Lynn Hunt

La forza dell’empatia

Una storia dei diritti dell’uomo
Laterza, Bari 2010 (ed. orig. 2007)

1.

Da tempo, nell’ambito delle scienze umane e sociali, è aperto un dibattito tra due diversi orientamenti metodologici: il sociologismo e l’individualismo. Secondo il sociologismo, l’esperienza dei singoli soggetti è potentemente influenzata dalla struttura sociale entro la quale vivono, dai valori culturali normativi che la sottendono, dalla spinta all’imitazione legata al bisogno di appartenenza e dalla tendenza ad appropriarsi di modi di vedere, di sentire e di agire più o meno alienati, che fanno parte del senso comune.

Il sociologismo metodologico, che identifica nel sociale una dimensione autonoma, irriducibile alla somma dei singoli individui, ha una lunga tradizione, che parte da Marx e, attraverso la Scuola di Francoforte, giunge a Marcuse e a Fromm. Si tratta dunque di un orientamento fondamentalmente marxista, che è stato ripreso dalla scuola de Les Annales in termini originali. Nel contesto di tale Scuola, infatti, è maturato il concetto di inconscio sociale come aspetto differenziato rispetto alla struttura materiale, anche se interagente con esso secondo modalità le più varie.

L’individualismo metodologico, viceversa, confuta l'esistenza di una dimensione sociologica che in una misura più o meno rilevante condiziona i comportamenti delle persone; esistono solo individui che agiscono e interagiscono tra di loro dando luogo a conseguenze intenzionali e non intenzionali.

Esso, in altri termini, assegna agli individui il ruolo di fattori evolutivi della storia e cerca di spiegare i cambiamenti che intervengono come il prodotto di modi di vedere e di sentire di singoli o più individui che operano una sorta di trascinamento sul senso comune e sulle istituzioni giuridiche, politiche, ecc.

Anche l’individualismo metodologico ha una lunga tradizione, che si può fare risalire a Max Weber, ma ha trovato i suoi maggiori sostenitori in una serie di economisti liberali (J. Schumpeter, F. von Hayek, L. von Mises, C. Menger, ecc.) ed è ancora viva nella teoria economica delle scelte razionali. Esso si è di recente esteso alla psicologia e alla sociologia sotto forma di socio-costruttivismo, secondo il quale la realtà è socialmente costruita nelle interazioni sociali e i significati che essa assume sono generati dalle persone nel momento in cui essi collettivamente e contestualmente li producono.

Lynn Hunt non fa mistero di aderire al socio-costruttivismo.

Docente statunitense di Storia europea moderna, la Hunt, di fatto, partendo da una ricostruzione della storia dei diritti dell’uomo, esitata nella Dichiarazione universale promulgata dall’ONU nel 1948, tenta di dimostrare che essa è stata potentemente influenzata da mutamenti culturali più generali che hanno trasformato il modo in cui gli esseri umani si relazionano tra loro. Tali mutamenti sarebbero avvenuti nell’ambito della letteratura, dell’arte, della filosofia, della giurisprudenza e avrebbero lentamente catturato l’opinione pubblica, diffondendo i nuovi ideali di uguaglianza, autodeterminazione e rispetto delle differenze. Alla base di tali ideali, secondo l’autrice, ci sarebbe l’empatia, intesa come capacità di immedesimarsi nell’altro e di riconoscere la sua sensibilità come simile alla propria.

L’Introduzione del saggio è esplicita riguardo alla tesi di fondo che la Hunt intende dimostrare e ai presupposti metodologici che guidano la sua ricerca:

“Introduzione

«NOI RITENIAMO CHE QUESTE VERITÀ SIANO DI PER SÉ EVIDENTI»

Le grandi cose a volte nascono dalla rielaborazione di uno scritto sotto pressione. Nella sua prima stesura della Dichiarazione di indipendenza, preparata a metà giugno 1776, Thomas Jefferson scrisse: «Noi riteniamo che le seguenti verità siano sacre e innegabili: che tutti gli uomini sono stati creati eguali e indipendenti, che da questa creazione su basi di eguaglianza derivano dei diritti intrinseci e inalienabili, fra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità». In gran parte grazie alle revisioni del suo stesso autore, la frase di Jefferson si sbarazzò presto della sua tortuosità e assunse toni più limpidi e cristallini: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Con questa unica frase, Jefferson trasformò un tipico documento del XVIII secolo contenente lamentele politiche in una proclamazione duratura dei diritti umani.

Tredici anni dopo, quando i francesi cominciarono a pensare di redigere una dichiarazione dei loro diritti, Jefferson si trovava a Parigi. Nel gennaio 1789 ‑ diversi mesi prima della caduta della Bastiglia ‑ il marchese La Fayette, amico di Jefferson e veterano della guerra di indipendenza americana, stilò una dichiarazione francese, con tutta probabilità con l'aiuto di Jefferson. Il 14 luglio, quando fu presa la Bastiglia e la Rivoluzione francese ebbe seriamente inizio, l'esigenza di una dichiarazione ufficiale diventò impellente. Nonostante i grandi sforzi di La Fayette, nessuna mano vergò il documento come aveva fatto Jefferson per il Congresso americano. Il 20 agosto la nuova Assemblea nazionale aprì la discussione di ventiquattro articoli compilati da una commissione lenta e impacciata, composta di quaranta deputati. Dopo sei giorni di dibattito tumultuoso e un numero infinito di emendamenti, i deputati francesi avevano approvato soltanto diciassette articoli. Esausti per le continue polemiche e dovendo necessariamente affrontare altre questioni urgenti, il 27 agosto 1789 i deputati votarono a favore della sospensione della discussione del progetto e dell'adozione provvisoria degli articoli già approvati come loro Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.

Il documento rabberciato in modo così frenetico era sbalorditivo per la sua scorrevolezza e semplicità. Senza mai menzionare il re, la nobiltà o la Chiesa, dichiarava che i «diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo» erano il fondamento di ogni governo. Attribuiva la sovranità alla nazione, non al re, e dichiarava tutti uguali davanti alla legge, aprendo così la possibilità di esercitare funzioni pubbliche secondo il talento e il merito ed eliminando implicitamente tutti i privilegi basati sulla nascita. Più eclatante di qualsiasi garanzia particolare era tuttavia l'universalità delle rivendicazioni. I riferimenti a «uomini», «uomo», «ogni uomo», «tutti», «tutti i cittadini», «ogni cittadino», «società» e «ogni società» minimizzavano l'unico riferimento al popolo francese.

Di conseguenza, la pubblicazione della dichiarazione galvanizzò immediatamente l'opinione pubblica in tutto il mondo sul tema dei diritti, sia a favore sia contro. In un sermone tenuto a Londra il 4 novembre 1789, Richard Price, amico di Benjamin Franklin e critico abituale del governo inglese, descrisse i nuovi diritti dell'uomo in toni lirici. «Ho vissuto abbastanza per vedere i diritti degli uomini compresi meglio che mai e nazioni anelare alla libertà che sembravano averne perso l'idea».

Scandalizzato dall'ingenuo entusiasmo di Price per l'«astrazione metafisica» dei francesi, Edmund Burke, famoso saggista e deputato al Parlamento, scrisse di volata una risposta furibonda. Il suo opuscolo, Riflessioni sulla Rivoluzione francese (1790), ottenne un riconoscimento immediato come testo fondatore del conservatorismo. «Noi non ci siamo convertiti a Rousseau», tuonava Burke. «Siamo ben consci di non aver fatto scoperte nel campo della morale, né d'altra parte crediamo che si possano fare vere scoperte in questo campo [...]. Non ci siamo lasciati vuotare dei nostri sentimenti per riempirci artificialmente, come uccelli imbalsamati in un museo, di paglia e cenci e insipidi frammenti di carta esaltanti i diritti dell'uomo».

Price e Burke si erano trovati d'accordo sulla Rivoluzione americana ed entrambi l'avevano sostenuta. Ma la Rivoluzione francese alzò enormemente la posta e presto si formarono gli schieramenti: erano gli albori di una nuova era di libertà basata sulla ragione o l'imbocco di una china che avrebbe inevitabilmente condotto all'anarchia e alla violenza?

Per quasi due secoli, nonostante la polemica suscitata dalla Rivoluzione francese, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino incarnò la promessa dei diritti umani universali. Nel 1948, quando le Nazioni Unite adottarono la Dichiarazione universale dei diritti umani, l'articolo 1 recitava: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti». Nel 1789 l'articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino aveva già proclamato: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Sebbene il linguaggio abbia subito modificazioni di rilievo, l'assonanza tra i due documenti è indubbia.

Le origini dei documenti non forniscono necessariamente indizi significativi sulle loro conseguenze. E davvero importante che la bozza grossolana di Jefferson subì ottantasei modifiche, introdotte da egli stesso, o dalla commissione dei cinque, o dal Congresso? Jefferson e Adams erano senz'altro di questo avviso, dato che più di trent'anni dopo, durante l'ultimo decennio della loro vita lunga e avventurosa, discutevano ancora su chi avesse fatto che cosa. La Dichiarazione di indipendenza non aveva tuttavia status costituzionale. Era una semplice dichiarazione di intenti, e dovettero passare quindici anni prima che i vari Stati ratificassero infine un Bill of Rights [Carta dei diritti] decisamente diverso, nel 1791. La Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino affermava di salvaguardare le libertà individuali, ma non impedì la nascita di un governo francese che represse i diritti (il Terrore), e nelle costituzioni francesi successive ‑ sono state numerose ‑ le dichiarazioni furono formulate in termini diversi o del tutto omesse.

Ancora più significativo è il fatto che coloro che dichiaravano con animo tanto sicuro l'universalità dei diritti alla fine del XVIII secolo in realtà avevano in mente qualcosa di molto meno globale. Non ci stupisce che considerassero i bambini, gli infermi di mente, i carcerati e gli stranieri incapaci o indegni di partecipare appieno al processo politico, perché lo facciamo anche noi. Ma escludevano anche i nullatenenti, gli schiavi, i neri affrancati, in alcuni casi le minoranze religiose e sempre e ovunque le donne. In questi ultimi anni si è molto discusso di tali limitazioni a «tutti gli uomini» e alcuni studiosi hanno persino messo in dubbio che le dichiarazioni avessero un vero significato emancipatore. I fondatori, gli artefici e i dichiaratori sono stati giudicati elitari, razzisti e misogini per la loro incapacità di considerare tutti veramente uguali nei diritti.

Non dobbiamo dimenticare le restrizioni che gli uomini del XVIII secolo applicavano ai diritti, ma fermarci lì, complimentandoci per il nostro «progresso» relativo, significa non cogliere l'aspetto più importante. Come fu possibile per questi uomini, che vivevano in società costruite sulla schiavitù, sulla subordinazione e su un'acquiescenza apparentemente naturale, giungere a immaginare uomini niente affatto uguali a loro, e in alcuni casi persino le donne, come uguali? Come fu possibile che l'uguaglianza dei diritti diventasse una verità «di per sé evidente» in luoghi tanto improbabili? E’ sbalorditivo che uomini come Jefferson, che era un proprietario di schiavi, e La Fayette, che era un aristocratico, parlassero dei diritti inalienabili, di per sé evidenti, di tutti gli uomini. Se riusciremo a capire come sia successo, comprenderemo meglio che cosa significhino i diritti umani per noi oggi.

Il paradosso dell'ovvietà

Nonostante le differenze di linguaggio, le due dichiarazioni del XVIII secolo si basavano entrambe su un'affermazione di ovvietà. Jefferson la rese esplicita quando scrisse: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti». La dichiarazione francese affermava categoricamente che «l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi». Non molto era cambiato al riguardo nel 1948. Certo, la Dichiarazione delle Nazioni Unite assunse un tono più legalistico: «Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Eppure anche questa era un'affermazione di ovvietà, perché «considerato» significa letteralmente «stante il fatto che». In altre parole, «considerato» è solo un modo legalistico di affermare un fatto accertato, una cosa evidente di per sé.

Questa affermazione dell'ovvietà, tuttora cruciale per i diritti umani, crea un paradosso: se l'uguaglianza dei diritti è così ovvia, allora perché è stato necessario fare questa rivendicazione, e perché è stata fatta soltanto in momenti e luoghi precisi? Come possono essere universali i diritti umani, se non sono universalmente riconosciuti? Dobbiamo accontentarci della spiegazione fornita dagli artefici della dichiarazione del 1948, ovvero «siamo d'accordo sui diritti a condizione che nessuno ci chieda perché»? Possono essere «di per sé evidenti», allorché gli studiosi discutono da più di duecento anni su che cosa intendesse Jefferson con la sua frase? Il dibattito proseguirà all'infinito, perché Jefferson non sentì mai la necessità di fornire spiegazioni. Nessun membro della commissione dei cinque o del Congresso volle rivedere la sua affermazione, sebbene abbiano ampiamente modificato altre parti della sua versione preliminare. A quanto pare erano d'accordo con lui. Inoltre, se Jefferson avesse fornito spiegazioni, l'ovvietà dell'affermazione sarebbe svanita. Un'affermazione che richiede un'argomentazione non è di per sé evidente.

Ritengo che l'affermazione dell'ovvietà sia cruciale per la storia dei diritti umani, e questo libro è dedicato a spiegare come sia diventata così persuasiva nel XVIII secolo. Fortunatamente offre anche un aspetto su cui concentrarsi in una storia che tende a essere assai prolissa. I diritti umani sono diventati oggi così onnipresenti che sembrano esigere una storia ugualmente vasta. Le idee dei Greci sull'individuo, le nozioni di diritto dei Romani, le dottrine cristiane dell'anima.., il rischio è che la storia dei diritti umani diventi la storia della civiltà occidentale e adesso, talvolta, persino la storia del mondo intero. Non hanno forse dato il loro contributo anche l'antica Babilonia, l'induismo, il buddismo e l'islam? Come si spiega allora l'improvvisa cristallizzazione delle rivendicazioni dei diritti umani alla fine del XVIII secolo?

I diritti umani richiedono tre qualità interdipendenti: i diritti devono essere naturali (inerenti agli esseri umani), uguali (gli stessi per tutti) e universali (applicabili ovunque). Perché i diritti siano diritti umani, tutti gli esseri umani ovunque nel mondo devono goderne in egual misura e soltanto in virtù della loro condizione di esseri umani. E’ risultato più semplice accettare la qualità naturale dei diritti che la loro uguaglianza o universalità. Per molti versi siamo ancora alle prese con le implicazioni della rivendicazione dell'uguaglianza e dell'universalità dei diritti. A quale età una persona ha diritto alla piena partecipazione politica? Gli immigrati ‑ non cittadini ‑ beneficiano di diritti e quali?

Eppure neanche la naturalezza, l'uguaglianza e l'universalità sono sufficienti. I diritti umani diventano significativi soltanto quando acquistano contenuto politico. Non sono i diritti degli esseri umani in uno stato di natura; sono i diritti degli esseri umani nella società. Non sono soltanto diritti umani contrapposti ai diritti divini, o diritti umani contrapposti ai diritti degli animali; sono i diritti degli esseri umani gli uni nei confronti degli altri. Sono quindi diritti sanciti nel mondo politico laico (anche se sono definiti «sacri»), e sono diritti che richiedono la partecipazione attiva di coloro che ne godono.

L'uguaglianza, l'universalità e la naturalezza dei diritti hanno trovato espressione politica diretta per la prima volta nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e nella Dichiarazione francese dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Il Bill of Rights inglese del 1689 richiamava «gli antichi diritti e le antiche libertà» stabiliti dal diritto inglese e derivanti dalla storia inglese, ma non dichiarava l'uguaglianza, l'universalità o la naturalezza dei diritti. Per contro, la Dichiarazione di indipendenza asseriva che «tutti gli uomini sono creati uguali» e tutti sono dotati di «inalienabili diritti». Analogamente, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino proclamava che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Non gli uomini francesi, non gli uomini bianchi, non i cattolici, ma «gli uomini», che allora come ora significava non soltanto il genere maschile, ma le persone, cioè tutti gli appartenenti alla razza umana.

In altre parole, in qualche momento tra il 1689 e il 1776 diritti che il più delle volte erano stati considerati come i diritti di una particolare categoria di persone ‑ gli uomini inglesi nati liberi, per esempio ‑ furono trasformati in diritti umani, in diritti naturali universali, che i francesi chiamarono les droits de l'homme, «i diritti dell 'Uomo».

I diritti umani e «i diritti dell'uomo»

Una breve incursione nella storia dei termini ci aiuterà a stabilire il momento preciso in cui sono comparsi i diritti umani. Le persone del XVIII secolo non adoperavano spesso l'espressione «diritti umani» e quando lo facevano di solito si riferivano a qualcosa di diverso da ciò che intendiamo noi. Prima del 1789 Jefferson, per esempio, in genere parlava di «diritti naturali». Cominciò a usare l'espressione «diritti dell'uomo» soltanto dopo il 1789. Quando parlava di «diritti umani» intendeva qualcosa di più passivo e meno politico dei diritti naturali o dei diritti dell'uomo. Nel 1806, per esempio, utilizzò l'espressione accennando ai mali della tratta degli schiavi:

Mi felicito con voi, concittadini, perché si avvicina il momento in cui potrete interporre costituzionalmente la vostra autorità ed esonerare i cittadini degli Stati Uniti da qualsiasi ulteriore partecipazione alle violazioni dei diritti umani che tanto a lungo abbiamo perpetrato nei confronti degli inoffensivi abitanti dell'Africa, e che la moralità, la rispettabilità e gli interessi reali del nostro paese da tempo ci esortano ad abolire.

Pur sostenendo che gli africani godevano di diritti umani, Jefferson non traeva alcuna conseguenza per gli schiavi afroamericani in casa propria. I diritti umani, secondo la definizione di Jefferson, non autorizzavano gli africani ‑ e tanto meno gli afroamericani ‑ ad agire per conto proprio.

Durante il XVIII secolo, in inglese e in francese, le espressioni «diritti umani», «diritti del genere umano» e «diritti dell'umanità» si rivelarono tutte troppo generiche per avere un'utilità politica diretta. Si riferivano alle caratteristiche che distinguevano l'umano dal divino a un'estremità della scala e l'umano dall'animale all'altra, più che a diritti politicamente significativi, quali la libertà di espressione o il diritto di partecipare alla vita politica. In uno dei primi impieghi (1734) dell'espressione «diritti dell'umanità» in francese, Nicolas Lenglet‑Dufresnoy, caustico critico letterario ed egli stesso sacerdote cattolico, satireggiò i costumi di «quegli inimitabili monaci del VI secolo, che rinunciarono in modo così totale ai 'diritti dell'umanità' da brucare l'erba come animali e circolare completamente nudi». Del pari, nel 1756 Voltaire poté proclamare con ironia che la Persia era la monarchia nella quale più si godevano i «diritti dell'umanità», perché i persiani disponevano delle più grandi «risorse contro la noia». L'espressione «diritto umano» comparve per la prima volta in francese nel 1763 e poteva avere un significato assimilabile a «diritto naturale», ma non fece presa, sebbene Voltaire l'avesse adoperata nel suo influentissimo Trattato sulla tolleranza.

Gli anglofoni continuarono a preferire «diritti naturali» (natural rights) o semplicemente «diritti» per tutto il XVIII secolo; i francesi, invece, coniarono una nuova espressione negli anni Sessanta del Settecento: «diritti dell'uomo» (droits de l'homme). Il francese droit naturel, come l'italiano «diritto naturale», racchiude il senso sia di diritto riconosciuto all'individuo sia di diritto come complesso di norme legislative, mentre l'inglese natural right aveva una storia molto più lunga, che risaliva a centinaia di anni prima, e di conseguenza forse aveva troppe accezioni possibili. Talvolta significava semplicemente avere senso nell'ordine tradizionale. Per esempio, il vescovo Bossuet, portavoce della monarchia assoluta di Luigi XIV, adoperava «diritto naturale» soltanto per descrivere l'ascesa in cielo di Gesù Cristo («salì al cielo per diritto naturale» ).

L'espressione «diritti dell'uomo» acquistò credito in francese dopo la sua comparsa nel Contratto sociale (1762) di Jean‑Jacques Rousseau, sebbene l'autore non ne fornisse una definizione e sebbene ‑ o forse proprio perché ‑ la utilizzasse insieme con «diritti dell'umanità», «diritti del cittadino» e «diritti di sovranità». A prescindere dal motivo, nel giugno 1763 «diritti dell'uomo» era diventata un'espressione comune, secondo un bollettino clandestino:

gli attori della Comédie Française hanno recitato oggi, per la prima volta, Manco [un dramma sugli Incas in Perù], del quale abbiamo già parlato in precedenza. E' una delle tragedie composte peggio. Tra le parti vi è quella di un selvaggio che potrebbe essere bellissima: egli recita in versi tutto ciò che abbiamo letto sui re, sulla libertà e sui diritti dell'uomo disseminato nel Discorso sulla disuguaglianza, nell'Emilio e nel Contratto sociale.

Anche se nel dramma in realtà non viene adoperata la formula precisa «i diritti dell'uomo», ma una frase affine, «i diritti del nostro essere», l'espressione era chiaramente entrata nell'uso intellettuale ed era infatti direttamente associata alle opere di Rousseau. Altri scrittori dell'Illuminismo, come il barone d'Holbach, Raynal e Mercier, la ripresero poi negli anni Settanta e Ottanta del Settecento.

Prima del 1789 l'espressione «diritti dell'uomo» ebbe scarsa diffusione in inglese. Ma la Rivoluzione americana indusse il campione dell'Illuminismo francese, il marchese di Condorcet, a compiere il primo passo nel definire «i diritti dell'uomo», che a suo parere comprendevano la sicurezza della persona, la sicurezza della proprietà, la giustizia equa e imparziale e il diritto di contribuire alla formulazione delle leggi. Nel suo saggio del 1786, De l'influence de la révolution d'Amerique sur l'Europe [Sull'influenza della Rivoluzione americana in Europa], Condorcet collegava espressamente i diritti dell'uomo alla Rivoluzione americana: «L'immagine di una grande nazione, nella quale i diritti dell'uomo sono rispettati, è utile a tutte le altre, nonostante le differenze di clima, consuetudini e costituzioni». La Dichiarazione di indipendenza americana, proclamava, non era altro che «una semplice e sublime esposizione di tali diritti, a un tempo così sacri e così a lungo dimenticati». Nel gennaio 1789 Emmanuel‑Joseph Sieyès adoperò l'espressione nel suo opuscolo incendiario contro la nobiltà, Qu'est ce que le tiers‑état? [Che cos'è il terzo stato?]. La bozza di dichiarazione dei diritti di La Fayette, del gennaio 1789, conteneva un riferimento esplicito ai «diritti dell'uomo», così come la bozza dello stesso Condorcet all'inizio del 1789. A partire dalla primavera del 1789 ‑ cioè ancora prima della presa della Bastiglia il 14 luglio ‑ i discorsi sulla necessità di una dichiarazione dei «diritti dell'uomo» permearono gli ambienti politici francesi.

Nella seconda metà del XVIII secolo, quando nacque il linguaggio dei diritti umani, questi ultimi non furono definiti esplicitamente da subito. Rousseau non fornì alcuna spiegazione quando utilizzò l'espressione «diritti dell'uomo». Il giurista inglese William Blackstone li definì «la libertà naturale dell'umanità», cioè i «diritti assoluti dell'uomo, considerato come agente libero, dotato del discernimento necessario per distinguere il bene dal male». La maggior parte di coloro che utilizzarono la frase negli anni Settanta e Ottanta del Settecento in Francia, come il barone d'Holbach e Mirabeau, figure controverse dell'illuminismo, parlavano dei diritti dell'uomo come se fossero ovvi e non richiedessero alcuna spiegazione o definizione; in altre parole, erano evidenti di per sé. Holbach sosteneva, per esempio, che se gli uomini temessero meno la morte, «i diritti dell'uomo sarebbero più accortamente sostenuti». Mirabeau denunciò i suoi persecutori, privi di «carattere e anima, perché ignorano i diritti dell'uomo». Nessuno propose un elenco preciso di tali diritti prima del 1776 (la data della Dichiarazione dei diritti della Virginia di George Mason).

L'ambiguità dei diritti umani fu colta da Jean‑Paul Rabaut Saint‑Etienne, un pastore calvinista francese, che scrisse al re di Francia nel 1787 per lamentarsi delle limitazioni previste da una proposta di Editto di tolleranza per i protestanti (quale egli era). Imbaldanzito dalla crescente sensibilità nei confronti dei diritti dell'uomo, Rabaut ribadiva così il suo punto di vista: «Oggi sappiamo quali sono i diritti naturali e di certo riconoscono agli uomini molto più di ciò che l'editto accorda ai protestanti [...]. E' giunta l'ora in cui non è più accettabile che una legge ignori espressamente i diritti dell'umanità, che sono ben noti in tutto il mondo». Per quanto fossero «ben noti», Rabaut stesso ammetteva che un re cattolico non poteva sancire ufficialmente il diritto di professare la fede calvinista in pubblico. In breve, tutto dipendeva ‑ e dipende tuttora ‑ dall'interpretazione data a ciò che non era «più accettabile».

Come i diritti diventarono evidenti di per sé

I diritti umani sono difficili da definire, perché la loro definizione e addirittura la loro esistenza dipendono tanto dalle emozioni quanto dalla ragione. L'affermazione dell'ovvietà si fonda, in ultima istanza, su un richiamo emotivo: è convincente se fa risuonare qualcosa in ogni persona. Inoltre, abbiamo la piena certezza che un diritto umano sia in discussione quando la sua violazione ci fa inorridire. Rabaut Saint-Etienne sapeva di potersi richiamare alla consapevolezza implicita di ciò che non era più accettabile. Riguardo al droit naturel, nel 1755 il notissimo illuminista francese Denis Diderot aveva scritto che «l'uso di questa parola è tanto comune che non esiste uomo che non sia convinto dentro di sé di conoscere con chiarezza il concetto. Questo sentimento interiore è comune al filosofo e all'ignorante». Come altre figure dell'epoca, Diderot fornì solo una vaga indicazione del significato di diritti naturali; «sono uomo», concluse, «e non ho altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell'umanità». Ma aveva identificato la qualità più importante dei diritti umani: essi richiedevano un certo «sentimento interiore» largamente condiviso.

Persino l'austero filosofo svizzero Jean‑Jacques Burlamaqui, esperto di diritto naturale, ribadiva il fatto che la libertà può essere attestata solo dai sentimenti interiori di ciascun uomo: «Siffatte dimostrazioni del sentimento sono al di sopra di qualsiasi obiezione e producono il più profondo convincimento». I diritti umani non sono soltanto una dottrina formulata nei documenti; essi dipendono da una propensione verso gli altri, da un insieme di convinzioni su come sono fatte le persone e come sanno distinguere il bene dal male nel mondo laico. Le idee filosofiche, le tradizioni giuridiche e le politiche rivoluzionarie dovevano avere questo tipo di punto di riferimento emotivo interiore perché i diritti umani fossero davvero «evidenti di per sé». E, come insisteva Diderot, questi sentimenti dovevano essere condivisi da molte persone, non solo dai filosofi che ne discutevano nei loro scritti.

Alla base di queste nozioni di libertà e di diritti vi era una serie di assunti sull'autonomia individuale. Per avere diritti umani, le persone dovevano essere percepite come singoli individui, capaci di esercitare un giudizio morale indipendente; come disse Blackstone, i diritti dell'uomo accompagnavano l'individuo «considerato come agente libero, dotato del discernimento necessario per distinguere il bene dal male». Ma per poter diventare membri di una comunità politica basata su tali giudizi morali indipendenti, questi individui autonomi dovevano essere in grado di immedesimarsi negli altri. Tutti avrebbero avuto diritti soltanto se tutti potevano essere considerati fondamentalmente uguali. L'uguaglianza non era soltanto un concetto astratto o uno slogan politico, In qualche modo doveva essere interiorizzata.

Noi diamo per scontate le idee di autonomia e di uguaglianza, insieme con i diritti umani, ma tali idee hanno acquistato influenza soltanto nel XVIII secolo. Jerome B. Schneewind, filosofo morale contemporaneo, è risalito a quella che definisce «l'invenzione dell'autonomia». «La nuova prospettiva che emerse alla fine del XVIII secolo», afferma, «si incentrava sulla convinzione che tutti gli individui normali sono parimenti in grado di vivere insieme in una moralità derivante dall'autogoverno». Dietro quegli «individui normali» si dipana una lunga storia di lotte. Nel XVIII secolo (e in realtà fino ai giorni nostri), non tutte le «persone» erano immaginate ugualmente capaci di autonomia morale. Erano chiamate in causa due qualità collegate, ma distinte: la capacità di ragionare e l'indipendenza per decidere da sé. Entrambe dovevano essere presenti perché un individuo fosse moralmente autonomo.

I bambini e gli infermi di mente non avevano la necessaria capacità di ragionare, ma un giorno avrebbero potuto acquistarla o riacquistarla. Come i bambini, nemmeno gli schiavi, i servitori, i nullatenenti e le donne godevano della condizione di indipendenza richiesta per essere pienamente autonomi. I bambini, i servitori, i nullatenenti e forse persino gli schiavi un giorno avrebbero potuto ottenere l'autonomia crescendo, lasciando il servizio, acquistando delle proprietà, o comprando la propria libertà. Soltanto le donne sembravano non avere alcuna possibilità: erano definite come intrinsecamente dipendenti dai padri o dai mariti. Il motivo principale per escludere automaticamente alcune categorie di persone dall'esercizio di tali diritti, secondo i fautori dei diritti umani naturali, uguali e universali, stava nella loro inferiorità: non le consideravano in grado di avere una piena autonomia morale.

Eppure il potere dell'empatia da poco scoperto riuscì a contrastare persino i pregiudizi più radicati. Nel 1791 il governo rivoluzionario francese concesse pari diritti agli ebrei, nel 1792 furono emancipati anche gli uomini nullatenenti e nel 1794 fu ufficialmente abolita la schiavitù. Né l'autonomia né l'empatia erano prestabilite: erano capacità che si potevano apprendere e le limitazioni «accettabili» dei diritti potevano essere ‑ ed erano ‑ messe in discussione. I diritti non si possono definire una volta per tutte, perché il loro fondamento emotivo è in continua evoluzione, anche in risposta alle dichiarazioni dei diritti. I diritti rimangono soggetti a discussione perché la nostra concezione di chi abbia dei diritti e quali siano tali diritti cambia continuamente. La rivoluzione dei diritti umani è continua, per definizione.

L'autonomia e l'empatia sono pratiche culturali, non soltanto idee, e sono quindi letteralmente incarnate, hanno cioè una dimensione fisica oltre che emotiva. L'autonomia individuale è imperniata su una consapevolezza sempre più profonda della separatezza e dell'inviolabilità del corpo umano: il tuo corpo ti appartiene e il mio corpo mi appartiene, e dobbiamo entrambi rispettare i confini tra un corpo e l'altro. L'empatia si basa sul riconoscimento che gli altri sentono e pensano come noi, che la nostra sensibilità interiore è fondamentalmente simile. Per essere autonoma, una persona deve essere legittimamente separata e protetta nella sua separazione, ma perché i diritti accompagnino tale separazione fisica l'individualità di una persona deve essere compresa a un livello più emotivo. I diritti umani dipendono sia dal possesso di sé e del proprio corpo, sia dal riconoscimento che tutte le altre persone sono altrettanto padrone di se stesse. E’ lo sviluppo incompleto di quest'ultimo concetto a provocare tutte le disparità di diritti sulle quali riflettiamo sin dall'inizio della storia.

L'autonomia e l'empatia non comparirono dal nulla nel XVIII secolo: avevano radici profonde. Già diversi secoli prima gli individui avevano cominciato a svincolarsi dalle maglie della comunità e a diventare sempre più indipendenti, sia sotto il profilo giuridico sia a livello psicologico. Il maggiore rispetto per l'integrità fisica e linee di demarcazione del corpo più nette tra i singoli individui erano frutto del continuo innalzamento della soglia del pudore riguardo all'espletamento delle funzioni corporali e del crescente senso del decoro fisico. Con il tempo le persone cominciarono a dormire da sole, o soltanto con il coniuge. Adoperavano utensili per mangiare e iniziavano a considerare ripugnanti comportamenti prima accettabili, come rovesciare il cibo sui pavimento o usare gli indumenti per ripulirsi dagli escrementi. La continua evoluzione delle nozioni di interiorità e profondità della psiche, dall'anima cristiana alla coscienza protestante, fino alle nozioni di sensibilità settecentesche, riempì il sé di un nuovo contenuto. Tutti questi processi ebbero luogo in un lungo arco di tempo.

Nella seconda metà del XVIII secolo lo sviluppo di queste pratiche subì però un'improvvisa accelerazione. L'autorità assoluta del padre sui figli fu messa in discussione. Il pubblico cominciò ad assistere a spettacoli teatrali o ad ascoltare la musica in silenzio. La ritrattistica e la pittura di genere misero in discussione l'egemonia delle grandi tele mitologiche o storiche della pittura accademica. Romanzi e quotidiani proliferarono, rendendo le storie di vita quotidiana accessibili a un ampio pubblico. La tortura come elemento del processo giudiziale e le forme più estreme di punizione corporale cominciarono a essere considerate inaccettabili. Tutti questi cambiamenti contribuirono a diffondere la consapevolezza della separazione e del possesso del proprio corpo, insieme con la possibilità di immedesimarsi negli altri.

I concetti di integrità fisica e di individualità empatica, dei quali si seguono le tracce nei prossimi capitoli, non hanno una storia molto diversa da quella dei diritti umani, ai quali sono intimamente legati. Intendo dire che i mutamenti di opinione sembrano verificarsi tutti insieme alla metà del XVIII secolo. Prendiamo, per esempio, la tortura. Tra il 1700 e il 1750 il termine «tortura» in francese era prevalentemente usato per descrivere le difficoltà di uno scrittore a trovare un'espressione felice. Nel 1724, per esempio, Marivaux raccontava di «torturarsi la mente per estrarne riflessioni». La tortura, cioè la tortura inflitta legalmente per estorcere la confessione di un delitto o il nome dei complici, diventò una questione di primo piano dopo che Montesquieu ne attaccò la pratica nel suo Lo spirito delle leggi (1748). In uno dei suoi brani più incisivi, Montesquieu sostiene che «Tante persone competenti e tanti brillanti ingegni hanno scritto contro questa pratica [la tortura giudiziale], che io non oso parlare dopo di loro». Prosegue in modo un po' enigmatico, aggiungendo: «Stavo per dire che potrebbe convenire nei governi dispotici, in cui tutto quello che ispira la paura entra di più nei metodi di governo; stavo per dire che gli schiavi, presso i Greci e i Romani... Ma sento la voce della natura che grida contro di me». Anche in questo caso l'ovvietà ‑ «la voce della natura che grida» ‑ costituisce il fondamento dell'argomentazione. Dopo Montesquieu, Voltaire e molti altri, soprattutto l'italiano Beccaria, avrebbero partecipato alla campagna. Negli anni Ottanta del Settecento l'abolizione della tortura e delle forme cruente di punizione corporale era diventata un elemento essenziale della nuova dottrina sui diritti umani.

I cambiamenti nelle reazioni al corpo e alla coscienza degli altri fornirono sostegno critico al nuovo fondamento laico dell'autorità politica. Sebbene Jefferson avesse scritto che gli uomini erano stati dotati di diritti «dal loro Creatore», il ruolo del Creatore finiva lì. Il governo non dipendeva più da Dio, tanto meno dall'interpretazione della volontà divina fornita dalla Chiesa. Per salvaguardare tali diritti, affermava Jefferson, «vengono istituiti governi fra gli uomini, i quali derivano i propri poteri dal consenso dei governati». Analogamente, la dichiarazione francese del 1789 affermava: «Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo» e «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione». In quest'ottica, l'autorità politica derivava dalla natura più intima degli individui e dalla loro capacità di creare una comunità attraverso il consenso. I politologi e gli storici hanno esaminato questa concezione dell'autorità politica da vari punti di vista, ma hanno prestato scarsa attenzione alla visione del corpo e del sé che la rese possibile.

La mia argomentazione darà grande importanza all'influenza esercitata da nuovi tipi di esperienze, dall'ammirare quadri esposti in mostre d'arte a leggere i popolarissimi romanzi epistolari sull'amore e sul matrimonio. Tali esperienze contribuirono a diffondere le pratiche dell'autonomia e dell'empatia. Secondo il politologo Benedict Anderson, i quotidiani e i romanzi crearono la «comunità immaginata» di cui il nazionalismo ha bisogno per prosperare. Quella che si potrebbe definire «empatia immaginata» serve invece da fondamento per i diritti umani, più che per il nazionalismo. E’ immaginata non nel senso di artefatta, ma nel senso che l'empatia richiede fiducia, bisogna immaginare che l'altro sia simile a sé. Le descrizioni delle torture crearono questa empatia immaginata tramite una nuova visione del dolore. I romanzi la generarono suscitando nuove sensazioni riguardo alla vita interiore. Ciascuno a suo modo, essi rafforzarono la nozione di una comunità basata su individui autonomi ed empatici, che potevano rapportarsi con valori universali superiori, al di là dei legami familiari più stretti, delle affiliazioni religiose o persino delle nazioni.

Non esiste un metodo semplice od ovvio per dimostrare o anche solo misurare l'effetto delle nuove esperienze culturali sugli individui del XVIII secolo, tanto meno sulle loro concezioni dei diritti. Si è rivelato già abbastanza difficile condurre studi scientifici sulle reazioni attuali alla lettura o agli spettacoli televisivi, con il vantaggio di basarsi su soggetti viventi ai quali si possono applicare strategie di ricerca in continua evoluzione. Ciononostante le neuroscienze e la psicologia cognitiva hanno compiuto alcuni progressi nel collegare la biologia cerebrale alle conseguenze psicologiche e da ultimo persino a quelle sociali e culturali. Hanno dimostrato, per esempio, che la capacità di narrare una storia è legata alla biologia cerebrale ed è fondamentale per lo sviluppo di qualsiasi nozione del sé. Alcuni tipi di lesioni cerebrali compromettono la comprensione narrativa, e disturbi come l'autismo rivelano che la capacità di provare empatia ‑ di riconoscere che gli altri hanno menti simili alle nostre ‑ ha una base biologica. Per la maggior parte, tuttavia, questi studi affrontano soltanto una componente dell'equazione: quella biologica.

Anche se gran parte degli psichiatri e persino alcuni neuroscienziati concorderebbero sul fatto che le forze sociali e culturali esercitano un'influenza sui procedimenti cerebrali, questa interazione è risultata più difficile da studiare. In realtà, lo stesso sé si è rivelato assai difficile da esaminare. Sappiamo di avere un'esperienza del sé, ma i neuroscienziati non sono riusciti a individuare il sito preciso ditale esperienza, tanto meno a spiegare come funzioni.

Se la neuroscienza, la psichiatria e la psicologia non hanno ancora certezze sulla natura del sé, forse non sorprende che gli storici si siano tenuti alla larga dall'argomento. La maggior parte degli storici probabilmente ritiene che il sé sia in certa misura determinato da fattori sociali e culturali, cioè che nel X secolo l'individualità avesse un significato diverso rispetto a quello che ha per noi oggi. Eppure si sa poco della storia della personalità come insieme di esperienze. Gli studiosi si sono dilungati parecchio sulla nascita dell'individualismo e dell'autonomia come dottrine, ma molto meno sul modo in cui il sé possa modificarsi nel tempo. Concordo con altri storici sui fatto che il significato del sé si modifichi nel tempo e ritengo che per alcune persone tale esperienza ‑ non soltanto l'idea ‑ subisca un cambiamento decisivo nel XVIII secolo.

La mia argomentazione si basa sull'idea che la lettura delle descrizioni di torture o dei romanzi epistolari abbia prodotto effetti fisici che si sono tradotti in modificazioni cerebrali per poi ripresentarsi come nuove idee in merito all'organizzazione della vita sociale e politica. Nuove forme di lettura (e di osservazione, di ascolto) crearono nuove esperienze individuali (empatia), che a loro volta favorirono la nascita di nuovi concetti sociali e politici (diritti umani). Nel presente libro tento di spiegare come tale processo abbia avuto luogo. La mia disciplina, la storia, per molto tempo ha disdegnato qualsiasi tipo di argomento psicologico ‑ noi storici parliamo spesso di riduzionismo psicologico, mai però di riduzionismo sociologico o culturale ‑ e ha quindi in gran parte trascurato la possibilità di elaborare una teoria basata sulla descrizione di ciò che avviene all'interno del sé.

Il mio intento è quello di spostare l'attenzione su ciò che avviene nella mente dei singoli individui. Potrebbe sembrare un posto ovvio in cui ricercare una spiegazione dei cambiamenti che hanno trasformato la società e la politica, ma la mente delle persone ‑ a parte quella dei grandi pensatori e scrittori ‑ è stata sorprendentemente trascurata negli studi condotti di recente nelle scienze umanistiche e sociali. L'attenzione si è concentrata sul contesto sociale e culturale, non sul modo in cui la mente umana comprende e rimodella tale contesto. Penso che il cambiamento sociale e politico ‑ in questo caso i diritti umani ‑ sia emerso perché molti individui avevano esperienze simili, non perché appartenevano tutti allo stesso contesto sociale, ma perché attraverso la loro interazione l'uno con l'altro, e con le loro letture e osservazioni, essi realmente creavano un nuovo contesto sociale. In breve, sono convinta che qualsiasi descrizione di un cambiamento storico debba infine rendere conto dei mutamenti intervenuti nella mente dei singoli individui. Perché i diritti umani diventassero evidenti di per sé, le persone comuni dovevano avere nuove percezioni, che derivavano da nuovi modi di sentire.” (pp. 3-19)

2.

Nel capitolo secondo, la Hunt, attingendo alla storia della cultura, cerca di fornire le prove di come il tema dei diritti umani sia affiorato sullo sfondo di lenti ma radicali cambiamenti intervenuti a livello di senso comune, inteso come collettore di nuovi modi di sentire individuali:

“Può forse essere del tutto casuale che i tre più grandi romanzi «psicologici» del Settecento - Pamela (1740) e Clarissa (1747-1748) di Richardson e Giulia (1761) di Rousseau - siano stati pubblicati tutti nel periodo immediatamente precedente la comparsa del concetto di «diritti dell'uomo»?

E' ovvio che l'empatia non fu inventata nel XVIII secolo. La capacità di provare empatia è universale perché è radicata nella biologia cerebrale; dipende dalla capacità, che ha basi biologiche, di comprendere la soggettività di altre persone e di immaginare che le loro esperienze intime siano simili alle nostre. I bambini che soffrono di autismo, per esempio, hanno gravi difficoltà a decodificare le espressioni del viso come manifestazioni di sentimenti, e in generale hanno problemi ad attribuire uno stato soggettivo alle altre persone. L'autismo, in breve, è caratterizzato dall'incapacità di immedesimarsi negli altri.

Di norma, l'empatia si apprende in giovane età. Anche se la biologia assicura una predisposizione essenziale, ogni cultura conferisce un'impronta specifica alla sua espressione. L'empatia si sviluppa soltanto attraverso l'interazione sociale; pertanto, le forme che tale interazione assume esercitano un'influenza significativa. Nel XVIII secolo i lettori di romanzi impararono ad ampliare la loro visione dell'empatia. Leggendo, l'immedesimazione nei personaggi oltrepassava i limiti sociali tradizionali tra nobili e comuni cittadini, tra padroni e servi, tra uomini e donne, forse persino tra adulti e bambini. Di conseguenza, finivano per vedere gli altri - persone che non conoscevano personalmente - come se stessi, come se provassero lo stesso tipo di emozioni interiori. Senza questo processo di apprendimento, l'«uguaglianza» non avrebbe potuto assumere un significato profondo, in particolare non avrebbe avuto alcuna conseguenza politica. Credere nell'uguaglianza delle anime in cielo non equivale a riconoscere pari diritti sulla terra. Prima del XVIII secolo i cristiani accettavano facilmente il primo postulato senza ammettere il secondo.

La capacità di identificarsi al di là delle divisioni sociali può essere stata acquisita in vari modi, non ho la presunzione di affermare che la lettura dei romanzi sia l'unico. Eppure la lettura dei romanzi sembra particolarmente attinente, in parte perché l'apogeo di un genere letterario specifico - il romanzo epistolare coincide cronologicamente con la nascita dei diritti umani.” (pp. 24-25)

“Grazie alla sua stessa forma, il romanzo epistolare era in grado di dimostrare che l'individualità dipendeva dalle caratteristiche dell'«interiorità» (avere una vita interiore), perché i personaggi nelle lettere esprimono i loro sentimenti intimi. Il romanzo epistolare dimostrò inoltre che ogni io era dotato ditale interiorità (molti personaggi scrivono), e di conseguenza tutti gli io in un certo senso erano uguali, perché tutti possedevano allo stesso modo un'interiorità. Lo scambio di lettere trasforma la giovane serva Pamela, per esempio, in un modello di fiera autonomia e individualità, più che in uno stereotipo dell'oppresso. Come Pamela, Clarissa e Giulia finiscono per simboleggiare l'individualità stessa. I lettori diventano più consapevoli di avere la capacità di interiorizzare le loro esperienze, così come tutti gli altri individui"” (p. 32)

“Il magico incantesimo operato dal romanzo rivelava così di avere effetti di vasta portata. Anche se non lo affermarono espressamente, i sostenitori del romanzo compresero che scrittori come Richardson e Rousseau di fatto attiravano i loro lettori nella vita quotidiana come una sorta di esperienza religiosa sostitutiva. I lettori impararono a riconoscere l'intensità emotiva dell'ordinario e la capacità di persone simili a loro di creare autonomamente un mondo morale. I diritti umani nacquero dal terreno seminato con questi sentimenti. I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro. Impararono questa uguaglianza, almeno in parte, attraverso l'esperienza dell'identificazione con personaggi comuni che sembravano drammaticamente presenti e familiari, anche se in definitiva erano immaginari.” (p 40)

“Insistendo sulla necessità di ampliare la sfera dell'autodeterminazione, gli uomini del XVIII secolo si imbatterono in un dilemma: quale sarebbe stata la fonte della comunità in questo nuovo ordine che poneva l'accento sui diritti dell'individuo? Una cosa era spiegare come la moralità potesse derivare dalla ragione umana invece che dalla Scrittura divina, o perché l'autonomia fosse preferibile alla cieca ubbidienza. Tutt'altra era conciliare questo individuo autogestito con il bene comune. I filosofi scozzesi della metà del secolo misero la questione della comunità laica al centro della loro opera, e offrirono una risposta filosofica che ben si coniugò con la pratica dell'empatia insegnata dal romanzo. I filosofi, come tutte le altre persone del XVIII secolo, definivano la loro reazione «compassione» [sympathy]. Ho usato il termine «empatia» perché, anche se non entrò nella lingua inglese fino al XX secolo, esso esprime meglio la volontà attiva di identificarsi con gli altri. Compassione oggigiorno spesso significa pietà, che può implicare condiscendenza, un sentimento incompatibile con un vero e proprio senso di uguaglianza.

«Compassione» aveva un significato molto ampio nel XVIII secolo. Secondo Francis Hutcheson, si trattava di una specie di senso, una facoltà morale. Più nobile della vista o dell'udito, sensi di cui anche gli animali erano provvisti, ma meno nobile della coscienza, la compassione o simpatia rendeva possibile la vita sociale. Per virtù della natura umana, prima di qualsiasi ragionamento, la compassione agiva come una specie di forza gravitazionale sociale per far sì che le persone si aprissero agli altri. La compassione garantiva che la felicità non potesse essere determinata soltanto dall'autocompiacimento. «Per una sorta di contagio o infezione», concludeva Hutcheson, «tutti i nostri piaceri, persino quelli più infimi, vengono curiosamente esaltati quando sono condivisi con gli altri».

Adam Smith, autore di La ricchezza delle nazioni (1776) e studente di Hutcheson, dedicò una delle sue prime opere alla questione della compassione. Nel primo capitolo di Teoria dei sentimenti morali (1759) usa l'esempio della tortura per spiegarne i meccanismi. Che cosa ci fa provare compassione per le sofferenze di una persona messa alla ruota? Anche se il disgraziato è nostro fratello, non potremo mai sentire direttamente ciò che prova. Possiamo concepire quali siano le sue sensazioni soltanto attraverso l'immaginazione, che ci permette di metterci nella sua situazione e provare gli stessi tormenti, «come se entrassimo nel suo corpo, e [diventassimo] in una certa misura la sua stessa persona». Questo processo di identificazione immaginaria - la compassione - permette all'osservatore di sentire ciò che prova la vittima della tortura. L'osservatore può diventare un essere veramente morale, tuttavia, soltanto quando compie il passo successivo e comprende che anch'egli è il soggetto ditale identificazione immaginaria. Quando riesce a vedersi come l'oggetto di sentimenti altrui, egli è in grado di sviluppare dentro di sé uno «spettatore imparziale», che gli serve da bussola morale. Secondo Smith, l'autonomia e la compassione vanno quindi di pari passo. Soltanto una persona autonoma può sviluppare uno «spettatore imparziale» dentro di sé; tuttavia, spiega Smith, può farlo soltanto se innanzitutto si identifica con gli altri.

La compassione o sensibilità - quest'ultimo termine era molto più diffuso in francese - ebbe vasta risonanza culturale su entrambe le sponde dell'Atlantico nella seconda metà del XVIII secolo. Thomas Jefferson lesse Hutcheson e Smith, anche se citò specificamente il romanziere Laurence Sterne come colui che offriva la «migliore lezione di moralità». Data l'onnipresente allusione alla compassione e alla sensibilità nel mondo atlantico, è difficile considerare casuale il fatto che il primo romanzo scritto da un americano, pubblicato nel 1789, si intitolasse The Power of Sympathy [Il potere della compassione]. Compassione e sensibilità permeavano talmente la letteratura, l'arte e persino la medicina che alcuni medici cominciarono a preoccuparsi per la loro presenza eccessiva, che temevano potesse causare malinconia, ipocondria o «i vapori».” (pp. 45-47)

“A partire dagli anni Sessanta, campagne di varia natura portarono all'abolizione della tortura sanzionata dallo Stato e a una crescente moderazione delle pene (anche per gli schiavi). I riformatori attribuirono i risultati ottenuti alla diffusione dell'umanitarismo illuminista. Nel 1786 il riformatore inglese Samuel Romilly ripercorse il passato e affermò con fiducia che «nella misura in cui gli uomini hanno riflettuto e ragionato su questo importante argomento, i concetti assurdi e crudeli di giustizia, che hanno prevalso per secoli, sono stati screditati e al loro posto sono stati adottati principi-umani e razionali». L'impulso immediato a riflettere sull'argomento provenne in gran parte dal breve e incisivo Dei delitti e delle pene, pubblicato nel 1764 da un aristocratico italiano di venticinque anni, Cesare Beccaria. Caldeggiato dai circoli intorno a Diderot, presto tradotto in francese e in inglese e prontamente letto da Voltaire proprio al culmine dell'affare Calas, il libretto di Beccaria puntò i riflettori sul sistema di giustizia penale di ogni paese. L'audace italiano contestava non solo la tortura e le pene crudeli, ma anche - iniziativa straordinaria per l'epoca - la pena di morte. Contro il potere assoluto dei sovrani, l'ortodossia religiosa e i privilegi dei nobili, Beccaria proponeva un modello democratico di giustizia: «la massima felicità divisa nel maggior numero». Di lì in poi, praticamente tutti i riformatori, da Filadelfia a Mosca, lo citarono.

Beccaria contribuì a valorizzare il nuovo linguaggio del sentimento. A suo parere, «non è utile la pena di morte per l'esempio di atrocità che dà agli uomini», e quando contesta l'«inutile crudeltà» delle pene, le dileggia come «strumento del furore e del fanatismo». Per giustificare il suo intervento, espresse inoltre una speranza: «se [...] contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell'ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini».(p. 60)

“Il dolore, la punizione e lo spettacolo pubblico della sofferenza persero gradualmente i loro ancoraggi religiosi nella seconda metà del XVIII secolo, ma il processo non si verificò tutto a un tratto, e all'epoca non fu pienamente compreso. Nemmeno Beccaria riuscì a intuire tutte le conseguenze del nuovo ordine di idee che tanto fece per consolidare. Voleva porre il diritto su una base rousseauiana anziché religiosa; le leggi «dovrebbero esser patti di uomini liberi», affermava. Nondimeno, pur sostenendo una moderazione della pena - deve essere «la minima delle possibili nelle date circostanze» e «proporzionata a' delitti» - insisteva sulla necessità che fosse pubblica. A suo parere, l'esposizione pubblica garantiva la trasparenza del diritto2.

Nella mentalità individualistica e laica che si andava affermando, i tormenti appartenevano soltanto a chi li subiva nel mondo reale. Il mutato atteggiamento nei riguardi della sofferenza non era dovuto a un miglioramento dei metodi di cura del dolore. I medici dell'epoca di certo tentavano di alleviarlo, ma la vera innovazione, l'anestesia, giunse solo alla metà del XIX secolo, con l'uso dell'etere e del cloroformio. Invece, il mutamento di opinioni si verificò in conseguenza della rivalutazione del corpo individuale e dei suoi patimenti. Poiché il dolore e il corpo stesso ora appartenevano soltanto all'individuo, anziché alla comunità, l'individuo non poteva più essere sacrificato per il bene comune o per un fine religioso superiore. Come affermò il riformatore inglese Henry Dagge, «il miglior modo di promuovere il bene della società è avere riguardo per l'individuo». Più che come rito di espiazione del peccato, la pena andava vista come il pagamento di un «debito» contratto con la società, e da un corpo mutilato ovviamente non si poteva ottenere alcun risarcimento. Se nel vecchio regime il dolore era servito come simbolo di riparazione, ora appariva come un ostacolo a qualsiasi forma significativa di riscatto. Si trova esempio di questo mutamento di opinioni nelle colonie britanniche del Nord America, dove per i reati contro la proprietà molti giudici cominciarono a comminare ammende al posto delle frustate.

Di conseguenza, nella nuova mentalità la pena crudele inflitta in pubblico costituiva un attacco alla società, più che una sua riaffermazione. Il dolore brutalizzava l'individuo - e per immedesimazione lo spettatore - più che aprire la porta della salvezza attraverso il pentimento. L'avvocato inglese William Eden condannò pubblicamente l'esposizione dei cadaveri: «ci lasciamo marcire come spaventapasseri sulle siepi, e le nostre forche sono zeppe di carcasse umane. Non è forse il caso di chiedersi se una familiarità forzata con tali orrori possa sortire alcun altro effetto se non quello di ottundere i sensi e annientare il buon volere delle persone?». Nel 1787 Benjamin Rush riuscì a spazzare via anche gli ultimi dubbi: «Il recupero di un criminale non si potrà mai ottenere attraverso la punizione in pubblico», asserì categoricamente. La pena pubblica annienta ogni senso di vergogna, non produce alcun mutamento di opinione e anziché servire da deterrente esercita l'effetto opposto sugli spettatori. Pur concordando con Beccaria nell'opporsi alla pena di morte, il dottor Rush si scostava dalle sue tesi allorché affermava che la punizione doveva essere privata, inflitta dietro le mura di una prigione e finalizzata alla rieducazione, cioè alla restituzione di un criminale alla società e alla sua libertà personale, «così cara a tutti gli uomini»".” (pp. 74-75)

“Il corpo era sempre stato al centro della pittura europea, ma prima del XVII secolo il più delle volte si trattava di raffigurazioni della Sacra Famiglia e di santi cattolici, oppure di sovrani e cortigiani. Nel XVII e soprattutto nel XVIII secolo anche persone meno influenti cominciarono a commissionare ritratti di sé o della propria famiglia. A partire dal 1750, le mostre d'arte allestite con regolarità a Londra e Parigi - esse stesse una nuova caratteristica della vita sociale - esibivano un numero crescente di ritratti di persone comuni, anche se la pittura storica era ancora ufficialmente considerata il genere primario…

Certo i ritratti potevano esprimere anche qualcosa di molto diverso dall'aspetto individuale. Con il rapido accumulo della ricchezza commerciale in Gran Bretagna, in Francia e nelle rispettive colonie, l'usanza di commissionare ritratti come simbolo di condizione sociale e nobiltà di origini evidenziò un più generale aumento del consumismo. La somiglianza non sempre occupava il posto d'onore in queste committenze. Le persone comuni non volevano apparire ordinarie nei loro ritratti, e alcuni artisti si fecero una reputazione grazie alla loro abilità nel riprodurre pizzi, merletti, sete e satin, più che i volti dei modelli. Eppure, anche se i ritratti talvolta si incentravano sulla rappresentazione di tipi o su allegorie della virtù e della ricchezza, nella seconda metà del XVIII secolo l'interesse per questo genere di dipinti diminuì, allorché i ritrattisti e i loro clienti cominciarono a preferire raffigurazioni più naturali dell'individualità psicologica e fisionomica. La vera e propria proliferazione dei ritratti personali assecondò inoltre l'idea che ogni persona era un individuo, cioè unica, distinta, speciale e originale, e andava quindi raffigurata come tale.” (pp. 65-66)

La nuova consapevolezza dell’identità individuale, unica e irripetibile, quindi differenziata da tutte le altre, e l’acquisizione della capacità empatica, ad essa conseguente, sono, dunque, per la Hunt i motivi di fondo che hanno determinato la storia dei diritti umani e la loro progressiva affermazione.

La ricostruzione minuziosa che l'autrice opera, nei capitoli terzo e quarto, dell’evoluzione e delle conseguenze della Dichiarazione dei diritti statunitense e di quella francese mira a sostenere questa tesi. In essi, infatti, riesce evidente che la nuova concezione dell’individuo capace di identificarsi con tutti gli esseri umani e di attribuire loro pari dignità e uguali diritti ha scalzato progressivamente le restrizioni in esse implicite, costringendo la legislazione ad estendere progressivamente quei diritti a categorie originariamente escluse: nullatenenti, stranieri, neri, schiavi, donne e bambini.

3.

La tesi della Hunt urta naturalmente contro un problema che salta agli occhi e viene affrontato nel capitolo quinto dedicato al perché i diritti umani hanno impiegato molto tempo ad imporsi.

L'autrice attribuisce il ritardo a diversi fattori che si sono succeduti nel corso della storia: il nazionalismo ottocentesco, che si è progressivamente esasperato degenerando nella direzione della xenofobia, del razzismo e dell’antisemitismo, il perdurante sessismo maschilista e militarista, che ha conculcato i diritti delle donne. e, paradossalmente, l’avvento del socialismo e del comunismo, che, sovrapponendo il bene comune alla libertà individuale, hanno tentato di costruire una società empatica dall'alto, per costrizione politica.

L’analisi che l’autrice fornisce della degenerazione del nazionalismo non è priva di interesse. Essa scrive:

“Gran parte dei nazionalisti della prima ora preferiva una forma di governo democratico, perché avrebbe amplificato al massimo il senso di appartenenza nazionale. Di conseguenza, i tradizionalisti inizialmente si opposero al nazionalismo e all'unificazione tedesca o italiana allo stesso modo in cui si erano opposti ai diritti dell'uomo. I primi nazionalisti parlavano il linguaggio rivoluzionario dell'universalismo messianico, ma ritenevano che la nazione, più che i diritti, servisse da trampolino di lancio per l'universalismo. BolIvar era convinto che la Colombia avrebbe illuminato il cammino verso la libertà e la giustizia universale; Mazzini, fondatore dell'associazione patriottica Giovine Italia, dichiarò che gli italiani avrebbero guidato una crociata universale per la libertà dei popoli oppressi; il poeta Adam Mickiewicz pensava che i polacchi avrebberd mostrato la via verso la liberazione universale. I diritti umani ora dipendevano dall'autodeterminazione nazionale, e inevitabilmente fu quest'ultima ad avere la priorità.

Dopo il 1848 i tradizionalisti cominciarono ad accogliere le richieste dei nazionalisti, e il patriottismo si spostò dalla sinistra alla destra dello spettro politico. Il fallimento delle rivoluzioni nazionaliste e costituzionaliste in Germania, Italia e Ungheria nel 1848 preparò il terreno per questi cambiamenti. I patrioti interessati a garantire i diritti all'interno delle nazioni che si andavano prospettando si mostrarono sin troppo propensi a negare i diritti ad altri gruppi etnici…

Se un tempo abbracciava con entusiasmo l'idea di garantire i diritti tramite il rafforzamento dell'autodeterminazione nazionale, il nazionalismo si chiuse sempre più su posizioni difensive. Il cambiamento rifletteva l'enormità del compito di creare nazioni.

L'idea che l'Europa potesse essere ordinatamente divisa in Stati nazionali di etnia e cultura relativamente omogenee era smentita dalla stessa mappa linguistica. Nel XIX secolo ogni Stato nazionale ospitava minoranze linguistiche e culturali, persino quelli di antica costituzione, come la Gran Bretagna e la Francia…

La difficoltà di creare o mantenere l'omogeneità etnica contribuì ad accrescere la preoccupazione riguardo all'immigrazione in tutto il mondo…

In questo nuovo clima protezionistico, il nazionalismo assunse un carattere più xenofobo e razzista. Anche se la xenofobia poteva prendere di mira qualsiasi gruppo di stranieri (cinesi negli Stati Uniti, italiani in Francia o polacchi in Germania), gli ultimi decenni del XIX secolo furono caratterizzati da un'allarmante diffusione dell'antisemitismo…

Mano a mano che si intrecciava sempre più strettamente con l'etnicità, il nazionalismo alimentò un'ondata crescente di spiegazioni biologiche della differenza. Gli argomenti a favore dei diritti dell'uomo si erano basati sul presupposto che la natura umana fosse identica in tutte le culture e le classi sociali. In seguito alla Rivoluzione francese fu sempre più difficile limitarsi a riaffermare le differenze sulla base della tradizione, dei costumi o della storia. Le differenze dovevano avere un fondamento più solido perché gli uomini mantenessero la loro superiorità sulle donne, i bianchi sui neri, e i cristiani sugli ebrei. In breve, se i diritti dovevano essere meno universali, uguali e naturali, bisognava spiegarne i motivi. Di conseguenza, il XIX secolo fu testimone di un'esplosione di spiegazioni biologiche della differenza.

Per ironia della sorte, l'idea stessa di diritti umani incoraggiò suo malgrado forme più virulente di sessismo, razzismo e antisemitismo. Infatti, l'affermazione universale dell'uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani provocò una rivendicazione altrettanto globale della differenza naturale, dando vita a una nuova opposizione ai diritti umani.” (pp. 148-152 passim)

Quella che la Hunt definisce l’ironia della sorte ha poco a che vedere con il caso. Il problema è che l’individuo autonomo ed empatico, che sarebbe nato con l’Illuminismo e avrebbe promosso l’affermazione dei diritti universali dell’uomo, è un’astrazione storica.

Sulla carta, esso è esistito nei primi anni della Rivoluzione francese allorché la borghesia progressista e radicale e le masse popolari si riunirono all’insegna di un progetto di trasfomazione radicale del mondo esistente. Dal Termidoro in poi, la borghesia si dissocia dalle masse popolari e raggiunge l’egemonia sociale completa dopo i moti del 1848.

Da questo periodo l’individuo che rivendica la sua libertà, estesa al “sacro” diritto di proprietà è sì autonomo, ma tutt’altro che empatico. Egli è preda di una vis competitiva che riconosce nell’altro il rivale, se non addirittura il nemico da sopraffare.

La mentalità dell’individuo è peraltro fortemente condizionata dalla struttura sociale che, affrancatasi dai vincoli feudali, aderisce ed è preda del liberismo, che, nella seconda metà del XIX secolo, esita nell’Imperialismo e nel Colonialismo, vale a dire in una negazione clamorosa dei diritti umani universali.

Rispetto a questa “degenerazione”, il Socialismo e il Comunismo rappresentano, con il loro originario afflato umanitaristico che politicizza i valori originari del Cristianesimo (“tutti gli uomini sono fratelli”), vani tentativi di porre un argine all’affermazione dello spietato homo oeconomicus.

A riguardo, la Hunt scrive:

“Il nazionalismo non fu l'unico nuovo movimento di massa nel XIX secolo. Anche il socialismo e il comunismo presero forma in risposta diretta alle limitazioni percepite dei diritti individuali enunciati nella Costituzione. Mentre i primi nazionalisti volevano diritti per tutte le persone, non solo per quelle che avevano già uno status consolidato, i socialisti e i comunisti volevano garantire alle classi inferiori l'uguaglianza sociale ed economica, non solo pari diritti politici. Eppure, anche mentre richiamavano l'attenzione su aspetti trascurati dai promotori dei diritti dell'uomo, le organizzazioni socialiste e comuniste finirono inevitabilmente per sminuire l'importanza dei diritti come obiettivo da perseguire. Marx era risoluto al riguardo: nella società borghese si poteva ottenere l'emancipazione politica attraverso l'uguaglianza giuridica, ma la vera emancipazione dell'uomo comportava la distruzione della società borghese e delle tutele costituzionali della proprietà privata. I socialisti e i comunisti sollevarono nondimeno due questioni annose in tema di diritti: erano sufficienti i diritti politici? Il diritto individuale alla tutela della proprietà privata poteva coesistere con la necessità collettiva di promuovere il benessere dei membri meno fortunati della società?

Come il nazionalismo, che nel XIX secolo attraversò due fasi, passando dall'entusiasmo iniziale per l'autodeterminazione a posizioni più difensive che proteggessero l'identità etnica, anche il socialismo si trasformò nel tempo. Inizialmente puntava alla ricostruzione della società con mezzi pacifici e non politici, ma a un certo punto si creò una netta divisione tra chi era favorevole alla politica parlamentare e chi proponeva il rovesciamento violento dei governi. Durante la prima metà del XIX secolo, quando nella maggior parte dei paesi i sindacati erano illegali e i lavoratori non avevano il diritto di voto, i socialisti si impegnarono a cambiare radicalmente le nuove relazioni sociali create dall'industrializzazione. Era difficile sperare di vincere le elezioni quando i lavoratori non potevano votare, fatto che rimase vero fino ad almeno il 1870. I pionieri del socialismo organizzarono quindi fabbriche modello, cooperative di produttori e consumatori e comunità sperimentali per superare i conflitti e l'alienazione tra i gruppi sociali. Volevano permettere ai lavoratori e ai poveri di beneficiare del nuovo ordine industriale, volevano «socializzare» l'industria e sostituire la concorrenza con la cooperazione.

Molti di questi protosocialisti diffidavano dei «diritti dell'uomo». Secondo Charles Fourier, il principale esponente del socialismo in Francia negli anni Venti e Trenta dell'Ottocento, le costituzioni e i discorsi sui diritti inalienabili erano un'impostura. Che significato potevano avere i «diritti imprescrittibili del cittadino», se l'uomo indigente «non ha né la libertà di lavorare», né la facoltà di esigere un impiego? A suo parere, il diritto al lavoro svettava su tutti gli altri diritti. Come Fourier, molti socialisti dell'epoca citavano il mancato riconoscimento dei diritti delle donne come prova del fallimento delle precedenti dottrine dei diritti. Le donne avrebbero mai potuto ottenere l'emancipazione senza l'abolizione della proprietà privata e dei codici giuridici che proteggevano il patriarcato?

Due fattori modificarono la traiettoria del socialismo nella seconda metà del XIX secolo: l'avvento del suffragio universale maschile e la nascita del comunismo (il termine «comunista» comparve per la prima volta nel 1840). Socialisti e comunisti si dividevano poi tra chi mirava a creare un movimento politico parlamentare con partiti e campagne elettorali, e chi, come i bolscevichi in Russia, insisteva sul fatto che soltanto una dittatura del proletariato e la rivoluzione totale avrebbero trasformato le condizioni sociali. I primi credevano che il graduale riconoscimento del diritto di voto a tutti gli uomini avrebbe offerto ai lavoratori la possibilità di conseguire i loro obiettivi attraverso la politica parlamentare. Il partito laburista britannico, per esempio, fu fondato nel 1900 da una congerie di sindacati, partiti e circoli preesistenti per promuovere gli interessi e l'elezione dei lavoratori. D'altro canto, la Rivoluzione russa del 1917 incoraggiò i comunisti in tutto il mondo a credere che la piena trasformazione sociale ed economica si profilasse appena oltre l'orizzonte e che la partecipazione alla politica parlamentare non facesse altro che sottrarre le energie necessarie per altre forme di lotta.

Com'era prevedibile, i due rami avevano opinioni diverse anche riguardo ai diritti. I socialisti e i comunisti che sceglievano il processo politico sposavano anche la causa dei diritti. Uno dei fondatori del partito socialista francese, Jean Jaurès, sosteneva che uno Stato socialista «conserva la propria legittimità soltanto nella misura in cui garantisce i diritti individuali». Egli appoggiò Dreyfus, il suffragio universale maschile e la separazione tra Chiesa e Stato, in breve: pari diritti politici per tutti gli uomini e miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Jaurès considerava la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino un documento di rilevanza universale. Coloro che si collocavano sull'altro fronte erano più fedeli a Marx e sostenevano, come un socialista francese avversario di Jaurés, che lo Stato borghese poteva essere soltanto «uno strumento del conservatorismo e dell'oppressione sociale».

Lo stesso Karl Marx aveva trattato i diritti dell'uomo in modo approfondito soltanto durante la giovinezza. Nel saggio Sulla questione ebraica, scritto nel 1843, cinque anni prima del Manifesto del partito comunista, Marx condannò i fondamenti stessi della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. «Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo», protestò, «oltrepassa E...] l'uomo egoistico». La cosiddetta libertà si applicava all'uomo soltanto in quanto essere isolato, non come membro di una classe o di una comunità. Il diritto alla proprietà privata garantiva soltanto il diritto di perseguire i propri interessi senza considerazione per gli altri. I diritti dell'uomo garantivano la libertà religiosa quando ciò di cui gli uomini avevano bisogno era l'emancipazione dalla religione; confermavano il diritto alla proprietà privata quando ciò di cui gli uomini avevano bisogno era liberarsi della proprietà; comprendevano il diritto di dedicarsi agli affari quando ciò di cui gli uomini avevano bisogno era liberarsi dagli affari. Marx detestava in particolare l'accento politico posto sui diritti dell'uomo. I diritti politici a suo parere riguardavano soltanto i mezzi, non i fini. U«uomo politico» era «astratto, artificiale», non «vero». L'uomo avrebbe potuto recuperare la propria autenticità soltanto riconoscendo che l'emancipazione umana non si poteva realizzare attraverso la politica; richiedeva una rivoluzione incentrata sulle relazioni sociali e sull'abolizione della proprietà privata.

Queste opinioni, e le varianti successive, esercitarono un'influenza sul movimento socialista e comunista per generazioni. Nel 1918 i bolscevichi adottarono la Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, la quale però non enunciava alcun diritto politico o giuridico. Essa aveva lo scopo di «sopprimere qualsiasi forma di sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, di abolire completamente la divisione della società in classi, di reprimere implacabilmente gli sfruttatori, di instaurare l'organizzazione socialista della società». Lenin stesso citò Marx quando si pronunciò contro l'accento posto sui diritti individuali. L'idea di un uguale diritto, affermò Lenin, è di per sé una violazione dell'uguaglianza e della giustizia, perché si basa sul «diritto borghese». I cosiddetti uguali diritti proteggono la proprietà privata e quindi perpetuano lo sfruttamento dei lavoratori. Stalin adottò una nuova Costituzione nel 1936, la quale affermava di assicurare la libertà di parola, di stampa e di religione, ma il suo governo non esitò a eliminare centinaia di migliaia di nemici di classe, dissidenti e persino compagni di partito spedendoli nei campi di prigionia o condannandoli all'esecuzione immediata.” (pp. 160-162)

L’analisi è inconfutabile. L’uomo nuovo socializzato ed empatico che il socialismo realizzato ha preteso di forgiare, imprimendo al processo storico un’accelerazione estrema, è risultato un rimedio peggiore del male rispetto all’homo oeconomicus.

Ricavare da questo, però, che il liberalesimo, che avrebbe liberato l’individuo dai lacci dell’appartenenza al gruppo orientandolo verso la la consapevolezza della sua appartenenza universale, rimane l’unica possibilità di affermare i diritti dell’uomo, come la Hunt implicitamente pensa, sembra piuttosto contrastante con gli sviluppi storici sia recenti che attuali.

Il fattore che ha precipitato nel dopoguerra la necessità di una Dichiarazione dei diritti dell’uomo da parte dell’Onu è stato senz’altro il genocidio nazista. Quella Dichiarazione, però, ha avuto una lunga gestazione, che la Hunt ricostruisce in questi termini:

“La seconda guerra mondiale stabilì un nuovo parametro della barbarie, con i suoi quasi inspiegabili 60 milioni di morti. Questa volta, inoltre, le vittime erano in maggior parte civili, e sei milioni erano ebrei uccisi per la sola ragione che erano ebrei. La devastazione aveva lasciato milioni di persone allo sbando al termine della guerra, molte delle quali non erano nemmeno in grado di immaginarsi un futuro e vivevano in campi profughi. Altre furono costrette a insediarsi in paesi diversi per motivi etnici (due milioni e mezzo di tedeschi, per esempio, furono espulsi dalla Cecoslovacchia nel 1946). Tutte le potenze coinvolte nella guerra avevano preso di mira civili in un'occasione o nell'altra, ma quando la guerra finì, la rivelazione dell'enormità degli orrori intenzionalmente perpetrati dai tedeschi sconvolse l'opinione pubblica. Le fotografie scattate alla liberazione dei campi di sterminio nazisti mostrarono le conseguenze terrificanti dell'antisemitismo, che era stato giustificato da teorie sulla supremazia della razza ariana e sulla purificazione nazionalista. I processi di Norimberga del 1945‑1946 non solo portarono tali atrocità all'attenzione del pubblico internazionale, ma stabilirono anche un precedente: governanti, ufficiali e personale militare potevano essere puniti per crimini «contro l'umanità».

Ancora prima che la guerra finisse, gli Alleati ‑ in particolare gli Stati Uniti, l'Unione Sovietica e la Gran Bretagna ‑ decisero di migliorare la Società delle Nazioni. Una conferenza tenuta a San Francisco nella primavera del 1945 definì la struttura di base di una nuova organizzazione internazionale, le Nazioni Unite. Avrebbe avuto un Consiglio di sicurezza controllato dalle grandi potenze, un'Assemblea generale formata dai rappresentanti di tutti gli Stati aderenti e un Segretariato guidato da un Segretario generale con funzioni direttive. La conferenza istituì anche una Corte internazionale di giustizia, con sede all'Aia, nei Paesi Bassi, che avrebbe sostituito un tribunale analogo creato dalla Società delle Nazioni nel 1921. Il 26 giugno 1945 cinquantuno paesi firmarono lo Statuto delle Nazioni Unite come membri fondatori.

Nonostante le prove emergenti dei crimini nazisti contro gli ebrei, gli zingari, gli slavi e altri gruppi, i diplomatici riuniti a San Francisco erano restii all'idea di mettere i diritti umani all'ordine del giorno. Nel 1944 sia la Gran Bretagna sia l'Unione Sovietica avevano respinto proposte di includere i diritti umani nella Carta delle Nazioni Unite. La Gran Bretagna temeva che tale iniziativa potesse incoraggiare i movimenti indipendentisti nelle sue colonie e l'Unione Sovietica non voleva interferenze nella sua sfera di influenza, ora in espansione. Inoltre, gli Stati Uniti si erano inizialmente opposti alla proposta della Cina di inserire nella Carta una dichiarazione sull'uguaglianza di tutte le razze.

Le pressioni giunsero da due direzioni diverse. Molti Stati di piccole e medie dimensioni in America Latina e in Asia chiesero che si prestasse maggiore attenzione ai diritti umani, anche perché risentivano della prepotente egemonizzazione delle procedure da parte delle grandi potenze. Inoltre, un gran numero di organizzazioni religiose, sindacali, femminili e della società civile, in gran parte statunitensi, esercitarono pressioni dirette sui delegati alla conferenza. Gli appelli urgenti presentati direttamente dai rappresentanti dell'American Jewish Committee, della Joint Committee for Religious Liberty, del Congress of Industrial Organizations (Cio) e della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) contribuirono a far cambiare idea ai funzionari del dipartimento di Stato americano, che accettarono di inserire i diritti umani nella Carta delle Nazioni Unite. L'Unione Sovietica e la Gran Bretagna acconsentirono, perché la Carta garantiva anche che le Nazioni Unite non sarebbero mai intervenute in questioni di competenza interna di uno Stato.

L'impegno a favore dei diritti umani era ancora ben lontano dall'essere certo. Lo Statuto delle Nazioni Unite del 1945 dava risalto alle questioni di sicurezza internazionale e dedicava soltanto poche righe a «il rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzioni di razza, di sesso, di lingua o di religione». Istituiva però una commissione per i diritti dell'uomo, la quale decise che il suo primo compito doveva essere la preparazione di una dichiarazione dei diritti umani. Come presidente della commissione, Eleanor Roosevelt svolse un ruolo centrale, promuovendo la redazione della dichiarazione e quindi guidandola attraverso il complesso processo di approvazione. John Humphrey, un docente di diritto quarantenne della McGill University, in Canada, elaborò una proposta preliminare. La bozza doveva poi essere esaminata dalla commissione al completo, distribuita a tutti gli Stati membri e quindi rivista dal Consiglio economico e sociale e, se approvata, trasmessa all'Assemblea generale, nell'ambito della quale doveva innanzitutto essere esaminata dalla Terza commissione (Affari sociali, umanitari e culturali). La Terza commissione comprendeva rappresentanti di tutti gli Stati membri e, durante la discussione della bozza, l'Unione Sovietica propose emendamenti per quasi tutti gli articoli. Ottantatre riunioni (soltanto della Terza commissione) e quasi 170 emendamenti dopo, fu approvata una proposta da sottoporre a votazione. Infine, il 10 dicembre 1948, l'Assemblea generale approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Quarantotto paesi votarono a favore, otto paesi del blocco sovietico si astennero e nessuno si oppose.

Come le dichiarazioni del XVIII secolo, la Dichiarazione universale dei diritti umani spiegava in un preambolo perché tale proclamazione formale fosse risultata necessaria. «Il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità», afferma. La differenza di linguaggio rispetto alla dichiarazione francese originale del 1789 è significativa. Nel 1789 i francesi avevano affermato che «l'ignoranza, l'oblio o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi». L'«ignoranza» e anche il semplice «oblio» non erano più ammissibili. Nel 1948 tutti conoscevano, presumibilmente, il significato dei «diritti umani». Inoltre, l'espressione adoperata nel 1789, «sciagure pubbliche», di certo non coglieva l'enormità degli accadimenti recenti. L'inosservanza e il disprezzo intenzionale dei diritti umani avevano prodotto atti di un'efferatezza quasi inimmaginabile.

La Dichiarazione universale non si limitò a riaffermare i concetti di diritti individuali del XVIII secolo, come l'uguaglianza dinanzi alla legge, la libertà di espressione, la libertà di religione, il diritto di partecipare al governo, la tutela della proprietà privata e il rifiuto della tortura e delle punizioni crudeli. Essa proibiva anche espressamente la schiavitù e sanciva il suffragio universale ed eguale a voto segreto. Garantiva inoltre la libertà di movimento, il diritto a una cittadinanza, il diritto di sposarsi e il più controverso diritto alla sicurezza sociale, nonché il diritto al lavoro, con eguale retribuzione per eguale lavoro e una rimunerazione idonea ad assicurare condizioni di vita dignitose, il diritto al riposo e il diritto all'istruzione, gratuita almeno per le classi elementari.” (pp. 164-167)

In realtà la storia delle trattative per arrivare alla Dichiarazione è stata parecchio più complessa di quanto si evince dalla ricostruzione della Hunt. Lo scontro essenziale nei due anni di discussione avvenne tra Occidente ed Europa socialista. Esso verteva sul fatto che gli occidentali proposero di proclamare a livello mondiale solo i diritti civili e politici e solo nella connotazione individualistica che essi avevano rivestito nel Settecento e nell'Ottocento, mentre i socialisti ritenevano altrettanto importanti (se non di più) i diritti economici e sociali. In pratica, i primi eleggevano a principio fondamentale della Dichiarazione il giusnaturalismo a partire dal quale si era sviluppato il sistema liberal-democratico. I secondi, viceversa, critici nei confronti della società occidentale, intendevano inserire nella Dichiarazione come prioritario il riferimento ai diritti economici e sociali.

Il dibattito non era solo ideologico: esso si riconduceva a due diverse concezioni della natura umana. La concezione liberale, enfatizzando la libertà dell’individuo e il diritto di proprietà, subordinava ad essi la realizzazione della giustizia sociale, vale a dire il riconoscimento che tutti gli uomini hanno diritto ad adeguate opportunità di sviluppo, che solo una ridistribuzione delle risorse sociali può permettere, ad una casa, ad un lavoro e a un tenore di vita dignitoso. La concezione socialista, viceversa, identificava nella libertà dell’individuo borghese, dotato di un diritto di proprietà assoluto, un impedimento al riconoscimento concreto dell’uguaglianza, che comporta l’assunzione dell’empatia come fattore decisivo di una buona organizzazione sociale.

Il compromesso faticosamente raggiunto tra le due concezioni è del tutto evidente nel dettato della Dichiarazione del 1948 laddove i diritti “liberali” di fatto precedono quelli “socialisti”. L’Articolo 17, per esempio, recita che “ogni individuo ha diritto ad avere una proprietà sua personale”, quello 18 che “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”, mentre solo l’articolo 22 recita che “ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione… dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità” (quindi al lavoro, alla casa, alla scuola, all’assistenza sanitaria, ecc.).

Ricostruendo la storia del dibattito che ha dato luogo alla promulgazione della Dichiarazione, riesce evidente che c’è una relativa incompatibilità tra libertà individuale, diritto di proprietà (quando esso eccede la misura dei bisogni personali) e empatia.

Se è vero, come sostiene la Hunt, che la nascita dell’individuo autonomo coincide con quella dell’individuo empatico, occorre riconoscere che, nel corso della storia più recente, le due dimensioni si sono piuttosto dissociate che non integrate. La dissociazione sembra, inoltre, riconducibile al primato dell’individuo libero dai legami di appartenenza rispetto all’empatia che tende a valorizzarli sotto forma di doveri nei confronti degli altri.

La tesi della Hunt, indubbiamente persuasiva per quanto riguarda l’avvento dell’Illuminismo ugualitarista, è smentita insomma dalla successiva evoluzione storica

L’autrice, ovviamente, non può non chiedersi, alla fine del libro, perché i diritti umani siano così difficili da realizzare. La sua risposta è la seguente:

“I limiti dell'empatia

Quali conclusioni dobbiamo trarre dalla recrudescenza della tortura e della pulizia etnica, dall'uso continuo dello stupro come arma di guerra e dall'oppressione persistente delle donne, dalla crescita della tratta di donne e bambini a fini sessuali e dalle condizioni di schiavitù ancora esistenti? I diritti umani ci hanno traditi, rivelandosi inadeguati al ruolo loro affidato? I tempi moderni evidenziano un paradosso basato sulla distanza e sulla vicinanza.

Da un lato, il diffondersi dell'alfabetizzazione e lo sviluppo della letteratura, dei quotidiani, della radio, del cinema, della televisione e di internet hanno permesso a un numero sempre maggiore di persone di immedesimarsi in altre che vivono in luoghi lontani e condizioni molto diverse. Le foto di bambini che muoiono di fame in Bangladesh o le notizie sulle migliaia di uomini e ragazzi trucidati a Srebrenica, in Bosnia, possono mobilitare milioni di persone e indurle a inviare denaro, generi di consumo e talvolta persino a portare esse stesse aiuto alle popolazioni di altri paesi o esortare i propri governi o le organizzazioni internazionali a intervenire.

Dall'altro lato, si apprendono da fonte sicura notizie su come in Ruanda due etnie si siano brutalmente massacrate a vicenda per motivi etnici. Questa violenza ravvicinata non è affatto eccezionale o recente; da secoli ebrei, cristiani e musulmani tentano di spiegare perché il biblico Caino, figlio di Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele. Dopo le atrocità naziste, con il passare degli anni un'attenta ricerca ha dimostrato che persone normali, prive di anomalie psicologiche o convinzioni politiche o religiose estreme, nelle «giuste» circostanze possono essere indotte a compiere quello che sanno essere uno sterminio di massa nei pressi del luogo in cui vivono. I seviziatori in Algeria, in Argentina e ad Abu Ghraib hanno cominciato tutti come soldati semplici. I seviziatori e gli assassini sono uguali a noi, e spesso infliggono sofferenze a persone che stanno proprio accanto a loro.

Se le moderne forme di comunicazione hanno diversificato gli strumenti attraverso i quali si può provare empatia con gli altri, esse non sono però riuscite ad assicurare che gli esseri umani agiscano sulla base di tale sentimento. L'ambivalenza riguardo all'efficacia dell'empatia emerse intorno alla metà del XVIII secolo, e fu espressa persino da coloro che si dedicarono a spiegarne i meccanismi.

In Teoria dei sentimenti morali Adam Smith esamina come reagirebbe «un europeo dotato di umanità» nel venire a sapere che un terremoto ha provocato la morte di centinaia di milioni di persone in Cina. Egli dirà tutte le cose giuste, prevede Smith, ma poi tornerà ai suoi affari come se nulla fosse accaduto. Se invece sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l'indomani, non chiuderebbe occhio tutta la notte. Sarebbe dunque capace di sacrificare la vita di centinaia di milioni di cinesi in cambio del suo dito mignolo? No di certo, secondo Smith. Ma che cosa impedisce a una persona di accettare l'offerta? «Non è il debole potere del senso di umanità», afferma Smith, che ci permette di contrastare l'interesse personale. Deve essere un potere più forte, quello della coscienza: «E’ la ragione, il principio, la coscienza, l'abitante dell'animo, l'uomo interiore, il grande giudice e arbitro della nostra condotta» .

L'elenco di Smith del 1759 ‑ la ragione, il principio, la coscienza, l'uomo interiore ‑ coglie un importante elemento dello stato attuale del dibattito sull'empatia. Che cos'è abbastanza forte da motivarci ad agire in base alla compassione che proviamo per i nostri simili? L'eterogeneità dell'elenco di Smith indica che lui stesso ebbe qualche difficoltà a rispondere all'interrogativo: «ragione» è forse sinonimo di «abitante dell'animo»? Smith sembrava credere, come molti attivisti odierni dei diritti umani, che un misto di richiami razionali ai principi dei diritti e di appelli emotivi alla compassione potesse rendere l'empatia moralmente efficace. I critici dell'epoca e molti critici attuali risponderebbero che è necessario stimolare un senso del dovere religioso superiore perché l'empatia funzioni. A loro parere, gli esseri umani non sono in grado di vincere da soli la loro innata propensione all'apatia o al male. Un ex presidente dell'American Bar Association [Ordine degli avvocati americani] diede voce a questa opinione diffusa: «Quando gli esseri umani non sono raffigurati a immagine di Dio», disse, «i diritti fondamentali possono anche perdere la loro ragion d'essere metafisica». L'idea dell'affinità umana non è sufficiente di per sé.

Adam Smith si concentra su una sola questione quando in realtà le questioni sono due. Smith esamina l'empatia con persone che vivono lontane come se appartenesse alla stessa categoria dei sentimenti che proviamo per le persone a noi vicine, pur riconoscendo che ciò con cui ci confrontiamo direttamente ci spinge ad agire molto più di quanto non facciano i problemi di persone lontane. Le due questioni sono quindi: che cosa ci può motivare ad agire sulla base dei sentimenti che proviamo per persone lontane e che cosa fa venire meno la compassione, al punto che riusciamo a torturare, mutilare e persino uccidere le persone a noi più vicine? Distanza e vicinanza, sentimenti positivi e sentimenti negativi: tutti devono far parte dell'equazione.

A partire dalla metà del XVIII secolo, e proprio a causa della nascita del concetto di diritti umani, queste tensioni diventarono sempre più estreme. Tutti coloro che conducevano campagne contro la schiavitù, la tortura legale e le pene crudeli alla fine del Settecento diedero risalto alla crudeltà nei loro scritti struggenti. Intendevano provocare repulsione, ma il risveglio delle sensazioni attraverso la lettura e l'osservazione di immagini esplicite della sofferenza non sempre poteva essere indirizzato verso fini precisi. Allo stesso modo, il romanzo che richiamava un'attenzione passionale sui travagli di ragazze comuni assunse altre forme, più sinistre, alla fine del XVIII secolo.

Il romanzo gotico, esemplificato da Il monaco di Matthew Lewis (1796), conteneva scene di incesto, stupro, tortura e assassinio, e queste scene sensazionalistiche sembravano motivare sempre più l'esercizio letterario al posto dello studio dei sentimenti intimi o delle conseguenze morali. Il marchese Sade si spinse ancora oltre il romanzo gotico, trasformandolo in vera e propria pornografia del dolore, riducendo intenzionalmente alla loro essenza sessuale le lunghe e verbose scene di seduzione dei romanzi precedenti, come Clarissa di Richardson. Sade intendeva mettere a nudo i significati occulti dei romanzi del passato: sesso, prevaricazione, sofferenza e potere, invece di amore, empatia e bontà. Per Sade «diritto naturale» significava soltanto il diritto di prendersi quanto più potere possibile e godere esercitandolo sugli altri. Non è un caso che Sade abbia scritto quasi tutti i suoi romanzi negli anni Novanta del Settecento, durante la Rivoluzione francese.

Il concetto di diritti umani si portò dietro una lunga scia di gemelli malvagi. La richiesta di diritti universali, uguali e naturali stimolò la crescita di nuove ideologie, talvolta fanatiche, della differenza. Le nuove possibilità di acquisire una consapevolezza empatica aprirono la strada alla spettacolarizzazione della violenza. Il tentativo di rimuovere la crudeltà dai suoi ancoraggi legali, giudiziari e religiosi la rese più accessibile come strumento quotidiano di prevaricazione e disumanizzazione. La ferocia e la crudeltà inumana dei crimini del XX secolo diventarono concepibili soltanto quando tutti furono in grado di affermare di essere membri uguali della famiglia umana. Il riconoscimento di questo dualismo è essenziale per il futuro dei diritti umani. L'empatia non si è esaurita, come alcuni hanno affermato. E’ diventata più potente che mai come forza a favore del bene. Ma anche l'effetto opposto della violenza, del dolore e della prevaricazione è più grande che mai.

I diritti umani sono il nostro unico, comune baluardo contro questi mali. Dobbiamo continuare a migliorare senza posa la versione dei diritti umani del XVIII secolo, assicurando che il termine «umani» nella Dichiarazione universale dei diritti umani elimini tutte le ambiguità del termine «uomo» nei «diritti dell'uomo». La cascata dei diritti non si è esaurita, anche se esiste sempre grande conflittualità sui modo in cui dovrebbe scorrere; il diritto di una donna di scegliere rispetto al diritto di un feto di vivere, il diritto di morire con dignità rispetto al diritto assoluto alla vita, i diritti dei disabili, i diritti degli omosessuali, i diritti dei bambini, i diritti degli animali: gli argomenti non sono finiti e non finiranno.

Coloro che conducevano campagne a favore dei diritti dell'uomo nel XVIII secolo potevano accusare i loro avversari di essere tradizionalisti insensibili, interessati solo a mantenere un ordine sociale fondato sulla disuguaglianza, sulla particolarità e sulle usanze storiche, anziché sull'uguaglianza, sull'universalità e sui diritti naturali. Oggi invece non possiamo più permetterci il lusso di opporre un semplice rifiuto a un'opinione antiquata. All'estremità opposta della lotta per i diritti umani, allorché si è diffusa la fiducia riposta in tali principi, dobbiamo affrontare il mondo forgiato da quei tentativi iniziali. Dobbiamo capire che cosa fare con coloro che seviziano e uccidono, come prevenirne la comparsa in futuro, senza mai dimenticare che sono uguali a noi. Non li possiamo tollerare, né possiamo negare la loro umanità.

L'apparato dei diritti umani, con i suoi organismi internazionali, tribunali internazionali e convenzioni internazionali, può rispondere con una lentezza esasperante o continuare a rivelarsi incapace di conseguire i suoi obiettivi fondamentali, ma non esiste una struttura migliore per affrontare queste problematiche. I tribunali e le organizzazioni governative, a prescindere da quanto siano internazionali nei loro intenti, saranno sempre frenati da considerazioni geopolitiche. La storia dei diritti umani dimostra che alla fine il miglior modo di difendere i diritti è affidarsi ai sentimenti, alle convinzioni e alle azioni di un gran numero di individui che chiedono risposte che si accordino con il loro senso dell'indignazione.

Il pastore protestante Rabaut Saint‑Etienne aveva già compreso questa verità nel 1787, quando scrisse al governo francese per lamentarsi dei difetti del nuovo editto che concedeva la tolleranza religiosa ai protestanti. «E’ giunta l'ora», scrisse, «in cui non è più accettabile che una legge ignori espressamente i diritti dell'umanità, che sono ben noti in tutto il mondo». Le dichiarazioni ‑ nel 1776, 1789 e 1948 ‑ hanno fornito una pietra di paragone per tali diritti dell'umanità, attingendo alla capacità di riconoscere ciò che «non è più accettabile» e contribuendo poi a rendere le violazioni ancora più inammissibili. Il processo ha avuto e ha un'innegabile circolarità: conosciamo il significato dei diritti umani perché proviamo costernazione quando vengono violati. Le verità dei diritti umani possono essere paradossali in questo senso, ma restano nondimeno evidenti di per sé.” (pp. 171-173)

L’evidenza è precaria, evidentemente. Forse, anziché appellarsi all’individualismo metodologico, con la conseguenza di dover riconoscere che gli individui tendono “naturalmente” al bene e al male, sarebbe più facile accettare che, storicamente, tale tendenza è intrinseca alla libertà borghese, il cui esercizio, sul piano della competizione egoistica, rispetta tutt'al più la legge, ma non ha alcun vincolo morale. In conseguenza di ciò l'empatia agisce solo in alcuni rari soggetti costituzionalmente sensibili, mentre nella maggioranza viene ad essere inibita.

Storicamente ciò che è accaduto è il contrario di quello che la Hunt sostiene. L'individuo autonomo borghese è nato sulla base di un processo di anestetizzazione che gli ha consentito di affrancarsi dai vincoli e dai doveri di parentela che, in precedenza, gli impedivano di darsi da fare curando solo i suoi interessi privati.

Se questo è vero, è il mito della libertà liberale a dover essere messo in discussione in maniera tale da subordinarne l’esercizio all’empatia, vale a dire al riconoscimento intuitivo ed emozionale dei diritti altrui.

En passant, a rischio di apparire pedante, devo sottolineare ancora una volta che gli studiosi i quali attingono al patrimonio della neurobiologia e della psicologia, che di recente, con la scoperta dei neuroni specchio e quella dei comportamenti altruistici manifestati "naturalmente" da bambini dai 2 ai 3 anni nei confronti di un coetaneo sofferente, sono giunte a definire l'empatia come una capacità innata della natura umana, confondono di solito tale capacità con la teoria della mente cui fanno riferimento i cognitivisti per spiegare come gli esseri umani giungono a capire ciò che avviene nel mondo interiore degli altri.

L'empatia, in quanto capacità naturale, comporta l'identificazione "viscerale" con l'altro, soprattutto se egli soffre. La teoria della mente, in quanto elaborata cognitivamente, può potenziare l'empatia, ma può anche prodursi in forma dissociata da essa: come comprensione cognitiva, appunto, del mondo interiore altrui, che non comporta alcun coinvolgimento emotivo e alcuna identificazione.

Questa confusione, in una certa misura, è all'origine della storia dei diritti umani che la Hunt ricostruisce. La dissociazione cui ho fatto cenno, per esempio, è del tutto evidente in Jefferson che, proprietario di schiavi, rivendica i diritti inalienabili dell'uomo senza applicarli ad essi. Questa clamorosa contraddizione rende evidente l'inibizione dell'empatia quando viene ad urtare contro il diritto di proprietà, aberrante addirittura nel momento in cui viene esercitato su esseri umani. Mutatis mutandis, però, non è proprio questa contraddizione che ha avviato il Capitalismo e il trionfo della borghesia sulla base della riduzione dell'altro - l'operaio - a cosa?

Perché l'empatia non si riduca ad un flatus vocis, non basta che l'individuo raggiunga uno statuto autonomo: occorre che il riconoscimento dell'altro come simile sia vissuto, sentito, partecipato emotivamente. Che cosa significa questo prescindendo dalla compassione cristiana? Né più né meno promuovere nell’individuo una coscienza di specie, supportata dalla percezione che la specie in questione è gravata da troppi mali, intrinseci alla condizione esistenziale e dovuti all'organizzazione sociale, perché qualunque individuo bisognoso o sofferente sia abbandonato a se stesso.

E’ inutile riporre fiducia nell’individuo autonomo (o pseudo-autonomo) così com’esso si è sviluppato nel contesto della nostra civiltà. Occorre una nuova programmazione sociale e culturale per portare gli esseri umani sulla via dell’umanizzazione. In difetto di questa programmazione, i diritti dell’uomo sono destinati a rimanere sostanzialmente formali o ad essere praticati solo da coloro la cui empatia non cede alla sirena della libertà individuale e del diritto di proprietà.