Darwinismo e antidarwinismo


1.

Nell'autobiografia di Darwin è delineato con estrema onestà un cambiamento radicale nella visione del mondo dovuto al progredire della ricerca scientifica: l'abbandono di una fede giovanile rigorosamente ortodossa a favore di un atteggiamento razionalmente critico. Nonostante la perdita della fede, come ho cercato di documentare in altri articoli, Darwin non è mai pervenuto ad una forma di scetticismo e di relativismo morale. Ne L'origine dell'uomo egli insiste sulla natura sociale dell'animale umano, che ancora il bisogno di autorealizzazione personale alle esigenze della vita di gruppo.

La selezione naturale, che agisce con la cecità propria delle leggi della Natura, non implica, in conseguenza del carattere sociale dell'essere umano, una immediata traduzione sul piano dei rapporti interpersonali e dell'organizzazione della società. La cultura umana comporta infatti la possibilità di operare scelte che sovrappongono valori a quelle leggi.

Una gatta che, avendo messo al mondo una nidiata di gattini, ne allontana uno destinandolo a morte agisce secondo il principio della selezione naturale; una madre umana può viceversa sviluppare un tenero amore protettivo nei confronti di un figlio debole e handicappato.

Il darwinismo sociale, vale a dire la traduzione ideologica della legge della selezione naturale, che applica alla società il principio della lotta per sopravvivere incentrandola sulla competizione senza limite alcuno tra gli individui, è un'aberrazione che avrebbe fatto inorridire Darwin.

Non si può dunque che rimanere sconcertati per il fatto che l'attacco alla teoria dell'evoluzione naturale, incentrato sul pericolo che essa mini le credenze religiose, sia venuta e stia avvenendo in un contesto come quello statunitense che, per alcuni aspetti, in conseguenza dell'enfatizzazione dell'autorealizzazione individuale (sul piano economico), di una deregulation del mercato e di una progressiva riduzione della spesa sociale (soprattutto sanitaria e previdenziale), appare orientato al recupero del darwinismo sociale.

Il paradosso - uno dei tanti di questa nostra epoca bislacca - è che Darwin, contestato sul piano scientifico, viene implicitamente, e impropriamente, osannato come colui che ha fornito al sistema capitalistico un'arma potente per convalidare la competitività ad esso intrinseca come espressione di una legge di natura, il cui significato ultimo è di selezionare gli esseri umani più adatti a sopravvivere.

Dato che la contestazione della teoria dell'evoluzione naturale è tutt'ora in atto, occorre tornare sull'argomento per chiarire meglio i termini della questione e approfondire le implicanze storiche, culturali e sociali che essa ha.

Un primo aspetto importante riguarda la carente diffusione della cultura scientifica a livello di massa: fenomeno comune a tutti i paesi occidentali, sia pure con variazioni di rilievo tra di essi. A distanza di centocinquant'anni dalla pubblicazione de L'origine della specie e de L'origine dell'uomo e di un'evoluzione del pensiero biologico che ha colmato gran parte delle originarie lacune della teoria darwinista, se ci si chiede quanto di questo patrimonio, che rappresenta uno dei vertici del sapere umano, sia giunto a far parte della cultura collettiva, la risposta è sconfortante. Non si va infatti al di là del luogo comune per cui l'uomo discende dalla scimmia.

Oltre ad essere errato, questo luogo comune è fuorviante perché, implicando un'evoluzione diretta da specie a specie, porta per un verso a percepire le indubbie somiglianze delle scimmie superiori con gli esseri umani, ma per un altro a rilevare le enormi differenze fisiche e comportamentali.

In un articolo recente, un primatologo famoso - Desmond Morris - analizzando le fotografie in cui si vedono dei gorilla utilizzare un bastone per mantenere l'equilibrio attraversando un corso d'acqua, enfatizza la loro intelligenza pratica e stabilisce una correlazione con l'homo abilis, capace di costruire utensili. Morris appartiene alla schiera degli evoluzionisti che ritengono di portare acqua al mulino del darwinismo sottolineando il fatto che le differenze comportamentali tra scimmia e uomo sono minori di quanto si pensa. Tale strategia è scientificamente fondata, ma inutile perché, agli occhi dell'uomo comune, tra un animale che concepisce l'uso culturale di un bastone e un altro che invia sonde nello spazio la diversità appare incommensurabile. Essa può addirittura diventare pericolosa perché conferma involontariamente il luogo comune cui ho fatto cenno.

L'evoluzionismo in realtà postula la comune discendenza della scimmia e dell'uomo da un progenitore comune. La separazione evolutiva delle due specie è avvenuta tra i cinque e i sette milioni di anni fa e, nonostante un patrimonio genetico identico per il 96-98%, essa è stata netta e irreversibile.

Il progenitore dell'homo sapiens non è la scimmia ma l'australopithecus, un animale con caratteristiche allo stesso tempo scimmiesche e umane evoluto in una varietà di forme per tre milioni di anni. Anche se l'albero genealogico che porta dall'australopithecus all'homo non è definito in tutti i particolari, esso è estremamente suggestivo, come risulta dall'immagine seguente (riprodotta da: http://www.paleontologiaumana.it):


I punti interrogativi evidenziano le numerose incertezze che si danno su come siano andate le cose nel corso dell'evoluzione della specie umana. I resti fossili già scoperti su cui si basa quest'albero genealogico sono però già tali e tanti che, esaminandoli, il dubbio su di un'eventuale creazione divina dell'uomo si riduce al pensare che, nel momento in cui compare la nuova specie (homo sapiens), Dio abbia provveduto ad infondere in essa l'anima. Il dubbio è meramente teorico: primo, perché le capacità che si ritengono generalmente espressive di un principio spirituale (linguaggio, pensiero, costruzione di utensili, inumazione, ecc.) riguardano non pochi degli ominidi che precedono la comparsa dell'homo sapiens; secondo, perché, per un certo periodo, l'homo sapiens convive con una specie (homo neanderthalensis) molto simile ad esso e dotata di quelle capacità in modo spiccato.

Le prove paleontologiche sono non solo inconfutabili per quanto concerne l'evoluzione degli ominidi. Esse lo sono anche per quanto riguarda la creazione divina. Occorrerebbe infatti ricondursi ad un Essere estremamente incerto sotto il profilo progettuale, che modella più volte la sua creatura fino ad ottenere un esemplare a sua immagine e somiglianza, e che, giunto a questo risultato, sacrifica un altro esemplare (l'homo neanderthalensis) che, nonostante una strettissima somiglianza con l'homo sapiens, non gli va a genio.

Il discorso sul creazionismo, come pure su di un presunto disegno intelligente che sottenderebbe l'evoluzione delle forme viventi, potrebbe fermarsi a questo punto, ed essere relegato al rango di un'invenzione culturale, uno degli infiniti miti sulle origini che costellano la storia dell'umanità antica, che pretende porsi in concorrenza con una delle più accreditate e potenti teorie messe a punto dalla scienza.

Vale la pena invece approfondirlo perché il creazionismo non si limita ad opporre le sue ipotesi inverificabili all'evoluzione naturale: esso sottolinea le insufficienze della teoria darwiniana, cercando di invalidarla.

Per capire il nodo della questione occorre un minimo di informazioni.

La teoria dell'evoluzione naturale si può riassumere in cinque punti fondamentali: a) gli individui che appartengono ad una stessa specie non sono uguali e presentano una variabilità individuale; b) le variazioni individuali sono mantenute nella prole; c) gli organismi producono più prole di quella che può sopravvivere fino al momento della riproduzione; d) statisticamente sopravvivono più facilmente quegli individui che hanno ereditato i caratteri più vantaggiosi per la sopravvivenza, dunque solo i meglio adattati; e) quest'ultimi arrivano meglio alla maturità sessuale e possono trasmettere i loro caratteri ai discendenti che tenderanno a divenire sempre più numerosi nella popolazione. Esiste quindi un ambiente che tende a selezionare gli individui (selezione naturale) e che porta, secondo Darwin alla formazione di nuove specie attraverso piccoli, graduali e lenti cambiamenti adattativi. Le variazioni sono quindi casuali, non orientate dall'ambiente fisico verso le direzioni più vantaggiose: è l'ambiente stesso che seleziona i portatori dei caratteri più funzionali e la selezione fa accumulare nel tempo variazioni favorevoli svolgendo un ruolo dinamico plasmando gradualmente le nuove specie.

Darwin stesso, nella sua infinita modestia e nel suo rigore di ricercatore, era pienamente consapevole che la teoria dell'evoluzione naturale comportava delle lacune. La più importante tra queste concerneva i meccanismi dell'ereditarietà. Ignorando l'esistenza dei geni, egli pensava che tutte le parti del corpo contribuissero alla formazione di gemmule che portate dal sangue, andavano a concentrarsi sugli organi riproduttivi (teoria del mescolamento). Applicando tale modello, una variazione adattativa, a prescindere dal vantaggio che conferisce al portatore, dovrebbe diluirsi progressivamente: ma come poteva diffondersi in una popolazione?

La vera soluzione al quesito venne con la scoperta che i fattori che trasmettono l'informazione ereditaria sono costituite da unità ben distinte (i geni) che non perdono la loro individualità di generazione in generazione. Risultava chiaro che il vantaggio dei caratteri adattativi potevano diffondersi stabilmente a tutta la popolazione.

2.

L'avvento della genetica ha consentito di consolidare la teoria darwiniana, ma non ha risolto tutti i problemi. Ulteriori passi in avanti sono avvenuti con la genetica delle popolazioni, che ha posto in luce il ruolo della deriva genetica.

Con il termine "deriva genetica" si indicano le variazioni casuali nella proporzione degli alleli in una popolazione da una generazione all'altra. Con il termine alleli si indica ognuno dei due geni che occupano identica posizione detta "locus" su due cromosomi omologhi. I due alleli codificano per lo stesso carattere, ma potendo essere uguali o diversi tra loro costituiscono in pratica forme alternative per quel carattere. Se due alleli sono uguali tra loro l'individuo è omozigote per quel carattere, se sono diversi è eterozigote.

In una grande popolazione la deriva genetica non dovrebbe determinare variazioni stabili nel patrimonio genetico. In una piccola popolazione invece, una fluttuazione casuale potrebbe determinare la scomparsa di un allele raro o al contrario, un suo aumento. La deriva genetica è una forza casuale indipendente dalla selezione naturale che però interagisce tendendo ad eliminare i caratteri non adatti. Indirettamente tuttavia la deriva può influenzare anche le grandi popolazioni dato che queste sono interessate da variazioni numeriche determinate da mancanza di risorse, epidemie, ecc. In questi casi la sopravvivenza delle specie è legata a piccole popolazioni i cui fenomeni di deriva avranno un effetto di base sul patrimonio genetico delle grandi popolazioni a cui danno origine. Questo fenomeno è detto del "collo di bottiglia", simile all' "effetto del fondatore": un piccolo gruppo che si separa dal resto degli individui invadendo un nuovo territorio può non essere rappresentante di tutto il patrimonio genetico originario e pertanto darà origine a nuove popolazioni o nuove specie. Quest'ultime non sono entità soggettive ma oggettive che presentano adattamenti e caratteri esclusivi, registrati nel loro pool genico ereditario.

L'origine di specie nuove può essere imputabile a due diversi processi indicati rispettivamente con i termini di "speciazione filetica" e di "speciazione sensu scricto". La prima ammette che il patrimonio genetico di una popolazione, sottoposta alla pressione selettiva delle variazioni ambientali, vada modificandosi dando luogo a popolazioni vissute a differenti livelli di tempo che debbono essere classificate come specie, generi... diversi. Il processo di speciazione filetica porta alla trasformazione di una specie in un'altra, ma evidentemente non aumenta il numero delle specie. La moltiplicazione delle specie è, per definizione, dovuta solo a processi di speciazione s.s. quest'ultima prevede tre diversi modelli di speciazione: "allopatrica" (o geografica), "simpatrica" e "parapatrica", tutte accomunate dal concetto di specie (vedi sopra) e dallo stabilire come si può arrivare all'isolamento riproduttivo di gruppi che originariamente erano interfertili. L' allopatrica è quella più comune e prevede la separazione di popolazioni tramite barriere geografiche: le differenze ecologiche tra i due ambienti e quindi la diversa azione della selezione naturale tendono ad accumulare differenze genetiche. Chiaramente qui l'effetto del fondatore e la deriva genetica hanno un ruolo molto importante. nella speciazione simpatrica si ha la nascita di una nuova specie senza isolamento considerando le mutazioni all'interno di sequenze di DNA. Se i portatori di mutazioni adattative si incrociassero si potrebbe arrivare ad un loro isolamento riproduttivo. la parapatrica prevede la possibilità di origine di una nuova specie quando prevale l' azione della selezione naturale sul flusso genico. Due popolazioni che vivono in aree vicine e rimangono in contatto, possono differenziarsi se l'azione della selezione è diversa nei due areali e le differenze genetiche si possono accumulare nonostante la tendenza omogeneizzante del flusso genico.

Posto dunque che piccole variazioni genetiche sono la fonte della variabilità su cui la selezione opera, l'evoluzione si pone come una serie di modificazioni che avvengono di generazione in generazione nel pool genico di una popolazione, consistenti nel fatto che alcune varianti genetiche diventano più comuni a spese di altre e che alcuni nuovi geni vengono introdotti attraverso il processo di mutazione spontanea (essenzialmente errori di copiatura del materiale genico). L'evoluzione si sviluppa nei diversi gruppi di animali e piante con velocità molto diverse.

Questa è la Teoria Sintetica dell'evoluzione o Sintesi, che riesce a coniugare efficacemente i dati paleontologici con quelli genetici. Si tratta dunque di una Teoria potente, coerente ed elegante. Ciò non significa che sia perfetta. Essa per esempio prevede una gradualità nell'evoluzione che non appare confermata dai dati paleontologici, laddove si danno troppi anelli mancanti della presumibile catena evolutiva. Si può pensare che ciò dipenda da lacune paleontologiche, come pure che il gradualismo implicito nella teoria darwiniana debba essere sormontato.

All'inizio degli anni '70, in effetti, Eldredge e Gould hanno proposto un nuovo modello evolutivo, la teoria degli "equilibri intermittenti" fondata su due punti essenziali che prevedono rispettivamente una rapida, geologicamente istantanea, speciazione allopatrica ed una successiva fase di stasi delle specie che si prolunga per tutta la vita. Ciò vale a dire che il mancato ritrovamento degli "anelli" di transizione tra le specie non dipenderebbe dalle lacune paleontologiche ma viene semplicemente considerato una conseguenza di tale meccanismo.

In ogni caso, si rimane comunque all'interno della teoria dell'evoluzione naturale.

I creazionisti, invece, sostengono che gli anelli mancanti della catena evolutiva sono gli indizi dell'intervento divino. In questa ottica, le nuove specie non dipendono dalla selezione naturale di specie preesistenti, ma sono prodotte direttamente da Dio.

Il problema è che, come già rilevato da Darwin, esistono nella organizzazione strutturale, nella distribuzione degli animali e delle piante delle "imperfezioni" e delle situazioni inspiegabili per una dottrina creazionista che solo l'evoluzionismo può spiegare. Una prova classica è data dagli organi rudimentali e non più funzionali che si osservano in alcuni animali. Un altro fenomeno è la presenza durante lo sviluppo dell'embrione (ontogenesi) di strutture rudimentali che vengono poi perse o trasformate in altri organi rispecchiando la storia evolutiva dell'organismo. Se si osserva poi la distribuzione geografica degli animali e delle piante si nota che ogni continente e ogni oceano presentano una fauna e una flora tipica ed in certicasi esclusiva: la biogeografia è spiegata solo con la storia evolutiva degli organismi legata indiscutibilmente all'evoluzione paleogeografica.

3.

Laddove, come nel caso dell'evoluzione delle forme viventi non può utilizzare il metodo sperimentale, la scienza diventa esaltante quando si accetta che le conclusioni cui essa perviene, e che si approssimano alla verità, sono conseguite attraverso un duro e prosaico sforzo di riflessione, di organizzazione dei dati disponibili, di ipotesi che rivelano ben presto i loro limiti e obbligano a formularne altre, di ostacoli che, nell'immediato, non sono sormontabili per difetto di conoscenze e richiedono ulteriori sviluppi della ricerca.

Le opere di Darwin, che riflettono quello sforzo in maniera esemplare, sono di lettura faticosa e a tratti inesorabilmente noiosa. Questo è uno dei motivi per cui, nonostante gli sforzi divulgativi, esse rimangono estranee al grosso pubblico.

L'ignoranza è, da sempre, la serratura che il pensiero religioso e conservatore utilizza per propinare le sue formule alternative rispetto alla scienza. Si tratta di formule accattivanti, semplici, ampiamente congeniali con alcuni aspetti primitivi della mente umana.

E' facile sfruttare, per esempio, l'artificialismo proprio dei bambini (che sotto forma di convinzione per cui qualunque cosa esiste deve essere prodotta da qualcuno residua in molti adulti) e la loro ingenua percezione dello spazio e del tempo riconducibile ad una successione senza fine di punti o di istanti (che anch'essa persiste in molti adulti) per fare appello ad un Essere Supremo Eterno che crea il mondo e, da ultimo, la vita, donando all'uomo un'anima immortale.

In realtà i concetti di Eternità, creazione ex-nihilo, immortalità, se vengono analizzati filosoficamente rivelano una complessità ben maggiore e contraddittoria rispetto ai concetti scientifici.

Non intendo angustiare il lettore con argomentazioni filosofiche. Mi limito a rilevare la contraddizione tra l'Eternità di Dio e la creazione. Dio è fuori del tempo, ma la creazione, se si esclude l'eternità della materia (che comporta la coincidenza panteistica tra Dio e l'Universo) avviene in un certo istante. Dove si colloca questo istante se, come ha stabilito la fisica, la dimensione temporale è imprescindibile da quella spaziale?