MAX WEBER

Antologia delle Opere

La sociologia (nel senso qui inteso di questo termine, impiegato in maniera così equivoca) deve designare una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l'agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti. Inoltre, per "agire" si deve intendere un atteggiamento umano (sia esso un fare o un tralasciare o un subire, di carattere esterno o interno), se e in quanto l'individuo che agisce o gli individui che agiscono congiungono ad esso un senso soggettivo. Per agire "sociale" si deve però intendere un agire che sia riferito - secondo il suo senso, intenzionato dall'agente o dagli agenti - all'atteggiamento di altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. […].

Per "senso" si deve qui intendere : a) il senso di fatto intenzionato soggettivamente o, in un caso storicamente dato, da colui che agisce, oppure, in media e approssimativamente, in una certa massa di casi, dagli agenti; b) il senso intenzionato soggettivamente, in un tipo puro costruito concettualmente, dall'agente o dagli agenti assunti come tipo. Certamente non si deve intendere per "senso" qualsiasi senso oggettivamente "corretto", oppure un senso "vero" stabilito metafisicamente. In ciò consiste la differenza delle scienze empiriche dell'agire - quali la sociologia e la ricerca storica - rispetto a tutte le discipline dogmatiche - giurisprudenza, logica, etica, estetica - che si propongono di indagare, nei loro oggetti, il senso "corretto" o "valido". […]. Il confine di un agire dotato di senso nei confronti di un comportamento meramente (per così dire) reattivo, non congiunto con un senso soggettivamente intenzionato, è assolutamente fluido. (M. Weber, Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, Vol. I, p. 4 - anno ed. orig.: 1922)

L’agire sociale (comprendendo il tralasciare o il subire) può essere orientato in vista dell’atteggiamento passato, presente, o previsto come futuro, di altri individui (come la vendetta per attacchi precedenti, la difesa da un attacco presente, o misure protettive contro attacchi a venire). Gli "altri" possono essere individui singoli e noti, oppure una molteplicità indeterminata di persone ignote: ad esempio, il "denaro" designa un bene di scambio che, nello scambio, l’agente accetta poiché orienta il suo agire in base all’aspettativa che numerosi altri individui, ma ignoti e indeterminati, siano da parte loro pronti a prenderlo in scambio nel futuro. […]. Non ogni specie di agire - e neppure di agire esterno - rappresenta un agire "sociale" nell'accezione qui stabilita. Non lo è l'agire esterno, quando esso è orientato semplicemente in vista delle aspettative del comportamento delle cose. E il comportamento interno è agire sociale solamente quando si orienta in vista dell'atteggiamento di altri individui: ad esempio, non è tale l'atteggiamento religioso, se resta soltanto contemplazione o preghiera solitaria. L'agire economico (di un individuo) diventa agire sociale solamente in quanto prende in considerazione l'atteggiamento di terze persone. In termini del tutto generali e formali, esso diventa tale in quanto fa assegnamento sul rispetto da parte di terze persone del proprio potere effettivo di disporre dei beni economici. Dal punto di vista materiale, esso diventa tale in quanto, per esempio nel caso del consumo prende in considerazione il desiderio futuro di altre persone, orientando pure in vista di questo la specie del proprio "risparmio", oppure in quanto, nel caso della produzione, assume tale desiderio come fondamento del suo orientamento. […]. Non ogni specie di contatto tra gli uomini riveste carattere sociale, ma solamente un atteggiamento orientato in maniera dotata di senso in vista dell'atteggiamento di altri individui. Ad esempio, uno scontro di due ciclisti è un mero avvenimento analogo agli eventi naturali; mentre sarebbe "agire sociale" il loro tentativo di evitarsi, ed il battibecco, il passaggio a vie di fatto o la discussione pacifica che fa seguito allo scontro. (Ibidem, pp. 19-20)

L’agire che riveste un’importanza specifica per la sociologia comprendente è, in modo particolare, un comportamento: 1) riferito, secondo il senso soggettivamente intenzionato di colui che agisce, al comportamento di altri; 2) condeterminato nel suo corso da questo suo riferimento dotato di senso; 3) che può quindi essere spiegato in modo intelligibile in base a questo senso (soggettivamente) intenzionato. (M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente, in Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 499; il saggio fu pubblicato originalmente nel 1913, all’interno di "Logos. Internazionale Zeitschrift für Philosophie der Kultur")

Per una disciplina che si occupa del senso dell'agire, "spiegare" vuoI dire quindi cogliere la connessione di senso in cui viene ad inserirsi, secondo il suo senso soggettivamente intenzionato, un agire attualmente intelligibile […]. In tutti i casi del genere - anche in quelli di processi affettivi - noi ci proponiamo di indicare il senso soggettivo del divenire, nonche della connessione in cui rientra, come senso "intenzionato" […]. L’"intendere" designa, in tutti questi casi, una comprensione interpretativa: a) del senso o della connessione di senso intenzionato realmente nel caso singolo - in sede di considerazione storica; b) del senso o della connessione di senso intenzionato in media e approssimativamente - in sede di considerazione sociologica; c) del senso o della connessione di senso ("tipico-ideale") da costruire scientificamente per ottenere il tipo puro (tipo ideale) di un fenomeno frequente. Costruzioni tipico-ideali di tal genere sono, ad esempio, i concetti e le "leggi" elaborati dalla teoria pura dell'economia politica. Essi enunciano il modo in cui si sarebbe svolto un determinato agire umano se esso fosse rigorosamente razionale in vista di uno scopo, non disturbato da errori e da elementi affettivi, ed inoltre orientato in maniera del tutto univoca in vista di uno scopo soltanto (di natura economica). Solamente in rari casi (ad esempio nel caso della borsa), ed anche allora in misura approssimativa, l’agire reale procede in modo analogo a quello in cui viene costruito nel tipo ideale […]. Per "motivo" si intende una connessione di senso che appare, all’individuo medesimo che agisce oppure all’osservatore, come "fondamento" dotato di senso di un atteggiamento […]. I processi e le uniformità che — non essendo suscettibili di comprensione — non vengono designati come "fenomeni sociologici" nel senso qui impiegato del termine, non sono naturalmente per questo meno importanti; e non sono meno importanti neppure per la sociologia nell’accezione che abbiamo assunto (la quale comporta una delimitazione alla "sociologia comprendente", che non deve e non può essere imposta ad alcuno). Essi rientrano soltanto — e ciò è in ogni caso, dal punto di vista metodologico, assolutamente inevitabile — in un ambito diverso da quello dell’agire intelligibile, e cioè nel dominio delle sue "condizioni", delle sue "occasioni", dei suoi "ostacoli", dei suoi "incentivi". (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 8-11)

La sociologia elabora - e ciò è già stato più volte assunto come evidente - concetti di tipi e cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all'analisi causale e all'imputazione di azioni, di formazioni, di personalità individuali che rivestono un'importanza cultura1e. L'elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale — in forma di modelli - essenzialmente, anche se non esclusivamente, dalle realtà dell'agire che sono rilevanti pure dal punto di vista della ricerca storica. Essa forma infatti i suoi concetti e indaga in cerca di regole soprattutto anche in base alla prospettiva dell'utilità che essi possono, per tale motivo, rivelare in vista dell'imputazione storico-causale dei fenomeni di importanza culturale. Come avviene nel caso di ogni scienza generalizzante, il carattere specifico delle sue astrazioni fa sì che i suoi concetti debbano essere relativamente vuoti, in quanto al contenuto, rispetto alla realtà concreta del processo storico. Ciò che essa può offrire in compenso, è l'accresciuta univocità dei concetti; e questa viene raggiunta in virtù dell’optimum di adeguazione di senso, a cui l'elaborazione concettuale della sociologia tende. Ciò vuol dire che la massima univocità può essere conseguita con particolare compiutezza nel caso - che abbiamo finora considerato in prevalenza - di concetti e di regole razionali (razionali rispetto al valore o razionali rispetto allo scopo). Ma la sociologia cerca di formulare in concetti teoretici, e cioè adeguati nel loro senso, anche i fenomeni irrazionali (e cioè mistici, profetici, pneumatici, affettivi). In tutti i casi, sia di fenomeni razionali che di fenomeni irrazionali, essa si distacca dalla realtà, e serve alla conoscenza di questa in quanto, fornendo la misura dell'avvicinamento di un fenomeno storico ad uno o a più di tali concetti, consente di sottoporlo a un ordine. Il medesimo fenomeno storico può, ad esempio, configurarsi in una parte dei suoi elementi come fenomeno "feudale", in un'altra come fenomeno "patrimoniale", in un'altra ancora come fenomeno "burocratico" oppure "carismatico". Affinché questi termini possano designare qualcosa di univoco, la sociologia deve, da parte sua, formulare tipi "puri" (cioè tipi idea1i) di formazioni di quel genere, le quali mostrano in sé l'unità conseguente della più completa adeguazione di senso, ma appunto perciò non si presentano, in questa forma assolutamente e idealmente pura, forse più di quanto nella realtà si presenti una reazione fisica calcolata in base al presupposto di uno spazio assolutamente vuoto. (ibidem, Vol. I, pp. 17-18)
 

Tipo ideale e metodo delle scienze sociali

Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria economica astratta, un esempio di quelle sintesi che si designano di solito come "idee" di fenomeni storici. Essa ci offre un quadro idea1e dei processi che avvengono in un mercato di beni, sulla base di un'organizzazione sociale fondata sull'economia di scambio, di una libera concorrenza e di un agire rigorosamente razionale. Questo quadro concettuale unisce determinate relazioni e determinati processi della vita storica in un cosmo, in sé privo di contraddizioni, di connessioni concettuali. Per il suo contenuto questa costruzione riveste il carattere di un'utopia, ottenuta attraverso l'accentuazione concettuale di determinati elementi della realtà. Il suo rapporto con i fatti empiricamente dati della vita consiste soltanto in questo, che laddove vengono determinati o supposti operanti, in qualsiasi grado, nella realtà connessioni del tipo astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè processi dipendenti dal "mercato", noi possiamo illustrare pragmaticamente e rendere comprensibile il carattere specifico di questa connessione in un tipo ideale. Questa possibilità è importante, anzi indispensabile, sia a scopo euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipico-ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso della ricerca: esso non costituisce un’"ipotesi", ma intende orientare la costruzione di ipotesi. Esso non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione strumenti precisi di espressione. Esso è quindi l’"idea" della moderna organizzazione della società, fondata sull'economia di scambio, storicamente data, la quale è stata sviluppata in base ai medesimi principi logici con cui si è proceduto a costruire l'idea dell’"economia cittadina" medievale come concetto "genetico". Quando si fa questo, il concetto di "economia cittadina" non costituisce una media dei principi economici operanti di fatto in tutte le città che vengono osservate, ma costituisce appunto un tipo ideale. Esso è ottenuto attraverso l'accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e attraverso la riunione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti - che corrispondono a quei punti di vista unilateralmente sottolineati - in un quadro concettua1e in sé unitario. Considerato nella sua purezza concettuale, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un'utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di determinare in ogni caso particolare la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo per esempio in quale misura il carattere economico dei rapporti riscontrabili in una determinata città possa venir qualificato concettualmente come proprio dell'"economia cittadina". Utilizzato con cautela, quel concetto rende però i suoi specifici servizi a scopo di indagine e di illustrazione […]. Quale è però il significato di questi concetti tipico-ideali per una scienza empirica, quale noi intendiamo svilupparla? Si deve anzitutto sottolineare che la nozione di "ciò che deve essere", vale a dire un "modello normativo", dev’essere tenuta accuratamente lontana da queste formazioni concettuali, che sono "ideali" in senso puramente logico […]. La formazione di tipi ideali astratti dev’essere quindi considerata non come fine, bensì come mezzo. Ogni attenta osservazione degli elementi concettuali di un’esposizione storica mostra però che lo storico, non appena intraprende il tentativo di determinare, al di là della mera constatazione di connessioni concrete, il significato culturale di un processo individuale per quanto semplice, allo scopo di "caratterizzarlo", lavora e deve lavorare con concetti che di regola possono venire definiti in maniera precisa e univoca soltanto sotto forma di tipi ideali […]. Se si deve tentare una definizione genetica del contenuto concettuale, rimane soltanto la forma del tipo ideale nel senso sopra fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale non è la realtà storica, e neppure la realtà "autentica", e tanto meno può servire come uno schema al quale la realtà debba essere subordinata come esemplare; esso ha il significato di un concetto-limite puramente ideale, a cui la realtà deve essere commisurata e comparata, al fine di illustrare determinati elementi significativi del suo contenuto empirico […]. Il tipo ideale rappresenta, in questa funzione, specialmente il tentativo di concepire gli individui storici o i loro elementi particolari in forma di concetti genetici. Si prendano per esempio i concetti di "chiesa" e di "setta". Essi possono essere risolti, in via puramente classificatoria, in complessi di caratteristiche in cui non soltanto il confine tra l'una e l'altra, ma anche il contenuto concettuale deve rimanere sempre fluido. Se, però voglio concepire il concetto di "setta" geneticamente, cioè in rapporto a certi significati culturali importanti che lo "spirito di setta" ha avuto per la civiltà moderna, allora diventano essenziali determinate caratteristiche dell'una e dell'altra, in quanto stanno in una relazione causale adeguata con quegli effetti. I concetti diventano però allora al tempo stesso tipico-ideali, cioè non si presentano mai, o si presentano soltanto in maniera isolata, nella loro piena purezza concettuale. Qui come ovunque ogni concetto non puramente classificatorio allontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro conoscere, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la realtà soltanto attraverso una catena di mutamenti di rappresentazione, postula una siffatta stenografia di concetti. La nostra fantasia può certo fare sovente a meno di una formulazione concettuale esplicita come strumento di ricerca; ma per la rappresentazione, se vuol essere precisa, l'impiego di tali concetti sul terreno dell'analisi culturale è in innumerevoli casi del tutto indispensabile. (M. Weber, L’"oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in M. Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, pp. 187-191. Il saggio fu pubblicato originalmentenel 1904, all’interno dell’"Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik")

Infatti, qualsiasi contenuto abbia il tipo ideale razionale - sia che esso rappresenti una norma di fede etica, giuridica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica giuridica o di politica sociale o di politica culturale, oppure una "valutazione" di qualsiasi specie espressa in forma il più possibile razionale - la sua costruzione ha sempre, nell' ambito delle indagini empiriche, soltanto lo scopo di "comparare" con esso la realtà empirica, e di stabilire il suo contrasto o la sua distanza da essa, oppure la sua relativa approssimazione a essa, per poterla descrivere e comprendere mediante l'imputazione causale, e quindi spiegarla, facendo uso di concetti intelligibili in modo il più preciso possibile. (M. Weber, Il senso della "avalutatività" delle scienze sociologiche ed economiche, in M. Weber, Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, a cura di P. Rossi, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 592. Il saggio fu pubblicato originalmente nel 1917, all’interno di "Logos. Internazionale Zeitschrift für Philosophie der Kultur")
 

Un "tipo ideale", nel nostro senso — si deve ripeterlo ancora una volta — è completamente indifferente nei confronti della valutazione, e non ha nulla a che fare con una "perfezione" che non sia puramente logica. Vi sono tipi ideali tanto di bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di bordelli che possono sembrare tecnicamente "conformi allo scopo" dal punto di vista dell’odierna etica pubblica, come ve ne sono di quelli per cui vale proprio l’opposto. (M. Weber, L’"oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, op. cit., p. 195)
  Concetti di genere; tipi ideali; concetti di genere tipico-ideali; idee nel senso di combinazioni concettuali empiricamente operanti negli uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali che dominano gli uomini storici; tipi ideali di questi ideali; ideali a cui lo storico riferisce la storia; costruzioni teoriche effettuate mediante l'impiego illustrativo del dato empirico; indagine storica condotta mediante l'impiego di concetti teorici come casi-limite ideali; e inoltre ancora le diverse complicazioni possibili a cui qui si è potuto soltanto accennare - sono tutte pure formazioni concettuali, il cui rapporto con la realtà empirica del dato immediato resta, in ogni caso particolare, problematico. Questa elencazione mostra già da sola l'intrico senza fine dei problemi metodico-concettuali, che si presentano continuamente nel campo delle scienze della cultura. (Ibidem, p. 200)

La mancanza di una precisa formazione di concetti può però diventare quanto mai pericolosa nelle discussioni pratiche di politica economica e sociale. Quale confusione abbiano qui prodotto per esempio l’impiego del termine "valore" — questo figlio del dolore della nostra disciplina, al quale può appunto essere dato un senso preciso soltanto su base tipico-ideale — oppure parole come "produttivo", "dal punto di vista economico-politico", ecc., che non reggono a nessuna analisi concettualmente chiara, è addirittura incredibile per il profano. E a recar danno sono qui prevalentemente i concetti collettivi tratti dal linguaggio quotidiano. (Ibidem, p. 204)

Noi siamo alla fine di queste considerazioni, le quali miravano semplicemente a porre in luce la linea, spesso molto sottile, che separa scienza e fede, e a cogliere il senso dell'aspirazione alla conoscenza economico-sociale. La validità oggettiva di ogni sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto sul fatto, che la realtà data viene ordinata in base a categorie che sono soggettive in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presupposto della nostra conoscenza, e che sono legate al presupposto del valore di quella verità che soltanto il sapere empirico può darci. A chi non consideri fornita di valore questa verità - e la fede nel valore della verità scientifica è il prodotto di determinate civiltà, non già qualcosa di dato per natura - non abbiamo nulla da offrire con gli strumenti della nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un'altra verità che possa sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può dare: concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e che neppure la riproducono, ma che consentono di ordinarla concettualmente in modo valido. (Ibidem, pp. 206-207)
 

Oggettività della scienza sociale, rapporto coi valori e ‘senso’ del mondo

La nostra rivista, in quanto rappresentante di una disciplina empirica, deve respingere in linea di principio questa posizione - come vogliamo mostrare fin dall'inizio - poiché siamo convinti che non può mai essere compito di una scienza empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per trarne ricette per l' azione pratica. Che cosa discende però da questa proposizione? Non ne discende in alcun modo che i giudizi di valore, in quanto essi si basano in ultima istanza su determinati ideali e sono perciò di origine "soggettiva", siano sottratti alla discussione scientifica in generale. La prassi e lo scopo della nostra rivista smentirebbe sempre un principio siffatto. La critica non si arresta di fronte ai giudizi di valore. La questione è piuttosto la seguente: che cosa significa e che cosa si propone una critica scientifica di ideali e di giudizi di valore? […] la trattazione scientifica dei giudizi di valore vuole non soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che ci prefiggiamo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto insegnarci anche a "valutarli" criticamente. Questa critica può certamente avere soltanto un carattere dialettico, cioè può soltanto essere una valutazione logico-formale del materiale che ci è offerto dai giudizi di valore e dalle idee storicamente date, e quindi un esame degli ideali in base al postulato della non contraddittorietà intrinseca di ciò che viene voluto. Essa può, proponendosi questo scopo, condurre colui che agisce volontariamente a un'auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che stanno a base del contenuto del suo volere, vale a dire su quei criteri di valore ultimi da cui egli inconsapevolmente muove o da cui - per essere coerente - dovrebbe muovere. Recare alla coscienza questi criteri ultimi, che si manifestano nel giudizio di valore concreto, è in ogni caso l'ultima cosa che essa può compiere senza inoltrarsi nel campo della speculazione. Che il soggetto che giudica debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo affare personale, e riguarda il suo volere e la sua coscienza, non già il sapere empirico. Una scienza empirica non può mai insegnare a nessuno ciò che egli deve, ma può insegnargli soltanto ciò che egli può e - in determinate circostanze - ciò che egli vuole. (M. Weber, L’"oggettività" conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, op. cit., pp. 151-153)
 

Da quanto si è detto finora risulta dunque che è priva di senso una trattazione "oggettiva" dei processi culturali, per la quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la riduzione del dato empirico a "leggi". Essa non è priva di senso, come sovente si è affermato, per il fatto che i processi culturali o anche i processi spirituali si comportino "oggettivamente" in maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la conoscenza di leggi sociali non è la conoscenza della realtà sociale, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il nostro pensiero si avvale a tale scopo; 2) perché non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significato che per noi ha la realtà della vita, sempre configurata in forma individuale, in determinate relazioni particolari. In quale senso e in quali relazioni ciò avvenga non ci è svelato da nessuna legge, perché ciò è deciso dalle idee di valore in base alle quali di volta in volta consideriamo, nel caso particolare, la "cultura". La "cultura" è una sezione finita dell'infinità priva di senso dell'accadere del mondo, alla quale viene attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo. Essa è tale anche per l'uomo che si contrappone a una cultura concreta come a un nemico mortale, e che reclama un "ritorno alla natura". Infatti egli può pervenire a questa presa di posizione solo in quanto riferisce la cultura concreta alle sue idee di valore, e la trova "troppo leggera". Quando qui si parla del nesso logicamente necessario di tutti gli individui storici con "idee di cultura", ci si riferisce a questo fatto puramente logico-formale. Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già il fatto che noi riteniamo fornita di valore una determinata, o anche in genere una "cultura" qualsiasi, bensì è il fatto che noi siamo esseri cu1turali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso. Qualunque possa essere questo senso, esso ci condurrà a valutare nella vita determinati fenomeni della coesistenza umana sulla sua base, e ad assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa) in quanto fornita di significato. Quale che sia il contenuto di tale presa di posizione, questi fenomeni hanno per noi un significato culturale, e su questo significato soltanto poggia il loro interesse scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all'uso linguistico dei logici moderni, del condizionamento della conoscenza della cultura da parte di idee di valore, si spera di non essere esposti a fraintendimenti così rozzi come se sostenessimo l'opinione che si debba attribuire un significato culturale soltanto ai fenomeni forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno cu1turale al pari della religione o del denaro; e tutti e tre lo sono in quanto e solamente in quanto, e solo nella misura in cui la loro esistenza e la forma che storicamente assumono toccano, direttamente o indirettamente, i nostri interessi culturali, e in quanto essi suscitano il nostro impulso conoscitivo sotto punti di vista orientati in base a idee di valore, le quali rendono per noi fornito di significato il segmento di realtà che viene pensato in quei concetti. Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre, come risulta da tutto questo, una conoscenza da punti di vista particolari. (Ibidem, pp. 178-179)
 

Scienza come professione, disincantamento del mondo, rapporto coi valori

Chiariamo, innanzitutto, cosa propriamente significhi, in pratica, questa razionalizzazione intellettualistica attraverso la scienza e la tecnica scientificamente orientata. Forse che noi oggi, tutti noi, per esempio, che siamo seduti in questa sala, abbiamo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistiamo maggiore di quella che possiede un indiano o un ottentotto? Difficilmente. Chi di noi viaggi in tram non ha alcuna idea, a meno che non sia un fisico specializzato, del modo in cui il veicolo si mette in moto. E del resto non ha alcun bisogno di saperlo. Gli è sufficiente poter "contare" sul comportamento della vettura tranviaria, ed egli regola conformemente il proprio comportamento; ma non sa davvero come si costruisca un tram in modo tale che si metta in moto. Incomparabilmente migliore è la conoscenza che il selvaggio ha dei propri strumenti. Se oggi spendessimo del denaro, scommetto che ciascuno dei colleghi esperti di economia politica presenti in sala avrebbe pronta una risposta diversa a questa domanda: In che modo agisce il denaro, tanto che con esso si possa comprare qualcosa, poco o molto che sia? In che modo riesca a provvedere al suo sostentamento quotidiano, e quali istituzioni gli servano a tale scopo, il selvaggio lo sa bene. La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa, quindi, una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita nelle quali ci troviamo. Ma essa significa qualcosa di diverso, cioè la consapevolezza o la fede che sia possibile apprendere solo ogni qual volta si voglia, e che dunque per principio non esistano forze imprevedibili misteriose che qui entrino in gioco ma che piuttosto tutte le cose, per principio, si possano dominare attraverso il calcolo. Ma questo significa il disincantamento del mondo. Non è più necessario, come fa il selvaggio per il quale esistono tali forze, ricorrere a mezzi magici per dominare o propiziarsi gli spiriti. Ciò si ottiene con i mezzi tecnici e con il calcolo. Questo, soprattutto, significa l’intellettualizzazione in quanto tale. Ma questo processo di disincantamento, svoltosi incessantemente per millenni nella cultura occidentale, e in genere questo "progresso" di cui la scienza fa parte come elemento e impulso, ha un qualche significato che superi quello puramente pratico e tecnico? Un tale problema lo trovate sollevato, come più importante questione di principio, nelle opere di Leone Tolstoj. Egli vi arrivò in un modo tutto particolare. L’intero problema che gli tormentava il cervello girava sempre di più attorno alla domanda se la morte fosse o no un fenomeno che avesse un significato. E la risposta che egli dà è che un tale significato non c’è per gli uomini civilizzati. E non c’è proprio perché la vita di ogni singolo individuo civilizzato, inserita nel "progresso", nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo stesso significato immanente, una fine. Rimane, infatti, sempre un ulteriore progresso per chi vi si trovi dentro; nessuno fra coloro che muoiono si trova al culmine, perché questo è nell’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino del tempo antico moriva "vecchio e sazio della vita", perché si trovava nel ciclo organico della vita, perché la sua vita, anche secondo il suo significato, gli aveva portato alla sera dei suoi giorni ciò che gli poteva offrire, perché non gli rimanevano enigmi che desiderasse risolvere, e quindi poteva averne "abbastanza". Un uomo civilizzato, invece, coinvolto nel continuo arricchimento della civiltà con idee, conoscenze, problemi, può diventare "stanco", ma non sazio della vita. Egli, infatti, di ciò che la vita dello spirito genera sempre di nuovo coglie soltanto la più piccola parte, e sempre qualcosa di provvisorio, niente di definitivo, e quindi la morte è per lui un avvenimento privo di significato. E dato che è senza significato la morte, lo è anche la vita civile in quanto tale, che appunto con la sua "progressività" priva di significato dà anche alla morte questa impronta. (M. Weber, La scienza come professione, a cura di L. Pellicani, Armando Editore, Roma, 1997, pp. 50-52; si tratta di una conferenza tenuta a Monaco di Baviera nel 1918)

L’entusiasmo appassionato di Platone nella Repubblica si spiega in ultima analisi con il fatto che allora fu consapevolmente scoperto, per la prima volta, il significato di uno dei più importanti strumenti di ogni conoscenza scientifica: il concetto. […] Accanto a questa scoperta dello spirito ellenico comparve ora, come figlio del Rinascimento, il secondo grande strumento del lavoro scientifico: l’esperimento razionale come mezzo di un’esperienza controllata in maniera attendibile, senza il quale l’odierna scienza empirica sarebbe impossibile. […] l’esperimento innalzato al principio della ricerca in quanto tale è una realizzazione del Rinascimento. (Ibidem, pp. 53-55)

Ma torniamo al discorso iniziale, per vedere quale sia, sotto tali intrinseci presupposti, il significato della scienza come professione, dato che tutte queste precedenti illusioni, cioè "via verso il vero essere", "via verso la vera arte", "via verso il vero Dio", "via verso la vera felicità", sono naufragate. La risposta più semplice l’ha data Tolstoj con queste parole: "Essa [la scienza] è priva di significato, perché non dà alcuna risposta all’unica domanda per noi importante: ‘Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?" (Ibidem, p. 57)

Ci soffermiamo ora sulle discipline a me più vicine, cioè la sociologia, la storia, l’economia politica, la scienza politica e quelle forme di filosofia della cultura che s’incaricano di spiegarle. Si afferma, e io sottoscrivo, che la politica non si addice in un’aula universitaria. […] Infatti, la presa di posizione sul piano pratico-politico e l’analisi scientifica di formazioni politiche e atteggiamenti partitici sono due cose diverse. (Ibidem, pp. 60-61)

Sarei in grado di provare, con le opere dei nostri storici, che ogni qualvolta l’uomo tratta la scienza con il proprio giudizio di valore viene meno la piena comprensione dei fatti. […] E innanzitutto, se uno è un abile maestro, il suo primo compito è quello d’insegnare ai suoi allievi a riconoscere fatti scomodi, così come potrebbero esserlo, intendo dire, per la sua opinione di parte; e fatti estremamente scomodi di questo genere esistono per ogni opinione di parte, anche per la mia. Ritengo che quando il docente universitario costringe i suoi ascoltatori ad abituarsi a questo, compie qualcosa di più che una semplice opera intellettuale, ed anzi ardirei usare addirittura l’espressione "opera morale", per quanto questa possa suonare forse un po’ troppo patetica per un fatto ovvio così banale. (Ibidem, pp. 63-64)

È destino del nostro tempo, con la sua tipica razionalizzazione ed intellettualizzazione, e soprattutto con il disincantamento del mondo, che proprio i valori più alti e sublimi si siano ritirati dalla vita pubblica per rifugiarsi nel regno ultramondano dell’amore mistico o nella fraternità di immediati rapporti reciproci. Non è a caso che la nostra arte più alta sia quella intima, non monumentale, e che soltanto all’interno dei circoli più ristretti pulsi da individuo a individuo, nella quiete (in un pianissimo), quel palpito corrispondente a quello che prima pervadeva le grandi comunità come un soffio profetico nell’impeto di un fuoco. Se cerchiamo di ottenere a forza e "inventare" un senso monumentale dell’arte, ne risulta un così miserabile aborto come nei molti monumenti degli ultimi vent’anni. Se cerchiamo di escogitare nuove forme religiose senza una nuova e autentica profezia, ne risulta nell’intimo della coscienza qualcosa di simile che ha necessariamente effetti anche peggiori. E la profezia pronunciata dalla cattedra creerà più che mai solo sette fanatiche, ma mai una comunità autentica. A chi non è capace di sopportare virilmente questo destino del nostro tempo è necessario dire di tornare piuttosto, in silenzio, senza la consueta pubblicità data alla propria conversione, ma schiettamente e semplicemente, nelle braccia largamente e misericordiosamente aperte delle antiche chiese. Esse non gli fanno alcuna difficoltà. Ma in un modo o nell’altro egli deve offrire, ciò è inevitabile, il "sacrificio dell’intelletto". Non lo rimprovereremo per questo, se ne è realmente capace. Infatti, un tale sacrificio dell’intelletto a favore di una dedizione religiosa incondizionata è comunque moralmente qualcosa di diverso da quella elusione del semplice dovere di onestà intellettuale, che avviene quando non si ha il coraggio di rendersi conto chiaramente del proprio atteggiamento ultimo, ma si alleggerisce questo dovere rifugiandosi in un debole relativismo. E quella dedizione ricopre un posto per me anche più alto di quella profezia pronunciata dalla cattedra, la quale non si rende conto che tra le quattro parewti di un’aula universitaria nessun’altra virtù ha valore se non la semplice onestà intellettuale. (Ibidem, pp. 77-78)
 

L’agire dell’individuo come unità minima e, al tempo stesso, limite superiore dell’analisi sociologica

Il fine della considerazione sociologica - la "comprensione" - costituisce infine anche il motivo per cui la sociologia comprendente {nel nostro senso) tratta l'individuo singolo e il suo agire come l'unità minima, come il proprio "atomo" - se ci è qui consentito questo raffronto in sé pericoloso. Il compito di altre forme di considerazione può ben comportare che si tratti forse l'individuo singolo come un complesso di "processi" psichici o chimici o di qualsiasi altra specie. Ma la sociologia prende in esame tutto ciò che sta al di sotto della soglia di un atteggiamento intelligibile dotato di senso nei confronti di "oggetti" {interni o esterni) - al pari dei processi della natura "estranea al senso" - solamente in quanto condizione oppure termine di riferimento soggettivo di tale atteggiamento. Per lo stesso motivo, però, l'individuo rappresenta pure, per questa forma di considerazione, il limite superiore e l'unico portatore di un atteggiamento dotato di senso. Nessuna forma di espressione che in apparenza se ne discosti può mascherare questo fatto. Appartiene al carattere specifico non soltanto del linguaggio, ma anche del nostro pensiero, che i concetti con cui viene colto l'agire lo facciano apparire nella veste di un essere permanente, di una formazione simile a una cosa o di una formazione di carattere "personale" che conduce una propria vita autonoma. Ciò avviene anche, e particolarmente, nella sociologia. Concetti come quelli di "stato", di "corporazione", di "feudalesimo" e simili designano per la sociologia, in generale, categorie di determinati tipi di agire umano collettivo; ed è quindi suo compito ricondurle a un agire "intelligibile" — il che vuol dire, senza eccezione, all’agire degli individui che vi partecipano. (M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente, op. cit, pp. 508-509)
 

Tipi di agire sociale

Come ogni agire, anche l’agire sociale può essere determinato: 1) in modo razionale rispetto allo scopo — da aspettative dell’atteggiamento di oggetti del mondo esterno e di altri uomini, impiegando tali aspettative come "condizioni" o come "mezzi" per scopi voluti e considerati razionalmente, in qualità di conseguenza; 2) in modo razionale rispetto al valore - dalla credenza consapevole nell'incondizionato valore in sé - etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile - di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza; 3) affettivamente - da affetti e da stati attuali del sentire; 4) tradizionalmente — da un’abitudine acquisita. 1. L'atteggiamento rigorosamente tradizionale - al pari della pura imitazione passiva (a cui si è accennato nel paragrafo precedente) - sta precisamente al limite, e spesso al di là di ciò che si può definire, in generale, un agire orientato "in base al senso". Infatti esso è assai sovente una specie di oscura reazione a stimoli abitudinari, che si svolge nel senso di una disposizione una volta acquisita. La massa di tutto l'agire quotidiano acquisito si avvicina a questo tipo - il quale non soltanto si inserisce come caso-limite nella sistematica delle forme di atteggiamento, ma anche, dato che il legame con il patrimonio dell'abitudine può essere consapevolmente mantenuto in un grado e in un senso diverso (come si vedrà in seguito), viene ad accostarsi al tipo dell'agire affettivo. 2. Il comportamento rigorosamente affettivo sta esso pure al limite, e sovente al di là dell'agire consapevolmente orientato "in base al senso"; e può essere una specie di reazione, priva di ostacoli, ad uno stimolo che va oltre la vita quotidiana. Esso costituisce una sublimazione quando l'agire condizionato affettivamente si presenta come liberazione cosciente di una situazione del sentimento: esso si trova allora, nella maggior parte dei casi (anche se non sempre), sulla via della "razionalizzazione in vista di un valore" o dell'agire in vista di uno scopo, oppure di entrambi. 3. L'orientamento affettivo dell'agire e l'orientamento razionale rispetto al valore si distinguono per la consapevole elaborazione dei punti di riferimento ultimi dell'agire e per l'orientamento progettato in maniera conseguente, che si riscontrano nel secondo. Per il resto essi hanno in comune il fatto che il senso dell’agire è riposto non in un risultato che stia al di là di questo, ma nell’agire in quanto tale, configurato in un certo modo. Agisce affettivamente chi soddisfa il suo bisogno, attualmente sentito, di vendetta o di gioia. o di dedizione o di beatitudine contemplativa o di manifestazione di affetti (sia di carattere inferiore sia di carattere sublime). Agisce in maniera puramente razionale rispetto al valore colui che - senza riguardo per le conseguenze prevedibili - opera al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene essergli comandato dal dovere, dalla dignità, dalla bellezza, dal precetto religioso, dalla pietà o dall'importanza di una "causa" di qualsiasi specie. L'agire razionale rispetto al valore (nel significato che assume nella nostra terminologia) è sempre un agire secondo "imperativi" o in conformità a "esigenze" che l'agente crede gli siano poste. Noi intendiamo parlare di razionalità rispetto al valore solamente in quanto l'agire umano si orienta in base a tali esigenze - ciò che avviene in misura assai diversa, ma il più delle volte alquanto modesta. Come sarà posto in luce, esso riveste un significato abbastanza rilevante perché lo si debba considerare un tipo particolare - sebbene non ci si proponga qui, del resto, di fornire una classificazione esauriente dei tipi dell'agire. 4. Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, ed infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco: in ogni caso egli non agisce quindi, né affettivamente (e in modo particolare non emotivamente) né tradizionalmente. La decisione tra gli scopi in concorrenza e in collisione, e tra le relative conseguenze, può da parte sua essere orientata razionalmente rispetto al valore: allora l'agire risulta razionale rispetto allo scopo soltanto nei suoi mezzi. Oppure l'individuo che agisce può - prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di "imperativi" e di "esigenze" - disporre gli scopi, concorrenti e contrastanti, considerati semplicemente come dati indirizzi soggettivi di bisogni, in una scala stabilita in base alla loro urgenza da lui consapevolmente misurata, e di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione (principio dell’"utilità marginale"). L'orientamento dell'agire razionale rispetto al valore può quindi essere in relazioni assai differenti con l'atteggiamento razionale rispetto allo scopo. Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore e sempre irrazionale - e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l'agire; e ciò poiché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell'agire, quanto più assume come incondizionato il suovalore in sé (la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l'assoluta conformità al dovere). Ma l'assoluta razionalità rispetto allo scopo è anche soltanto un caso- limite, di carattere essenzialmente costruttivo. 5. Assai di rado l'agire, e in particolare l'agire sociale, è orientato esclusivamente nell'uno o nell'altro modo. E così pure questi tipi di orienta mento non costituiscono affatto, naturalmente, una classificazione esauriente dei modi di orientamento dell'agire, ma sono tipi concettualmente puri - creati per scopi sociologici - ai quali l'agire reale si avvicina più o meno, o dei quali, ancor più di frequente, risulta mescolato. Soltanto il risultato può dimostrarne l'opportunità per noi […]. Per "relazione" sociale si deve intendere un comportamento di più individui instaurato reciprocamente secondo il suo contenuto di senso, e orientato in conformità. La relazione sociale consiste pertanto esclusivamente nella possibi1ità che si agisca socialmente in un dato modo (dotato di senso), quale che sia la base su cui riposa tale possibilità […]. Si richiede quindi, come caratteristica concettuale, un minimo di relazione reciproca dell'agire di entrambe le parti. Il contenuto può essere il più diverso: la lotta, l'inimicizia, l'amore sessuale, l'amicizia, la reverenza, lo scambio di mercato, l’"adempimento" o l’"elusione" o la "rottura" di una stipulazione, la "concorrenza" economica o erotica o di altro genere, la comunità di ceto o nazionale o di classe (nel caso che questi ultimi fenomeni producano, oltre a semplici legami di comunanza, un "agire sociale") […]. Il concetto di relazione sociale non asserisce nulla in merito alla sussistenza, o meno, di una "solidarietà" tra gli individui che agiscono […]. Ciò non vuol dire che coloro i quali partecipano ad un agire instaurato reciprocamente attribuiscano in ogni caso alla relazione sociale il medesimo contenuto di senso, oppure si dispongano interiormente, nei confronti dell'altro termine della relazione, in modo corrispondente, per il senso, alla disposizione di questi, in maniera tale che vi sia una "reciprocità" anche in questo senso. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 21-24)
 

Razionalità formale e razionalità materiale

Con razionalità formale di un agire economico si deve qui designare la misura del calcolo tecnicamente possibile e realmente applicato da esso. Con razionalità materiale si deve invece designare il grado in cui l'approvvigionamento di determinati gruppi umani (quale che sia il loro ambito) con determinati beni, mediante uno specifico agire orientato economicamente, viene a configurarsi dal punto di vista di determinati postulati valutativi - di qua1siasi genere - da cui esso è stato, è o potrebbe essere considerato. Questi postulati hanno un carattere estremamente diverso […]. Un agire economico deve essere definito forma1mente "razionale" nella misura in cui lo "sforzo economico" essenziale ad ogni economia razionale può esprimersi, e viene espresso, in considerazioni numeriche, e cioè "di calcolo" - prescindendo del tutto dalla formulazione tecnica di questi calcoli, e quindi dal carattere monetario o naturale delle loro stime. Pertanto questo concetto risulta univoco (sebbene soltanto relativamente, come si porrà in luce) almeno nel senso che la forma monetaria rappresenta il massimo grado di questa calcolabilità forma1e - naturalmente ceteris paribus […]. Al contrario, il concetto di razionalità materia1e assume significati quanto mai differenti. Esso esprime semplicemente questo elemento comune - che l'analisi non si accontenta del fatto, constatabile in modo (relativamente) univoco, che viene compiuto un calcolo razionale rispetto allo scopo, con mezzi tecnici il più possibile adeguati; ma fa invece valere esigenze etiche, politiche, utilitarie, edonistiche, di ceto, di eguaglianza o di qualsiasi altra specie, misurando in base ad esse raziona1mente rispetto al valore, o razionalmente rispetto ad un scopo materiale, i risultati dell'agire economico (anche se questo è formalmente "razionale", cioè calcolabile). In linea di principio, i criteri valutativi che rivestono carattere razionale in questo senso sono innumerevoli. I criteri valutativi di indirizzo socialistico e comunistico, anch'essi tutt'altro che univoci, che rivestono sempre in qualche grado carattere etico ed egualitario, sono evidentemente soltanto un gruppo particolare entro tale molteplicità: la gerarchia di ceto, la prestazione di un servizio a scopo di potenza politica, e in particolare a scopo bellico, e tutti gli altri punti di vista del genere sono anch'essi "materiali" in questo senso. Occorre però osservare che è sempre possibile, in forma del tutto autonoma rispetto a questa critica materiale del risultato economico, una critica etica, ascetica, estetica dell' intenzione e dei mezzi dell'attività economica. A tutte queste forme di critica la funzione "meramente formale" del calcolo monetario può apparire subordinata o addirittura contrastante con i loro postulati - prescindendo ancora dalle conseguenze del tipo di calcolo specificamente moderno. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 80-81)
 

Classi, ceti e partiti

Ogni ordinamento giuridico (non soltanto quello "statale") agisce direttamente, mediante la sua configurazione sulla distribuzione della potenza caratteristica di una comunità — e ciò non soltanto per la potenza economica, ma anche per qualsiasi altra potenza. Per "potenza" intendiamo qui in generale la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede, di imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire […]. Le "classi", i "ceti" e i "partiti" costituiscono precisamente fenomeni di distribuzione della potenza all’interno di una comunità […]. Noi parleremo di "classe" quando a una pluralità di uomini è comune una specifica componente causale delle loro possibilità di vita, nella misura in cui questa componente è rappresentata semplicemente da interessi economici di possesso e di guadagno - nelle condizioni del mercato dei beni o del lavoro ("situazione di classe"). È un fatto economico tra i più elementari che il modo in cui la disposizione del possesso materiale è distribuita tra una pluralità di uomini che si incontrano e concorrono sul mercato a scopo di scambio crea già di per sé specifiche possibilità di vita […]. Il "possesso" e la "mancanza di possesso" costituiscono perciò le categorie fondamentali di tutte le situazioni di classe, sia che queste agiscano nella lotta dei prezzi o nella lotta di concorrenza. Ma nell'ambito di queste due categorie le situazioni di classe si differenziano ulteriormente, da un lato a seconda del genere del possesso utilizzabile per il profitto, e dall'altro a seconda delle prestazioni da offrire sul mercato. Si può trattare del possesso di edifici di abitazione, o del possesso di officine, magazzini, negozi, o del possesso fondiario di terreno agricolo, e così pure nell'ambito di queste forme, di grande o di piccolo possesso - che rappresenta una differenza quantitativa con conseguenze eventualmente qualitative; oppure si può trattare di miniere, di bestiame, di schiavi, di disposizione di mezzi di produzione mobili o di mezzi di guadagno di ogni genere, e soprattutto di denaro o di oggetti che possono in ogni tempo venire scambiati contro denaro in modo particolarmente facile, o di prodotti del lavoro proprio o altrui ( diversi a seconda dei diversi gradi di usufruibilità) o di monopoli commerciali. Tutte queste differenze caratterizzano la situazione di classe dei possidenti, al pari del "senso" che essi possono dare e danno all'utilizzazione del loro possesso, soprattutto di quello avente valore monetario - a seconda che essi appartengano, ad esempio, alla classe dei redditieri o alla classe degli imprenditori. Altrettanto fortemente coloro che, privi di possesso, offrono prestazioni di lavoro, vengono a differenziarsi a seconda del genere di queste, e anche a seconda che essi le valorizzino in una relazione continuativa con un cliente oppure caso per caso. Ma un elemento costantemente presente nel concetto di classe è rappresentato dal fatto che la qualità delle possibilità offerte sul mercato rappresenta la condizione comune del destino di tutti gli individui. In questo senso la "situazione" di classe è in ultima analisi la "situazione di mercato" […]. In base a ogni esperienza, una differenziazione delle possibilità di vita, per forte che sia, non produce di per se un "agire di classe", cioè un agire di comunità degli appartenenti alla classe. Il condizionamento e l'azione della situazione di classe devono essere chiaramente riconoscibili. Soltanto allora, infatti, il contrasto delle possibilità di vita può essere sentito non come qualcosa di dato e da accettare, ma come il risultato della distribuzione concreta del possesso o della struttura dell'ordinamento economico concreto; e soltanto allora è possibile una reazione che si esprima non solamente in atti di protesta intermittenti e irrazionali, ma sotto forma di un'associazione razionale […]. Ogni classe può quindi essere portatrice di qualche "agire di classe" - di cui sono possibili innumerevoli forme - ma non lo è necessariamente: in ogni caso essa non costituisce una comunità, e considerarla concettualmente equivalente a una comunità è fonte di equivoci. È vero che di regola uomini posti in una stessa situazione di classe reagiscono a situazioni così concrete come quella economica con un agire di massa rivolto nella direzione più adeguata agli interessi della media, e questo è fatto in fondo semplice, ma importante per la comprensione degli avvenimenti storici. Ciò non deve però giustificare quell'impiego pseudo-scientifico del concetto di "classe" e di "interesse di classe" che oggi ricorre spesso, e che ha trovato la sua espressione più classica nell'affermazione di un autore notevole secondo la quale l'individuo si potrebbe ingannare per quanto riguarda i propri interessi, ma la "classe" sarebbe "infallibile" per quanto riguarda i propri. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. II, pp. 228-232)
 

Per "situazione di classe" si deve intendere la possibilità tipica del modo di procurarsi i beni, della condotta esteriore di vita e dello stato interiore, che consegue dalla misura e dalla specie del potere di disposizione (o dalla mancanza di esso) sui beni o sulle qualificazioni di prestazione, e dalla loro utilizzabilità per conseguire un reddito o delle entrate nell'ambito di un certo ordinamento economico. Per "classe" si deve intendere ogni gruppo di uomini che si trova in un'eguale situazione di classe. a) Una classe deve essere chiamata classe possidente quando le differenze di possesso determinano in modo primario la situazione di classe. b) Una classe deve essere chiamata classe acquisitiva quando le possibilità di utilizzazione sul mercato dei beni o delle prestazioni determinano in modo primario la situazione di classe. c) Classe sociale deve essere detto l'insieme di quelle situazioni di classe tra le quali è agevolmente possibile, e di solito avviene, uno scambio - o personale, o nella successione delle generazioni. Sul terreno di queste tre categorie di classi potrebbero sorgere associazioni tra gli individui che hanno interessi di classe (gruppi di classe). Ma ciò non avviene necessariamente: la situazione di classe e la classe designano di per sé soltanto situazioni tipiche di interessi eguali (o simili), nelle quali il singolo si trova al pari di numerosi altri […]. Le classi possidenti privilegiate in senso positivo sono soprattutto costituite dai redditieri, i quali possono essere: redditieri di uomini (possessori di schiavi); redditieri fondiari; redditieri di miniere; redditieri di impianti (possidenti di impianti di lavoro e di apparecchiature); redditieri di navi; prestatori di bestiame, di denaro, di derrate; ed, infine, redditieri di titoli. Le classi privilegiate in senso negativo rispetto al possesso sono tipicamente: coloro che sono oggetto di possesso (non liberi: cfr. l'analisi dei "ceti" ); i declassati (proletarii in senso antico); i debitori; i "poveri". In mezzo stanno le "classi medie" , che sono fornite di un possesso o di una qualità di educazione, e che comprendono gli strati sociali di ogni specie che da ciò traggono il proprio profitto. Alcune di esse possono essere "classi acquisitive" (gli imprenditori con un privilegio essenzialmente positivo, e i proletari con un privilegio essenzialmente negativo): non tutti però lo sono - per esempio i contadini, gli artigiani, i funzionari […]. Le classi acquisitive privilegiate in senso positivo sono soprattutto gli imprenditori: commercianti, armatori, imprenditori industriali, imprenditori agricoli, imprenditori bancari e finanziari - ed ancora, in certe circostanze, le "libere professioni" fornite di capacità o di preparazione privilegiata (avvocati, medici, artisti), e operai con qualità monopolistiche (personali o apprese o imparate). Le classi acquisitive privilegiate in senso negativo sono soprattutto i lavoratori nelle loro specie così differenti da un punto di vista qualitativo: lavoratori specializzati, qualificati, non qualificati. I contadini egli artigiani indipendenti stanno anche qui nel mezzo come "classi medie". Inoltre ad esse appartengono spesso anche i funzionari (pubblici e privati), le "libere professioni" già ricordate e i lavoratori con qualità monopolistiche (personali o apprese o imparate). (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 299-301)
 

In antitesi alle classi, i ceti sono di regola comunità, anche se spesso di genere amorfo. In contrapposizione alla "situazione di classe" determinata in modo puramente economico, definiamo "situazione di ceto" ogni componente tipica del destino di un gruppo di uomini, la quale sia condizionata da una specifica valutazione sociale, positiva o negativa, dell’"onore" che è legato a qualche qualità comune di una pluralità di uomini. Questo onore può anche dipendere da una situazione di classe: le differenze tra le classi si intrecciano nelle relazioni più varie con le differenze di ceto, e il possesso in quanto tale - come si è già visto - raggiunge alla lunga anche una validità nell'ambito del ceto; ciò almeno come regola generale. Si osserva in tutto il mondo che nel gruppo di vicinato ad economia propria molto spesso l'uomo più ricco è semplicemente in quanto tale il "capo" - cosa che sovente implica una pura preferenza onorifica. Nella "democrazia moderna" cosiddetta pura - cioè libera da privilegi individuali espressamente stabiliti in relazione al ceto - può accadere ad esempio che soltanto i membri di famiglie appartenenti approssimativamente alla stessa classe tributaria siano disposti a danzare tra loro - come si racconta ad esempio di alcune città svizzere minori. Ma l'onore di ceto non è necessariamente legato a una "situazione di classe", essendo piuttosto di regola in netto contrasto con le pretese del puro e semplice possesso. Possidenti e non possidenti possono appartenere al medesimo ceto, e ciò accade di frequente e con conseguenze molto tangibili, per quanto precaria possa alla lunga diventare questa "eguaglianza" della stima sociale […]. Quanto al contenuto, l'onore di ceto si esprime normalmente soprattutto nell'esigere una condotta di vita particolare da tutti coloro i quali vogliono appartenere a una data cerchia. Connessa con ciò è la limitazione dei rapporti "sociali" - cioè dei rapporti che non hanno scopi economici o per altro verso "oggettivi" - e in particolare del connubio normale alla cerchia del ceto, fino alla completa chiusura endogama. Il processo di sviluppo "di ceto" è in atto non appena ci troviamo di fronte non ad una pura e semplice imitazione individuale - socialmente irrilevante - della condotta di vita altrui, ma all'agire di una comunità di consenso avente tale carattere […]. Quando vengono tratte le estreme conseguenze, il ceto evolve verso la "casta" chiusa. Ciò significa che la separazione del ceto non ha più soltanto una garanzia convenzionale e giuridica, ma anche rituale, nel senso che ogni contatto fisico con un membro di una casta considerata "inferiore" costituisce per gli appartenenti alle caste "superiori" un marchio di impurità rituale, che richiede un’espiazione religiosa; nelle singole caste si possono poi in parte sviluppare culti e divinità particolari. Naturalmente l’articolazione in base a ceti conduce in generale a queste conseguenze soltanto dove essa poggia su differenze che vengono considerate "etniche" […]. Ma la selezione personale non rappresenta affatto l'unica fonte - o la fonte prevalente - della formazione dei ceti: l'appartenenza politica o la situazione di classe hanno sempre avuto un'importanza almeno altrettanto decisiva, e oggi la seconda prevale decisamente. Infatti la possibilità di una condotta di vita "conforme al ceto" è naturalmente condizionata di solito anche economicamente. Considerata praticamente, la distinzione dei ceti si accompagna ovunque con una monopolizzazione di beni o di possibilità ideali e materiali, nella forma che abbiamo già visto essere tipica. Accanto allo specifico onore di ceto, che è sempre fondato sulla distanza e sull'esclusività, e accanto a preferenze onorifiche quali il privilegio riguardante determinati abiti o determinati cibi vietati agli altri come tabù, o il privilegio di portare armi - produttivo a sua volta di conseguenze molto tangibili - o il diritto all'esercizio di determinate forme di arte, non professionali ma dilettantistiche (ad esempio il diritto all'uso di certi strumenti musicali), sussistono monopoli materiali di ogni genere. Sono proprio questi a costituire - seppur raramente in via esclusiva, ma quasi sempre però in qualche misura - i motivi più efficaci dell'esclusività di ceto […]. La frequente squalificazione di chi svolge "attività acquisitiva" in quanto tale è conseguenza diretta - a parte i motivi particolari che vedremo in seguito - del principio "di ceto" dell'ordinamento sociale e della sua differenza rispetto al puro regolamento di mercato della distribuzione di potenza. Il mercato e i processi economici che vi si svolgono ignorano, come si è visto, ogni "considerazione della persona" : esso è dominato da interessi "oggettivi", e le considerazioni relative all’"onore" ne sono escluse. L'ordinamento di ceto implica invece, all'opposto, una distinzione in base all’"onore" e alla condotta di vita. In quanto tale esso sarebbe minacciato alla radice se il puro profitto economico e la semplice potenza economica, che reca ancora scritta in fronte la sua origine esterna al ceto, potessero conferire a tutti coloro che lo hanno conquistato un "onore" eguale a quello che i rappresentanti del ceto pretendono per se in virtù della loro condotta di vita, o anche un onore in complesso maggiore - dato che, a parità di onore di ceto, il possesso costituisce pur sempre qualcosa di più, anche se non confessato. Perciò gli individui interessati a una distinzione di ceto reagiscono sempre in modo particolarmente deciso proprio contro le pretese del puro profitto economico in quanto tale; e ciò di solito con tanta maggiore decisione quanto più si sentono minacciati […]. Come effetto dell'organizzazione in ceti si può stabilire in generale soltanto un fatto molto importante, cioè l'ostacolo al libero sviluppo del mercato. Ciò vale anzitutto per quei beni che i ceti sottraggono direttamente al libero commercio mediante una monopolizzazione, sia giuridicamente che convenzionalmente. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. II, pp. 234-239)
 

Per situazione di ceto si deve intendere un effettivo privilegiamento positivo o negativo nella considerazione socia1e, fondato sul modo di condotta della vita, e perciò sulla specie di educazione formale - sia essa un insegnamento empirico oppure razionale, con il possesso delle forme di vita corrispondenti - e sul prestigio derivante dalla nascita o dalla professione […]. La situazione di ceto può fondarsi su una situazione di classe di tipo determinato o di vario tipo. Ma essa non è determinata da questa soltanto; il possesso di denaro e la posizione di imprenditore non sono di per sé qualificazioni di ceto - sebbene possano recare a ciò; e la mancanza di fondi non è già di per se una qualificazione negativa di ceto, sebbene possa recare a ciò. D'altra parte una situazione di ceto può condizionare parzialmente o totalmente una situazione di classe, pur senza identificarsi con essa. La situazione di classe di un ufficiale, di un funzionario, di uno studente - qual'è determinata dalle sue possibilità economiche - può essere straordinariamente diversa senza però differenziarne la situazione di ceto, poiché la condotta di vita creata dall'educazione è la stessa per gli aspetti decisivi dal punto di vista del ceto. Per "ceto" si deve intendere una pluralità di persone, che, all'interno di un gruppo sociale, aspirano ad una particolare considerazione di ceto, ed eventualmente anche ad un particolare monopolio di ceto. I ceti possono sorgere: a) in primo luogo, in base alla condotta personale di vita, e in particolare in base alla specie di professione (ceti caratterizzati dalla condotta di vita e dalla professione); b) in secondo luogo, su base carismatico-ereditaria, cioè in base alla pretesa di prestigio in virtù della discendenza di ceto (ceti per nascita); c) mediante l'appropriazione di ceto, in forma di monopolio, di poteri di signoria politica o ierocratica (ceti politici e ierocratici). (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, p. 303)
 

Si potrebbe quindi affermare, sia pure con una forte semplificazione, che le "classi" si suddividono secondo la relazione con la produzione e con l’acquisto dei beni, ed i "ceti" invece secondo i principi del loro consumo di beni, sotto forma di specifici modi di "condotta della vita". Anche un "ceto professionale" costituisce un "ceto", cioè pretende con successo un "onore" sociale, di regola in virtù della specifica "condotta di vita", eventualmente condizionata dalla professione stessa. […] Mentre le "classi" hanno a loro volta sede nell’"ordinamento economico", e i "ceti" nell’"ordinamento sociale", cioè nella sfera della distribuzione dell'"onore" - influenzandosi quindi reciprocamente, influenzando l' ordinamento giuridico e ricevendone a loro volta un'influenza - i "partiti" appartengono in prima linea alla sfera della "potenza". Il loro agire è rivolto alla "potenza" sociale, cioè a influenzare un agire di comunità di qualsiasi contenuto: in linea di principio vi possono essere partiti in un circolo sociale come in uno "stato". L'agire di comunità caratteristico di un "partito" comporta sempre un'associazione, a differenza dell'agire di comunità di "classi" e "ceti", per i quali ciònon avviene necessariamente. Esso è infatti sempre rivolto ad un fine deliberato, sia esso "oggettivo" come l'attuazione di un programma avente scopi materiali o ideali, sia "personale", cioè diretto a ottenere benefici, potenza e pertanto onore per i loro capi e seguaci - oppure, di solito, rivolto a tutti questi scopi insieme. Perciò i partiti sono possibili soltanto nell'ambito di comunità (che siano a loro volta in qualche modo associate, e cioè posseggano qualche ordinamento razionale e un apparato di persone che si tengono pronte per la sua attuazione. Il fine dei partiti è appunto quello di influenzare questo apparato, e di formarlo possibilmente con aderenti al partito. Essi possono nel caso concreto rappresentare interessi condizionati dalla "situazione di classe" o dalla "situazione di ceto", e reclutare i propri aderenti in modo corrispondente. Ma essi non devono necessariamente essere puri partiti "di classe" o "di ceto"; di solito lo sono soltanto in parte, e spesso non lo sono affatto. Essi possono rappresentare organismi effimeri o permanenti, e i mezzi da essi usati per acquistare potenza possono essere i più diversi - dalla pura e semplice violenza di ogni speciealla propaganda elettorale condotta con mezzi grossolani o raffinati, come il denaro, l'influenza sociale, la potenza della parola, la suggestione e l'aperta soverchieria, fino alla tattica, più o meno grossolana o ingegnosa, dell'ostruzionismo nell'ambito di organi parlamentari. La loro struttura sociologica è necessariamente differente a seconda della struttura dell'agire di comunità per la cui influenza essi si battono - ad esempio, a seconda che la comunità sia o no suddivisa in ceti o in classi, e soprattutto a seconda della struttura del "potere" nel suo ambito. Infatti per i loro capi si tratta di regola di conquistare questo potere. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. II, pp. 240-241)
 

Per partiti si debbono intendere le associazioni fondate su una adesione (formalmente) libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all'interno di un gruppo sociale, e ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) - per il perseguimento di fini oggettivi o per il raggiungimento di vantaggi personali, o per entrambi gli scopi. Essi possono costituire associazioni provvisorie o permanenti, possono comparire in gruppi sociali di ogni specie e sorgere come gruppi sociali di ogni forma - seguito carismatico, servitù tradizionale, adesione razionale (rispetto allo scopo o rispetto al valore, fondata su una "intuizione del mondo"). Essi possono essere prevalentemente orientati in vista di interessi personali e di fini materiali. In pratica, essi possono essere diretti, ufficialmente o di fatto, all'esclusivo conseguimento di una posizione di potenza per il loro duce e all'occupazione di cariche amministrative da parte del proprio apparato (partiti di patronato); oppure possono agire prevalentemente e coscientemente nell'interesse di ceti o di classi (partiti di ceti e di classi) o in base a scopi concreti più materiali o in base a principi astratti (partiti ispirati a una intuizione del mondo). La conquista di posizioni dell'apparato amministrativo per i propri appartenenti è però di solito almeno uno scopo concomitante, e il "programma" materiale non di rado è soltanto un mezzo per attirare gli estranei all'interno del partito. I partiti sono concettualmente possibili soltanto entro un gruppo sociale, di cui essi vogliono influenzare o conquistare la direzione; è pure possibile, e non è rara, un'alleanza di partito che riunisca diversi gruppi. I partiti possono utilizzare qualsiasi mezzo per acquistare potenza. Laddove la direzione è costituita mediante un'elezione (formalmente) libera, e la statuizione avviene mediante il voto, essi sono in primo luogo organizzazioni costituite per la raccolta dei suffragi e - nel caso che la votazione proceda nel senso prestabilito - partiti legali. I partiti legali - in conseguenza del loro fondamento in linea di principio volontario (cioè in quanto fondati sulla libera adesione) - significano praticamente sempre che l'esercizio della politica è un'attività di interessati: qui rimane ancora da parte il principio di interessi "economici", in quanto si tratta di interessati in senso politico, cioè su base ideologica o in vista della potenza come tale. Ciò significa che l'esercizio della politica: a) è nelle mani dei capi e degli apparati di partito; b) che i militanti di partito compaiono per lo più soltanto come acclamati e, in certe circostanze, come istanze di controllo, di . i discussione, di appello o di risoluzione; c) che i membri non attivi, insieme con le masse associate (degli elettori e dei votanti), sono soltanto oggetto di reclutamento nel periodo di elezione e di votazione ("compagni" passivi), e la loro opinione viene considerata soltanto come mezzo di orientamento per il lavoro di reclutamento dell'apparato di partito, nei casi di una lotta per la conquista del potere. Di regola (ma non sempre) restano nascosti i finanziatori dei partiti. Al di fuori dei partiti organizzati in modo formalmente legale, in un gruppo formalmente legale, possono in primo luogo esservi : a) i partiti carismatici, costituiti per un dissenso sulla qualità carismatica del detentore del potere, cioè sul signore carismatico "vero" (in forma di scisma); b) i partiti tradizionalistici, costituiti per un dissenso sul modo di impiego del potere tradizionale nella sfera del libero arbitrio e della grazia sovrana (in forma di ostruzionismo o di rivolta aperta contro le "innovazioni"); c) i partiti di fede, di regola identici - anche se non necessariamente - con quelli del caso a), costituiti per un dissenso sui contenuti dell'intuizione del modo o della fede (in forma di eresia, che può verificarsi anche in partiti razionali, ad esempio il socialismo); d) i partiti di pura appropriazione, costituiti per un dissenso con il detentore del potere e il suo apparato amministrativo circa il modo di attribuzione delle cariche amministrative, molto spesso (ma non necessariamente) identici con quelli di cui al caso b). Per la loro organizzazione i partiti possono appartenere ai medesimi tipi di tutti gli altri gruppi sociali, e quindi essere orientati - sia per ciò che concerne l'obbedienza degli aderenti che quella degli apparati amministrativi - in senso plebiscitario-carismatico (credenza nel duce) oppure tradizionale (attaccamento al prestigio sociale del signore o di vicini preminenti) oppure razionale (attaccamento al capo e all'apparato creati mediante una votazione "conforme allo statuto"). (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 282-283)
 

Sociologia del potere

La potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità. Per potere si deve intendere la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto; e per disciplina si deve intendere la possibilità di trovare, in virtù di una disposizione acquisita, un’obbedienza pronta, automatica e schematica ad un certo comando da parte di una pluralità di uomini. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 51-52)
 

Per "potere" deve quindi intendersi il fenomeno per cui una volontà manifestata ("comando") del detentore o dei detentori del potere vuole influire sull’agire di altre persone (del "dominato" o dei "dominati"), ed influisce effettivamente in modo tale che il loro agire procede, in un grado socialmente rilevante, come se i dominanti avessero, per loro stesso valore, assunto il contenuto del comando per massima del loro agire ("obbedienza") […]. Ogni potere si manifesta e funziona come amministrazione; e ogni amministrazione, in quanto per la sua direzione devono pur sempre essere posti nelle mani di qualcuno dei poteri di comando, richiede in qualche modo il potere. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. II, pp. 248-250)
 

Vi sono tre tipi puri di potere legittimo. La validità della sua legittimità può essere infatti, in primo luogo: 1) di carattere razionale - quando poggia sulla credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere (potere legale) in base ad essi; 2) di carattere tradizionale - quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità (potere tradizionale); 3) di carattere carismatico - quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa (potere carismatico). Nel caso del potere fondato sulla statuizione, si obbedisce all’ordinamento impersonale statuito legalmente e agli individui preposti in base ad esso, in virtù della legalità formale delle sue prescrizioni e nell'ambito di queste. Nel caso del potere tradizionale si obbedisce alla persona del signore designata dalla tradizione e vincolata (in tale ambito) alla tradizione, in virtù della reverenza da parte di coloro che la riconoscono. Nel caso del potere carismatico si obbedisce al duce in quanto tale, qualificato carismaticamente, in virtù della fiducia personale nella rivelazione, nell’eroismo o nell’esemplarità, che sussiste nell’ambito di validità della credenza in questo suo carisma. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. I, pp. 210-211)
 

La sussistenza di ogni "potere", nel nostro senso tecnico della parola, fa affidamento nel modo più forte sull’auto-giustificazione mediante l’appello ai principi della sua legittimazione. Questi principi sono di tre specie. La "validità" di un potere di comando può essere espressa in un sistema di regole razionali stabilite (pattuite o imposte), che trovano, in quanto norme generalmente vincolanti, una disposizione ad obbedire, se colui che è a ciò "chiamato" in base alla regola le richiama. Il singolotitolare del potere è quindi legittimato da quel sistema di regole razionali, e il suo potere è legittimo in quanto viene esercitato in modo corrispondente a quelle regole. L'obbedienza è prestata alle regole e non alla persona. Oppure la validità di un potere di comando può anche fondarsi sull'autorità persona1e. Questa può trovare i suoi fondamenti nella santità della tradizione, vale adire di ciò che è abituale ed è sempre stato, la quale prescrive l'obbedienza nei confronti di una determinata persona. Oppure, proprio al contrario, essa può fondarsi sulla dedizione a qualcosa di straordinario - sulla fede nel carisma, cioè nella rivelazione attuale o nel dono di grazia di una persona, vale a dire in redentori, profeti ed eroi di qualsiasi tipo. A ciò corrispondono i tre tipi "puri" fondamentali della struttura di potere - dalla cui combinazione, mescolanza, parificazione e trasformazione risultano le forme che si trovano nella realtà storica. L'agire in comunità razionalmente associato di una formazione di potere trova il suo tipo specifico nella "burocrazia". L'agire in comunità vincolato mediante i rapporti tradizionali di autorità è rappresentato tipicamente dal "patriarcalismo". La formazione "carismatica" di potere poggia sull'autorità di personalità concrete, non fondata né in modo razionale né ad opera della tradizione. (M. Weber, Economia e Società, op. cit., Vol. II, pp. 256-257)
 

Il potere - cioè la possibilità di trovare obbedienza per un determinato comando - può fondarsi su diversi motivi di disposizione ad obbedire. Esso può essere condizionato soltanto dalla situazione di interessi, cioè da considerazioni razionali rispetto allo scopo, concernenti i vantaggi e gli svantaggi di colui che obbedisce; oppure può essere, d'altra parte, fondato sul semplice "costume", cioè sulla sorda abitudine ad un agire acquisito; oppure può essere fondato in modo puramente affettivo, cioè mediante la mera inclinazione personale dei dominati. Un potere poggiante solamente su fondamenti siffatti sarebbe però relativamente effimero. Il potere è di solito piuttosto sorretto internamente, sia presso i dominanti che presso i dominati, da fondamenti di diritto, cioè dai fondamenti della sua "legittimità"; ed il venir meno di questa credenza nella legittimità ha conseguenze molto importanti. In forma assolutamente pura esistono soltanto tre "fondamenti di legittimità" del potere, e ognuno di essi - nel suo tipo puro - è connesso con una struttura sociologica dell'apparato e dei mezzi amministrativi fondamentalmente differente […]. Il potere legale in virtù di statuizione ha come tipo puro il potere burocratico: il suo convincimento fondamentale è che qualsiasi diritto possa essere creato e mutato mediante una statuizione voluta in modo formalmente corretto […]. Non si obbedisce alla persona, in virtù di un suo diritto personale, bensì alla regola statuita, la quale decide a chi e in che cosa si deve obbedire. Anche colui che comanda, in quanto stabilisce un comando, obbedisce ad una regola, cioè alla "legge" o al "regolamento", vale a dire ad una norma formalmente astratta. Il tipo di colui che comanda è quello del "superiore" ; ed il suo diritto al potere è legittimato mediante regole statuite, entro una "competenza oggettiva" la cui delimitazione poggia sulla specializzazione in base ad una oggettiva conformità allo scopo e ad una specifica pretesa alla prestazione del funzionario. Il tipo del funzionario è quello del funzionario dotato di preparazione specializzata, il cui rapporto di servizio si fonda sul contratto; con uno stipendio fisso, graduato non in base alla misura di lavoro ma secondo il rango dell'ufficio, con diritto alla pensione e con rigide regole di carriera. La sua amministrazione è lavoro professionale in forma di un dovere oggettivo di ufficio; il suo ideale è di disporre sine ira et studio, senza influenze di motivi personali e senza influenze emotive, senza arbitrio e senza imprevedibilità, in particolare "senza considerazione della persona", in modo rigorosamente formalistico, in base a regole razionali e - dove queste manchino - in base a criteri "oggettivi" di opportunità. Il dovere di obbedienza è graduato in una gerarchia di uffici, con subordinazione degli inferiori ai superiori e con procedimenti regolati di ricorso. La disciplina di esercizio è il fondamento del funzionamento tecnico […]. La burocrazia è il tipo tecnicamente più puro del potere legale. Però nessun potere è guidato soltanto in modo burocratico, cioè soltanto da funzionari nominati e ingaggiati in base ad un contratto. Ciò infatti non è possibile: al vertice del gruppo politico stanno o "monarchi" (detentori del potere carismatico-ereditari) oppure "presidenti" eletti dal popolo (detentori del potere carismatico-plebiscitari) o da un corpo parlamentare; e in questo caso i veri detentori del potere sono i membri di esso o piuttosto i capi - che possono essere prevalentemente notabili oppure capi carismatici - dei partiti che li dominano. Così pure, in realtà, l'apparato amministrativo non è quasi mai puramente burocratico; di solito, sia i notabili che i rappresentanti di interessi partecipano all'amministrazione nelle forme più svariate (soprattutto nella cosiddetta amministrazione autonoma). È però di decisiva importanza che il lavoro continuativo riposi in modo preponderante, e sempre crescente, sulle forze burocratiche. L'intero processo di sviluppo dello stato moderno, in particolare, si identifica con la storia dei funzionari moderni e dell'impresa burocratica, come l'intero sviluppo del capitalismo moderno si identifica con la crescente burocratizzazione dell'impresa economica. La partecipazione delle forme burocratiche di potere cresce ovunque […]. Il potere tradizionale sussiste in virtù della credenza nel carattere sacro degli ordinamenti e dei poteri di signoria esistenti da sempre. Il gruppo di potere è una comunità; il tipo di colui che comanda è quello del "signore", mentre coloro che prestano obbedienza sono "sudditi" e l'apparato amministrativo è costituito da "servitori". Si presta obbedienza alla persona in virtù della sua dignità personale santificata dalle origini, cioè per reverenza. Il contenuto dei comandi è vincolato alla tradizione, e la sua violazione senza riguardo da parte del detentore del potere potrebbe mettere in pericolo la legittimità del suo stesso potere, riposante semplicemente sulla sua santità. In linea di principio è impossibile creare un diritto nuovo rispetto alle norme della tradizione; ciò accade però di fatto, mediante la "conoscenza" di un principio considerato "valido da sempre" (mediante la "saggezza"). Per contro, al di là delle norme della tradizione, il volere del signore è vincolato soltanto dai limiti che, nel caso singolo, derivano dal sentimento di equità, e quindi in modo straordinariamente elastico: il suo potere si distingue perciò in un campo di grazia ed arbitrio libero, nel quale egli decide a piacere, per simpatia o avversione, e secondo punti di vista puramente personali che sono anche influenzabili dalla compiacenza personale. Quando però a base dell'amministrazione o della composizione dei conflitti vengono posti dei principi, essi sono quelli dell'equità etica materiale, della giustizia o dell'opportunità utilitaria, e non quelli di tipo formale che si hanno nel potere legale. In maniera completamente eguale procede il suo apparato amministrativo, costituito da persone che sono vincolate personalmente (servi e funzionari domestici) o da parenti o da amici personali (favoriti) oda individui vincolati da un legame di fedeltà personale (vassalli e principi tributari). Manca il concetto burocratico della "competenza" come sfera di funzioni oggettivamente delimitata […]. La struttura puramente patriarcale dell'amministrazione è quella in cui i servitori si trovano in una completa dipendenza personale rispetto al detentore del potere, e vengono reclutati in modo puramente patrimoniale (come nel caso di schiavi, domestici, eunuchi) oppure in modo extra-patrimoniale da strati non completamente privi di diritti (come nel caso di favoriti e di plebei). La loro amministrazione è assolutamente eteronoma ed eterocefala; non esiste affatto un diritto personale all’ufficio per gli amministratori, e non esiste neppure una scelta in base alla specializzazione e un onore di ceto dei funzionari; i mezzi amministrativi oggettivi vengono impiegati del tutto in favore del detentore del potere, e nella sua regìa personale […]. Una struttura di ceto si ha invece quando i servitori non sono servitori personali del signore ma persone indipendenti che, per la loro posizione personale, sono considerate socialmente preminenti; esse sono investite del loro ufficio mediante privilegio o concessione del signore (di fatto o in base ad una finzione di legittimità) oppure hanno un diritto personale, acquistato mediante un negozio giuridico (acquisto o pegno o appalto), e non revocabile a piacimento, all'ufficio da loro appropriato; la loro amministrazione, anche se limitata, è di conseguenza autocefala ed autonoma; i mezzi amministrativi oggettivi si trovano nella loro regìa, e non in quella del signore. (Ibidem, pp. 258-262)

Il potere carismatico sussiste in virtù di una dedizione affettiva alla persona del signore e ai suoi doni di grazia (carisma) - che sono in particolare le qualità magiche, le rivelazioni o l'eroismo, la potenza dello spirito e del discorso. Le fonti della dedizione personale sono in questo caso ciò che è sempre nuovo, che è inconsueto, che non è mai esistito - nonché l'adesione emozionale a tutto questo. I tipi più puri sono il potere dei profeti, degli eroi guerrieri, dei grandi demagoghi. Il gruppo di potere è l'associazione nella comunità o nel seguito. Il tipo di colui che comanda è il duce, e il tipo di colui che obbedisce è il "discepolo". Al duce si obbedisce esclusivamente in modo personale e in virtù delle sue eccezionali qualità personali, e non a ragione di una posizione statuita o di una dignità tradizionale. Di conseguenza, però, egli viene obbedito soltanto finche dura l'attribuzione di tali qualità, cioè fino al momento in cui il suo carisma viene confermato da una prova. Quando egli è "abbandonato" dal suo dio o è privato della sua potenza eroica o della fede delle masse nelle sue qualità di duce, cade pure il suo potere. L'apparato amministrativo è scelto sulla base del carisma e della dedizione personale - e perciò non in base alla qualificazione tecnica (come l'apparato amministrativo di ceto) né in base alla dipendenza domestica o ad una dipendenza personale di altro tipo (come al contrario accade per l'apparato amministrativo di tipo patriarcale). Mancano sia il concetto razionale di "competenza" che il concetto del "privilegio" di ceto. L'ambito di legittimazione dell'uomo del seguito o del discepolo, che è titolare di un incarico, è determinato soltanto dal messaggio del signore e dalla sua qualificazione carismatica personale. L'amministrazione - nei limiti in cui questo termine risulta adeguato - manca di ogni orientamento in base a regole sia statuite che tradizionali. Essa è caratterizzata dalla rivelazione o dalla creazione attuale, dall'azione e dall'esempio, dalla decisione caso per caso, e quindi - riferita alla misura di un ordinamento statuito - in modo irrazionale. Essa non è vincolata alla tradizione : per i profeti vale il principio "è scritto, ma io vi dico"; gli ordinamenti legittimi cedono alle nuove creazioni che i condottieri compiono con il potere della spada e i demagoghi per mezzo di un "diritto naturale" rivoluzionario da essi proclamato e suggerito. (Ibidem, pp. 264-265) Il potere carismatico è una relazione sociale di carattere specificamente straordinario e puramente personale. Con la continua esistenza, e più tardi con la scomparsa del titolare personale del carisma - se però in questo caso esso non si esaurisce ma persiste in qualche modo, e se quindi l’autorità del signore passa ai successori — il rapporto di potere tende a trasformarsi in pratica quotidiana. (Ibidem, p. 267)
 

L’etica protestante lo spirito del capitalismo: metodo, obiettivi e limiti dello studio

Così, lo studio seguente forse potrebbe costituire anche un contributo — certamente modesto — all’illustrazione della maniera in cui le "idee", in generale, diventano attive nella storia. Ma, affinché non insorgano già in partenza equivoci relativi al senso in cui si afferma qui, in generale, che diventano attivi e operanti motivi puramente ideali, ci siano consentiti ancora pochi cenni in proposito, a conclusione di queste discussioni introduttive. Tali studi - come si può osservare esplicitamente in primo luogo - non tentano affatto di valutare il contenuto di pensiero della Riforma in qualsiasi senso, sociopolitico o religioso. Per i nostri scopi abbiamo sempre a che fare con lati della Riforma che alla coscienza propriamente religiosa devono apparire come periferici e addirittura esteriori. Poiché dobbiamo soltanto accingerci a rendere un poco più chiara la trama che motivi religiosi hanno intessuto nello sviluppo della nostra civiltà moderna, col suo orientamento specificamente "terreno" - una civiltà sorta sulla base di innumerevoli motivi storici singoli. E quindi chiediamo soltanto quale di certi contenuti caratteristici di questa civiltà potrebbe essere attribuito all'influenza della Riforma concepita come sua causa storica. Dobbiamo peraltro emanciparci dalla seguente opinione: che si possa dedurre la Riforma, "con necessità ontogenetica", da spostamenti di ordine economico. Innumerevoli costellazioni storiche, che non solo non rientrano in alcuna "legge economica", ma neanche concordano con un punto di vista economico di qualunque specie, ossia processi meramente politici, dovettero concorrere affinché le Chiese di nuova creazione potessero comunque sopravvivere. Ma, d'altro lato, non è lecito difendere una tesi follemente dottrinaria del tipo di questa: lo "spirito capitalistico" (sempre nel senso provvisorio dell'espressione che è usato qui) è potuto sorgere solo come esito di determinati influssi della Riforma; o, addirittura: il capitalismo come sistema economico è un prodotto della Riforma. Un'opinione siffatta sarebbe confutata una volta per tutte già dal fatto risaputo che certe forme importanti di azienda capitalistica, importanti modi capitalistici di condurre gli affari siano notevolmente più antichi della Riforma. Ma si deve solo assodare se e in che misura influenze religiose abbiano partecipato alla configurazione qualitativa e all'espansione quantitativa di quello "spirito" nel mondo, e quali aspetti concreti della civiltà che poggia su una base capitalistica risalgano a tali influenze. Ora - dato l'enorme groviglio degli influssi che hanno esercitato reciprocamente le basi materiali, le forme di organizzazione sociali e politiche e il contenuto spirituale delle epoche della civiltà della Riforma — si può procedere solo ed esclusivamente studiando, in primo luogo, se e in quali punti si possano riconoscere determinate "affinità elettive" tra certe forme della fede religiosa e l'etica professionale. Dove sono insieme spiegati, nella misura del possibile, il modo e la direzione generale in cui il movimento religioso agì sullo sviluppo della civiltà materiale, in seguito a tali affinità elettive. Solo una volta che questo punto fosse stato sufficientemente chiarito, si potrebbe fare il tentativo di valutare in quale misura contenuti della civiltà moderna, nella loro genesi storica, debbano essere attribuiti a quei motivi religiosi, e in quale misura ad altri. (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1997, pp. 112-114; originalmente pubblicata in due parti: la prima nel 1904 e la seconda nel 1905)
 

Sì, qui si è tentato soltanto di risalire ai motivi di un punto solo (ancorché importante) del fatto e della specie della sua influenza e azione. Ma inoltre dovrebbe anche venire in luce il modo in cui l'ascesi protestante, a sua volta, è stata influenzata, nel suo divenire e nella sua natura peculiare, da tutto il complesso delle condizioni sociali della civiltà, anche - e specialmente economiche. Poiché, sebbene l'uomo moderno in complesso neanche con tutta la buona volontà non sia solitamente in grado di rendersi conto di tutta l'importanza che i contenuti religiosi della coscienza hanno effettivamente avuto per la condotta della vita, la civiltà e cultura, e per i caratteri dei popoli e delle nazioni, - tuttavia non è ovviamente lecita l'intenzione di sostituire un'interpretazione causale della civiltà e della storia unilateralmente "materialistica" con un'interpretazione spiritualistica altrettanto unilaterale. Entrambe sono ugualmente possibili, ma né l'una né l'altra giovano alla verità storica, se pretendono di non essere un semplice lavoro preparatorio, ma la stessa conclusione della ricerca. (Ibidem, pp. 241-242 — parole conclusive dell’opera)

Peculiarità dell’Occidente e del capitalismo moderno che esso ha sviluppato

Ma solo in Occidente c'è stato un esercizio specialistico, razionale e sistematico della scienza, con la preparazione scolastica dello specialista, in qualsiasi senso paragonabile al significato raggiunto nella nostra civiltà, al significato di un'egemonia; solo in Occidente, soprattutto, si è affermata la figura del pubblico impiegato specializzato, pietra angolare dello Stato moderno e della moderna economia. Altrove se ne trovano solo spunti, germi, forme incipienti, che non sono mai diventati costitutivi dell'ordine sociale come lo sono divenuti in Occidente, in nessun senso. Ovviamente il "pubblico impiegato", anche quello specializzato in un particolare lavoro, è un antichissimo fenomeno delle civiltà più diverse. Ma il fatto che tutta la nostra esistenza, che le condizioni fondamentali - politiche, tecniche ed economiche - della nostra vita siano assolutamente costrette nell'armatura di un'organizzazione burocratica specializzata, con i suoi pubblici impiegati tecnici, commerciali, ma soprattutto con preparazione giuridica, quali portatori delle principali funzioni quotidiane della vita sociale -, questo fenomeno non è stato conosciuto da alcun paese né da alcuna epoca nello stesso senso in cui ha luogo nell'Occidente moderno. L'organizzazione delle associazioni politiche e sociali secondo gli stati, ordini o ceti è stata ampiamente diffusa; ma già lo Stato degli ordini — "rex et regnum" - è stato conosciuto, nel senso occidentale, solo dall'Occidente. E più che mai i parlamenti di "rappresentanti del popolo" periodicamente, eletti, i demagoghi, e il dominio di capi-partito come "ministri" responsabili di fronte al parlamento, sono stati ingenerati solo dall'Occidente - anche se, com'è ovvio, ci sono stati in tutto il mondo "partiti", nel senso di organizzazioni intese alla conquista e al condizionamento del potere politico. Soltanto l'Occidente conosce lo "Stato" in genere, nel senso di un'istituzione politica provvista di una "costituzione" razionalmente statuita, di un diritto razionalmente statuito e di un'amministrazione da parte di impiegati specializzati che osservano regole di origine e natura razionale — "leggi" -, in questa combinazione per esso essenziale delle caratteristiche decisive, a prescindere da tutti gli altri spunti e conati in tale direzione. E questa è anche la situazione della potenza più fatale della nostra vita moderna: del capitalismo. (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, op. cit., pp. 36-37)
 

Ma l'Occidente ha ingenerato un grado d'importanza del capitalismo, e suoi modi, forme e direzioni (che di tale importanza sono la causa), quali non sono mai esistiti altrove. In tutto il mondo ci sono stati commercianti all'ingrosso e al minuto, c'è stato il commercio locale e quello con paesi lontani, ci sono stati prestiti di ogni specie, banche, banchi con funzioni estremamente diverse, eppure sostanzialmente analoghe almeno a quelle del nostro secolo XVI all'incirca; prestiti marittimi, commende e affari e associazioni in accomandita sono stati ampiamente diffusi, anche a livello aziendale. Ovunque ci furono finanze pecuniarie degli enti pubblici, comparve la figura del finanziatore - a Babilonia, in Grecia, in India, in Cina, a Roma: per finanziare soprattutto le guerre e la pirateria, per forniture e lavori pubblici di ogni specie, nella politica coloniale in qualità di imprenditore, piantatore, conduttore di piantagioni lavorate da schiavi o altri lavoratori costretti direttamente o indirettamente, per l'appalto di demani, di uffici e soprattutto di imposte, per il finanziamento di capi-partito per le elezioni e di condottieri per le guerre civili; infine: come "speculatore" su ogni specie di probabilità pecuniarie. In tutto il mondo c'è stato l'imprenditore di questo tipo: il personaggio dell'avventuriero capitalistico. A eccezione del commercio e degli affari creditizi e bancari, le prospettive di questi imprenditori avevano fondamentalmente un carattere meramente speculativo-irrazionale, oppure erano orientate secondo lo scopo di guadagnare con l'uso della violenza, soprattutto con l'attività predatoria: preda immediata guerresca, o preda cronica fiscale (spennare i sudditi). Il capitalismo dei fondatori, dei grandi speculatori, coloniale, e il capitalismo finanziario moderno, già in pace, ma soprattutto ogni capitalismo orientato specificamente verso la guerra, spesso presentano ancora questo stile nello stesso Occidente attuale; e gli sono vicini, oggi come sempre, singoli rami (solo singoli) del grande commercio internazionale. Ma l'Occidente conosce, nell'età moderna, anche una specie di capitalismo del tutto diversa, e che non si è sviluppata in alcun'altra parte della terra: l'organizzazione capitalistica razionale del lavoro (formalmente) libero. Altrove se ne trovano solo i germi. Persino l'organizzazione del lavoro non libero ha raggiunto un certo grado di razionalità solo nelle piantagioni e, in misura limitatissima, negli ergasteri del mondo antico, e una razionalità che diremmo ancora minore nelle curtes e nei laboratori dell'età feudale o nelle industrie domestiche dei signori terrieri, con servi della gleba e lavoro servile, agli inizi dell'età moderna. Quanto al lavoro libero, fuori dell'Occidente persino l'esistenza di "industrie domestiche" vere e proprie è testimoniata con sicurezza solo in casi singoli e isolati; e quell'impiego di braccianti o giornalieri in genere che ovviamente s'incontra ovunque non ha dato luogo a manifatture e nemmeno a un'organizzazione razionale dell'apprendimento del mestiere analoga a quella del Medioevo occidentale (tranne eccezioni scarsissime e di specie molto particolare, e comunque assai diverse dalle organizzazioni aziendali moderne; si trattava specialmente di monopoli di Stato). Ma l'organizzazione dell'impresa razionale, orientata secondo le prospettive e risorse del mercato, e non secondo le probabilità di una speculazione politicamente violenta, o comunque irrazionale, non è l'unico fenomeno peculiare del capitalismo occidentale. L'organizzazione razionale moderna dell'azienda capitalistica non sarebbe stata possibile senza altri due importanti fattori di sviluppo: la separazione dell'amministrazione domestica dall'azienda, che è assolutamente invalsa nella vita economica attuale, e - strettamente connessa con questo primo fenomeno - la contabilità, o tenuta razionale dei libri […]. Ma tutte queste particolarità del capitalismo occidentale in ultima analisi hanno realizzato il loro significato attuale solo grazie alla connessione con l'organizzazione capitalistica del lavoro. Le è connessa anche quella che si suole chiamare la "commercializzazione": lo sviluppo della carta valore, e la razionalizzazione della speculazione — la borsa. (Ibidem, pp. 40-43)

Ma, soprattutto, il "summum bonum" di questa "etica" - guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo - è così spoglio di ogni considerazione eudemonistica o addirittura edonistica, è pensato come fine a se stesso con tanta purezza, da apparire come alcunché di totalmente trascendente, in ogni caso, e senz'altro irrazionale, di fronte alla "felicità" o all’"utilità" del singolo individuo. L'attività lucrativa non è più in funzione dell'uomo quale semplice mezzo per soddisfare i bisogni materiali della sua vita, ma, al contrario, è lo scopo della vita dell'uomo, ed egli è in sua funzione. Questa inversione del rapporto "naturale" (se così possiamo dire), che è addirittura assurda per la sensibilità ingenua, è palesemente e assolutamente un motivo conduttore del capitalismo, come è estranea all'uomo non toccato dal suo soffio. Ma contiene al tempo stesso una serie di sentimenti che sono strettamente connessi a certe rappresentazioni religiose. Se, infatti, si chiede perché "gli uomini" debbano fare "denaro", Benjamin Franklin - sebbene fosse un deista senza una tonalità confessionale - risponde, nella sua autobiografia, con un versetto della Bibbia che - come dice - il padre rigorosamente calvinista gli aveva sempre martellato in testa, quando era ragazzo: "Hai tu veduto un uomo spedito nelle sue faccende? Egli starà al servizio dei re". Il guadagno di denaro - se ha luogo legalmente - all'interno dell'organizzazione economica moderna è il risultato e l'espressione dell'abilità nella professione [Beruf], e, come ora non è difficile riconoscere, questa abilità è veramente l'alfa e l'omega della morale di Franklin […]. In effetti: quell'idea peculiare del dovere professionale, che oggi è così corrente eppure è tanto poco ovvia, in verità - l'idea di un dovere che l'individuo leve sentire e sente nei confronti del contenuto della sua attività "professionale", quale che possa essere, e, in particolare, indipendentemente dalla necessità che essa appaia, a una sensibilità ingenua, come pura valorizzazione della propria forza-lavoro o persino solo del suo possesso materiale (come "capitale"), proprio questa idea è caratteristica dell’"etica sociale" della civiltà capitalistica, anzi in un certo senso ha per essa un significato costitutivo. Non nel senso che sia cresciuta soltanto sul terreno del capitalismo; anzi, oltre cercheremo di seguirla all'indietro, nel passato. E, ovviamente, meno ancora si deve affermare che condizione della sopravvivenza del capitalismo odierno sia l'appropriazione soggettiva di queste massime etiche da parte dei suoi singoli esponenti, per esempio degli imprenditori o degli operai delle aziende capitalistiche moderne. L'ordinamento dell'economia capitalistica odierna è un cosmo enorme in cui l'individuo è immesso fin dalla nascita e che per lui, almeno come singolo, è una dimora di fatto immutabile che gli è data e in cui deve vivere. Impone all'individuo le norme del suo agire economico, nella misura in cui è intrecciato nel complesso del mercato. Il fabbricante che agisce costantemente contro queste norme è economicamente eliminato con la stessa infallibilità con cui l'operaio che non può o vuole adattarsi ad esse finisce sulla strada, disoccupato. Dunque il capitalismo odierno, che è giunto a dominare nella vita economica, si educa e si crea, per la via della selezione economica, i soggetti economici — imprenditori e operai — di cui abbisogna. Ma proprio qui si possono toccare con mano i limiti del concetto di "selezione" come mezzo per spiegare fenomeni storici. Per poter essere "prescelta", ossia per poter riportare la vittoria su altre, quella maniera di vivere e di concepire la professione che è adatta alla natura peculiare del capitalismo doveva prima sorgere, evidentemente, e non in individui singoli ed isolati, ma come un modo di veder che era proprio di gruppi umani. Questa sua genesi è dunque ciò che deve essere davvero spiegato. Solo più avanti parleremo più dettagliatamente di quella concezione dell’ingenuo materialismo storico secondo cui tali "idee" verrebbero alla luce in qualità di "rispecchiamento" o "sovrastruttura" di situazioni economiche. (Ibidem, pp. 76-78)
 

Beruf (vocazione professionale)

Non si può ignorare che già nella parola tedesca "Beruf",come, in una maniera forse ancora più evidente, in quella inglese "calling", almeno echeggi una rappresentazione religiosa - quella di un compito assegnato da Dio -, e che diventi tanto più percettibile, quanto più energicamente accentuiamo la parola nel caso concreto. E se seguiamo storicamente la parola, attraverso le lingue colte, in primo luogo risulta che ciascuno dei popoli prevalentemente cattolici - così come l'antichità classica -non conosce un'espressione di tonalità analoga, per indicare quello che noi chiamiamo "Beruf" (nel senso di una posizione occupata nella vita, di un ambito di lavoro preciso e circoscritto, insomma di una professione), mentre esiste in tutti i popoli prevalentemente protestanti. Inoltre, risulta come non vi sia implicata una qualche peculiarità eticamente condizionata delle lingue in questione, per esempio l'espressione di uno "spirito del popolo germanico", ma come la parola nel suo senso odierno derivi dalle traduzioni della Bibbia, e precisamente dallo spirito dei traduttori, non dallo spirito dell'originale. Pare sia usata, nella traduzione luterana della Bibbia, per la prima volta in un passo di Gesù di Sirac (11, 20 e 21 ), proprio nel nostro senso attuale. Ha poi acquistato il suo significato attuale molto presto, nel linguaggio profano di tutti i popoli protestanti, mentre prima, nella letteratura profana, non si poteva notare il benché minimo spunto di un senso siffatto, neanche nelle prediche - per quanto ci risulta -, con la sola eccezione di un mistico tedesco […] di cui è nota l'influenza su Lutero. E come il significato della parola, anche il pensiero è nuovo ed è un prodotto della Riforma (come forse è noto, in generale). Non nel senso che già nel Medioevo, anzi persino nel mondo antico (tardo periodo ellenistico ), non fossero presenti certi spunti di quella considerazione del lavoro svolto quotidianamente nel mondo che è insita in questo concetto del Beruf (se ne dovrà parlare più avanti). Incondizionatamente nuova era comunque una cosa, in primo luogo: la convinzione che l'adempimento del proprio dovere nell'ambito delle professioni [Berufe] mondane fosse il contenuto supremo che potesse mai assumere la realizzazione della propria persona morale. Proprio questa fu l'ine- vitabile conseguenza della rappresentazione del significato religioso del lavoro svolto quotidianamente nel mondo, e ingenerò per la prima volta il concetto di Beruf in tale senso. Nel concetto di Beruf trova dunque espressione quel dogma centrale di tutte le chiese protestanti che respinge la distinzione cattolica degli imperativi morali in praecepta e consilia, e secondo cui l'unico modo di essere graditi a Dio non sta nel sorpassare la moralità intramondana con l'ascesi monacale, ma consiste esclusivamente nell'adempiere ai doveri intramondani, quali risultano dalla posizione occupata dall'individuo nella vita, ossia dalla sua professione, che appunto perciò diventa la sua "vocazione" [Beruf]. In Lutero questo pensiero si sviluppa nel corso del primo decennio della sua attività riformatrice. Inizialmente il lavoro mondano, sebbene voluto da Dio, rientra per lui nell'ordine creaturale, esattamente nel senso della tradizione medievale dominante […]. Ma, via via che si sviluppa più chiaramente il pensiero "sola fide", con le sue conseguenze e l'implicita opposizione - sempre più aspra - ai "consigli evangelici" cattolici del monachesimo, invero "dettati dal diavolo", aumenta l'importanza del Beruf. Ora l'esistenza monacale non solo è ovviamente priva di qualsiasi valore, al fine della giustificazione di fronte a Dio, ma diventa anche il prodotto di un'arida insensibilità, di un egoismo che si sottrae ai doveri di questo mondo. Al contrario, il lavoro professionale svolto nel mondo appare come l'espressione esterna dell'amore del prossimo […]. […] resta, sempre più energico, l'argomento secondo cui l'adempimento dei doveri intramondani in tutte le circostanze sarebbe l'unico modo di essere graditi a Dio, esso ed esso soltanto sarebbe volontà di Dio, e quindi tutte le professioni lecite avrebbero assolutamente lo stesso valore, di fronte a Dio. (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, op. cit., pp. 101-103)
 

Ma qui non occorre che ci addentriamo in particolari, - soprattutto perché il pensiero del Beruf in senso religioso era passibile di configurazioni molto diverse, nelle sue conseguenze per la condotta della vita intramondana. La Riforma in quanto tale dapprima ebbe solo la funzione di accrescere enormemente - in contrasto con la concezione cattolica - il peso morale e il premio religioso per il lavoro intramondano, ossia per la professione regolare e ordinata. Il modo in cui fu ulteriormente sviluppato il pensiero del Beruf, che diede espressione a questo fenomeno, dipese dalla più precisa configurazione della pietà e devozione che da allora in poi si venne delineando nelle singole chiese riformate. (Ibidem, p. 105) Se, quindi, studiando le relazioni che sussistono fra l’etica del vecchio protestantesimo e lo sviluppo dello spirito capitalistico muoviamo dalle creazioni di Calvino, del calvinismo e della latre sette "puritane", ciò non può essere tuttavia inteso nel senso che noi ci attendiamo che uno dei fondatori o degli esponenti di queste comunità religiose si prefigga già lo scopo di destare quello che noi chiamiamo "spirito capitalistico", in qualsiasi senso. (Ibidem, p. 112)

Dovremo ora seguire l'idea puritana di Beruf nell'influenza esercitata sulla vita dedita all' attività Iucrativa, dopo che il precedente schizzo ha cercato di svolgere il tema della sua fondazione religiosa. Nonostante tutte le divergenze particolari, e ogni differenza nel peso che le diverse comunità religiose ascetiche attribuiscono ai punti di vista per noi decisivi, questi ultimi sono nondimeno presenti ed efficaci in tutte. Ma - per riassumere - decisiva, per le nostre considerazioni, è stata continuamente la concezione dello "stato di grazia" religioso che ricorre in tutte le denominazioni: appunto come di uno status che libera l'uomo dalla condanna del creaturale, dal "mondo", ma il cui possesso (comunque fosse conseguito secondo i dogmi delle varie denominazioni) non poteva essere garantito da mezzi magico-sacramentali di qualsiasi specie, o dallo sgravio della confessione, o da singole opere pie, ma solo dalla comprova data da una forma di esistenza, da una condotta di vita specifica e peculiare, indubbiamente diversa dallo stile di vita dell'uomo "naturale". Ne derivava, per l'individuo, l'impulso al controllo metodico del suo stato di grazia nella condotta della vita, e quindi alla sua configurazione ascetica. Ma questo stile ascetico dell'esistenza - come abbiamo visto - significava appunto una conformazione razionale della vita intera, orientata secondo la volontà di Dio. E questa ascesi non era più un "opus supererogationis", ma una prestazione che era pretesa da chiunque volesse essere sicuro della propria salvezza. Quella vita speciale dei santi che era diversa dalla vita "naturale" e che la religione esigeva non si svolgeva più al di fuori del mondo, in comunità monastiche, ma all'interno del mondo e dei suoi ordini (ed è questo il punto decisivo). Questa razionalizzazione della condotta della vita entro il mondo e con riguardo all'aldilà era l'effetto della concezione della professione propria del protestantesimo ascetico. L'ascesi cristiana, che inizialmente era fuggita dal mondo nella solitudine, aveva già dominato ecclesiasticamente sul mondo, uscendo per così dire dal convento, proprio in quanto rinunciava al mondo. Eppure in complesso aveva lasciato alla vita quotidiana laica il suo carattere naturale e ingenuo. Ora veniva sul mercato della vita, si chiudeva alle spalle le porte del convento e imprendeva a pervadere proprio la vita quotidiana mondana della sua metodicità, a trasformarla in un'esistenza razionale nel mondo eppure non di questo mondo o per questo mondo. (Ibidem, pp. 213-214)

E, soprattutto: l'utilità di una professione, con la corrispondente approvazione da parte di Dio, si giudica sì in primo luogo secondo criteri etici e in secondo luogo secondo l'importanza per la "collettività" dei beni che vi si producono; ma poi segue il terzo criterio, che naturalmente è quello praticamente più importante: il "profitto" economico privato. Poiché, se quel Dio che il puritano vede all'opera in tutte le circostanze della vita indica a uno dei suoi un'opportunità di guadagno, ha certamente uno scopo per farlo. E quindi il credente cristiano deve rispondere a questa chiamata, approfittandone. "Se Dio vi indica una via dove voi, senza pregiudizio per la vostra anima o per altri, secondo la legge, potete guadagnare di più che seguendo un 'altra strada, e se voi la rifiutate e seguite il cammino che apporta un guadagno minore, allora voi contrastate uno degli scopi della vostra chiamata" ("calling"), "voi rifiutate di essere amministratori" ("stewarts") di Dio e di ricevere i suoi doni per poterli usare per lui, se lo dovesse chiedere. Certamente non per scopi della concupiscenza e del peccato, bensì per Dio, voi avete il diritto di lavorare al fine di essere ricchi". La ricchezza è pericolosa solo e precisamente come tentazione di adagiarsi nell'ozio e di godersi peccaminosamente la vita, e la sua ricerca lo è solo quando ha luogo per poter vivere, più tardi, senza preoccupazioni e allegramente. Ma in quanto esercizio del dovere professionale non è solo moralmente lecita, è addirittura obbligatoria. (Ibidem, pp. 221-222)
 

Caratteri ed implicazioni dell’etica protestante

Gli esponenti storici del protestantesimo ascetico (nel senso dell’espressione usato qui) sono principalmente di quattro specie: 1) il calvinismo, nella forma che ha assunto nei principali territori dell’Europa occidentale dove ha dominato, specialmente nel corso del secolo XVII: 2) il pietismo; 3) il metodismo; 4) le sette nate dal movimento battista. (M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, op. cit., p. 157)
 

Ciò che sappiamo è solo che una parte degli uomini diventano beati, gli altri restano dannati. Supporre che il merito o la colpa umani contribuiscano a determinare questo destino, significherebbe ritenere che le decisioni di Dio, assolutamente libere, e stabilite fin dall'eternità, potessero essere cambiate da influenze umane: un pensiero impossibile. Il "Padre che è nei cieli" umanamente comprensibile del Nuovo Testamento, che si rallegra del ritorno del peccatore come la donna del denaro ritrovato, qui ha dato luogo a un essere trascendente che sfugge a ogni comprensione umana, e che, dall'eternità, secondo decreti del tutto imperscrutabili ha assegnato a ogni individuo il suo destino, e ha disposto di ogni pur minima cosa, nel cosmo. Poiché i decreti di Dio sono immutabili, la sua grazia non può essere perduta da coloro a cui la elargisce, ne conseguita da quelli a cui la nega. Ora, nel suo pathos inumano, questa dottrina doveva avere, per la psicologia di una generazione che era conquistata dalla sua grandiosa coerenza, soprattutto una conseguenza: il sentimento di un inaudito isolamento interiore del singolo individuo. […]. Connesso con l’aspra dottrina secondo cui ogni creatura è incondizionatamente lontana da Dio e priva di valore, questo isolamento interno dell’uomo contiene, da un lato, il motivo della posizione assolutamente negativa assunta dal puritanesimo rispetto a tutti gli elementi sensibili e sentimentali della civiltà e della religiosità soggettiva (poiché sono inutili per la salvezza, e favoriscono illusioni sentimentali, appunto, nonché quella superstizione che divinizza la creatura) - e quindi anche il motivo dell'abbandono radicale di ogni cultura sensuale in genere. Ma, d'altro lato, costituisce una delle radici di quell'individualismo senza illusioni e di tonalità pessimistica che si esprime ancora oggi nel "carattere nazionale" e nelle istituzioni dei popoli che hanno un passato puritano - così vistosamente in contrasto con le lenti del tutto diverse attraverso cui, più tardi, l’"Illuminismo" guardò gli uomini. (Ibidem, pp. 165-167)

Sembra dapprima enigmatico il modo in cui quella tendenza alla liberazione interna dell'individuo dagli strettissimi vincoli con cui lo imprigiona il mondo potesse associarsi all'indiscutibile superiorità del calvinismo nell'organizzazione sociale. Eppure proprio questa superiorità deriva dalla tonalità specifica che l’"amore del prossimo" cristiano ha dovuto assumere sotto la pressione dell'isolamento interno del singolo determinato dalla fede calvinistica - per quanto strana possa dapprima sembrare la cosa. Ne deriva in primo luogo sul piano dogmatico. Il mondo è destinato a questo, e solo a questo: a servire all'autoglorificazione di Dio; il cristiano eletto esiste allo scopo e solo allo scopo di accrescere la gloria di Dio nel mondo, per parte sua, eseguendo i suoi comandamenti. Ma Dio vuole l'opera sociale del cristiano, poiché vuole che la conformazione cristiana della vita abbia luogo secondo i propri comandamenti, e in maniera da corrispondere a quello scopo. Il lavoro sociale del calvinista nel mondo è semplicemente lavoro "in maiorem gloriam Dei". E quindi ha questo carattere anche il lavoro professionale, che è al servizio della vita terrena della collettività. (Ibidem, p. 169)

Sì, proprio questo unico problema doveva insorgere ben presto per ogni singolo credente, spingendo sullo sfondo tutti gli altri interessi: sono io un eletto? E come posso io acquistare la certezza di questa elezione? Per lo stesso Calvino non era un problema. Si sentiva un "armamentario", ed era sicuro del proprio stato di grazia. E quindi alla questione che cosa consenta al singolo di diventare certo della propria elezione dà, in fondo, una sola risposta: noi dobbiamo accontentarci della conoscenza della decisione di Dio e di quella tenace fiducia in Cristo che è frutto della vera fede. Respinge, per principio, la congettura che si possa riconoscere, dal loro comportamento, se altri siano stati eletti o dannati, poiché lo considera un tentativo temerario di penetrare nei misteri di Dio. In questa vita gli eletti non si distinguono esteriormente dai reprobi, e anche tutte le esperienze soggettive degli eletti sono pure possibili - come "ludibria spiritus sancti" - nei reprobi, con l'unica eccezione di quella fiducia religiosa "finaliter" costante. Dunque gli eletti sono e rimangono la Chiesa invisibile di Dio. Naturalmente è del tutto diversa la posizione degli epigoni - già di Teodoro Beza -, e soprattutto del vasto strato degli uomini della vita quotidiana. Per loro la "certitudo salutis" nel senso della riconoscibilità dello stato di grazia doveva assumere un'importanza assolutamente eminente; ed è così che ovunque si affermò stabilmente la dottrina della predestinazione non mancò neanche di porsi il problema se ci fossero segni sicuri che permettessero di riconoscere l'appartenenza al novero degli "electi". Questo problema ha avuto durevolmente un significato centrale non solo nello sviluppo di quel pietismo che dapprima crebbe sul terreno della Chiesa riformata, non solo è diventato temporaneamente addirittura costitutivo per esso, in un certo senso; ma, quando considereremo il significato politicamente e socialmente così importante della dottrina e della pratica riformate dell'Eucaristia, dovremo ancora dire quale ruolo abbia svolto, nel corso dell'intero secolo XVII, anche all'infuori del pietismo, la possibilità di constatare lo stato di grazia dell'individuo, per esempio per il problema della sua ammissione all'Eucaristia, ossia all'atto cultuale centrale, decisivo per la posizione sociale dei partecipanti. Almeno nella misura in cui insorgeva il problema del proprio stato di grazia, era impossibile limitarsi al criterio dell'autotestimonianza della fede tenace che la grazia ingenera nell'uomo, criterio proposto da Calvino e che la dottrina ortodossa non aveva mai abbandonato formalmente, almeno in linea di principio. Soprattutto non lo poteva la prassi della cura delle anime, che doveva affrontare passo passo i tormenti creati dalla dottrina. Risolveva queste difficoltà in maniere diverse. E infatti, nella misura in cui non mutasse l'interpretazione dell'elezione per opera della grazia, in cui questo dogma non fosse attenuato e in fondo abbandonato, comparivano due tipi caratteristici, e interconnessi, di consigli relativi alla cura delle anime. Da un lato si afferma addirittura che è un dovere ritenere se stessi eletti e respingere ogni dubbio come assalto del diavolo, poiché la carenza della sicurezza di sé è conseguenza di una fede insufficiente, dunque di un'insufficiente azione della grazia. L'ammonimento dell'apostolo che esorta ad "assicurare" la propria vocazione [Berufung] qui è dunque interpretato nel senso del dovere di conquistare, nella lotta quotidiana, la certezza soggettiva della propria elezione e giustificazione. Al posto degli umili peccatori a cui Lutero promette la grazia, qualora si rimettano a Dio con contrizione e fede, vengono dunque educati quei "santi" sicuri di sé che ritroviamo nei mercanti puritani, duri come l'acciaio, di quell'epoca eroica del capitalismo, e, in singoli esemplari, fino a oggi. E, d'altro lato, era caldamente raccomandato il lavoro professionale indefesso, che era considerato il mezzo più eminente per raggiungere quella sicurezza di sé. Esso ed esso soltanto dissipava il dubbio religioso, e conferiva la sicurezza dello stato di grazia. (Ibidem, pp. 171-173)

[…] forse non c’è mai stata una forma di considerazione religiosa dell’agire etico più intensa di quella che il calvinismo ingenerava nei propri adepti. Ma decisiva per il significato pratico di questa specie di «santità di opera» è solo la conoscenza delle qualità che caratterizzavano la condotta di vita corrispondente, e la distinguevano dalla vita quotidiana di un cristiano medio nel Medioevo. Si può tentare questa formulazione: nel Medioevo il laico cattolico normale viveva, dal punto di vista etico, in certo qual modo, "alla giornata". In primo luogo osservava coscienziosamente i doveri tradizionali. Ma le sue "opere buone" che andavano al di là di essi restavano, normalmente, una serie di singole azioni che egli eseguiva all'occasione, per esempio per compensare peccati concreti o sotto l'influenza di pastori e padri spirituali, o verso la fine della vita, in certo modo quale premio di assicurazione - una serie di azioni non necessariamente interconnessa, o che almeno non era necessariamente razionalizzata nella forma di un sistema di vita. Naturalmente l'etica cattolica era un'etica della "convinzione". Ma la concreta "intentio" della singola azione decideva del valore di essa. E la singola azione - buona o cattiva - era ascritta a chi agiva, influenzava il suo destino temporale ed eterno. Con tutto realismo, la Chiesa calcolava sul fatto che l'uomo non fosse un'unità determinata con assoluta univocità e da valutarsi come tale, ma che la sua vita etica fosse (normalmente) un modo di condursi influenzato da motivi contrastanti, e spesso molto contraddittorio. Certamente anch'essa esigeva che egli aspirasse all'ideale di una vita condotta secondo fermi principi. Ma proprio questa esigenza essa indeboliva nuovamente (per la media), con uno dei suoi strumenti di potere e di educazione più importanti: con il sacramento della penitenza, la cui funzione era profondamente congiunta con la peculiarità più intima della religiosità cattolica. La "liberazione del mondo dalla magia" - l'eliminazione della magia come mezzo di salvezza - nella devozione cattolica non era sviluppata in tutte le sue conseguenze come lo era nella religiosità puritana (e, prima di essa, solo in quella ebraica). Per il cattolico la grazia sacramentale della sua Chiesa era un mezzo di cui disporre per compensare la propria insufficienza: il prete era un mago che compiva il miracolo della transustanziazione e a cui era affidata la potestà delle chiavi. L 'uomo pentito e contrito poteva rivolgersi a lui, ed egli elargiva espiazione, speranza di grazia, certezza del perdono, e in tal modo permetteva di scaricare quella immensa tensione, vivere nella quale era invece il destino del calvinista - un destino ineluttabile e che nulla poteva lenire. Per quest'ultimo non c'erano quei conforti gentili e umani, ed egli non poteva neanche sperare di compensare ore di debolezza e leggerezza con altre ore di molto migliore volontà, diversamente dal cattolico e anche dal luterano. Il Dio del calvinismo non pretendeva, dai suoi fedeli, singole "opere buone", bensì una santità di opera eretta a sistema. Non era neanche il caso di parlare del saliscendi cattolico e veramente umano tra il peccato, il pentimento, l'espiazione, lo scarico, un nuovo peccato, o di un saldo della vita intera da scontarsi con pene temporali, e da pareggiarsi con la grazia di cui potesse disporre la Chiesa. La prassi etica dell'uomo quotidiano era così spogliata della sua mancanza di programmazione e sistematicità, e convertita in un metodo coerente dell'intera condotta di vita. Non è a caso che il nome di "metodisti" è rimasto per indicare gli esponenti dell'ultimo grande risveglio di pensieri puritani nel secolo XVIII, così come la designazione "precisasti", di significato equivalente, era stata applicata ai loro precursori spirituali del secolo XVII. Poiché solo con una metamorfosi fondamentale del senso della vita intera in ogni ora e in ogni azione  poteva comprovarsi l'opera della grazia come elevazione dell'uomo dallo "status naturae" allo "status gratiae". La vita del "santo" era diretta esclusivamente verso una meta trascendente: la beatitudine; ma appunto per questo era, nel suo corso terreno, interamente razionalizzata, e dominata dall'esclusivo scopo di accrescere la gloria di Dio sulla terra; e il punto di vista "omnia in maiorem Dei gloriam" non è mai stato preso altrettanto sul serio. Ma solo una vita guidata da una riflessione costante poteva essere considerata come superamento dello "status naturalis": il "cogito ergo sum" di Descartes fu adottato dai puritani contemporanei in questa reinterpretazione etica. Ora questa razionalizzazione conferì alla devozione riformata il suo tratto specificamente ascetico, e ne fondò sia l'interna affinità, sia il contrasto specifico con il cattolicesimo. Poiché naturalmente qualcosa di simile non era estraneo al cattolicesimo. (Ibidem, pp. 176-179)

Dove stesse, d'altro lato, il contrasto dell'ascesi calvinistica con quella medievale, è evidente: era la scomparsa dei "consilia evangelica", e quindi la trasformazione dell'ascesi in un'ascesi puramente intra-mondana. Non nel senso che, all'interno del cattolicesimo, la vita "metodica" fosse rimasta limitata alle celle claustrali. Ciò non era vero teoricamente e neanche nella pratica. Invece è già stato sottolineato come, nonostante le minori pretese morali del cattolicesimo, una vita eticamente non sistematica non raggiunga i sommi ideali che esso ha maturato - anche per la vita intramondana […]. Ma il punto decisivo era questo: l'uomo che per eccellenza viveva metodicamente in senso religioso era e restava solo e precisamente il monaco, e quindi l'ascesi, quanto più intensamente s'impossessava del singolo, tanto più lo allontanava dalla vita quotidiana, poiché la vita specificamente santa stava appunto nel superamento dell’eticità intramondana. (Ibidem, pp. 181-182)

Possiamo riassumere quanto abbiamo scritto finora in questi termini: l’ascesi protestante intramondana agì violentemente contro il godimento spensierato del possesso, restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. Invece ebbe l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni dell’etica tradizionalistica, spezzò le catene che avvincevano la ricerca del guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma ritenne fosse voluta direttamente da Dio (nel senso qui esposto). La lotta contro la concupiscenza e l'attaccamento ai beni esteriori non fu una lotta contro il profitto razionale, ma contro un uso irrazionale della proprietà, come testimonia esplicitamente, con i puritani […]. Ma questo uso irrazionale stava anzitutto nell'alta considerazione di quelle forme ostensibili di lusso che, in quanto avevano il senso di divinizzare la creatura, dovevano essere condannate, di quella pompa che, così congeniale alla sensibilità feudale, si sostituiva all'impiego dei propri averi razionale e utile per le finalità della vita dell'individuo e della collettività, che era quello voluto da Dio. Non si voleva imporre al possidente la mortificazione della carne, ma l'uso della sua proprietà per cose necessarie e praticamente utili […]. E se ora mettiamo insieme quella restrizione del consumo con questo scatenarsi dell’attività lucrativa, è ovvio il risultato esterno: formazione di capitale condizionata da coazione ascetica al risparmio. Gli ostacoli che si opponevano al consumo del profitto realizzato dovevano necessariamente giovare al suo impiego produttivo: come capitale investito. (Ibidem, pp. 229-231)

Era sorto un ethos professionale specificamente borghese. Con la coscienza di godere pienamente della grazia di Dio e di essere visibilmente benedetto da lui, l’imprenditore borghese poteva perseguire i suoi interessi lucrativi — e anzi doveva farlo — a condizione di mantenersi entro i limiti della correttezza formale, di vivere in una maniera eticamente ineccepibile, e di non fare un uso scandaloso delle proprie ricchezze. Per giunta il potere dell’ascesi religiosa metteva a sua disposizione operai sobri, coscienziosi, insolitamente efficienti e (attaccati) al lavoro, che consideravano lo scopo della vita voluto da Dio. (Ibidem, p. 235)

Come si proponevano di provare queste esposizioni, uno degli elementi costitutivi dello spirito capitalistico moderno, e non solo di questo, ma della civiltà moderna - l'esistenza razionale condotta sulla base dell'idea di "Beruf" -, è nato dallo spirito dell'ascesi cristiana. Si legga ancora una volta il trattato di Franklin citato all'inizio di questo saggio, per vedere come gli elementi essenziali di quella mentalità che vi è indicata con l'espressione "spirito del capitalismo" siano appunto quelli in cui abbiamo prima individuato il contenuto dell'ascesi professionale puritana, solo senza quel fondamento religioso che in Franklin era già venuto meno. Il pensiero che il lavoro professionale moderno abbia uno stile ascetico non è neanche nuovo. Che la limitazione alla propria specializzazione, con la rinuncia all'umanità universale faustiana che ne è condizionata, nel mondo attuale sia presupposto di ogni agire pregevole in genere, e che dunque "azione" e "rinuncia" oggi non possano non condizionarsi reciprocamente, - questo motivo ascetico che sta alla base dello stile di vita borghese (se vuole essere appunto stile e non mancanza di stile) ce lo ha voluto insegnare lo stesso Goethe, al culmine della sua saggezza, nei Wanderjahre e alla conclusione della vita del suo Faust. Per lui questa conoscenza significò una rinuncia, un congedo da un tempo di piena e bella umanità, il quale non si ripeterà più, nel corso dello sviluppo della nostra civiltà, come non si rinnovò il tempo dello splendore di Atene nell'antichità. Il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti, quando l'ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e cominciò a dominare sull'eticità intra- mondana, contribuì, per parte sua, a edificare quel possente cosmo dell'ordine dell'economia moderna - legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica -, che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio (non solo di coloro che svolgono direttamente un'attività economica), e forse continuerà a farlo finché non sia stato bruciato l'ultimo quintale di carbon fossile. Solo come un "leggero mantello che si potrebbe sempre deporre", la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle dei suoi santi, secondo l'opinione di Baxter. Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio. In quanto l'ascesi imprendeva a trasformare il mondo e a influire nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistavano un potere sugli uomini crescente e infine ineluttabile - quale non c'era mai stato prima nella storia. Oggi il suo spirito è fuggito da questa gabbia - chissà se definitivamente? In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica. Sembra che impallidisca definitivamente anche la rosea psicologia della sua ridente erede - della cultura illuministica -, e come uno spettro di contenuti religiosi di una fede passata si aggira, nella nostra vita, il pensiero del "dovere professionale". Dove l’"adempimento del dovere professionale" non può essere messo direttamente in rapporto con i sommi valori spirituali della civiltà e cultura - o, viceversa: anche sul piano soggettivo non deve essere sentito semplicemente come una coazione economica -, oggi l'individuo per lo più rinuncia comunque a interpretarlo. Nel paese dove si è sommamente scatenata, negli Stati Uniti, la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive, che non di rado le conferiscono addirittura il carattere dello sport. Nessuno sa ancora chi, in futuro, abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece (qualora non accadesse nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza convulsamente, spasmodicamente autoattribuitasi. Poiché invero per gli "ultimi uomini" dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: "Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore: questo nulla si immagina di essere asceso a un grado di umanità non mai prima raggiunto". Ma con questo passiamo nel campo dei giudizi di valore e di fede, che non devono appesantire questa esposizione meramente storica. (Ibidem, pp. 238-241)