Jeremy Rifkin

La fine del lavoro

Gruppo editoriale L’Espresso, Milano 2007

 

1.

Jeremy Rifkin, negli anni Novanta, è stato tra i primi ad identificare l’inesorabile declino del lavoro legato alla macchina capitalistica e ad anticipare il dramma di una crescente disoccupazione dovuta a miglioramenti della produttività che, a differenza del passato, non avrebbero più prodotto posti di lavoro.

Pubblicato nel 1995, il saggio viene oggi ristampato integralmente con una lunga Premessa che è un aggiornamento e una valutazione critica delle ipotesi esposte appena un decennio orsono.

La Premessa, che è una sintesi del saggio, conferma puntualmente quelle ipotesi, articolate sulla base di uno schema che denuncia il problema della fine del lavoro e avanza possibili soluzioni.

I punti rilevanti sono i seguenti:

“Il capitalismo di mercato è in parte costruito sulla logica della riduzione dei costi del fattore produttivo, incluso il costo del lavoro, al fine di creare margini di profitto. C'è una continua ricerca di nuove tecnologie meno costose e più efficienti per abbattere i salari o eliminare del tutto la manodopera umana. Ora, le nuove tecnologie intelligenti possono sostituire buona parte del lavoro umano - sia fisico sia intellettuale. Se l'introduzione di nuove tecnologie laborsaving e timesaving ha aumentato considerevolmente la produttività, ciò è stato raggiunto solo a spese di un numero maggiore di lavoratori emarginati in impieghi part time o a cui è stata consegnata la lettera di licenziamento. Una forza lavoro contratta, comunque, significa reddito ridotto, domanda di beni di consumo ridotta e un'economia incapace di crescere. Questa è la nuova realtà strutturale che il governo, i leader del mondo degli affari e tanti economisti sono riluttanti a riconoscere. (p. XXII)

Alla metà del ventunesimo secolo, la sfera degli scambi avrà i mezzi tecnologici e la capacità organizzativa per fornire beni e servizi di base a una crescente popolazione mondiale usando una frazione della forza lavoro impiegata al presente. Forse si avrà bisogno solo del 5% della popolazione adulta per gestire e rendere operativa la tradizionale sfera industriale entro il 2050. Aziende agricole, fabbriche e uffici semivuoti saranno la norma in ogni Paese.

Pochi tra i chief executive officers con i quali parlo pensano che per produrre beni e servizi convenzionali tra cinquant'anni occorreranno quantità di lavoro umano di massa. Di fatto tutti credono che la tecnologia intelligente sarà la forza lavoro del futuro.

Naturalmente, la nuova era porterà con sé ogni genere di nuovi beni e servizi che, a loro volta, richiederanno nuove abilità occupazionali, soprattutto nell'arena della conoscenza più sofisticata. Questi nuovi posti di lavoro, tuttavia, per loro natura, saranno rari ed elitari. Non vedremo mai più migliaia di lavoratori affollarsi all'uscita dai cancelli della fabbrica e dai centri di servizi come succedeva nel ventesimo secolo.” (p. XXIII)

“I governi del mondo dovrebbero porsi lo scopo di ridurre la settimana lavorativa a trentacinque ore entro il 2010 e puntare alle trenta ore, o alla giornata di sei ore, entro il 2020. (La riduzione deve essere legata a un aumento proporzionale della produttività.) Il calo delle ore di lavoro dovrebbe inoltre essere reso flessibile per adeguarlo alle necessità di risorse umane delle aziende e allo stile di vita dei lavoratori.

I datori di lavoro, se ne avessero modo, preferirebbero una forza lavoro «su misura» e assumere manodopera solo quando ne hanno bisogno. Questo è lo scopo ultimò della cosiddetta politica del lavoro flessibile». Da una prospettiva di puro mercato, assumere risorse umane solo quando se ne ha bisogno è sensato. II problema è che, dal punto di vista della società in senso ampio, una tale politica creerebbe il caos sociale. I lavoratori non sono solo uno dei fattori della produzione. Hanno famiglie da mantenere e un futuro da pianificare. Mentre i guru del management possono lodare le virtù di ogni lavoratore che sia l'imprenditore e il sindacalista di se stesso, nella realtà le economie probabilmente andrebbero verso il collasso se i lavoratori non fossero sicuri di avere il lavoro e il salario settimana dopo settimana.

Una politica dell'orario flessibile ha anche bisogno di prendere in considerazione la sicurezza e i bisogni dei lavoratori.” (p XXXV)

“L'Era Industriale mise fine al lavoro degli schiavi. L'Era dell'Accesso metterà fine al lavoro salariato di massa. Questa è l'occasione e la sfida che l'economia mondiale ha di fronte, mentre ci muoviamo nella nuova era della tecnologia intelligente. Liberare intere generazioni dalle lunghe ore trascorse sul posto di lavoro potrebbe annunciare un secondo Rinascimento per la razza umana o portare a una grande divisione e allo sconvolgimento sociale. La questione centrale è: che cosa facciamo dei milioni di giovani lavoratori di cui si avrà poco o nessun bisogno in un'economia globale sempre più automatizzata?” (p. XXIV)

“Nuove tecnologie intelligenti stanno portando l'economia mondiale lontano dal lavoro di massa e verso forze lavoro specializzate più ridotte nei prossimi cinquant'anni. Tuttavia esiste un'area emergente dove molte nuove opportunità si apriranno - perlomeno temporaneamente - nel settore manifatturiero e nelle industrie ad alta tecnologia. Siamo all'apice di un nuovo regime energetico che altererà il nostro modo di vivere in modo tanto radicale quanto l'introduzione del carbone e della forza vapore nell'ottocento e quella del motore a benzina e a combustione interna nel Novecento…

La tecnologia dell'energia a idrogeno e della pila a combustibile sta entrando nell'arena commerciale. La sua larga diffusione avrà probabilmente un impatto maggiore sull'economia globale rispetto a ogni altra singola innovazione nel prevedibile futuro. Riconfigurare l'infrastruttura energetica, mentre l'economia globale attuerà il cambiamento storico dall'era dei combustibili fossili a quella dell'idrogeno, creerà milioni di nuovi posti di lavoro - sufficienti per assorbire almeno in parte i nuovi ingressi nel mondo occupazionale. E poiché l'installazione di tecnologie per l'energia rinnovabile e la costruzione dell'infrastruttura legata allo sfruttamento dell'idrogeno, così come la riconfigurazione e la decentralizzazione delle reti di energia di ogni nazione, sono geograficamente collegate, l'occupazione verrà creata all'interno di ogni Paese. Tali lavori ci faranno guadagnare del tempo prezioso, mentre soluzioni di più ampia portata per il futuro del lavoro saranno gradualmente introdotte.” (p. XXIV-XXV)

“Anche con l'aprirsi di nuove opportunità lavorative in rapporto con la trasformazione verso un nuovo regime energetico, la riduzione della settimana lavorativa e l’adozione di uno schema di occupazione più flessibile, probabilmente non ci saranno posti di lavoro sufficienti ad accogliere tutti i nuovi ingressi nel mondo del lavoro. E l'impiego pubblico? È probabilmente corretto presuppone che i governi non aumenteranno in modo significativo l'ammontare dei dipendenti, ma continueranno, comunque, a ridurre il loro storico ruolo di datori di lavoro solo come ultima risorsa. Naturalmente il quarto settore, che include il mercato nero e irregolare e il crimine organizzato, è un'arena potenziale di impiego. In molti Paesi questo è il settore occupazionale che cresce in modo più rapido. L'economia informale di solito genera solo una sussistenza marginale. L'economia criminale, d'altra parte, è spesso una fonte assai lucrosa di impiego, ma se le venisse consentito di crescere e prosperare potrebbe erodere ancora di più i rapporti sociali in ogni Paese e portare a un mondo sempre più pericoloso e destabilizzato.

C'è comunque un altro settore in cui le abilità, il talento e le competenze delle persone possono essere ravvivati - il terzo settore, o la società civile. Tale settore include tutte le attività nonprofit formali e informali che costituiscono la vita culturale della società. È il settore in cui le persone creano i legami tra le comunità e quindi l'ordine sociale.” (p. XXXVII)

“Gli obiettivi delle comunità includono una gamma di iniziative in vari campi: dai servizi sociali all'assistenza sanitaria, dall'istruzione alla ricerca, alle arti, agli sport, alle attività ricreative, dalla religione al patrocinio legale…

II servizio nella comunità è molto diverso dal lavoro nel mercato. Il contributo di ognuno viene liberamente elargito in base alla sensibilità nei confronti della cura degli altri. Se da tali attività derivano spesso conseguenze economiche, esse sono secondarie rispetto allo scambio sociale. Lo scopo non è l'accumulo di ricchezza ma, piuttosto, la coesione sociale.

Diversamente dal capitalismo di mercato, basato sulla teoria di Adam Smith secondo la quale il bene comune aumenta con il perseguimento individuale dell'interesse personale, la società civile comincia con la premessa esattamente opposta - è il dare se stesso agli altri da parte di ognuno e l'ottimizzare il bene sociale nella comunità allargata che fanno crescere il benessere di ciascuno.

In un'economia globalizzata costituita da forze impersonali di mercato, la società civile è diventata un importante rifugio sociale. E il luogo in cui gli individui creano un senso di intimità e fiducia, il luogo di finalità condivise e dell'identità collettiva. II terzo settore è l'antidoto a un mondo sempre più definito in termini strettamente commerciali.

Ogni nazione avrà bisogno di esplorare nuove opportunità per istruire e educare i giovani alla partecipazione attiva - e retribuita - nel terzo settore. Il finanziamento di milioni di persone che si mettano insieme nella creazione di capitale sociale nelle proprie comunità richiederà lo stanziamento di fondi pubblici.” (p. XXXVIII)

“Il terzo settore è, nei fatti, un'economia parallela. La sua missione, comunque, è creare capitale sociale, non capitale di mercato. I fautori della società civile sostengono, con delle ragioni, che senza l'economia sociale quella di mercato non potrebbe esistere. L'economia sociale è il settore chiave, il luogo in cui gli individui creano legami formali e informali, relazioni e istituzioni per prendersi cura l'uno dell'altro. Il luogo in cui gli esseri umani stabiliscono la fiducia sociale che permette loro di impegnarsi con slancio nei rapporti di scambio. II capitale sociale precede sempre il capitale di mercato in ogni società. : Il problema è che mentre la popolazione è aumentata e i rapporti sociali sono diventati allo stesso tempo più fitti e dispersi, il tipo di rapporto personale intimo che ha facilitato la creazione del capitale sociale è diventato difficile da mantenere. In comunità più piccole e maggiormente integrate, la reciprocità tra parenti e vicini è tradizionalmente alta. È naturale che gli individui contribuiscano con le loro competenze, abilità e conoscenze all'aiuto reciproco e alla creazione di relazioni e istituzioni comunitarie. Poiché le comunità umane sono lievitate in gigantesche città e si sono propagate in caotiche periferie, il senso di intimità ha lasciato il posto all'anonimato e l'idea di impegno condiviso e di aiuto reciproco ne ha risentito.

Mentre l'economia sociale si è ridotta, l'economia di mercato è cresciuta, in parte, perché i meccanismi di scambio tra le persone nel campo commerciale sono basati su distaccati rapporti di rivalità. Il denaro, che è un medium impersonale, permette alla gente di disperdersi nello spazio e nel tempo per scambiarsi il proprio tempo e lavoro senza dover stabilire intimi legami.

La grave lacuna della società civile è il tipo di «fungibilità che permetterebbe alla gente di mettere in campo tempo, abilità e competenze in attività nonprofit che costruiscano il capitale sociale nelle comunità. La valuta sociale offre una soluzione. La tecnologia consente ora, con carte di credito e di addebito, servizi Internet, il web e la tecnologia mobile, di realizzare una valuta parallela nella società civile che possa cominciare a rendere scambiabile il potenziale capitale umano disponibile in ogni quartiere e comunità.

La creazione di una valuta sociale è la chiave per creare modi totalmente nuovi per la gente di condividere risorse individuali. Per i milioni di persone che si trovano sottoccupate o disoccupate e senza mezzi sufficienti per assicurarsi la sopravvivenza, la valuta sociale riempirà sempre più il vuoto e potrebbe anche diventare un potente mezzo parallelo per offrire qualità di vita, al di fuori dell'economia di mercato…

Si tratta di un'idea semplice, basata sul concetto di aiutare un vicino con l'aspettativa che un vicino - non necessariamente lo stesso - prima o poi aiuterà te. La sua ispirazione è simile al principio che ci spinge a una banca del sangue per farci fare un prelievo…

Un individuo dona volontariamente un'ora del proprio tempo e viene ricompensato con un time dollar. Diversaniente dall'economia di mercato, dove il tempo delle persone viene ricompensato su una scala discendente in misura della loro competenza, la valuta sociale è egualmente valutata. Ognuno, indipendentemente dalla competenza, dal medico all'autista di taxi, riceve un credito di un'ora per un'ora di impegno, secondo l'idea che il contributo di ogni persona è egualmente valutato nel produrre il capitale sociale della comunità.

I time dollars derivati possono essere usati per assicurarsi beni e servizi da parte di altri nella time bank, inclusi cibo, vestiario, computer, servizi legali, servizi sanitari, alloggio, trasporti, perfino l'iscrizione a programmi scolastici…

Altri programmi time dollar permettono alle persone coinvolte di avere, in cambio delle ore donate alla comunità, una gamma di servizi che includono riparazioni di automobili, lavori di falegnameria, di idraulica, di contabilità, servizi legali e lezioni di ballo. Perfino l'affitto può essere parzialmente pagato con time dollars101 Dovrebbe essere messo in particolare rilievo che i programmi time dollar non equivalgono a forme di baratto. Non c'è trattativa. Tutti i contributi sono valutati nello stesso modo, cioé ogni ora di lavoro è paragonabile alle altre, a prescindere dalla natura e dal tipo di contributo…

Tutti i programmi di valuta sociale al momento attivi nel mondo sono di dimensioni ridotte quanto a finalità e scala. Il loro esempio è comunque altamente rappresentativo del grande potenziale umano che potrebbe essere liberato se fossero resi effettivi programmi di respiro maggiore. Ci dovrebbe essere una seria discussione su come espandere questi sforzi frammentari fino ad avere una singola valuta sociale in ogni Paese - usando carte di debito e altre avanzate tecnologie bancarie - così che la gente possa contribuire con il proprio tempo e le proprie abilità alla comunità e usare i time dollars per assicurarsi l'accesso a beni e servizi nell'intera regione di residenza. Estendere il concetto dei time dollars a una regione offre un campo di prova maggiore per lo scambio di contributi personali, mantenendo un certo grado di localismo geografico. Concessioni speciali potrebbero essere rilasciate persino per lo scambio di time dollars a livello nazionale nel caso in cui l'accesso alle competenze, ai servizi e ai beni non fosse disponibile localmente. Una valuta sociale nazionale parallela, insieme a quella commerciale esistente, aiuterà a rendere, il terzo settore, o arena sociale, un'alternativa percorribile per l'utilizzo delle risorse umane. ” (p. XLV-L)

“È possibile immaginare che entro il ventunesimo secolo la tecnologia intelligente sostituirà buona parte del lavoro umano nella sfera degli scambi economici, consentendo alla maggioranza degli esseri umani di essere istruiti e formati per occupazioni adatte alle proprie attitudini in campo culturale: dopo tutto, il lavoro dovrebbe essere compito delle macchine. Il lavoro produce soltanto profitti. Le persone, invece, dovrebbero essere liberate per generare valore intrinseco e rinvigorire il senso di una comunità condivisa. Liberare gli individui dal lavoro, così da renderli in grado di dare un profondo contributo alla creazione del capitale sociale nella società civile, rappresenta uno straordinario salto in avanti per l'umanità nel secolo appena arrivato. Ciò che ora si richiede è la volontà e la determinazione necessarie per cominciare questo definitivo viaggio umano.” (p. L-LI)

In un articolo scritto su Repubblica, in occasione, dell’uscita della nuova edizione, Luciano Gallino riconosce la sostanziale verità delle ipotesi di Rifkin, ma avanza un fugace dubbio sulle soluzioni:

“Nell´orgoglioso mondo moderno il lavoro può finire per varie cause. Dire che finisce non significa che proprio tutti rimangono disoccupati; vuol dire piuttosto avvicinarsi al punto che il lavoro ben pagato e professionalmente gratificante diventa privilegio di una piccola minoranza. Causa prima di un simile processo: il lavoro viene trasferito per la maggior parte alle macchine, sì che i lavoratori diventano superflui. Causa seconda, che deriva dalla prima: masse crescenti di lavoratori producono beni e servizi di tal natura che pochi di loro riescono a comprarli. Un´altra causa è insita nello sviluppo asimmetrico di interi settori dell´economia: settori tradizionali che per secoli hanno occupato la maggioranza della popolazione sono ridotte al minimo o scompaiono, mentre i nuovi settori in sviluppo non bastano ad assorbire le quote eccedenti. Infine c´è la causa delle cause: le materie prime e l´energia necessaria per far lavorare continuativamente masse di persone giungono esse stesse alla fine.

Per il fatto di richiamare ed analizzare le cause suddette, Jeremy Rifkin fu uno dei primi studiosi di economia a distaccarsi, sin dalla metà degli anni ´90, dalla legione di economisti i quali assicuravano - e il bello, o forse il tragico, è che continuano ad assicurare - che la deregolazione dei mercati, la libera circolazione dei capitali, il progresso tecnologico, il tutto-mercato avrebbero sicuramente generato lavoro di buona qualità e ben retribuito per l´intera popolazione del globo. Al presente, per contro, la situazione del lavoro nel mondo si può così riassumere. Su una forza lavoro dell´ordine di 2,8 miliardi di persone, quasi la metà è occupata nell´economia informale, un settore dove non esistono diritto del lavoro, contratti, sindacati, minimi salariali, ferie o sistemi previdenziali. In essa rientra anche l´imponente economia sommersa dei paesi sviluppati.

L´economia formale ha assorbito in una quindicina d´anni alcune centinaia di milioni di lavoratori espulsi dai campi e dalle tecniche agricole tradizionali, ma tale cifra è del tutto insufficiente ad accogliere l´intera popolazione di coloro che hanno perso a un tempo il lavoro, l´abitazione e la rete di rapporti sociali che li sosteneva. Poiché solo per una quota limitata di lavoratori "formali" i salari superano i 100-150 euro al mese, i lavoratori stessi e i loro familiari sopravvivono con un paio di euro al giorno pro capite. Nei paesi sviluppati, compreso il nostro, la massa dei lavoratori percepisce salari pari o inferiori, in termini reali, a quelli di dieci anni prima. Nella patria di Rifkin, gli Stati Uniti, essi sono addirittura più bassi di trent´anni prima. In compenso quei lavoratori fanno orari effettivi più lunghi; faticano di più a causa della intensificazione dei ritmi di lavoro; circa un terzo di loro ha un´occupazione instabile; a suo tempo avranno pensioni ridotte. Per di più il tipo di lavoro ad essi offerto nelle aziende rimane per la maggioranza quello ripetitivo e vuoto che impegnava Charlie Chaplin in Tempi moderni. Anche se invece che a un nastro trasportatore lui o lei si trova davanti a un computer.

Non è finito nel senso stretto del termine, il lavoro nel mondo, ma certo è messo decisamente male. Come Rifkin più o meno prevedeva. Due i rimedi principali che suggerisce nel libro: una riduzione drastica dell´orario di lavoro, e la convergenza dei talenti e delle energie di occupati e disoccupati verso la ricostruzione di migliaia di comunità locali e la creazione di una terza forza economica e sociale, un terzo settore, che riesca a sopravvivere indipendentemente dal privato e dal pubblico.

Ambedue le idee, che provengono da un liberale americano, non da un tardo trotzkista europeo, meritano attenzione oggi più ancora di quando Rifkin le ha formulate. È vero che il privato ha costruito un sistema economico globale che palesemente non è in grado di pilotare; e che il pubblico ha rassegnato quasi ovunque le dimissioni dall´incarico di produrre e distribuire equamente potere politico e ricchezza economica. Avanti dunque con il terzo settore, e relative riduzioni d´orario. È però qui che la precorritrice indagine di Rifkin incorre in qualche difficoltà. La fine in corso del lavoro non è semplicemente prodotta da una congiunzione di tecnologia, teorie economiche liberiste, e disinteresse collettivo per la qualità e il significato sociale del lavoro. È il prodotto d´un conflitto di classe globale che vede quasi ovunque nel mondo il lavoro come la parte perdente. Se la politica non tornerà ad occuparsene, è possibile che riduzione d´orario e terzo settore non bastino per invertire la rotta.”

2.

La sintesi concettuale di un libro di sociologia di 400 pagine consente indubbiamente di omettere ciò che in esso vi è di inesorabilmente superfluo e di sormontare lo scoglio dei dati statistici (peraltro sempre caduchi). Il pensiero sociologico critico è un’ardua sfida della ragione che, in rapporto ad un sistema caotico – la società -, cerca di identificare in esso le linee di tendenza, il flusso che può consentire di operare previsioni e di proporre rimedi laddove si profilano pericoli.

Il saggio di Rifkin, peraltro, riguarda sostanzialmente la società statunitense, considerata giustamente l’avanguardia della fine del lavoro che investirà progressivamente il resto del mondo globalizzato.

La sintesi, però, impedisce di apprezzare adeguatamente le finezze del testo e i momenti in cui esso, come è nella tradizione della sociologia critica, raggiunge livelli di grande intensità.

La parte IV del saggio, dedicata al Prezzo del progresso, da questo punto di vista è senz’altro la più rilevante. Essa, in rapporto agli Stati Uniti, fornisce lo spaccato di una società la cui iniquità sta creando uno squilibrio totale tra un’élite di privilegiati e una massa di nuovi poveri nella quale, ai diseredati che nel sistema statunitense esistono da sempre, si stanno aggiungendo con progressione crescente membri della classe media.

I momenti più interessanti dell’analisi sono i seguenti:

“Negli anni Ottanta, le imprese americane hanno fatto segnare un incremento del 92% dei profitti al lordo delle tasse (e al netto dell'effetto dell'inflazione). Molti azionisti hanno visto quadruplicare il dividendo in meno di dieci anni.

Benché gli azionisti abbiano tratto profitto dalle nuove tecnologie e dai balzi in avanti della produttività, i benefici non sono scesi «a cascata'. verso il lavoratore medio. Durante gli anni Ottanta, la retribuzione oraria media reale nel settore industriale è diminuita da 7,78 a 7,69 dollari.5 Alla fine di quel decennio, circa il 10% dei lavoratori americani era disoccupato, sottoccupato o occupato a tempo parziale in mancanza di un impiego a tempo pieno, se non era così scoraggiato da non cercare più un posto di lavoro…

Le statistiche segnalano la ritirata della forza lavoro in quasi tutti i settori. Costretti a competere con l'automazione da una parte e la concorrenza internazionale dall'altra, i lavoratori americani si sentono spinti sempre più verso il limite della sopravvivenza economica. Nel 1979 la paga media settimanale negli Stati Uniti era di 387 dollari; già nel 1989 era scivolata a 335. Nel ventennio compreso tra il 1973 e il 1993, gli operai americani hanno perso il 15% del loro potere d'acquisto in termini reali."

Il declino del salario medio è da attribuire in parte alla diminuzione del potere dei sindacati. Congelamenti e tagli erano cosa inaudita nei settori sindacalizzati dell'economia negli anni Sessanta e Settanta. Comunque, durante la crisi del biennio 1981-1982, i sindacati hanno cominciato a perdere potere contrattuale: più del 44% della forza lavoro sindacalizzata impegnata in contrattazioni collettive nel corso dell'anno 1982 ha accettato congelamenti o tagli salariali, stabilendo così un precedente.12 Nel 1985 più di un terzo di tutti i lavoratori soggetti a nuovi contratti collettivi aveva accettato congelamenti o tagli salariali. Con la rappresentanza dei sindacati in calo rispetto al totale della forza lavoro occupata, i lavoratori americani sono rimasti senza una voce che sostenesse con determinazione i loro interessi nei confronti degli imprenditori…

I vantaggi conquistati a prezzo di dure lotte e l'accordo tra il management e i sindacati hanno iniziato a indebolirsi alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta. Dovendo affrontare una forte concorrenza estera e potendo contare su un sempre più sofisticato arsenale di tecnologie laborsaving sul mercato domestico e di manodopera a basso costo in altri Paesi, le imprese americane hanno iniziato ad agire di concerto per indebolire il potere delle organizzazioni dei lavoratori e per ridurre la componente del costo del lavoro nel processo economico.” (p. 251-255)

“Mentre la prima ondata di automazione ha manifestato i propri effetti sui colletti blu, la nuova rivoluzione del re-engineering sta cominciando ad attaccare anche i livelli intermedi della gerarchia aziendale, minacciando la stabilità economica e la sicurezza del gruppo sociale più importante del sistema America: la classe media. Probabilmente le nuove vittime del re-engineering saranno gli abitanti delle aree residenziali suburbane, persone con incarichi manageriali ,e retribuzione annuale a sei zeri. Dieci anni fa, vedere un maschio bianco di età compresa tra i quaranta e i cinquant'anni nel giardino di casa o a passeggio con il cane per le strade di un quartiere periferico residenziale in un giorno feriale sarebbe sembrato una stranezza; oggi migliaia di manager intermedi ed executive che hanno perso il posto e si ritrovano a casa, aspettando che squilli il telefono con una offerta di lavoro. Per molti, la tanto attesa chiamata non arriverà mai…

Un numero sempre più elevato di neodisoccupati perde ogni speranza: alcuni si nascondono dietro porte e finestre chiuse, passando il tempo a guardare la televisione; altri si abbandonano alla facile consolazione dell'alcool; altri ancora invadono il regno delle casalinghe, accompagnano i figli a scuola e si dedicano ad attività lavorative minori; alcuni si dedicano al volontariato.” (p 256-257)

“In tutti gli Stati Uniti, l'avvento del re-engineering ha portato alla sparizione dei posti di lavoro di livello intermedio. Decine di migliaia di famiglie stanno mettendo sul mercato le proprie case nei quartieri residenziali periferici delle grandi città, vendendo i propri averi e facendo le valige: per la prima volta, dai tempi della Grande Depressione, si stanno muovendo verso il basso della scala sociale, vittime della produzione leggera, dell'automazione a tutto campo e della concorrenza sul mercato globale. Secondo il Census Bureau, il numero di cittadini americani con reddito medio è diminuito dal 71% della popolazione nel 1969 a meno del 63% all'inizio degli anni Novanta.

Il declino della classe media sarebbe stato ben più grave se nel decennio scorso decine di casalinghe non fossero entrate nel mondo del lavoro. All'inizio degli anni Ottanta, la maggioranza delle donne di classe media stava a casa; alla fine dello stesso decennio, il 47% delle donne sposate lavorava per contribuire al ménage familiare e solo il 33,5% delle coppie sposate disponeva di un solo reddito.3° Le statistiche dimostrano che la retribuzione del singolo lavoratore, negli anni Ottanta, è diminuita in termini reali. Se non fosse stato per il doppio reddito, molte famiglie sarebbero uscite ben prima dai ranghi della classe media. Già nel 1989 il secondo reddito non era più sufficiente a compensare i tagli nelle retribuzioni individuali e tra il 1989 e il 1990 la famiglia media americana ha dovuto sopportare una diminuzione reale del reddito disponibile del 2%.31

Le declinanti fortune della classe media americana si sono manifestate con maggiore evidenza tra i laureati.” (p. 258)

“Le tecnologie informatiche, sebbene abbiano seriamente compromesso le fortune del lavoratore dipendente di classe media e limitato le occasioni a disposizione dei laureati delle giovani generazioni che si affacciano sul mercato del lavoro, sono state una manna per il ristrettissimo gruppo di manager di alto livello che gestiscono l'economia del Paese. Gran parte dei guadagni di produttività e dei migliorati margini di profitto realizzati negli ultimi cinquant'anni, grazie all'automazione e alle tecnologie del controllo numerico, sono finiti nelle tasche del top management. Nel 1953 la retribuzione degli executives era equivalente al 22% dei profitti delle imprese; nel 1987 era salita al 61%. Nel 1979 il chief executive officer medio americano guadagnava un reddito superiore di 29 volte a quello dell'operaio medio; nel 1988 il rapporto era passato a 93:1…

La crescente differenza tra lo stipendio e i benefici aggiuntivi del top manager e degli altri lavoratori americani sta creando un'America profondamente bipolarizzata: un Paese popolato da una piccola élite cosmopolita di americani ricchi racchiusa all'interno di un Paese di lavoratori sempre più impoveriti e di disoccupati. La classe media, un tempo simbolo della prosperità americana, sta rapidamente assottigliandosi, con le prevedibili conseguenze in termini di stabilità politica della nazione.

La concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti è rimasta abbastanza stabile tra il 1963 e il 1983. Comunque, negli anni Ottanta, il differenziale di reddito ha iniziato ad allargarsi drasticamente. Alle fine di quel decennio, lo 0,5% delle famiglie più ricche era proprietario del 30,3% della ricchezza privata, con un aumento del 4,1% rispetto al 1983. Nel 1989, il primo 1% delle famiglie guadagnava il 14,1% del reddito nazionale degli Stati Uniti e possedeva il 38,3% della ricchezza e il 50,3% delle attività finanziarie nette del Paese.

In termini assoluti, il 5% dei lavoratori dipendenti americani agiati aveva visto aumentare il proprio reddito dai 120.253 dollari l'anno del 1979 ai 148.438 del 1989, mentre il 20% più povero della popolazione lo aveva visto diminuire, nello stesso periodo, da 9990 a 9431 dollari l'anno.3 Negli anni Ottanta i ricchi sono diventati più ricchi, in buona parte a spese del resto della forza lavoro americana, che ha visto salari e stipendi tagliati, benefici aggiuntivi ridotti e posti di lavoro eliminati.” (p. 259-260)

“Al di sotto di quella dei super-ricchi si trova una classe sociale poco più consistente numericamente, pari al 4% della popolazione attiva degli Stati Uniti. I ranghi di questa classe sono composti principalmente dai nuovi professionals: gli analisti di simboli o i knowledge workers che gestiscono la nuova economia delle alte tecnologie informatiche. Questo piccolo gruppo, che conta meno di 3,8 milioni di persone, ha un reddito equivalente a quello percepito dal 51% più povero dei lavoratori dipendenti americani, che pure sono quasi 50 milioni.

Oltre al primo 4%, che costituisce l'élite del settore della conoscenza, un altro 16% dellaforza lavoro americana consiste prevalentemente di knowledge workers. Nel suo insieme, laclasse della conoscenza, che rappresenta il 20% della popolazione, percepisce un reddito di1755 miliardi di dollari l'anno, più di quanto riescano complessivamente a mettere insieme irimanenti quattro quinti della popolazione. Il reddito di questa classe continua a crescere a unritmo tra il 2 e il 3 % l'anno al netto dell'inflazione, sebbene il reddito della restante partedegli americani continui a diminuire.

Quello dei knowledge workers è un gruppo non omogeneo unito dall'uso delle più aggiornatetecnologie informatiche per individuare, analizzare, elaborare e risolvere i problemi. Algruppo appartengono ricercatori scientifici, progettisti, ingegneri civili, analisti disoftware, ricercatori biotecnologici, specialisti in pubbliche relazioni, banchieri d'affari,consulenti direzionali, fiscalisti, architetti, esperti di pianificazione strategica, specialistidi marketing, produttori cinematografici, redattori, art director, editori, scrittori egiornalisti.42

L'importanza della classe della conoscenza nel processo produttivo diventa sempre piùgrande, mentre il ruolo dei due gruppi tradizionali dell'era industriale - fornitori di capitaleumano e di capitale finanziario - diventa sempre meno rilevante…

Agli albori dell'era industriale, chi controllava il capitale finanziario e i mezzi di produzione esercitava un controllo quasi totale sull'attività economica. Perun certo periodo, durante i decenni centrali del nostro secolo, questi dovettero condividereuna parte del loro potere con i fornitori di capitale umano, il cui ruolo critico nellaproduzione ha assicurato loro una certa influenza sulle decisioni circa i modi e i mezzi diproduzione e di distribuzione della ricchezza. Oggi, con l'importanza del lavoro passata insecondo piano, quello dei knowledge workers è diventato il gruppo più importante nellaformula dell'economia: sono loro gli elementi catalizzatori della Terza rivoluzioneindustriale e i responsabili della gestione dell'economia high-tech. Per questa ragione, topmanager e investitori hanno dovuto dividere sempre più una parte del proprio potere con icreatori della proprietà intellettuale, gli uomini e le donne le cui idee e conoscenzealimentano la società informatica. Non ci si meraviglia, dunque, che in alcuni settori i dirittidi proprietà intellettuale siano diventati sempre più importanti della finanza: avere ilmonopolio sulla conoscenza e sulle idee assicura un vantaggio competitivo e una posizione sulmercato; finanziare il successo, a questo punto, diventa quasi secondario.

Nel mondo tecnologico automatizzato degli anni Novanta, la nuova élite dei knowledge workerssta emergendo grazie a capacità fondamentali che la mettono in primo piano nell'economiaglobale, facendola rapidamente diventare la nuova aristocrazia. Mentre la loro fortuna è ognigiorno più radiosa, la sorte economica del gran numero di lavoratori del terziario di bassolivello peggiora, creando una nuova e pericolosa divisione tra chi ha e chi non ha in tutti iPaesi industrializzati.” (p. 262-263)

“Avvicinandosi al XXI secolo, stanno emergendo due diverse Americhe. La rivoluzione dell'altatecnologia probabilmente inasprirà le crescenti tensioni ti ricchi e poveri e divideràulteriormente la nazione in due campi incompatibili e sempre più contrapposti. I segni delladisintegrazione sociale sono ovunque.” (p. 265)

“Mentre milioni di poveri languiscono nelle città e nelle campagne e un numero crescente dilavoratori dipendenti della classe media suburbana sente il morso del re-engineering el'effetto dello spiazzamento tecnologico, una ristretta élite di knowledge workers imprenditorie dirigenti d'azienda si gode i benefici della nuova economia globale ad alta tecnologia,praticando uno stile di vita opulento, distante anni luce dallo scompiglio sociale che lacirconda. La nuova, spaventosa situazione in cui si trovano gli Stati Uniti ha spinto il ministro del lavoro Robert reich a domandarsi: “Che cosa dobbiamo l’uno all’altro, se siamo membri della stessa società ma non viviamo più nel medesimo sistema economico?” (p. 269-270)

“Viviamo in un mondo di contrasti sempre più stridenti. Davanti ai nostri occhi si va formandol'immagine di una luccicante società tecnologica con computer e robot che senza sforzoapparente canalizzano le ricchezze della natura in un flusso di nuovi e sofisticati prodotti eservizi. Pulite, silenziose e iperefficienti, le nuove macchine dell'era informatica ci mettonoil mondo a portata di mano, dandoci un controllo su ciò che ci circonda e sulle forze dellanatura che sarebbe stato a malapena immaginabile solo un secolo fa. In superficie, la fluida,nuova società dell'informazione sembra avere poca o punto rassomiglianza con le condizionidickensiane della prima epoca dell'industrializzazione. Grazie alle nuove e potenti macchineintelligenti, l'ambiente di lavoro automatizzato sembra dare sostanza al vecchio sogno di unavita senza fatiche e sofferenze. In molte comunità, le vecchie e tetre fabbriche della secondaetà industriale sono scomparse, l'aria non è più insozzata dagli scarichi industriali, leofficine, le macchine e i lavoratori non sono più coperti di grasso e di morchia. Il sibilo deglialtiforni e il ritmico, incessante rumore metallico delle gigantesche macchine dell'industriapesante sono diventati un'eco lontana; alloro posto si sente solo il tranquillo ronzio deicomputer che lanciano informazioni lungo circuiti e reti, trasformando le materie prime inuna cornucopia di beni.

È questa la realtà alla quale si riferiscono i mezzi di comunicazione di massa, di cui parlanogli accademici e i futurologi, di cui si discute nei consessi della politica. L'altra faccia dellatecno-utopia nascente - quella insozzata dai cadaveri delle vittime del progresso tecnologico - viene solopallidamente suggerita dai rapporti ufficiali, dalle analisi statistiche e dagli occasionaliracconti di vite perdute e di sogni infranti. Questo altro mondo si sta popolando di lavoratorialienati che sperimentano crescenti livelli di stress in ambienti di lavoro ad alta tecnologia euna sempre maggiore incertezza del posto di lavoro, mentre la Terza rivoluzione industrialecompie il proprio corso in tutti i settori e in tutti i compatti dell'economia.” (p 273-274)

“Si è scritto e detto molto sui circoli di qualità, sul lavoro di gruppo e sulla maggiorepartecipazione dei lavoratori sul luogo di lavoro. Poco o nulla si è detto e scritto, invece,sulla dequalificazione del lavoro, sui ritmi di produzione sempre più accelerati, sui maggioricarichi di lavoro e sulle nuove forme di coercizione e di sottile intimidazione utilizzate percostringere il lavoratore a sottomettersi alle esigenze della produzione post-fordista.

Le tecnologie dell'informazione sono progettate per eliminare le ultime, pallide vestigia delcontrollo che l'uomo ha sul processo produttivo, attraverso la programmazione di istruzionidettagliate direttamente nella macchina, che è così in grado di eseguirle alla lettera. Illavoratore viene privato della capacità di esercitare il libero arbitrio, sia in fabbrica sianegli uffici, e del controllo sul risultato, che viene invece pianificato in anticipo da espertiprogrammatori. Prima del computer, il manager produceva istruzioni dettagliate in forma dischedulazioni' che ci si aspettava venissero rispettate dai dipendenti; poiché l'esecuzionedell'incarico era nelle mani dei lavoratori, era possibile introdurre nel processo unelemento soggettivo: nel mettere in atto la pianificazione del lavoro, ogni lavoratore dava lapropria impronta personale al processo produttivo. Il passaggio dalla produzione pianificataalla produzione programmata ha profondamente alterato il rapporto tra lavoratore e lavoro;oggi un numero crescente di lavoratori agisce esclusivamente come osservatore, incapace di partecipare o intervenire sul processo produttivo: qualunque cosaaccade in fabbrica o nell'ufficio è già stata pre-programmata da un'altra persona chepotrebbe non partecipare mai alla realizzazione del futuro che ha creato.” (p. 274)

“Nell'era industriale, i lavoratori sono diventati talmente condizionati dai ritmi deimacchinari da descrivere spesso la propria fatica in termini meccanici, lamentandosi diessere “logori» e di sentirsi “a pezzi». Oggi, un numero sempre maggiore di lavoratori è talmente integrato nella culturacomputeristica che, quando si sentono stressati, parlano di 'sovraccarico-, si sentonoincapaci di superare il burn-out e chiudono»: un linguaggio che denuncia chiaramente quantosiano giunti a identificarsi con il ritmo imposto dalla tecnologia informatica…

Le nuove tecnologie basate sul computer hanno talmente velocizzato il volume, il flusso e ilritmo dell'informazione che milioni di lavoratori stanno sperimentando sulla propria pelle il'.sovraccarico'. mentale e il burn-out. La fatica fisica generata dal ritmo serrato dellavecchia economia industriale sta cedendo il passo alla fatica mentale generata dal temporeale'. della nuova economia dell'informazione. Secondo uno studio condotto dal NationalInstitute of Occupational Safety and Health (NTOSH), gli impiegati sono soggetti a livellistraordinariamente elevati di stress.

L'iperefficiente economia high-tech sta minando alle radici la salute fisica e mentale dimilioni di lavoratori in tutto il mondo.” (p. 281-283)

“La costante crescita della disoccupazione tecnologica di lungo periodo ha acceso l’interesse di psicologi e sociologi sui problemi legati alla salute mentale dei disoccupati. Una congerie di studi nel corso degli ultimi dieci anni ha dimostrato la diretta correlazione tra la crescita del tasso di disoccupazione tecnologica e quella dell’incidenza della depressione e delle sindromi psicotiche sulla popolazione.” (p. 291-292)

“Il disoccupato cronico manifesta sintomi patologici simili a quelli dei malati terminali. Nella sua mente il lavoro produttivo è così strettamente correlato alla vita che, quando si trova senza un impiego, manifesta tutti i segni caratteristici della morte incipiente…

Dopo un anno di disoccupazione, la maggior parte degli ex lavoratori inizia a rivolgere la propria rabbia contro se stessa. Intuendo di non avere molte possibilità di trovare un nuovo posto di lavoro, iniziano a incolparsi della propria condizione, provano uno schiacciante senso di vergogna e di nullità, spesso associati a una perdita di vitalità. Secondo quanto affermato da Cottle, molti abbandonano le famiglie: «mascolinità e forza fisica svigoriscono, appaiono sempre più vergognosi e infantili, come se si volessero meritare la condizione di invisibilità e di reclusione nella quale sono precipitati.” (p. 291-292)

“Lo stato di morte psicologica viene spesso seguito dalla morte vera. Incapace di gestire lapropria condizione e sentendosi di peso per la famiglia, gli amici e la società, molti finisconoper scegliere la strada del suicidio…

La morte della classe lavoratrice globale è stata interiorizzata da milioni di lavoratori chesperimentano la propria morte, quotidianamente, per mano di datori di lavoro accecati dalprofitto e di governi indifferenti. Sono quelli che tremano in attesa della lettera dilicenziamento, costretti a lavorare per uno stipendio da fame e a fare la coda per i sussididell'assistenza pubblica. Ogni nuova umiliazione rappresenta un ulteriore colpo al loro giàscosso senso di autostima e di fiducia in se stessi. Diventano sacrificabili, poi irrilevanti,infine invisibili nel nuovo mondo tecnologico del commercio e degli scambi globali.” (p. 294)

Per quanto si possa ritenere che questo scenario iniquo e drammatico ha degli aspetti specifici in rapporto alla società statunitense e alla psicologia dei cittadini, per molti dei quali solo il lavoro dà senso alla vita, esso, mutatis mutandis, si è lentamente riprodotto, oltre che in quella giapponese, anche nella società europea. La globalizzazione degli ultimi anni ha impresso alle tendenze analizzate da Rifkin un’ulteriore accelerazione.

E’ difficile non considerare che Marx ha visto nel giusto allorché ha preconizzato la scissione della società in due classi. Scongiurata per un secolo e mezzo la “proletarizzazione” e l’impoverimento della maggioranza della popolazione sta diventando una drammatica realtà nei Paesi occidentali: una realtà destinata ad esacerbarsi dato che il capitalismo globalizzato e la sua logica intrinseca, del tutto indifferente ai bisogni sociali, non trova ormai alcun argine nel potere politico che rimane vincolato a livello locale, nazionale o continentale. La comunità economica europea, infatti, nata sulla base di opporre al declinante sogno americano il sogno di nazioni confederate nel difendere un diverso modello di sviluppo, più attento ai bisogni lavorativi, previdenziali e assistenziali dei cittadini, sembra infatti finora trascinata in una spirale che tende piuttosto a mortificare tale modello, nella misura in cui esso si era realizzato, che non a corroborarlo.

3.

Ho rilevato ormai tante volte la pregnanza della diagnosi e della prognosi di Marx sull’evoluzione del sistema capitalistico che continuare a sottolinearlo sembra superfluo. Via via che, per un paradosso della storia, il presente conferma l’analisi di Marx, si pone il problema dei possibili rimedi, che, per ovvi motivi, non possono essere quelli da lui (genericamente peraltro) prescritti.

Conscio di questo Rifkin, che, peraltro non è un marxista, ma un liberal, ne propone uno che, d’acchito, sembra affascinante: l’economia sociale nonprofit, che potrebbe convogliare i capitali umani di cui il sistema neoliberista sembra avere sempre meno bisogno nella direzione di una rete di scambio di servizi tra persone il quale, senza incidere sullo sviluppo del sistema stesso, che rimarrebbe vincolato alla produzione industriale e postindustriale e alla speculazione finanziaria, potrebbe compensare gli effetti in previsione catastrofici dell’espulsione della maggioranza dei cittadini dal mercato del lavoro.

La proposta è ragionevole, ma di ardua e forse impossibile realizzazione. Rifkin, infatti, sembra non tenere conto di tre diversi fattori.

Il primo è che, per quanti servizi i cittadini possano scambiarsi gratuitamente, riducendo le spese vive, un tenore di vita medio, all’interno di un sistema capitalistico avanzato, richiede comunque un reddito. Tranne che non si pensi ad un sussidio di cittadinanza, che richiederebbe comunque una radicale riforma fiscale, che potrebbe integrare ciò che si risparmia con l’economia sociale, anche porre tutto il tempo disponibile (per esempio 160 ore mensili equivalenti ad un normale lavoro) a servizio degli altri, non impedirebbe ai cittadini di scivolare verso la soglia della povertà.

Come ha validamente dimostrato Nicholas Georgescu-Roegen e come continua a sostenere S. Latouche, un’economia sociale di comunità, incentrata su scambi non economici, postula non solo una tradizione culturale che in Occidente è minimamente rappresentata, ma anche una decrescita che disintossichi i cittadini dai falsi bisogni di consumo alimentati dal capitalismo. Ma la decrescita, comunque intesa, anche dunque solo sul piano culturale, è di fatto una rivoluzione anticapitalista.

Il secondo fattore concerne il modo in cui il sistema neoliberista potrebbe reagire ad una ristrutturazione della società che, in virtù dell’uso a fini sociali del tempo libero, finirebbe inesorabilmente per erodere i suoi margini di guadagno. Rifkin fa insistentemente riferimento all’attività produttiva industriale e al terziario, ma sembra non tenere conto che il capitalismo si è esteso e governa la vita intera dei cittadini occidentali - dall’istruzione, alla sanità, all’assistenza ai bambini e agli anziani, ecc.

Basta fare un esempio per capire meglio il problema. Gli anziani, con la loro solitudine e il loro smarrimento in rapporto ad un mondo che va sempre più in fretta, sono i maggiori fruitori di medicine, delle quali si imbottiscono per una serie di mali alcuni dei quali (come i dolori articolari) sono esaperati dalla solitudine, mentre altri (come la depressione) sono addirittura da essa prodotti. Un servizio volontario sociale che si prendesse umanamente cura degli anziani comporterebbe miglioramenti tali, soprattutto dell’umore, da consentire una drastica riduzione dell’assunzione dei farmaci.

Pensare che l’industria rimarrebbe indifferente nei confronti di una cosa del genere è ingenuo. Essa sicuramente aumenterebbe le spese pubblicitarie inerenti le medicine per gli anziani e, se il risultato non fosse ottimale, tenderebbe ad infiltrarsi nelle organizzazioni di volontariato, casomai sponsorizzandole.

Con questo esempio giungiamo al terzo fattore. In quanto contrapposta al capitalismo, l’economia sociale sarebbe portata avanti da soggetti espulsi dal mercato del lavoro, da soggetti che troverebbero una ragione d’essere nel partecipare ad essa, ma non necessariamente attrezzati sotto il profilo critico e politico. Soggetti, tra l’altro, bisognosi. Come si potrebbe evitare, nelle file del volontariato, una corruzione che trasformerebbe il nonprofit in un’altra industria?

Purtroppo ci sono già molti dati i quali attestano che fenomeni degenerativi di ogni genere hanno colpito e continuano a colpire le ong che operano a livello internazionale.

Affascinante, la proposta di Rifkin non tiene conto che il sistema capitalistico si è affermato travolgendo tutte le barriere che ad esso si sono opposte, e che il suo potere di corruzione è enorme.

Dunque non si può fare nulla?

Io ritengo che qualcosa si possa fare. C’è un difetto diffuso di consapevolezza tra i cittadini sulla logica intrinsecamente perversa del capitalismo. Occorrerebbe anzitutto promuovere, sul piano culturale e politico, la crescita di consapevolezza a riguardo. Solo se i cittadini, abbandonando la sterile illusione che un governo nazionale possa risolvere problemi la cui matrice, ormai, trascende il loro potere di controllo, vedranno il baratro in cui sta precipitando la civiltà occidentale, cominceranno a muoversi e a rivendicare il diritto di sopravvivere al sistema capitalistico. Ancora oggi molti lo identificano con il modello di sviluppo che consente di aspirare al benessere e sono letteralmente irretiti dalla sirena del consumismo.

Dovranno capire che la parabola vincente del capitalismo, che ha raggiunto il suo acme con la morte del comunismo, sta declinando e, con il suo “selvaggio” tramonto, rischia di adottare la logica di Ercole.