. Dopo aver imparato gli elementi gestuali, essi cominciano a formare i loro primi segni significativi. Superato lo stadio del segno singolo, i piccoli cominciano a combinare i segni per comunicare, mantenendo i ritmi appresi nel periodo della lallazione. Dato che i segni sono singole unità, essi possono essere combinati e ricombinati in un infinito numero di locuzioni - una caratteristica universale del linguaggio.

La ricerca sulla lingua dei segni è particolarmente importante perché rivela come i bambini privati del linguaggio, ma per il resto perfettamente normali, siano predisposti spontaneamente alla creazione di una lingua basandosi sull'osservazione della comunicazione che avviene intorno a loro. La procedura di apprendimento per questi bambini svantaggiati è simile a quella sperimentata dai bambini normali che imparano a parlare. I bambini non udenti nicaraguensi, che non avevano mai visto la lingua dei segni, estrapolarono dai gesti che vedevano negli altri gli elementi discreti più riposti, e in seguito cominciarono a unire questi elementi in sequenze, proprio come fanno i neonati quando balbettano e iniziano a combinare i loro primi segni o parole: Poiché la nsl è una lingua così recente, i suoi cambiamenti rivelano [due] meccanismi di apprendimento disponibili durante l'infanzia. [...] Il primo meccanismo è un approccio che seziona a segmenti la massa di informazioni [e spezzetta] degli interi precedentemente non analizzati. Il secondo meccanismo è una predisposizione all'ai-, lineamento in sequenza; le combinazioni sequenziali compaiono anche quando è fisicamente possibile combinare gli elementi in maniera simultanea, e a dispetto della disponibilità di un modello simultaneo. Secondo noi questi processi di apprendimento lasciano un'impronta sul linguaggio - che nei linguaggi maturi si può osservare nelle loro proprietà più interne, universali -, che include elementi discreti (quali parole e morfemi) combinati in costruzioni gerarchicamente organizzate (quali frasi e periodi).27

Alla luce delle evidenze della nsl, appare ragionevole supporre che, mentre i cervelli dei nostri antenati si ingrandivano e si evolvevano, i giovani preistorici svilupparono la capacità di ricavare elementari frammenti di informazione dalle espressioni degli altri, madri incluse. Probabilmente questi giovani accelerarono lo sviluppo del protolinguaggio, affinando rapidamente delle capacità subliminali, non solo nel percepire e analizzare i più piccoli movimenti o suoni, ma anche nell'imitarli e ricombinarli in sequenze significative, che poi diffusero tra i loro pari. Anche i bambini non udenti del Nicaragua, mentre sviluppavano la nsl inventarono spontaneamente un'ingegnosa sintassi (ad esempio per esprimere azioni simultanee).28 Sembra quindi probabile che la sintassi necessaria per accordare suoni e gesti sia emersa, in maniera naturale, mentre i bambini preistorici sviluppavano nuovi modi per comunicare.

Il ruolo dell'imitazione nella comprensione della mente altrui

Parlare richiede movimenti assai fini delle corde vocali, della gola, delle mascelle, delle guance, della lingua, della bocca e delle labbra. Il linguaggio dei segni include precisi movimenti delle dita, delle mani, delle braccia, delle spalle, della testa, della faccia, delle labbra e della lingua. A loro volta le percezioni sensoriali integrano i comportamenti dei muscoli motori, e il riconoscimento di oggetti o concetti precede la capacità di nominarli, parlarne oppure usarli.29 Tuttavia, come ha dimostrato la nascita dell'NSL, i bambini devono essere in grado non solo di riconoscere e imitare i comportamenti, ma anche di capire quello che gli altri vogliono da loro per sviluppare il linguaggio.

Secondo Andrew Meltzoff, che studia i neonati e i bambini piccoli, la capacità di imitare i movimenti aiuta i neonati a capire le intenzioni. Come hanno dimostrato Meltzoff e i suoi colleghi ricercatori, neonati di appena tre settimane possono imitare alcuni movimenti della lingua, delle labbra, della bocca e delle dita degli adulti. Secondo Meltzoff si tratta di un'abilità innata, e potrebbe avere ragione, dato che gli studi sui primati non umani farebbero pensare che l'abilità nell'imi-tare le espressioni facciali sia un tratto evolutivo antichissimo. Recenti ricerche dimostrano che, contrariamente a quanto ritenuto finora, i neonati di scimmie e scimmie antropomorfe sono in grado di imitare le espressioni facciali. A meno di sette giorni dalla nascita, uno scimpanzé sa imitare un essere umano che gli fa la linguaccia e apre la bocca, anche se perde questa abilità quando raggiunge i due mesi di età.30 Le scimmie rhesus (un tipo di macaco) a tre giorni sanno imitare la protrusione della lingua e lo schiocco delle labbra umane, ma smettono di farlo a due mesi di età.31 Pier Ferrari e i suoi colleghi dell'Università di Parma fanno notare che lo schiocco delle labbra è fondamentale per le interazioni positive fra i macachi, e ipotizzano che questo gesto imitativo dei neonati serva a rafforzare i legami tra madre e figlio e aiuti a preparare i piccoli alla vita sociale tra gli adulti. I ricercatori hanno anche constatato scambi di schiocchi tra le madri rhesus e i loro neonati.32

Secondo Meltzoff, l'imitazione da parte dei neonati umani dei comportamenti degli adulti, e la capacità da parte loro di capire che cosa quei comportamenti significano, alla fine porta a una più generale abilità di comprensione degli stati mentali altrui. È un tratto importante, perché la capacità di leggere le intenzioni e i sentimenti degli altri (nota formalmente come teoria della mente) è ritenuta importante per l'evoluzione della percezione umana. Dice Meltzoff: «Nell'ontogenesi, l'imitazione del neonato costituisce il seme, la teoria della mente dell'adulto è il frutto».33 Ma come fanno i bambini piccoli a imparare a leggere le intenzioni degli altri? Per rispondere a questa domanda, Meltzoff studiò i giovanissimi primati, neonati umani compresi. Nessuno di loro aveva mai visto la propria faccia, dato che «non ci sono specchi nel ventre materno».34 Anche se non possono osservare i loro movimenti facciali, essi sono tuttavia in grado di sentirli. Così quando un neonato imita l'atto di un adulto, egli associa l'osservazione visiva dell'adulto con il senso soggettivo di compiere quel gesto, e tale associazione viene immagazzinata nella sua memoria.

Meltzoff crede che i neonati nascano con la capacità di riconoscere la relazione tra i gesti che vedono e quelli che fanno, e ciò permette loro di tracciare la relazione tra la loro esperienza motoria e quella mentale. Lo stesso procedimento consente ai bambini di inferire le esperienze altrui. Egli spiega: «quando i bambini vedono gli altri agire "come me", essi concludono che gli altri abbiano la stessa esperienza mentale che è inerente a quegli stati comportamentali nel sé».35 Un importante risultato di questa ricerca consiste nella scoperta che nei bambini la percezione e la produzione di comportamenti motori sono intrecciate. Meltzoff pensa che lo stesso tipo di processo - quella cosa-è simile-a come-que-sta-mi fa sentire - aiuti i bambini a sviluppare una teoria della mente che incorpora i sensi visivi, tattili e motori.36 Come abbiamo visto, il maternese presenta delle espressioni facciali esagerate, e queste espressioni sono forse più facili da imitare e intuire per i bambini. Se così fosse, il maternese non solo aiuterebbe i piccoli ad apprendere il linguaggio, ma contribuirebbe anche a far affiorare la capacità di intuire gli stati mentali degli altri.

Prima della nascita del linguaggio, i nostri antenati dovettero sostituire molte delle loro forme di comunicazione scimmiesca con gesti e simboli che potessero essere imitati, ricombinati e usati per generare una serie di significati. Merlin Donald, della Case Western Reserve University, pensa che gli ominini non possano aver raggiunto questo stadio prima di essere riusciti ad affinare o programmare la loro capacità motoria.37 Prima di sviluppare delle varianti di ogni azione, incluso quindi il linguaggio, è necessario fare delle prove, osservare e ricordarne le conseguenze, poi ripetere e perfezionare l'atto e perfezionarlo alla luce dei risultati precedenti.38 Questo meccanismo, che Donald chiama «ciclo di ripetizione» (rehearsal loop), somiglia alla descrizione fatta da Meltzoff dell'imitazione motoria nei bambini molto piccoli. Sempre Donald fa notare che un requisito indispensabile allo sviluppo del pensiero simbolico è «una comunità di cervelli in interazione» in grado di produrre nuovi modelli di rappresentazione collettiva. Tale «comunità di cervelli» era presente tra i bambini sordi del Nicaragua.39

Donald e Meltzoff argomentano, in modo convincente, che i progressi nelle comunicazioni intenzionali dei nostri antenati non si limitavano a una sola modalità, ma includevano numerosi comportamenti. I cicli di ripetizione di Donald sarebbero stati importanti per la nascita di una serie di comportamenti culturali, ivi compresi il canto, la danza, i rituali e, naturalmente, il linguaggio:

L'elemento più importante è certamente la capacità di rivedere coscientemente le proprie azioni, così da poter fare con esse degli esperimenti. La sperimentazione sistematica e ripetitiva dell'azione è abbastanza evidente nel primitivo sviluppo umano, specialmente nella lallazione infantile, inclusa quella manuale. Non sarebbe esagerato dire che questa capacità è puramente umana e costituisce il retroterra dell'intera cultura umana, linguaggio incluso.40

Gesti, voci e origini del linguaggio

Sarà utile ora fare il punto di quanto abbiamo appreso finora: la comunicazione umana non si basa solo sulla voce, ma è in buona parte basata sulla gestualità. Che si tratti dell'inarcarsi di un sopracciglio, del guizzo di un'occhiata, di un'alzata di spalle, di un frullare delle mani o del battere di un piede, si tratta comunque di fonti di potenziali informazioni sullo stato mentale di chi compie quei gesti. Nel caso delle scimmie antropomorfe, il significato di tali gesti è di carattere generale più che simbolico o linguistico. La comunicazione umana è andata ben al di là, grazie alla nostra eccezionale abilità nell 'inventare e nel condividere una varietà infinita di sequenze significative, e di usarle per comunicare simbolicamente con gli altri. Complementare a questa incredibile capacità è l'abilità di capire le comunicazioni simboliche. Man mano che queste capacità si evolvevano, i nostri progenitori sviluppavano anche quella di intuire gli stati mentali degli altri: la teoria della mente.

Come ho fatto notare in precedenza, una scuola di pensiero ritiene che il linguaggio si sia evoluto dalla gestualità piuttosto che dai richiami dei primati o dai canti. Questa ipotesi, portata alle sue estreme conseguenze, indicherebbe che il primo vero linguaggio fosse una lingua dei segni, che sarebbe stata poi soppiantata, in qualche modo, dalla parola. Ciò pare tuttavia improbabile, specialmente considerando la sfaccettata natura dell'odierna comunicazione; il linguaggio è estremamente complesso, racchiude una vastissima varietà di gesti e di vocalizzazioni, e non c'è ragione di pensare che, mentre il linguaggio dei nostri antenati si evolveva, una di queste modalità abbia avuto la priorità sull'altra.

Anche Sherman Wilcox, un importante esperto di linguistica e lingue dei segni, sostiene che il dibattito tra chi sostiene che il linguaggio scaturisca dai gesti e chi punta sulla vocalizzazione si basa su un'inutile dicotomia; data l'abbondanza di prove che dimostrano il legame oggi esistente tra discorso e gesto, egli fa osservare che le due cose non possono essere separate in una ricostruzione evoluzionistica delle origini del linguaggio. Noi usiamo movimenti sottilmente controllati per trasmettere informazioni, sia quando gesticoliamo, sia quando cantiamo o parliamo. Si potrebbe dire, allora, che tutte le lingue hanno natura fondamentalmente gestuale.41 Quindi: «la straordinaria capacità umana di acquisire e usare il linguaggio senza tener conto della modalità non dipende da un astratto sistema di regole disincarnate; al contrario, il linguaggio umano è una manifestazione evolutiva altamente specializzata di un complesso gestuale multi-modale».42

Conformemente a questa teoria, allora, il maternese sarebbe molto più complicato di un mero «linguaggio infantile» o «linguaggio musicale». Non solo le madri parlano con i loro bambini in modo speciale, ma il linguaggio del loro piccolo è anche accompagnato da gesti speciali. Ad esempio, le madri americane e italiane usano una forma di maternese nei gesti stessi, che sono più semplici e meno astratti e che servono a destare e ad attirare l'attenzione dei bambini su un oggetto particolare.43 Quando insegnano ai loro piccoli i nomi degli oggetti, le madri europee, americane e ispaniche parlano, muovono l'oggetto in questione e con esso toccano il corpo dei loro bambini.44 Questi gesti speciali rafforzano il significato delle loro parole. Il baby talk è strettamente associato all'espressione facciale delle madri, che forniscono ai neonati informazioni ulteriori sul messaggio verbale.45

A loro volta i gesti e le espressioni facciali dei bambini danno alle madri indizi sul loro grado di attenzione e sul loro stato emotivo. Prima che i piccoli pronuncino le loro prime parole, i loro gesti intenzionali, come l'indicare, possono essere accompagnati da vocalizzazioni non verbali, come strilli o grugniti.46 Crescendo, i neonati usano sempre più una combinazione di gesti e vocalizzazioni per raggiungere obiettivi ben precisi (piuttosto che esprimere emozioni), e ciò mette in rilievo l'importanza dei due elementi per lo sviluppo del linguaggio.47 Quando sono sui quindici mesi di età, ad esempio, i bambini accompagnano con la vocalizzazione la maggior parte delle loro indicazioni intenzionali e delle loro richieste.48 La vocalizzazione, insieme alla gestualità, prepara le capacità verbali (linguistiche) nascenti dei neonati. Infine il maternese, al pari dei sostegni imitativi dei linguaggi vocali e segnici, usa molteplici modalità, e io credo che si sia evoluto in maniera crescente dai gesti e dalle vocalizzazioni dei nostri antenati fino ad arrivare alla sua sfaccettata forma moderna.49 Oggi il maternese aiuta i bambini non solo a imparare le loro prime parole, ma li stimola ad affinare le capacità imitative necessarie per acquisire le parole e la teoria della mente.

Contrariamente agli scimpanzé, i piccoli dell'uomo a un certo punto cominciano a usare i gesti per parlare di idee o di oggetti che non sono presenti, e le loro vocalizzazioni diventano indispensabili per trasmettere le intenzioni che stanno dietro ai gesti.50 La nostra propensione a vocalizzare intorno a idee esterne o astratte (invece che su idee principalmente autoreferenziali) potrebbe essere iniziata quando le madri dei primi ominini cominciarono ad appoggiare a terra i loro neonati per la raccolta del cibo. Quando madri e figli cominciarono a sostituire la voce agli abbracci e al cullare, si passò, per le brevi distanze, alla comunicazione vocale. Così, per la prima volta nella preistoria, i bambini molto piccoli furono abitualmente separati dalle madri, diventando parte del mondo esterno. Tali separazioni potrebbero aver portato alla nascita di gesti intenzionali riguardanti eventi esterni o idee.

Arte congelata

Proprio come la musica contemporanea sembra essersi evoluta dai richiami emozionali dei nostri antichi progenitori, così, secondo evidenza, i disegni e le pitture sarebbero nati dal primitivo sistema gestuale. Dato che dipendono da azioni applicative (gesti), in quanto usano colori o altri mezzi per catturare e trasmettere immagini statiche, è lecito affermare che le arti visive danno corpo a gesti congelati. In effetti il fiorire delle abilità artistiche dei bambini richiede gli stessi elementi basilari del processo multimediale che contribuisce alle loro capacità di comunicazione verbale, gestuale e musicale. In seguito ci occuperemo del modo in cui il loro sviluppo artistico possa essere paragonato alla nascita delle capacità artistiche nell'evoluzione umana.

Tanto per cominciare, i bambini tra i diciotto mesi e i due anni di età iniziano a esercitarsi in quelle abilità motorie che li porteranno poi a disegnare o dipingere: un procedimento simile alla lallazione prelinguistica vocale e gestuale, ma ottenuto, in questo caso, con gli scarabocchi. Attraverso la lallazione e gli scarabocchi i bambini non intendono rappresentare qualcosa di definito. Essi semplicemente perfezionano la loro coordinazione motoria muovendo i pennarelli con ritmo regolare.51 Come riferiscono Glyn Thomas e Angele Siile, questi scarabocchi, lungi dall'essere sgorbi senza costrutto, dimostrano un equilibrio visivo e, in seguito, un crescente coordinamento tra l'occhio e la mano.52

Anche i giovani scimpanzé scarabocchiano.53 Sia i bambini sia gli scimpanzé vengono completamente assorbiti e sembrano trarre soddisfazione da questa attività. La principale differenza tra le scimmie e i bambini consiste nel fatto che le prime restano a quello stadio, mentre i bambini procedono verso la produzione di disegni più realistici.

I bambini si sviluppano, e così fanno i loro scarabocchi. Verso i due anni e mezzo i piccoli cominciano a interpretare i loro scarabocchi finiti come disegni, a volte pieni di fantasia.54 Gradualmente fra gli scarabocchi cominciano a comparire delle linee separate, dei puntini, dei cerchi tremolanti. Proprio come quando combinano le parole e i gesti, essi inseriscono queste forme emergenti nei loro primi disegni, che appaiono significativi agli occhi degli adulti. Questo capita quando hanno fra i tre e i quattro anni: dapprima capita spesso che non riescano a combinare le parti dei loro disegni in modo che vengano riconosciuti dagli adulti: ad esempio nei disegni che ritraggono delle persone, le parti che formano il corpo non sono attaccate al medesimo (per verificarlo andate a vedere gli sportelli del frigorifero dei vostri conoscenti che hanno figli piccoli). Ben presto tuttavia i bambini imparano a disegnare immagini più coordinate, proprio come hanno iniziato a connettere le parole o i segni per formare frasi appropriate.

In effetti i primi disegni dei bambini ritraggono persone spesso costituite, in un modo che suscita tenerezza, da un cerchio per la testa (con o senza segni per gli occhi, il naso o la bocca) e da due linee penzolanti per le gambe.55 A questo stadio le braccia, quando vengono disegnate, di solito fuoriescono dalla testa. Inoltre, attraverso culture diverse si vede ricorrere, nei disegni infantili, una ben precisa serie di figure. Anche se la figura umana sembra la più popolare, i giovani artisti di tutto il mondo sembrano essere attirati anche dalle case e dagli animali.56

Le figure di base vengono man mano combinate e ricombinate fino a produrre una infinita varietà di immagini sempre più realistiche, un risultato straordinariamente simile a quel che succede dopo che i bambini si sono impadroniti di un certo numero di parole o di segni. Secondo Thomas e Silk, i bambini europei e nordamericani tra i cinque e gli otto anni di età spesso fanno disegni «ai raggi X» (ad esempio ritraendo il futuro neonato nel grembo della madre). Intorno agli otto anni, però, i bambini tendono a produrre immagini più realistiche, che presentano senso della prospettiva, congrue proporzioni e particolari punti di vista. Attorno a questa età molti bambini cominciano ad adottare stili di disegno convenzionali, e spesso si sentono insoddisfatti della loro arte, che abbandonano per altre forme di espressione.57

Non è un compito facile combinare semplici forme e linee per creare un disegno; servono pianificazione, punto di vista, ordine di esecuzione.58 Lo sviluppo artistico nei bambini richiede abilità di elaborazione sequenziale e la capacità di trasformare elementi visuali in immagini intenzionali, proprio come richiesto dall'acquisizione del linguaggio. Altro punto di contatto con l'apprendimento del linguaggio: sembra che i bambini molto piccoli quando fanno dei ghirigori intuiscano alcuni aspetti del disegno prima di essere fisicamente in grado di disegnare.59 Kyoko Yamagata, della Università Kanazawa, analizzò i procedimenti che guidavano l'emergere del disegno naturalistico in ottantasette bambini da uno a tre anni di età; e scoprì che, se si dava loro un semplice profilo della faccia di un essere umano o del muso di un animale e si chiedeva loro di colorarlo, i bambini già a diciotto mesi erano in grado, almeno fino a un certo punto, di colorare i singoli elementi, occhi naso bocca, anche se non avrebbero potuto riprodurre tali rappresentazioni senza il modello. Yamagata concluse che «la comparsa del disegno naturalistico durante la fase degli scarabocchi nasce da un procedimento che consiste nello scegliere e disegnare le parti di un tutto e nell'acquisire un metodo atto a organizzarle».60 Così, come nel caso della comprensione di un discorso, anche la capacità di afferrare il potenziale simbolico del disegno sembra emergere nei bambini prima che le loro capacità motorie si sviluppino.

Ghirigori nella polvere

Per molti anni gli studiosi si sono chiesti come e quando apparvero le capacità artistiche dei nostri antenati. Alcuni archeologi pensano che l'arte sia sbocciata intorno ai quarantamila anni fa - durante la Prima età della Pietra o nel Paleolitico superiore -, in un «big bang» o «esplosione creativa» seguiti a un mutamento genetico e/o neurologico relativamente improvviso nell'Homo sapiens. Essi sono anche d'accordo con alcuni linguisti che ritengono che il linguaggio non sia derivato dal sistema dei richiami degli antichi primati, ma sia emerso improvvisamente e in tempi relativamente più recenti. Da parte loro, questi linguisti spesso difendono l'ipotesi che il linguaggio sia emerso in epoca relativamente più recente, e portano a esempio l'arte europea delle caverne del Paleolitico superiore. Invece i gradualisti come me (l'ho già detto in questo capitolo) pensano che le capacità artistiche si siano evolute lentamente insieme al linguaggio, nel corso di migliaia di anni.

L'artista e insegnante Susan Rich Sheridan, ad esempio, pensa che le capacità artistiche si siano evolute molto tempo fa all'interno di una struttura multimediale, profondamente radicata nelle interazioni fra le madri e i loro neonati.61 La Sheridan immagina che i bambini piccoli che cominciavano a muovere i primi passi, una volta messi a terra dalle madri si siano messi a tracciare una specie di ghirigoro preistorico «scarabocchiando nella polvere». Secondo lei, i bambini contemporanei producono segni simili a quelli che facevano i primi ominini quando scarabocchiavano o disegnavano. Usando come modello lo sviluppo spontaneo dei disegni dei bambini, la Sheridan ipotizza che «i primi ominini al principio scarabocchiassero, in un secondo tempo facessero disegni appena abbozzati, quindi passassero al disegno naturalistico basato sull'osservazione, per arrivare poi a inventare i numeri, le lettere, l'algebra, i calcoli e la notazione musicale».62 Anche se non c'è modo per verificare se i bambini degli ominini facessero effettivamente degli scarabocchi nella polvere (un'ipotesi suggestiva, comunque), possiamo però studiare le registrazioni archeologiche per avere grosso modo un'idea della sequenza in cui le capacità artistiche potrebbero essere emerse.63

Non c'è bisogno di dire che i nostri antichi progenitori non disegnavano né dipingevano su materiali che durassero tanto a lungo da poter essere appiccicati allo sportello del frigorifero. I nostri indizi li dobbiamo cercare nelle rocce modellate o nei manufatti fossili. Nella documentazione archeologica non ci sono grandi tracce di questi manufatti prima di due milioni e mezzo di anni fa. Ma certamente agli ominini, prima di quel periodo, non sarà mancato il senso estetico. Per lo meno verso i tre milioni di anni fa, gli australopitecini avevano preso l'abitudine di collezionare fossili, cristalli o sassi dalla forma interessante, e di riportarli nel luogo dove vivevano (questi manufatti sono noti come manuport).64 I nostri antichi progenitori sembra avessero un interesse per le rocce rossastre. Quel colore era il favorito anche degli ominini che vissero più di un milione di anni fa nella Gola di Ol-duvai, in Tanzania, i quali collezionavano pezzi di ocra rossa (un pigmento naturale che può essere usato per segnare le rocce; col tempo l'ocra, di vari colori, divenne un mezzo importante di espressione artistica in molte parti del mondo). I primi esempi di manufatti che potrebbero essere associati alla nascita del senso estetico sono gli utensili di pietra. All'inizio si trattava di rozzi pezzi di roccia, ma essi andarono via via raffinandosi nel corso del Paleolitico. Nonostante la loro natura funzionale (spesso legata al cibo), alcuni di essi fanno pensare che, già più di due milioni di anni fa, i nostri antenati apprezzassero in certa misura la simmetria, l'equilibrio e la levigatezza. I primi utensili africani, ad esempio, comprendevano pietre sferoidali che secondo alcuni archeologi venivano usate come martelli. Un esperto di arte preistorica, James Harrod, fa tuttavia notare che questi oggetti sferoidali sono troppo larghi per poter essere usati a quello scopo, e ipotizza che, almeno in questi casi, siano semplicemente piaciuti dal punto di vista estetico. In ogni caso gli artefici dei più antichi utensili di pietra conosciuti avevano senza dubbio la capacità produttiva, l'abilità manuale e l'inclinazione necessarie a scolpire le pietre, seppure in maniera rozza, compiendo così un enorme balzo in avanti rispetto ai loro progenitori scimmieschi.

I primi utensili di pietra dei più antichi ominini erano abbastanza robusti da durare per milioni di anni. Dato che la maggior parte dei più antichi sforzi creativi degli ominini, essendo stati fatti su materiali meno durevoli, si saranno disintegrati molto tempo fa, sarebbe un errore presumere che, nel caso dell'insorgere dell'arte, «la mancanza di evidenza è evidenza di mancanza». Altrettanto irragionevole sarebbe credere che l'arte più antica a noi nota sia anche quella apparsa per prima. Al contrario, le prime date a noi note relative a manufatti od oggetti artistici non sono altro che le date più recenti rispetto al momento in cui quegli oggetti devono essere apparsi. Non è possibile sapere quanto tempo prima di quelle date siano comparsi i primi esempi di manufatti o di arte, e d'altronde spesso quelle date vengono riviste alla luce di nuove scoperte.

Facciamo un esempio. Alcuni dei più antichi esempi conosciuti di incisioni rupestri sono quelli della cosiddetta Auditorium Cave di Bhimbetka, in India, risalenti a circa trecentomila anni fa.65 La cupoletta e la linea serpeggiante dell'illustrazione sono state deliberatamente incise, e ciò ha richiesto intenzionalità, abilità manuale e tempo. Non sapremo mai che cosa significassero questi petroglifi per i loro artefici, ma i due segni sono simili ai primi disegni di molti bambini contemporanei.66 Forse i nostri progenitori cominciarono spontaneamente a fare questi segni ben modellati, oppure furono preceduti da primitive, più rozze forme d'arte, più vicine magari agli scarabocchi dei bambini in via di sviluppo? Una testimonianza archeologica del Paleolitico inferiore, proveniente dal sito dell'Homo erectus di Bilzing-sleben, in Germania, e risalente a tre-quattrocentomila anni fa, suggerirebbe quest'ultima ipotesi.67 Bilzingsleben è un sito eccezionalmente ben conservato e ha rivelato oltre centomila manufatti, tra cui bastoni di legno, punte levigate in osso e una serie di ossa incise provenienti da grossi mammiferi, ad esempio elefanti.68

Molte delle incisioni sulle ossa di Bilzingsleben raffigurano linee multiple che convergono, divergono o, in alcuni casi, rimangono parallele. Alcune ossa sono incise con archi, archi doppi e linee ad angolo retto. Questi disegni, nell'insieme, appaiono semplici e geometrici. Robert Bednarik, illustre studioso di arte preistorica, ha confrontato i segni di Bilzingsleben con alcuni esemplari incisi provenienti da siti europei e di altri luoghi, e risalenti al medio Paleolitico. Questo periodo dell'Età della pietra va approssimativamente dai trecento ai quarantamila anni fa. Bednarik vede una «evoluzione grafica» nel fatto che molte linee, nei reperti più antichi, convergono verso schemi in cui gruppi di linee sono intenzionalmente congiunti.69 Egli ha anche notato che «tutti i disegni del Paleolitico inferiore e medio assomigliano ai moderni scarabocchi, sono cioè spontanei e inconsci. Lo scarabocchiare contemporaneo, il cui valore scientifico rimane del tutto ignorato, potrebbe avere le sue radici neuropsicologiche nella nostra primitiva storia cognitiva».70

Bednarik ha studiato i più antichi reperti di segni intenzionali in tutto il mondo, e ha notato, con sorpresa, che ovunque compaiono gli stessi disegni geometrici, che comprendono linee semplici, cerchi, puntini, ghirigori, «chiocciole», incroci di linee e così via. Gli esseri umani sono sensibili in special modo a questi cosiddetti «motivi a fosfene»: si tratta di una sensazione luminosa che insorge per la compressione dei bulbi oculari, dovuta a stimolazione meccanica dei recettori retinici, e usata per provocare altri stimoli visivi più complessi e dinamici.71 Potreste aver sperimentato immagini a fosfene dopo aver premuto sulle palpebre chiuse, o quando avete «visto le stelle» dopo esservi alzati da terra troppo in fretta, o dopo aver preso un colpo in testa (a me capita periodicamente di vedere una serie impressionante e colorata di queste immagini durante le emicranie accompagnate da disturbi visivi).

Dopo aver scoperto che i disegni fosfenici compaiono ripetutamente sia nella più antica arte preistorica sia nei primi disegni dei bambini,72 Bednarik suggerì che

la produzione di segni quasi artistici cominciò con quei motivi, sia nell'individuo moderno sia in tutta la specie. E stato rilevato che tutti i disegni dei bambini, fino alla comparsa nei loro lavori dell'iconicità (a circa quattro anni di età), consistono in un limitato repertorio di motivi fosfenici (Kellogg e al. 1965). Ho scoperto che lo stesso avviene per tutti gli elementi decorativi anteriori alla comparsa delle pitture figurative «pre-istoriche» [...]. Tutte le scoperte degli ultimi ventisei anni hanno direttamente confermato la mia ipotesi dei fosfeni, e nessuna teoria contraria ha superato la prova del tempo.73

La tabella dei fosfeni riprodotta qui sopra fu pubblicata da Bednarik nel 1984.74 Da allora sono avvenute molte nuove scoperte, e alcuni degli spazi vuoti sono stati riempiti. Anche se si tratta di una tabella vecchia di venticinque anni, l'ho inserita qui perché penso che Bednarik avesse ragione. Vale la pena notare che le sue idee sull'insorgenza dei motivi fosfenici durante la preistoria sono conformi alla teoria della Sheridan secondo cui i bambini degli antichi ominini scarabocchiavano per terra. Naturalmente, i disegni fosfenici non sparirono dalle registrazioni archeologiche dopo la comparsa dei disegni naturalistici; al contrario, il «portfolio» degli ominini si arricchì col tempo, includendo nuovi generi di arte. I nostri progenitori continuarono a incidere o dipingere sulle rocce e a fare statuette, e più tardi iniziarono a forgiare gioielli e utensili sempre più belli. I soggetti artistici preferiti, sorprendentemente, erano simili a quelli dei bambini di oggi, in tutto il mondo: esseri umani (spesso di sesso femminile) e animali.73

La candidata al titolo della più antica immagine iconica conosciuta al mondo, che potrebbe rappresentare una figura umana, proviene da Oldisleben, in Germania. È incisa su un osso, e si è calcolato che risale da centotrenta a centomila anni fa.76

Nel Paleolitico superiore in Europa (da quaranta a diecimila anni fa) numerose caverne contenevano immagini di disegni geometrici, figure mitiche o umane, stampini di mani e, più drammaticamente, di molti animali.77 A quel tempo predominavano statuette portatili, molte delle quali di donne formose, «le veneri paleolitiche».78 Furono ritrovati anche ossa incise e utensili in corna di cervo. La stupefacente e improvvisa modernità dell'arte sono una delle ragioni per la quale alcuni sostengono che in quel periodo ci fu una repentina esplosione artistica in Africa e in Europa. Tuttavia vengono spesso ignorati i primi bagliori di abilità artistica al di fuori dell'Africa, sebbene essi siano archeologicamente registrati.79 In effetti le prove accumulate di cui abbiamo parlato prima indicano che i nostri antenati, nel lungo percorso dell'evoluzione, svilupparono gradatamente una sempre più complessa capacità di espressione artistica, come capitò per il linguaggio e la musica.

Le piccole impronte e gli stampini delle mani nelle numerose grotte che contengono l'arte preistorica ci dicono che lì c'erano dei bambini, e alcuni scienziati sono convinti che proprio loro abbiano avuto un ruolo, più importante di quanto si sia creduto, nella creazione dell'arte cavernicola.80

Probabilmente, come nel caso dell'evoluzione dei gesti e del linguaggio, i bambini potrebbero aver svolto un ruolo cruciale nello sviluppo della sensibilità artistica umana, e le recenti intuizioni sulla gestualità dei bambini potrebbero avere implicazioni pratiche per i genitori moderni. Come ho fatto notare all'inizio di questo libro, la mia amica Betsy insegna ai bambini udenti, oltre alla lingua parlata, anche il linguaggio dei segni, una tendenza oggi popolare tra i genitori: «L'insegnamento di semplici gesti, o segni, ai bambini che non hanno ancora imparato a parlare è un modo per accelerare il processo di apprendimento del linguaggio e della comunicazione, stimolando in loro lo sviluppo intellettuale. Secondo chi lo propone, può anche fornire un grande numero di benefici collaterali, come un arricchimento del vocabolario, un più stretto legame tra genitore e figlio, un aumento delPautostima e una diminuzione dei capricci durante il "Terribile secondo anno"».81

Questa idea di anticipare le capacità comunicative nei bambini sottolinea un punto importante: anche se abbiamo trattato gli argomenti riguardanti l'apprendimento di capacità linguistiche, musicali e artistiche (e la loro comparsa durante l'evoluzione) in capitoli separati, è importante tenere a mente che queste abilità nei neonati si sviluppano contemporaneamente e che dipendono dalla maturazione di analoghe crescite neurologiche. Abbiamo sottolineato quanto sia importante che madri e padri parlino e cantino con e per i loro bambini, ma i genitori possono incrementare le capacità comunicative dei figli incoraggiandoli a scarabocchiare, disegnare, pitturare con le dita e raccontare delle storie attraverso la loro arte.82 Queste espressioni artistiche e gestuali sono rese possibili dalle complesse connessioni che si sviluppano mentre il bimbo cresce.

Le complesse interconnessioni presenti nel cervello umano sono a loro volta un prodotto dell'evoluzione cerebrale. E questo l'argomento del nostro ultimo capitolo.

Note

1 Per uno studio classico sull'ipotesi della gestualità cfr. Gordon W. Hewes, Primate Communication and the Gestural Origin of Language, «Current Anthropology», XIV, 1973, pp. 5-24.

2 Cfr. Amy S. Pollick e Frans B. M. de Waal, Ape Gestures and Language Evolution, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», CIV, 19, 2007, pp. 8184-89.

3 Cfr. Dean Falk, Primate Diversity, Norton, New York 2000, p. 203.

Per una discussione del tema cfr. Id., Braindance, n. ed., University of Florida Press, Gainesville 2004.

5 Cfr. Jana M. Iverson e Susan Goldin-Meadow, Gesture Paves the Way for Language Development, «Psychological Science», XVI, 5, 2005, pp. 367-71.

6 Cfr. Patricia M. Greenfield e Joshua H. Smith, La struttura della comunicazione nelle prime forme del linguaggio infantile, Piccin, Padova 1978 (ed. or. 1976).

7 Cfr. Iverson e Goldin-Meadow, Gesture Paves the Way for Language Development cit.

8 Cfr. ibid.

9 Cfr. David F. Armstrong, William C. Stokoe e Sherman E. Wilcox, Signs of the Origin ofSyntax, «Current Anthropology», XXXV, 4, 1994, pp. 349-71.

10 Cfr. ibid.

11 Ibid., p. 355.

12 Ibid.

13 In termini linguistici più formali il soggetto, il verbo e il complemento oggetto sarebbero definiti agente, azione, paziente.

14 Cfr. Armstrong, Stokoe e Wilcox, Signs of the Origin of Syntax cit.

15 Cfr. Adam Kendon, How Gestures Can Become Like Words, in Fernando Poyatos (a cura di), Crosscultural Perspectives in Nonverbal Communication, Hogrefe, Toronto 1988, pp. 131-41.

16 Cfr. Armstrong, Stokoe e Wilcox, Signs of the Origin ofSyntax cit., p. 350.

17 Nei loro quattro livelli Armstrong, Stokoe e Wilcox includono anche i gesti vocali, ma questi sono marginali per il nostro argomento, che per il momento si focalizza sui gesti non vocali.

18 Per un'analisi cfr. Nobuo Masataka, Onset of Language, Cambridge University Press, Cambridge 2003, cap. 7.

19 Ci sono anche delle differenze. In particolare lo spazio di fronte al corpo dei due che parlano con i segni (spazio del segno) gioca un ruolo speciale nella grammatica di quella lingua.

20 Cfr. Susan Goldin-Meadow e Carolyn Mylander, Spontaneous Sing Systems Created by DeafChildren in Two Cultures, «Nature», 391, 6664, 1998, pp. 279-81.

21 Cfr. Ann Senghas, Sotaro Kita e Asli Ozyùrek, Children Creating Core Proper-ties o/Language. Evidence from an Emerging Sign hanguage in Nicaragua, «Science», 305, 5691, 2004, pp. 1779-82.

22 Un processo simile avviene nella formazione del pidgin parlato, che incorpora parole di due diverse lingue.

23 Senghas, Kita e Özyürek, Children Creating Core Propertìes of Language cit., p. 1781.

24 Ibid.

25 Nobuo Masataka, Perceptions of Motherese in Japanese Sign Language by 6-Month-Old Hearing Infanti, «Developmental Psychology», XXXIV, 2, 1998, p. 241.

26 Cfr. Laura Ann Petitto, Siobhan Holowka, Lauren E. Sergio e David Ostry, Language Rhythms in Baby Hand Movements, «Nature», 413, 6851, 2001, pp. 35-36.

27 Senghas, Kita e Òzyurek, Children Creaiìng Core Properties o) Language cit.,

p. 1781.

28 Cfr. ibid.

29 I neuroscienziati hanno da tempo distinto le divisioni dell'intero sistema nervoso (incluso il cervello) in sistema sensoriale e sistema motorio (anche se i due sono connessi e a volte si sovrappongono). In generale i sistemi sensoriali sono localizzati dietro i sistemi motori, ma, di nuovo, ci sono delle sovrapposizioni.

30 Cfr. Masako Myowa-Yamakoshi, Masaki Tomonaga, Masayuki Tanaka e Tetsuro Matsuzawa, lmitation in Neonata!Chìmpanzees («Pan troglodytes»), «Develop-mental Science», VII, 4, 2004, pp. 437-42.

31 Cfr. Pier F. Ferrari, Elisabetta Visalberghi, Annika Paukner, Leonardo Fogassi, Angela Ruggiero e Stephen J. Suomi, Neonatal lmitation in Rhesus Macaques, «PLoS Biology», IV, 9, 2006, e302.

32 La precoce imitazione di gesti da parte dei primati neonati è molto interessante alla luce della sorprendente scoperta che i macachi hanno nel cervello delle cellule che si accendono non solo quando la scimmia si impegna in una specifica azione (come quella di accedere al cibo), ma anche quando la scimmia vede qualcun altro comportarsi in modo identico (cfr. Giacomo Rizzolatti e Laila Craighero, The Mir-ror-Neuron System, «Annual Review of Neuroscience», XXVII, 2004, pp. 169-92). Poiché l'attività di queste cellule rispecchia il comportamento di altri individui, esse vengono chiamate neuroni specchio. E non si limitano alla vista: le scimmie hanno anche neuroni specchio uditivi che si accendono quando esse producono un suono particolare o sentono un altro individuo produrre quel suono, ad esempio strappare un pezzo di carta. Anche gli esseri umani hanno neuroni specchio, e queste cellule speciali sono di grande interesse per i biologi evoluzionisti (ne parliamo più diffusamente nel cap. 9): cfr. Dean Falk, Prelinguistic Evolution in Early Hominins. Whence Motherese?, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, pp. 491-541. In effetti vari ricercatori hanno ipotizzato che i neuroni specchio forniscano una base neurologica per interpretare le azioni altrui e facciano parte di una rete di azione-percezione che facilita sia la mimica facciale sia i gesti manuali, nonché (almeno nel caso degli esseri umani) l'emergente comunicazione linguistica fra madri e figli.

33 Andrew N. Meltzoff e Jean Decety, What Imitation Tells Us About Social Cog-nition. A Rapprochement Between Developmental Psychology and Cognitive Neuroscience, «Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B: Biological Sciences», 358, 1431, 2003, p. 491.

34«C'è ad esempio un'intima relazione fra "battersi per raggiungere un traguardo" e i concomitanti atti di espressione facciale e sforzo fisico. I bambini fanno l'esperienza dei desideri inappagati e delle loro concomitanti reazioni facciali/posturali/vocali. Sperimentano i propri sentimenti interiori ed espressioni facciali esteriori, e si costruiscono una dettagliata mappa bi-direzionale che unisce le esperienze mentali e il comportamento» {ibid.}.

35 Ibid., p. 497.

36 Secondo l'ipotesi di Meltzoff, «i bambini possono interpretare gli schemi dei movimenti umani che vedono e ripeterli usando lo stesso codice mentale. Esiste quindi qualcosa come un atto spaziale o schema corporale primitivo che permette al bambino di unificare l'informazione motoria/nercettiva in una comune struttura "supermodale". Questo atto spaziale supermodale non è vincolato all'informazione di modalità specifica (visuale, tattile, motoria ecc.)»: Andrew N. Meltzoff, «Like Me». A Foundation for Social Cognition, «Developmental Science», X, 1, 2007, p. 130.

37 Cfr. Merlin Donald, Preconditions for the Evolution of Protolanguages, in Michael C. Corballis e Stephen E. Lea (a cura di), The Descent ofMind. Psychological Perspectives on Hominid Evolution, Oxford University Press, Oxford 1999, pp. 138-51.

38 Cfr. ibid.

39 Donald identifica il procedimento per generare gli schemi di azione motoria come un processo che «dipende da un principio di somiglianza percettiva», che egli etichetta come «mimesi» o «abilità mimetica». Egli inoltre sostiene che la mimesi è rappresentativa [della realtà] senza essere linguistica e che sta alla base del mimo, del linguaggio del corpo, della gestualità, della maggior parte della comunicazione non verbale, del rituale, di una parte della musica e della danza. Un'interessante manifestazione di mimesi si riscontra nei ritmi motori, che possono essere trasmessi a varie parti del corpo. Cosi una sorgente visiva, uditiva o propriocettiva può essere seguita con la voce, i piedi, il corpo o con le dita. «Ad esempio nelle improvvisazioni di un batterista jazz; nella danza o nella marcia; in un gruppo musicale coordinato; in molti giochi infantili o negli esercizi ginnici». Naturalmente la sola mimesi non sarebbe bastata a produrre il protolinguaggio (cfr. ibid., p. 145). 40 ìbid., p. 142.

41 Cfr. Armstrong, Stokoe e Wilcox, Signs of the Origin of Syntax cit.

42 Sherman E. Wilcox, Languagefrom Gesture, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, p. 526.

43 Cfr. Jana M. Iverson, Olga Capirci, Emiddia Longobardi e M. Cristina Caselli, GesturinginMother-Childlnteractions, «Cognitive Development», XIV, 1999,

PP- 57-75-

Cfr. Lakshmi J. Gogate, Lorraine E. Bahrick e Jilayne D. Watson, A Study of Multimodal Motherese. The Role of Tempora! Synchrony Between Verbai Labeh and Gestures, «Child Development», LXXI, 4, 2000, pp. 878-94.

45 Cfr. Karen L. Schmidt e Jeffrey F. Cohn, Human Vacial Expressions as Adap-tations. Evolutionary Questions in Facìal Expression Research, «Yearbook of Physical Anthropology», XLIV, 2001, pp. 3-24.

Cfr. Tibie Rome-Flanders e Carolyn Cronk, A Longitudinal Study of lnfant Vocalizations DuringMother-Infant Games, «Journal of Child Language», XXII, 1995, pp. 259-74.

Cfr. Michael Tomasello e Malinda Carpenter, Shared Intentionality, «Deve-lopmental Science», X, 1, 2007, pp. 121-25; Daniel S. Messinger e Alan Fogel, Give and Take. The Development of Conventìonal Infant Gestures, «Merrill-Palmer Quar-terly», XLIV, 4, 1998, pp. 566-90.

48 Cfr. Christina F. Papaeliou e Colwyn Trevarthen, Prelìnguìstìc Pitch Pattems Expressing «Communication» and «Apprehension», «Journal of Child Language», XXXIII, 2006, pp. 163-78.

49 Per particolari cfr. Falk, Prelinguistic Evolution in Early Hominins cit., pp. 497-98.

50 Come sempre i migliori modelli per i nostri antichi antenati sono gli scimpanzé, e i loro gesti differiscono da quelli degli umani in molti modi importanti (cfr. Michael Tomasello e Luigia Camaioni, A Comparison ofthe Gestural Communication of Apes and Human Infants, «Human Development», XL, 1, 1997, pp. 7-24). Gli scimpanzé usano i gesti quasi esclusivamente per attrarre l'attenzione su se stessi o per indurre altri a fare quello che vogliono loro. I loro gesti implicano usualmente un contatto fisico tra chi compie il gesto e il destinatario. Tali gesti si definiscono prossimali piuttosto che distali. Per contro ì neonati umani, quando cominciano a crescere, compiono gesti che spesso si riferiscono a oggetti o avvenimenti esterni più che a se stessi, e di solito essi non toccano fisicamente la persona alla quale si stanno rivolgendo.

51 Cfr. Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 2009 (ed. or. 1956).

Cfr. Glyn V. Thomas e Angele M. J. Silk, Psicologia del disegno infantile, il Mulino, Bologna 1998 (ed. or. 1990).

53 Cfr. Masayuki Tanaka, Masaki Tomonaga e Tetsuro Matsuzawa, Fìnger Drawing by Infant Chimpanzees («Pantroglodytes»), «Animal Cognition», VI, 4, 2003, pp. 245-51.

54 Salvo indicazioni diverse, la presente discussione dello sviluppo artistico dei bambini è basata sul testo di Thomas e Silk, An Introduction to the Psychology of Children's Drawings cit.

" Cfr. ibid., p. 37 per una discussione sulle figure schematizzate fatte dai bambini.

56 Cfr. Thomas e Silk, An Introduction to the Psycbohgy of Children's Drawings cit., pp. 39-40, 66-68 per una discussione circa gli elementi universali contenuti nei disegni dei bambini.

37 Cfr. Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino 1997 (ed. or. 1969).

58 Secondo Thomas e Silk, « Non dovremmo sottovalutare le difficoltà che la realizzazione di quelle combinazioni può presentare. Quei disegni complessi devono essere pianificati: prima si deve decidere in quale ordine disegnare le varie parti; in secondo luogo, quando si mettono in posizione i primi elementi del disegno bisogna riservare lo spazio per l'inserimento delle parti che verranno aggiunte dopo; infine, gli elementi del disegno aggiunti in un secondo tempo dovranno essere posizionati in modo da congiungersi in modo appropriato al disegno già tracciato» (An Introduction to the Psychohgy of Children's Drawings cit., p. 77).

59 Cfr. Kyoko Yamagata, Emergence of Representatìonal Actìvity during the Early Drawing Stage. Process Analysis, «Japanese Psychological Research», XLIII, 2001, pp.130-40.

60 Ibid., p. 138.

61 Cfr. Susan Rich Sheridan, A Theory o/Marks andMind. The Effect o/Natatio-nal Systems on Hominid Brain Evolutìon and Child Development with an Emphasis on Exchanges Between Mothers and Children, «Medicai Hypotheses», LXIV, 2, 2005, pp. 417-27.

62 Ibid., p. 423.

63 Una fonte eccellente per visionare l'arte preistorica è il sito www.originsnet. org. James B. Harrod ne è il responsabile e webmaster.

64 Cfr. Robert G. Bednarik, The «Austmlopithecine» Cobble from Makapansgat, South Africa, «South African Archaeological Bulletin», LUI, 1998, pp. 4-8.

65 Cfr. Robert G. Bednarik, Giriraj Kumar, Alan Watchman e Richard G. Ro-berts, Preliminary Results of the eip Project, «Rock Art Research», XXII, 2, 2005, pp.147-97. [La sigla EIP sta per Early Indian Petroglyphs. N.d.T.]

66 Cfr. Thomas e Silk, An Introduction to the Psychology of Children's Drawings cit.

67 Cfr. Dietrich Mania e Ursula Mania, Deliberate Engravings on Borie Artifacts of «Homo erectus», «Rock Art Research», V, 2, 1988, pp. 91-95.

68 Cfr. Robert G. Bednarik, Concept-MediatedMarkìngin the Lower Palaeolithic, «Current Anthropology», XXXVI, 4, 1995, pp. 605-34.

69Ibid.,p. 613.

70Ibid.,p. 614.

71 Cfr. Robert G. Bednarik, Neurophysiology and Paleoart, Semiotix Course 2006: Cognition and Symbolism in Human Evolution, 2006, Lecture n. 6, www.chass.uto-ronto.ca/epc/srb/cyber/rbednarik6.pdf.

72 Cfr. Rhoda Kellogg, M. Knoll e J. Kugler, Form-Similarity Between Phosphenes of Adults in Pre-School Children's Scribblings, «Nature», 208, 5015,1965, pp. 1129-30.

73 Bednarik, Neurophysiology and Paleoart cit., p. 7.

74 Cfr. Id., On the Nature o/Psychograms, «The Artefact», VIII, 1984, pp. 27-33.

75 Già duecentomila anni fa in Germania gli ominini producevano piccole sculture di mammut, elefanti, cinghiali, rinoceronti, uccelli e pesci, oltre a volti e maschere di ominini. (Molte illustrazioni di raffigurazioni di animali fatte dagli ominini si possono trovare al sito www.originsnet.org.)

76 Bednarik, che ha studiato il disegno, osserva: «Come scienziato non desidero affatto speculare sul suo significato 0 scopo, la creazione dei miti archeologici spetta agli archeologi. Naturalmente qualcuno ci vedrà il complicato disegno di una vulva (una preferenza tradizionale), altri una freccia o un'orma di uccello, altri ancora un uomo stilizzato. Ci potrebbe essere del buono in una qualsiasi di queste ipotesi (e in altre che mi verrebbero in mente). In particolare non ci sono dubbi che se questo motivo fosse apparso nell'arte rupestre, sarebbe stato descritto come una figura umana, e proprio come una figura maschile (il brevissimo prolungamento della linea centrale, nel punto dove si incontra con le altre due linee, sarebbe visto come un pene)». (Robert G. Bednarik, The Middle Palaeolìthìc Engravings front Oldisleben, Germany, «Anthropologie», XLIV, 2, 2006, p. 118).

77 Ad esempio, le figure mezzo uomo, mezzo leone compaiono in questo periodo e includono quella che si trova in una caverna della Germania sudoccidentale, che risale a trentamila anni fa: cfr. Nicholas J. Conrad, Paleolìthìc ìvory Sculptures from Southwestem Germany and the Origins of Figurative Art, «Nature», 246, 2003, pp. 830-32. Le pareti della famosa Grotta di Chauvet, nella Francia meridionale, provengono da un altro importante sito, che contiene un variopinto serraglio comprendente renne, mammut, cavalli, bisonti, orsi, leoni, rinoceronti, una pantera rossa e un gufo inciso. Queste immagini sono così abilmente e squisitamente eseguite (alcune perfino in bassorilievo) che sembrano opere di maestri dell'arte moderna.

78 Per saperne di più sulle veneri paleolitiche e su altre opere d'arte preistorica, cfr. Falk, Braindance cit.

79 Recenti testimonianze suggeriscono che gli esseri umani che vissero almeno centomila anni fa in Israele e in Nord Africa indossavano collane fatte con conchiglie forate, che provenivano da spiagge molto lontane: cfr. Marian Vanhaeren, Francesco D'Errico, Chris Stringer, Sarah L. James, Jonathan A. Todd e Henk K. Mie-nis, Middle Paleolithic ShellBeads in Israeland Algeria, «Science», 312, 578r, 2006, pp. 1785-88. Si tratta di un particolare importante, perché l'uso di ornamenti personali è generalmente interpretato come indice di comunicazione simbolica.

80 Cfr. Kevin Sharpe e Leslie Van Gelder, Evidencefor Cave Markings by Palaeo-lithìc Children, «Antiquity», LXXX, 310, 2006, pp. 937-47; Russell D. Guthrie, The Nature of Paleolithic Art, University of Chicago Press, Chicago 2006.

81 Judith Berck, Before Baby Talk, Sìgns, and Sìgnals, «New York Times», 6 gennaio 2004.

82 Cfr. Susan Rich Sheridan, Very Young Chìldren's Drawinp and Human Con-scìousness. The Scribble Hypothesis. A Plea for Brain-Compatible Teaching and Lear-nìng, presentazione alla Conferenza Toward a Science o/Consciousness, Skovde (Svezia), agosto 2001.

9. Ritrovare la nostra lingua

Se i desideri fossero cavalli

Se i desideri fossero cavalli, / i mendicanti cavalcherebbero. / Se le rape fossero orologi, / ne avrei uno accanto a me. / E se i «se» e gli «e» / Fossero pentole e padelle, / Non ci sarebbe più

lavoro per gli stagnini.

Mamma Oca

Come ho detto chiaramente, credo che le abilità artistiche dell'uomo si siano evolute insieme al linguaggio, e non successivamente. La musica contemporanea potrebbe essere considerata una «torta alla panna uditiva»1 solo nel senso che è apparsa più recentemente delle più antiche forme musicali ed è giunta, quindi, per ultima. In questo senso potremmo considerare le odierne arti visive e il linguaggio moderno come metaforici «dessert», creati a partire dagli ingredienti di base durante la nostra lunga evoluzione. Così è stata anche la propensione umana a inventare e migliorare qualsiasi cosa, dalle pentole e padelle alle stazioni spaziali e alla biotecnologia.

Con tutto il rispetto per la filastrocca di Mamma Oca con cui si è aperto questo capitolo, l'invenzione dei nomi fu, naturalmente, il passo cruciale verso la nascita del protolinguaggio, e probabilmente le prime parole furono dei nomi. Se i nostri antenati non fossero andati oltre il semplice stadio dei nomi, non avrebbero potuto inventare le parti più sofisticate del linguaggio («se i "se" e gli "e" fossero pentole e padelle»). Invece essi andarono al di là della fase dei nomi, grazie ai cambiamenti che avvennero nel loro cervello.

Anche se mi sono concentrata sulle madri e sui figli in quanto obiettivi primari della selezione naturale che portò alla nascita del linguaggio, della musica e dell'arte, in questo capitolo sarò di manica più larga per una ragione importante: a causa della modalità con cui si mescolano i geni che vengono trasmessi alle generazioni future, i tratti distintivi che sono «selezionati per» in maniera differenziale in un dato sesso finiranno probabilmente per influenzare anche l'altro. E per questo motivo che le persone in tutto il mondo, e a vari livelli, hanno propensione all'apprendimento del linguaggio e partecipano ad attività musicali o alle arti visive. Questo è dovuto, ovviamente, all'evoluzione del cervello, un processo cruciale per l'emergere di queste capacità cognitive nei nostri antenati.

L'evoluzione del cervello

Fu uno choc quando vidi per la prima volta un cervello appena estratto dalla scatola cranica. Quelli che avevo visto fino a quel momento nei corsi di neuroanatomia erano reperti solidi e grigiastri, conservati nei liquidi di un vaso. Durante i corsi avevo dissezionato cervelli umani e ricordavo che avevano la consistenza di un polpettone ben cotto. Fu una sorpresa quindi vedere un cervello fresco, che tremolava come gelatina, tanto che sarebbe scivolato dalle mani guantate dell'esaminatore se non fosse stato racchiuso in una membrana; il cervello è per circa il settantotto per cento acqua, da qui la sua fluidità. Riflettendoci su mi resi conto che il mio stupore derivava in parte dal presupposto che un organo così complicato e importante avrebbe dovuto avere un aspetto più solido, in senso fisico.

Di norma il cervello umano pesa all'incirca meno di un chilo e mezzo, e contiene miliardi di cellule nervose. Invece i cervelli degli scimpanzé pesano circa trecentocinquanta grammi, dunque quasi quanto la media dei nostri antenati, gli australopitecini, secondo una stima della loro capacità cranica. Fino a poco tempo fa si credeva per lo più che le dimensioni del cervello degli australopitecini si fossero dapprima gradualmente ingrandite per poi, improvvisamente, «decollare», pressappoco due milioni di anni fa, nei loro discendenti (gli antichi Homo), alcuni dei quali furono i nostri progenitori.2 Ma ora sta emergendo un quadro diverso, a seguito di recenti correzioni sulle capacità craniche e la datazione di alcuni fossili.

Come ho fatto notare nel capitolo 4, i fossili vecchi di 1,8 milioni di anni trovati a Dmanisi, in Georgia, sembrano essere l'anello di congiunzione fra gli australopitecini e gli antichi Homo. Anche se solo ora stiamo cominciando ad avere informazioni sulla struttura fisica degli ominini di Dmanisi, le loro capacità craniche aggiungono dubbi all'ipotesi di un improvviso aumento delle dimensioni del cervello, che risalirebbe a due milioni di anni fa.3 Alcuni grafici, che assieme alla loro capienza cranica includono anche i valori corretti su capacità e datazioni riguardo ad altri ominini, indicano invece che le dimensioni medie del cervello dei nostri antenati aumentarono più o meno costantemente nel corso di tre milioni di anni.4 Il risultato fu che il cervello umano è tre volte quello di una scimmia antropomorfa, e in futuro potrebbe ulteriormente ingrandirsi.5

Questa immagine d'insieme dell'evoluzione delle dimensioni del cervello quadra con i modelli di crescita graduale che ho già descritto a proposito dell'evoluzione delle capacità cognitive, che comprendono linguaggio, musica e arte. Di conseguenza ci sono scarsi indizi a favore di un'espansione recente delle dimensioni del cervello: anzi, dopo i Nean-derthal le dimensioni medie sono diminuite.6 Tali dimensioni, comunque, non spiegano tutto sulle facoltà cognitive, né dei nostri progenitori né degli esseri umani contemporanei. In effetti, le capacità craniche degli esseri umani moderni con un cervello normalmente funzionante variano di molto: da 790 a 2350 centimetri cubici.7 Anche le dimensioni relative e le connessioni delle parti interne del cervello si evolsero, e io credo che questa cosiddetta riorganizzazione neurologica sia stata estremamente importante per l'evoluzione cognitiva dell'uomo.

Dalle mani prensili ai cervelli «prensili»

La riorganizzazione neurologica condusse il cervello umano a differenziarsi, rispetto a quello dei primati non umani, in vari modi. Ad esempio, la misura in cui i due emisferi del cervello controllano attività differenti è maggiore negli esseri umani che non negli altri primati. Anche se le nostre due mani, come per le scimmie antropomorfe, sono ciascuna controllata dall'emisfero opposto a essa, molti di noi hanno una decisa propensione per usare una mano piuttosto che l'altra, mentre la popolazione dei primati non umani non ha preferenze. Una zona del cervello detta area di Broca, localizzata nella parte sinistra del cervello che è vicina all'area che controlla la mano destra, contiene i centri del linguaggio articolato (questo spiega perché i destrimani, quando parlano, tendono a gesticolare di più con la mano destra). Si tratta di cose ben note agli scienziati,8 ma solo ora si cominciano a chiarire altri dettagli, grazie alla diagnostica per immagini che ha consentito di inserire una persona in una macchina (come quella per la risonanza magnetica nucleare [fMRi] o quella per la tomografia assiale computerizzata [tac]), e di chiederle di pensare a qualcosa per poi vedere quali parti del cervello «si accendono».

Per quanto straordinarie siano queste tecniche, esse non possono essere usate per indagare su come sia cambiata col tempo l'organizzazione interna dei cervelli dei nostri progenitori. Possiamo tuttavia farcene un'idea confrontando i cervelli delle scimmie antropomorfe oggi viventi e quelli degli esseri umani, e inoltre esaminando i calchi endocranici degli ominini fossili. Degli esseri umani e delle scimmie antropomorfe sappiamo, ad esempio, che complessivamente le dimensioni relative dei lobi cerebrali (le divisioni principali del cervello) cambiarono di poco dal momento in cui gli ominini si divisero dalle scimmie.9 Ma, contrariamente a quel che si crede, i lobi frontali dell'uomo non sono più grandi rispetto agli altri lobi del cervello.10 Sono invece i lobi temporali, loro vicini, ad apparire un po' fuori misura; il che permette all'Homo sapiens di elaborare il linguaggio, la musica e gli altri suoni; di identificare le persone, gli animali e le cose; e di ricordare. D'altro canto la dimensione relativa del cervelletto, il grande motore coordinatore che si trova nella fossa cranica posteriore, è un po' ridotta.

Gli studi comparativi fra i cervelli dei primati non umani e quelli degli esseri umani lasciano intravedere come certe parti interne del cervello si siano riordinate mentre gli ominini si evolvevano: ad esempio l'insula,11 una struttura profonda che non può essere vista dal di fuori, negli esseri umani è particolarmente sviluppata. Dall'insula dipendono le sensazioni intuitive, il senso del gusto e certi aspetti del linguaggio.12 Inoltre, in una parte dell'area visiva che è situata nella parte posteriore del cervello, l'organizzazione funzionale delle cellule negli esseri umani è sviluppata in un modo che potrebbe essere correlato alla rapidità di decodifica dei movimenti della bocca e delle mani nel linguaggio e nella gestualità.13 Nonostante tutte queste osservazioni, la neuroscienza ha rivelato assai poco riguardo alle particolarità funzionali che differenziano il nostro cervello da quello degli altri primati.

Todd Preuss, dello Yerkes National Primate Research Center, uno dei principali esperti negli studi sui cervelli dei primati, ci ricorda che non basta confrontare il tessuto cerebrale delle scimmie morte con quello degli esseri umani; ciò che ci serve sono dei confronti tra le funzioni cerebrali in soggetti vivi, preferibilmente scimpanzé ed esseri umani, che ora sono stati resi possibili appunto dalla diagnostica per immagini. Preuss insiste sulla necessità di suddividere i comportamenti nelle loro parti più minute prima di poter chiarire la loro evoluzione,14 e offre un esempio, concernente l'atto di guardare e di afferrare, che trovo molto convincente (dopotutto, i neonati dei nostri antenati non erano più in grado di afferrare e stringersi da soli alle loro madri). Preuss si chiede: un atto apparentemente semplice come quello di guardare un oggetto e di afferrarlo potrebbe aver avuto una sua importanza per l'evoluzione?

Preuss fa notare che molte piccole abilità contribuiscono a questa azione: localizzare nello spazio l'oggetto desiderato, distinguerne le dimensioni, muovere la testa e gli occhi per vederlo più chiaramente, programmare ed eseguire i primi movimenti della mano verso di esso, aggiustare il movimento della mano mentre gli si avvicina, modellare la mano per la presa, infine aggiustare la presa in modo da adattarla al peso, alla comprimibilità e alla composizione dell'oggetto afferrato. Ci sono ovviamente delle differenze: modellare la presa della mano sarà piuttosto differente nel caso di animali che afferrano con tutta la mano. Come fa notare Preuss, «una volta capiti i meccanismi che generano un certo comportamento o che includono un procedimento psicologico particolare, lo scopo dei cambiamenti evolutivi sarà molto più chiaro (e quindi passibile di essere empiricamente esplorato)».15

L'evoluzione è maestra nelle riparazioni, secondo una famosa definizione di Francois Jacob, studioso di citogenetica, perché costruisce nuove caratteristiche usando parti vecchie; e sempre più prove mostrano che il linguaggio probabilmente fu costruito a partire da fasci di fibre nervose del cervello che originariamente erano preposte agli atti di raggiungere e afferrare. Infatti le scimmie e le scimmie antropomorfe si affidano principalmente alle mani per toccare, palpare ed esplorare cose e individui, perché quello è il modo in cui esplorano e «afferrano» il loro mondo. Anche se noi dipendiamo moltissimo dal linguaggio per capire il nostro mondo, le vestigia degli antichi «ritocchi» evolutivi si possono ancora riscontrare nel modo interconnesso col quale il nostro cervello da un lato elabora il linguaggio, dall'altro concet-tualizza gli oggetti afferrabili, come gli utensili.16

Il fumetto riprodotto qui sotto (noto col nome di homunculus di Penfield) illustra la localizzazione generale delle aree che ricevono le sensazioni dal corpo e che sono collocate nella parte posteriore del cervello (a destra nella figura), nonché le aree motorie frontali, che controllano i movimenti.17 U homunculus nella parte sinistra del cervello rappresenta la parte destra del corpo (e viceversa) perché le connessioni funzionano per lo più in modo incrociato (tranne che per alcune parti della faccia). Per questa ragione Yhomunculus mostra solo mani e piedi destri. Se si pizzica il pollice destro, il pizzicotto verrà sentito nell'area del pollice nella parte posteriore di questo schema, mentre l'area del pollice che sta di fronte farà dimenare il pollice.

Come illustrato, le aree del cervello che permettono alle persone di «afferrare» i concetti degli oggetti sono contigue alle parti che facilitano l'azione da parte delle mani. Così la sola vista di un utensile mette in azione le cellule nervose vicine sia alle rappresentazioni delle attività sensoriali sia a quelle motorie delle mani (i puntini nella parte superiore dello schema).

Quando pensiamo a come un attrezzo viene usato, aumenta in noi l'attività cerebrale più vicina all'area motoria per la mano.18 Di più: se l'attrezzo viene visto e nominato silenziosamente, si illumina anche parte dell'area di Broca preposta al linguaggio (i puntini in basso).20 Chiaramente le parti del cervello coinvolte nel vedere, nel pensare e nel nominare gli attrezzi sono vicine, e in alcuni casi si sovrappongono, alle aree sensoriali e motorie che facilitano l'atto di afferrarli e manipolarli.21 Preuss ne conclude che, dal punto di vista dell'evoluzione, «la profonda relazione tra linguaggio, rappresentazione dell'oggetto e presa del medesimo è un'illustrazione particolarmente vibrante di come l'evoluzione sceglie e modifica le preesistenti strutture per creare nuove funzioni».22 Questo conferisce una svolta alla metafora dell'«afferrare» il significato.

Recenti studi sulle immagini radiografiche mostrano che altre aree del lobo frontale si sono evolute per permettere la comprensione di sottili aspetti del linguaggio.23 Kuniyoshi Sakai, dell'Università di Tokyo, fornisce il seguente esempio: «John pensa che David elogi suo figlio» significa qualcosa di molto diverso da «John pensa che suo figlio elogi David», sebbene le due frasi contengano le stesse parole. La comprensione della sintassi, cioè la parte della grammatica che sistema le parole in frasi e locuzioni, è necessaria per la decifrazione di questa differenza, e Sakai ha individuato quali parti nel lobo frontale destro chiariscono questi significati. L'area grigio chiaro di fronte a B nella fig. 9.1 del-Vhomunculus viene selettivamente attivata durante la comprensione delle frasi (pronunciate o dette con i segni). Ma questa zona non decodifica il significato in sé della frase, piuttosto la comunica alla zona color grigio scuro (posta sopra B nella figura), che secondo Sakai è il centro della grammatica, il quale rifletterebbe la natura universale dell'elaborazione grammaticale. Anche se secondo Sakai questo centro grammaticale non ha una controparte in altri animali, è interessante notare che aree simili nel cervello delle scimmie sono fondamentali per i comportamenti orientativi: in un certo senso la grammatica (e la sintassi) servono a dirigere le unità più piccole (come le parole) entro unità più grandi (come le frasi).24

Se Preuss ha ragione, allora il detto «dalla mano alla bocca» significa qualcosa di più dell'atto di nutrirsi. I neonati dei nostri progenitori persero la capacità di raggiungere e afferrarsi alle loro madri, e io ho ipotizzato che questo fatto abbia dato luogo a un susseguirsi di eventi che alla fine portarono alla nascita del protolinguaggio. Mentre questo avveniva, le parti del cervello coinvolte nell'atto di afferrare e attaccarsi si saranno modificate, e questo si sposa bene con l'idea che le raffigurazioni della mano siano state selezionate mentre il linguaggio si evolveva. Invece di conoscere un oggetto semplicemente guardandolo o manipolandolo (oppure odorandolo o saggiandolo con la zampa), come fanno gli altri animali, noi abbiamo un ulteriore strato di comprensione, che coinvolge la concettualizzazione degli oggetti come parti di suono o di segni (nomi) che possono essere intenzionalmente trasmessi agli altri. E l'anatomia del cervello necessaria per questa ulteriore dimensione potrebbe essere stata messa insieme con le interconnessioni cerebrali che precedentemente servivano per guardare e afferrare.

Gli specchi del cervello

Elementi simili dell'anatomia cerebrale possono essere visti oggi nelle scimmie, che forniscono il miglior modello vivente disponibile per chiarire l'evoluzione del cervello umano. Un'area del lobo frontale nel cervello delle scimmie si attiva quando esse vedono altri individui raggiungere ed afferrare degli oggetti. In effetti alcune cellule nervose di questa zona si accendono sia quando la scimmia vede qualcun altro compiere un'azione, sia quando a compiere l'azione è l'osservatore - il caso estremo della massima «scimmia vede, scimmia fa».23 Questi neuroni specchio, così battezzati dagli scopritori, Giacomo Rizzolatti e i suoi colleghi dell'Università di Parma, sono sorprendenti proprio per questa doppia capacità. Come ha scoperto Rizzolatti, i neuroni specchio formano un collegamento tra osservatori e attori accoppiando gli eventi osservati ad azioni analoghe che sono generate all'interno dell'osservatore, che eventualmente possono (ma anche no) culminare nell'effettuazione di un'azione similare.26 Si ritiene che i neuroni specchio giochino un ruolo nell'imitazione, nella comprensione e nell'apprendimento delle azioni.

Da notare che la parte del lobo frontale delle scimmie che contiene i neuroni specchio corrisponde a una parte dell'area di Broca che sovrintende al linguaggio negli esseri umani; essa viene attivata quando osserviamo gli altri muovere le dita, e si attiva maggiormente quando effettivamente imitiamo il comportamento che vediamo.27 In altri termini, anche noi abbiamo i neuroni specchio.28 Sulla base delle loro ricerche sui neuroni specchio, Rizzolatti e altri credono che il linguaggio umano si sia evoluto da un meccanismo di base che originariamente era legato alla capacità di riconoscere le azioni fatte da altri, e che i gesti manuali abbiano spianato la via all'evoluzione del linguaggio. Questa convinzione è compatibile con l'idea che l'evoluzione adoperò le strutture esistenti nel cervello dei nostri antenati per creare nuove funzioni.

E non è tutto: a partire dagli anni novanta, quando furono scoperti i primi neuroni specchio associati agli atti di toccare e afferrare, sono stati scoperti negli uomini e nelle scimmie altri neuroni che rispecchiano un altro tipo di stimolo, e che potrebbero essere stati molto importanti per l'evoluzione delle capacità cognitive che distinguono gli esseri umani dagli altri primati. Ad esempio, noi possediamo dei neuroni specchio che vengono attivati quando facciamo o anche solo udiamo dei suoni associati ad alcune attività della mano o della bocca, come strappare un pezzo di carta, stappare la lattina di una bevanda gassata, sgranocchiare un dolce, baciare, emettere suoni gutturali.29 L'attività provocata dai suoni tende a essere più energica nella parte sinistra del cervello. Come nel caso dell'atto di afferrare confrontato con il nominare silenziosamente gli utensili, i neuroni che rispondono sia al compimento dell'azione sia all'ascolto dei suoni associati con le azioni della mano sono situati vicino alle aree che nel cervello agiscono sulla mano, mentre quelli legati alle attività della bocca sono più vicini alla sua rappresentazione. In aggiunta, anche quando ci limitiamo ad ascoltare un discorso si accendono le zone dell'area di Broca che vengono attivate quando parliamo.30

Esiste un'altra prova che i neuroni specchio favorirono la sensibilità reciproca tra le madri e i neonati degli antichi ominini e contribuirono all'evoluzione delle loro comunicazioni reciproche. Secondo Stein Braten dell'Università di Oslo, quando un piccolo scimpanzé è abbastanza grande da trasferirsi dal ventre della madre, al quale è aggrappato, alle sue spalle, egli comincia a vedere il mondo secondo la prospettiva della madre. Quindi un neonato che viene trasportato sulla schiena della madre « non solo si muove con il corpo all'unisono con i movimenti materni, ma spesso sposta la testa nella stessa direzione, di modo che sembra guardare insieme a lei».31 Tuttavia, contrariamente a quanto avviene con i neonati umani, i giovani scimpanzé non scambiano con le loro madri occhiate prolungate o altre comunicazioni vis-a-vis. I neonati degli antichi ominini, una volta perduta la facoltà di aggrapparsi, si sarebbero estinti se non si fossero evoluti, ascoltando e imparando a duplicare le azioni delle loro madri. Quando passarono dalla schiena alle braccia della madre, o furono appoggiati a terra, i piccoli cambiarono prospettiva e per la prima volta si concentrarono su delle interazioni «faccia a faccia».32 Si trattò probabilmente di un passo decisivo per la futura nascita del linguaggio. Braten delinea altri passi, che dovrebbero ormai essere familiari al nostro lettore: l'imitazione vocale del neonato, l'interscambio con la madre, la sintonizzazione con i suoni della sua comunità, l'emergere della lallazione. Secondo Braten, questi passi non sarebbero stati compiuti se non ci fossero stati i neuroni specchio. L'evoluzione dei neuroni specchio fu importante anche perché aiutò i nostri progenitori a sviluppare una capacità fondamentale per la comprensione dei pensieri e delle motivazioni delle altre persone.

Dov'è TOM?

Come ho detto nel capitolo precedente, l'attitudine alla comprensione degli stati emotivi, delle intenzioni e delle motivazioni degli altri viene chiamata «teoria della mente» (tom), e gli esseri umani sono particolarmente abili in questo esercizio. I ballerini professionisti possono ripassare mentalmente le loro coreografie e possono anche «sentire» le rappresentazioni che stanno vedendo: si tratta di una manifestazione artistica, o ginnica, di TOM.33 Non sarà quindi una sorpresa apprendere che recentemente sono stati scoperti dei neuroni specchio vicino all'area del cervello che presiede ai movimenti della gamba, e che queste zone rispondono quando la gamba opposta viene delicatamente sfiorata da una spazzola; e ciò succede anche quando le persone assistono alla medesima azione su altri individui.34 Christian Keysers, dell'Università di Groningen, chiama tale risposta «empatia tattile» e osserva, tra le altre interessanti informazioni, che è per questo che gli spettatori del film Licenza d'uccidere sentono il proprio corpo prudere fastidiosamente quando vedono la pelosa tarantola arrampicarsi sul corpo dell'agente 007. D'altra parte, la nostra empatia non è solo tattile. Dall'espressione della faccia di James Bond gli spettatori capiscono che è spaventato e, avendogli letto nella mente, si spaventano anche loro (e spesso sentono accelerare il battito cardiaco, rabbrividiscono e sentono rizzarsi i peli del corpo). Anche se gli altri primati non sono bravi nell'uso del tom come gli esseri umani, non sono comunque del tutto privi di questa facoltà. I babbuini, ad esempio, possiedono in una certa misura il tom. Dopo anni passati a cercare di capire l'attività mentale dei babbuini mediante la messa in onda, con altoparlanti nascosti, delle registrazioni delle loro vocalizzazioni, e l'osservazione delle reazioni degli altri babbuini, a Dorothy Cheney e Robert Seyfarth della University of Pennsylvania, apparve chiaro che i circa ottanta babbuini che stavano studiando riconoscevano le voci gli uni degli altri e capivano le interazioni sociali non appena sentivano le voci.35 Ad esempio, sentendo gli urli registrati di un certo neonato la madre guardava verso gli altoparlanti mentre gli altri babbuini guardavano lei. Alcune registrazioni erano state manipolate in modo da evocare interazioni sociali altamente improbabili, tipo un grugnito di minaccia da parte di un babbuino di condizione sociale inferiore seguito dall'urlo di paura di un babbuino dominante. Rispetto ad altre registrazioni con un playback più realistico, qui i babbuini rimanevano stupiti. Cheney e Seyfarth conclusero che i babbuini possiedono il Tom, ma che esso consiste in vaghe intuizioni sulle intenzioni degli altri animali, piuttosto che nella facoltà, propria dell'uomo, di afferrare specifici termini, gusti, simpatie, antipatie e motivazioni. Si tratta di una distinzione interessante, perché si ritiene che un incremento nella consapevolezza sociale abbia avuto un ruolo cruciale durante l'evoluzione dell'intelligenza umana.

Naturalmente l'intelligenza racchiude in sé molto di più della capacità di capire le relazioni sociali. Per questa ragione Esther Herrmann e i suoi colleghi del Max-Planck-Insti-tut di Antropologia evolutiva di Lipsia di recente hanno studiato la quantità relativa di conoscenza del mondo fisico rispetto all'intelligenza sociale in un buon numero di scimpanzé, orangutan e bambini piccoli di circa due anni e mezzo di età.36 I test sulla conoscenza del mondo fisico comprendevano la localizzazione di ricompense poste al di fuori del campo visivo o in rotazione regolare, o in quantità diverse, e inoltre l'uso di un bastoncino per prendere delle golosità poste fuori portata. I test sulle percezioni sociali includevano l'acquisizione della capacità di risolvere un semplice problema dopo aver assistito a una dimostrazione; la comprensione e la capacità di riprodurre gesti che indicavano la localizzazione delle ricompense nascoste, e due prove strettamente correlate al Tom: seguire lo sguardo di un attore che fissava un oggetto e capire le sue intenzioni. I risultati furono straordinari: «bambini piccoli che avevano imparato a camminare già da un anno, ma che erano ancora ben lontani dall'alfabetizzazione e dalla regolare istruzione scolastica, svolsero i test di conoscenza del mondo fisico allo stesso livello degli scimpanzé, ma sorpassarono di molto sia gli scimpanzé sia gli orangutan nei test di intelligenza sociale».37

Informazioni ancor più stupefacenti sul TOM sono arrivati dai bambini nella fase preverbale. Attraverso un ingegnoso esperimento che coinvolgeva dei burattini, Kiley Hamlin e i suoi colleghi della Yale University hanno dimostrato che i neonati, già a sei mesi di età, sanno distinguere tra personaggi che agiscono bene o agiscono male verso il prossimo, e per di più fanno buon uso dell'informazione.38 Hamlin cominciò mostrando ai neonati uno spettacolo di burattini in cui un cerchio con grandi bottoni al posto degli occhi cercava invano di scalare una collina. Alla fine lo scalatore in difficoltà veniva aiutato da un burattino buono oppure ostacolato da un burattino cattivo. Poi ai bambini veniva data la possibilità di prendere uno dei due burattini, e quasi tutti sceglievano il burattino buono. Hamlin fu colpito dalla forza delle risposte, e ritenne che la capacità di scegliere tra buoni e cattivi fosse innata.39 Forse il vecchio adagio che suggerisce di fare attenzione alle reazioni di bambini e cani davanti a uno sconosciuto ha qualcosa di vero.

Questi studi affascinanti, presi nell'insieme, fanno pensare che la sfida insita nel vivere in un gruppo sociale potrebbe essere stata una forza efficace nell'evoluzione cerebrale dei nostri antenati; un'idea che sussiste da molto tempo e che ha a che fare con il TOM. Una versione di questa teoria mette in risalto l'importanza delle interazioni competitive che coinvolgono la manipolazione sociale e l'inganno, molto opportunamente definite intelligenza machiavellica.40 Un altro punto di vista sostiene che il volume del cervello aumentò all'interno di gruppi sempre più numerosi per mantenersi al passo di relazioni sociali sempre più complicate e riuscire a gestirle. In questa interessante variante della teoria si ipotizza che il linguaggio sia infine emerso come forma di raffinatezza vocale sociale, quando il gruppo diventò così numeroso che le conoscenze erano troppe e il tempo troppo poco per conoscerle tutte alla vecchia maniera.41 Questa idea sostiene che le voci alla fine sostituirono le mani.42

In effetti pare che la crescita evolutiva della dimensione del cervello negli ominini fosse legata alle emergenti capacità linguistiche. L'illustrazione che segue, che mostra l'aumento del volume del cervello durante il periodo della crescita umana, nel delicato momento che va dall'infanzia fino alla pubertà, quando è più facile imparare il linguaggio, dà credito a questa teoria.43

La comparsa di pietre miliari evolutive per il linguaggio, come la lallazione e la formazione di frasi, avviene durante il primo anno di vita, quando la dimensione del cervello è ancora limitata ma la sua crescita è rapidissima (come appare nella parte più inclinata della curva). La crescita si stabilizza dopo il periodo cruciale dell'apprendimento del'linguaggio. Come ho fatto notare in precedenza, questo schema contemporaneo potrebbe riflettere i grandi cambiamenti avvenuti durante il corso evolutivo dei nostri progenitori.

Il linguaggio potrebbe aver affinato il TOM, consentendo ai nostri progenitori di concettualizzare pensieri quali: «Credo che lei sappia dov'è il frutto, sta aspettando che me ne vada per prenderlo, e sa che è per questo che non me ne vado». Dato che i neuroni specchio si attivano sia quando un individuo vede gli altri provare sensazioni ed emozioni, sia quando egli stesso fa le medesime esperienze, è probabile che i neuroni specchio forniscano il sostegno per il TOM. In effetti, una piccola squadra di scienziati è attualmente all'opera per verificare questa ipotesi: usando la diagnostica per immagini, essi esplorano il punto esatto del cervello in cui i neuroni specchio vengono attivati quando le persone prendono in esame gli stati mentali degli altri. È interessante notare come le persone che ottengono il punteggio relativamente più alto nei test per stabilire il loro grado di sensibilità (empatia) nei confronti dei sentimenti altrui, abbiano i neuroni specchio più attivi.44

Un futuro affascinante

Come se l'esplosione di informazioni provocata dalla diagnostica per immagini non bastasse, un'altra rivoluzione si sta preparando a incrementare le nostre conoscenze sull'evoluzione del cervello: si tratta di un filone di indagine ancora allo stadio iniziale, chiamato genomica comparativa.45 La tanto sospirata lista di tutti i geni del corpo umano - il genoma umano - fu pubblicata nel 2001.46 Il genoma dello scimpanzé divenne disponibile nel 2005.47 Già prima di queste date l'affermazione che esseri umani e scimpanzé condividono il novantanove per cento circa dei loro geni era diventata praticamente un dato di fatto. Ora che sono disponibili i due genomi, gli scienziati possono per la prima volta confrontare il modo in cui i geni sono internamente organizzati, mossi, ridisposti, cancellati o moltiplicati nei due gruppi; e ora pare che scimpanzé ed esseri umani presentino nella loro complessiva organizzazione genetica delle differenze non dell'uno per cento, ma del quattro per cento.48 Al contrario di quanto comunemente si pensava, noi non siamo in realtà così vicini geneticamente ai nostri cugini scimpanzé, ma resta il fatto che essi rimangono di gran lunga i nostri parenti più prossimi.49

Lo studio dei geni che sono associati alle malattie umane sta cominciando a fornire elementi sull'evoluzione delle capacità cognitive negli esseri umani.50 Ad esempio, il gene Forkhead box P2 (o FOXP2) richiamò l'attenzione su di sé perché quasi la metà dei membri di un gruppo familiare molto esteso era nata con un disturbo dello sviluppo che limitava enormemente l'uso della parola. La diagnostica per immagini ha mostrato che, quando parlano, i membri di quella famiglia che sono affetti dalla mutazione di questo gene presentano una diminuita attività nelle zone intorno e vicino all'area di Broca, nella parte sinistra del cervello che controlla i centri del linguaggio articolato.51 Invece i loro cervelli si «accendono» in zone posteriori dei due emisferi. Si è ipotizzato che la normale forma umana del gene FOXP2 si sia evoluta di recente, fornendo una specie di «proiettile magico» che avrebbe provocato la nascita del linguaggio; ma la cosa sembra improbabile. Varianti del gene FOXP2 compaiono anche in animali come i topi e gli uccelli, e la variante umana del gene si manifesta in diversi tessuti in via di sviluppo, inclusi cuore, polmoni e intestino.52 Si direbbe che il gene FOXP2 abbia una funzione più generale, non circoscritta al linguaggio. Michael Corbalis dell'Università di Auckland, in Nuova Zelanda, scrive: «Il passaggio dalle scimmie antropomorfe non parlanti agli umani parlanti deve aver coinvolto molteplici geni e aver richiesto diverse fasi».53 Per quanto recente, la mole di conoscenze relative alla genetica delle malattie umane, che comprende informazioni sulle funzioni del cervello, sembra molto promettente per gli studi futuri sull'evoluzione dei cervelli degli ominini.

Madri e figli, passato e futuro

Tutti sappiamo che i figli sono il futuro della nostra specie, ma questo libro mostra come i figli, e le loro madri, siano stati fondamentali anche nel nostro passato. La selezione naturale, come sempre, modellò il viaggio dell'uomo, decidendo chi doveva vivere e chi doveva morire. Dato che i nostri più antichi antenati si comportavano pressappoco come i moderni scimpanzé e non avevano il concetto di paternità, l'onere dell'allevamento di bimbi sani ricadeva per lo più sulle madri preistoriche. Quando i nostri antenati iniziarono a camminare su due gambe, i cambiamenti dei loro corpi trasformarono madri e figli in una calamita per la selezione naturale. Questo fatto, da solo, giustifica un'indagine sull'impatto che madri e figli ebbero sulla nostra straordinaria evoluzione. Altra ragione: le teorie che tradizionalmente si sono occupate dell'evoluzione umana si sono di solito focalizzate sugli uomini, a esclusione, di fatto, di chiunque altro. In seguito le nonne e le madri raccoglitrici hanno cominciato a ricevere la loro parte di merito per le grandi conquiste della nostra specie, mentre i bambini hanno continuato a essere ignorati.

Ora non è più così: anche se a prima vista sembrerebbe una piccola cosa, la diminuita capacità di aggrapparsi dei neonati preistorici che sopravvissero al cambiamento evolutivo legato al passaggio al bipedismo influenzò enormemente l'evoluzione umana. I piccoli che non potevano più afferrarsi alle madri cominciarono a protestare a gran voce quando venivano appoggiati a terra per consentire alle mamme la raccolta del cibo o un attimo di riposo. Per la prima volta nella storia le madri cominciarono a rispondere ai loro piccoli, e così inventarono, come parziali sostituti del cullare i neonati tra le braccia, le prime ninne nanne, e il rilassante maternese. Più tardi queste innovazioni furono in parte responsabili del decollo delle prime parole presso i nostri antenati e, infine, del linguaggio; e, come c'insegna la nascita recente del linguaggio dei segni nicaraguensi, queste innovazioni furono probabilmente inventate e diffuse dai bambini. E tutto a causa dei piedini modificati per favorire l'andatura eretta e delle manine che avevano perso la capacità di afferrarsi.

Naturalmente le mani dei neonati ominini non avevano perso la tendenza ad afferrare. In effetti quella tendenza sussiste tuttora nei nostri neonati, come dimostra la foto del mio nipotino appena nato nelle braccia di suo padre. Quel che si perse del tutto, invece, fu la capacità di tenersi aggrappati senza aiuto. Anche se i neonati degli ominini che sopravvissero a questo esperimento naturale tardarono a sviluppare le abilità motorie rispetto ai neonati dei loro predecessori, questo non vuol dire che siano cresciuti maldestri. Al contrario, la mano degli ominini col tempo cambiò, trasformandosi in un organo più abile: i pollici divennero molto flessibili e ancor più utili per raccogliere bacche, per costruire migliori utensili e (infine) per tenere in mano matite colorate.

Ai cambiamenti evolutivi nell'anatomia e nelle funzioni di mani e piedi corrisposero i cambiamenti delle loro rappresentazioni nel cervello. Basta osservare la dimensione delle mani e dei pollici nell'homunculus della, fig. 9.1. È meraviglioso vedere come Madre Natura sembra aver adottato le reti del cervello che erano (e sono) coinvolte nelle azioni di raggiungere e afferrare gli oggetti, per darci la facoltà linguistica di «afferrare» i concetti, ed è particolarmente toccante che siano state le mani e i piedi prensili - o meglio la loro mancanza - ad aver reso necessario lo sviluppo del maternese, e poi la nascita del linguaggio. Ciò che gira in tondo alla fine torna al punto di partenza!

Come abbiamo visto, anche l'arte si sviluppò per gradi, insieme al cervello dei nostri antenati. Lo stesso è avvenuto per la musica. I loro ingredienti di base erano simili e consistevano da un lato in elementi separati, come le note musicali o i segni grafici, che potevano essere ricombinati in unità significative più ampie, ed essere condivisi con gli altri, dall'altro nelle regole per fare tutto ciò (la sintassi). Questi elementi sono gli stessi che i nostri progenitori usarono per inventare il linguaggio. Alla fin fine, se i neonati dei nostri antenati non avessero perso la capacità di afferrarsi alle loro madri, non ci sarebbero stati i concerti per pianoforte di Mozart e nemmeno la Monna Lisa. Niente balletto, né Shakespeare e nemmeno e = me2. Insomma, se non fosse stato per i primi sussurri del maternese, usato per calmare i nostri antichi progenitori, non ci sarebbero gli esseri umani come li conosciamo oggi.

È chiaro, allora, che la nostra specie ha un debito speciale non solo con le madri preistoriche, ma anche con i loro figli, che agirono da propulsore per l'evoluzione delle facoltà cognitive che ci distinguono dagli altri animali. E stupefacente pensare che in fondo il linguaggio, e il pensiero conscio che esso rende possibile, si siano evoluti a partire dalla semplice necessità dei neonati preistorici di essere cullati e consolati da chi li nutriva. I primi esperimenti di Harlow sulle scimmie e la miriade di studi contemporanei sui neonati dei primati, esseri umani inclusi, dimostrano che per loro il contatto fisico con i genitori, o con altre persone che si prendono cura di loro, è fondamentale. Se il passato è il miglior profeta del futuro, i genitori di tutto il mondo dovrebbero concedergli maggiore attenzione.

Note

1 Secondo la celebre espressione di Steven Pinker, Come funziona la mente, Mondadori, Milano 2000, p. 572 (ed. or. 1997).

2 Alcuni pensano che l'aumento della dimensione del cervello, seicentomila anni fa, avesse a che fare con l'ingrandimento dei corpi (cfr. Christopher B. Ruff, Erik Trinkaus e Trenton W. Holliday, Body Mass and Encephalìzation in Pleistocene «Homo», «Nature», 387, 6629, 1997, pp. 173-76); altri invece pensano che l'ingrandimento del cervello degli ominini sia avvenuto per sbalzi.

3 Per approfondimenti e riferimenti cfr. Dean Falk, Evolution of the Primate Brain, in Winfried Henke, lan Tattersall e Thorolf Hardt (a cura di), Handbook of Palaeoanthropology, II: Primate Evolution and Human Origins, Springer, Berlin-Heidelberg 2007, pp. 1133-62.

4 Sembra tuttavia che durante l'evoluzione degli ominini i cervelli e i corpi non si siano ingranditi con lo stesso ritmo, dato che, come abbiamo visto nel cap. 4, lo scheletro quasi completo dell'adolescente di Homo erectus (WT 15 000) vissuto in Kenia 1,6 milioni di anni fa presenta una struttura corporea simile a quella dell'uomo moderno, mentre la capacità cranica che si ritiene avrebbe avuto da adulto è di circa novecento centimetri cubici, quindi due terzi in meno del volume medio del cervello degli uomini moderni. Si può presupporre quindi che l'aumento corporeo sia avvenuto prima di quello cerebrale.

5 Cfr. Michel A. Hofman, Brain Evolution in Hominids. Are We at the End ofthe Road?, in Dean Falk e K. R. Gibson (a cura di), Evolutionary Anatomy ofthe Primate Cerebral Cortex, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 13-27.

6 Nonostante avessero una delle più grandi capacità craniche registrate, molti ricercatori non credono che i Neanderthal facciano parte dell'«albero genealogico» che portò all'Homo sapiens.

7 Raymond A. Dart, The Relationship of Brain Size and Brain Pattern to Human Status, «South African Journal of Medical Science», XXI, 1-2, 1956, pp. 23-45.

8 Cfr. Dean Falk, Braindance. New Discoveries about Human Origins and Brain Evolution, n. ed., University of Florida Press, Gainesville 2004. Per una panoramica aggiornata sull'evoluzione del cervello dei primati, tratta dalla letteratura scientifica, cfr. Falk, Evolution of the Primate Brain cit.

9 Qui per dimensione relativa s'intende la dimensione dei lobi cerebrali rapportata a quella di tutto il cervello.

10 Cfr. Katerina Semendeferi, Advances in the Study ofHominìd Brain Evolution. Magnetic Resonance Imaging (MRI) and 3-D Reconstructìon, in Dean Falk e Kathleen Gibson (a cura di), Evolutionary Anatomy ofthe Primate Cerebral Cortex, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 257-89.

11 Area sensoriale della neocorteccia del telencefalo. [N.d.T.]

12 Cfr. Nina F. Dronkers, A New Brain Regionfor Coordinating Speech Articulation, «Nature», 384, 6605, 1996, pp. 159-61.

13 Cfr. Todd M. Preuss, The Discovery of Cerebral Diversity. An Unwelcome Scientific Revolution, in Dean Falle e Kathleen Gibson (a cura di), Evolutionary Anatomy o/the Primate CerebralCortex, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 138-64. Cfr. anche Id., Who 's Afraid of«Homo Sapiens»?, «Journal of Biomedicai Discovery and Collaboration», I, 2006, www.j-biomed-discovery.com/content/1/1/17.

14 Cfr.Todd M. Preuss, Evolutìonary Specìalizatìons of Primate Brain Systems, in Matthew Ravosa e Marian Dagasto (a cura di), Primate Origìns. Adaptations and Evo-lutìon, Springer, New York 2007, pp. 625-75.

15 Ibid.,p. 662.

16 Cfr. Preuss, Evolutionary Specializations of Primate Brain Systems cit., p. 664.

17 Mi sono presa qualche libertà con questa illustrazione, ad esempio nella parte inferiore ho inserito la lingua nella bocca. Le gambe e i piedi normalmente si estendono oltre il centro del cervello e di lato non sarebbero visibili.

18 Cfr. Scott T. Grafton, Luciano Fadiga, Michael A. Arbib e Giacomo Rizzolatti, Premotor Cortex Activation During Observation and Naming of Familiar Tools, «Neuroimage», VI, 4, 1997, pp. 231-36.

19 Cfr. Kuniyoshi L. Sakai, Language Acquisition and Brain Development, « Science», 310, 5749, 2005, pp. 815-23.

20 Cfr. ibid.

21 Cfr. Linda L. Chao e Alex Martin, Representation of' Hanipulable Man-Made Objects in the Dorsal Stream, «Neuroimage», XII, 4, 2000, pp. 478-84; Grafton, Fadiga, Arbib e Rizzolatti, Premotor Cortex Activation cit.

22 Preuss, Evolutionary Specìalìzation of Primate Brain Systems cit., p. 664.

23 Cfr. Sakai, Language Acquisition ani Brain Development cit.

24 Cfr. Giacomo Rizzolatti e Michael A. Arbib, Language Within Our Grasp, «Trends in Neurosciences», XXI, 5, 1998, pp. 188-194. La cosa interessante è che queste aree spesso coinvolgono i movimenti volontari degli occhi: cfr. Elizabeth C. Crosby, Tryphena Humphrey ed Edward W. Lauer, Correlative Anatomy ofthe Nervous System, Macmillan, New York 1962.

25 Cfr. Rizzolatti e Arbib, Language Within Our Grasp cit.

26 Vi suona familiare? Dovrebbe, perché questa discussione richiama alla mente la tendenza dei neonati umani a imitare i gesti facciali osservati negli adulti (cfr. su-pra, cap. 8).

27 Cfr. Marco Iacoboni, Roger P. Woods, Marcel Brass, Harold Bekkering, John C. Mazziotta e Giacomo Rizzolatti, Cortical Mechanisms of Human Imitation, «Science», 286, 5449, 1999, pp. 2526-28.

28 Scimmie ed esseri umani hanno dei neuroni specchio anche nei lobi temporali e parietali che sono responsabili della vista e dell'attività manuale.

29 Cfr. Valeria Gazzola, Lisa Aziz-Zadeh e Christian Keysers, Empathy and the Somatotopic Auditor/ Minor System in Humans, «Current Biology», XVI, 18, 2006, pp. 1824-29.

30 Cfr. Stephen M. Wilson, Ayse Pinar Saygin, Martin I. Sereno e Marco Iacoboni, Listening to Speech Activates Motor Areas Involved in Speecb Production, « Nature Neuroscience», VII, 7, 2004, pp. 701-02.

31 Stein Braten, Homìnin Infant Decentration Hypothesis. Minor Neurons System Adaptedto Subserve Mother-Centered Partecipation, «Behavioral and Brain Sciences», XXVII, 2004, p. 508.

32 Braten parla di «rispecchiamento altrocentrico e risonanza sé-con-1'altro» (altercentric mirroring and self-with-other resonance).

Potete leggere, ad esempio, la mia intervista alla danzatrice Cynthia Riffle Bowers in Falk, Braindance cit., pp. 73-78.

34 Cfr. Christian Keysers, Bruno Wicker, Valeria Gazzola, Jean-Luc Anton, Leonardo Fogassi e Vittorio Gallese, A Touching Sight. SII/PV Activation During the Ob-servation and Experience of Touch, «Neuron», XLII, 2, 2004, pp. 335-46.

35 Cfr. Dorothy L. Cheney e Robert M. Seyfarth, Baboon Metaphysics. The Evo-lutìon of a Social Mind, University of Chicago Press, Chicago 2007.

36 Cfr. Esther Herrmann, Joseph Cali, Maria Victoria Hernändez-Lloreda, Brian Hare e Michael Tomasello, Humans Have Evolved Specialized Skills of Social Cognition. The Cultural Intelligence Hypotbeis, «Science», 317, 5843, 2007, pp. 1360-66.

37 Cfr. Herrmann, Cali, Hernàndez-Lloreda, Hare e Tomasello, Humans Have Evolved Specialized Skills of'Social Cognition cit., p. 1365.

38 Cfr. J. Karen Hamlin, Kiley Wynn e Paul Bloom, Social Evaluation by Prever-ballnfants, «Nature», 450, 7169, 2007, pp. 557-59-

39 Cfr. Michael Hopkins, Babies Can Spot Niceand Nasty Characters, «Nature», 2007, www.nature.com/news/2007/071121/full/news.2007.278.html.

40 Cfr. Richard W. Byrne e Andrew Whiten (a cura di), Machiavellian Intelligence. Social Expertise and the Evolution oflntellect in Monkeys, Apes, and Humans, Cla-rendon Press-Oxford University Press, New York-Oxford 1988.

41 Cfr. Robin I. M. Dunbar, Coevolution ofNeocortkalSize, Group Size, andLan-guage in Humans, «Behavioral and Brain Sciences», XVI, 1993, pp. 681-735.

42 Come ho esposto nel dettaglio in questo libro, l'ipotesi del «mettere giù il bambino» comporta come conseguenza che la voce abbia sostituito le mani. Sebbene le nostre ipotesi siano tra loro coerenti, la mia focalizza il precoce emergere del protolinguaggio, mentre quella di Dunbar si rivolge al più recente emergere del linguaggio.

43 Cfr. Sakai, Language Acquisìtion and Brain Development cit. Il grafico è stato fornito per gentile concessione dell'autore.

44 Cfr. Gazzola, Aziz-Zadeh e Keysers, Empathy and the Somatotopic Auditory Minor System in Humans cit. Cfr. anche Leonardo Fogassi, Pier Francesco Ferrari, Benno Gesierich, Stefano Rozzi, Fabian Chersi e Giacomo Rizzolatti, Parietal Lobe. From Action Organization to Intentìon Understanding, «Science», 308, 5722, 2005, pp. 662-67. Si è anche ipotizzato che le persone affette da autismo (compresa la sindrome di Asperger) potrebbero avere un malfunzionamento dei sistemi di neuroni specchio.

45 Cfr. Nitzan Mekel-Bobrov e Bruce T. Lahn, What Makes Us Human: Revisi-tingan Age-Oli Question in the Genomic Era, «Journal of Biomedicai Discovery and Collaboration», I, 2006, p. 18, ^0^0.1186/1747-5333-1-18).

46 Cfr. Eric S. Lander, Lauren M. Linton, Bruce Birren, Chad Nusbaum, Michael C. Zody, Jennifer Baldwin, Keri Devon, Michael Doyle, William FitzHugh e al., Initial Sequencìng ani Analysis of the Human Genome, «Nature», 409, 6822, 2001, pp. 860-921.

47 Cfr. The Chimpanzee Sequencing and Analysis Consortium, Initial Sequence ofthe Chimpanzee Genome and Comparison wìth the Human Genome, «Nature», 437, 2005, pp. 69-87.

48 Cfr. Mekel-Bobrov e Lahn, What Makes Us Human cit.

49 I genetisti hanno a loro volta messo a punto potenti strumenti per identificare geni specifici che potrebbero essere stati il bersaglio della selezione naturale dei nostri progenitori. Ad esempio nel cervello sono stati individuati quarantasette geni che sono ritenuti possibili prodotti dell'evoluzione adattiva, anche se non è ancora ben chiaro a che cosa servano esattamente. Cfr. Xiao-Jing Yu, Hong-Kun Zheng, Jun Wang, Wen Wang e Bing Su, Detecting Lineage-Specific Adaptive Evolution of Braìn-Expressed Genes in Human Using Rhesus Macaque as Outgroup, «Genomics», LXXXVIII, 6, 2006, pp. 745-51.

50 La microfalia è una patologia che fa sì che le persone nascano con teste e cervelli piccoli e malformati, ed è normalmente accompagnata da una menomazione mentale che può variare da un'incidenza lieve a una grave. E ritenuta anche una malattia «a sorpresa», che può derivare da una gran varietà di cause genetiche o ambientali. Alcuni genetisti hanno pensato che due dei geni che talvolta sono associati alla microcefalia, cioè aspm e Microcephalin, siano in relazione con parti del menoma umano che contribuirono all'evoluzione delle dimensioni del cervello, cioè quando i geni pertinenti comparvero in forme normali e non nelle forme mutate che causano la malattia (così Mekel-Bobrov e Lahn, What Makes Us Human cit.). Si tratta di un'idea interessante, ma bisogna tener presente che centinaia di altri geni sono stati associati con lo sviluppo neurologico, per cui sarebbe semplicistico dire che questi due geni microcefalici puntino il dito contro parti del menoma che erano coinvolti in modo esclusivo nell'evoluzione del volume del cervello.

51 Cfr. Frédérique Liegeois, Torsten Baldeweg, Alan Connelly, David G. Gadian, Mortimer Mishkin e Faraneh Vargha-Khadem, Language fMRI Abnormalities Associated with FOXP2 Gene Mutation, «Nature Neuroscience», VI, n, 2003, pp. 1230-37.

52 Sarà interessante sapere che, stando a Joseph Buxbaum della Mount Sinai School, i topi che hanno i geni F0XP2 interrotti non riescono a produrre quegli ultrasuoni emessi dai topi neonati quando vengono separati dalle loro madri, forse per un deficit nelle coordinazioni motorie: cfr. Weiguo Shu, Julie Y. Cho, Yuhui Jiang, Minhua Zhang, Donald Weisz, Gregory A. Elder, James Schmeidler, Rita De Ga-speri, Miguel A. Sosa, Donald Rabidou e al., Altered Ultrasonic Vocalization in Mice with a Disruption in the FOXP2 Gene, «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America», CU, 27, 2005, pp. 9643-48.

53 Michael C. Corballis, FOXP2 ani the Minor System, «Trends in Cognitive Sciences», VIII, 3, 2004, p. 96.