1.
Nato nel 1898 in Svezia, Myrdal è stato uno dei pochi economisti del '900 a intendere l'economia non come una scienza asettica e neutrale, fatta di equazioni e di tabelle, bensì come una disciplina aperta al contributo di tutte le altre scienze umane e sociali e rivolta ad affrontare problemi inerenti i bisogni individuali e sociali. Avverso al liberismo puro e teorico del Welfare State, Myrdal ha sempre considerato la giustizia sociale come l'obiettivo primario e significativo di un buon governo. Per dieci anni (dal 1847 al 1857) Commissario esecutivo della CEE, egli ha contribuito a porre le fondamenta dell'Unione Europea all'insegna di un modello di sviluppo differenziato rispetto a quello statunitense.
Studioso eclettico, che più volte ha travalicato i confini dell'economia tradizionalmente intesa, Myrdal si è imbattuto infine in un problema centrale per le scienze umane e sociali: quello dell'obbiettività. Tema non certo nuovo se si pensa, per esempio, a Weber, ma che, nella temperie degli anni '60 del secolo scorso, tendeva a porsi in termini mimetici rispetto alle scienze naturali in virtù dell'adozione incontrastata del metodo sperimentale. Si riteneva infatti che tale metodo, producendo dati oggettivi, riduceva l'arbitrio delle interpretazioni, costringendo gli studiosi a pervenire a conclusioni oggettive. Myrdal ha avuto il merito di criticare con estrema efficacia questo mito. Considerando gli sviluppi successivi delle scienze umane e sociali (economia, sociologia, psicologia) c'è da rimpiangere il fatto che la sua critica sia stata accantonata. Ancora oggi, a distanza di trent'anni, lo smilzo libricino vale più dei ponderosi tomi che, in tema di metodologia delle scienze sociali, vengono imposti agli studenti.
Il problema in questione è posto in questi termini: "L'ethos della scienza sociale è la ricerca di verità "oggettiva" Cos'è innanzitutto l'oggettività? Come può lo studioso raggiungere l'oggettività, nel suo sforzo di reperire i fatti e insieme le relazioni causali tra i fatti? Più specificamente, come può lo studioso di problemi sociali affrancarsi: 1) dalla schiacciante eredità di tutto quanto è stato elaborato in precedenza entro il suo campo d'indagine, denso a sua volta di prescrizioni normative e implicazioni teleologiche ereditate dalle passate generazioni, e fndate sule filosofie morali metafisiche del diritto naturale e dell'utilitarismo, dalle quali si sono poi diramate tutte le nostre teorie economiche e sociali; 2) dai condizionamenti dell'intero contesto culturale, economico, politico della società in cui vive, lavora, si guadagna il pane e si assicura uno status; 3) dall'influenza che promana dalla sua stessa personalità, modellata com'è non solo dalle tradizioni e dall'ambiente, ma anche dal suo carattere, dalle sue inclinazioni, dalla sua biografia individuale?
Ma lo scienziato sociale si trova ad affrontare un ulteriore ordine di problemi: come poter essere entro questi limiti, oggettivo e, al tempo stesso, pratico? Quale rapporto esiste - cioè - tra l'intento di comprendere la società e quella di cambiarla? La ricerca di una vera conoscenza può coesistere con valutazioni politiche e morali? Quale relazione si può stabilire tra verità e ideali?" (pp. 4 - 5)
Per rispondere a questi interrogativi, Myrdal s'impegna a sormontare l'ingenuo realismo delle coscienze ("Nel nostro tipo di civiltà, la gente in genere, e non solo gli scienziati sociali, pretende di essere razionale e di poter addurre ragioni precise del modo in cui concepisce la realtà circostante e reagisce ad essa" p. 12), introducendo una distinzione apparentemente semplice tra credenze e valutazioni, che il più delle volte si combinano sotto forma di opinioni: "Le credenze esprimono le nostre idee sul reale così com'è, o come era; mentre le valutazioni esprimono le nostre idee su come il reale medesimo dovrebbe essere o avrebbe dovuto essere" (p. 13). In quanto si pongono sul piano della conoscenza, le credenze personali possono essere giudicate "in base ad un cruterio discriminante tra vero e falso e, nella seconda alternativa, misurando l'ampiezza e la direzione in cui esse si discostano dalla verità" (p. 13). Le valutazioni, viceversa, sono più difficili da giudicare per due motivi. Il primo è che "le valutazioni di ogni persona sono normalmente instabili e contraddittorie. Dietro il comportamento non c'è mai un insieme omogeneo di valutazioni, ma un'intreccio di inclinazioni, idelai, interessi in lotta; alcuni dei quali consci, altri, invece, repressi per lunghi intervalli, ma tutti insieme all'opera nello spingere il comportamento verso questa o quella particolare direzione" (pp. 13 - 14). Il secondo motivo "deriva dal fatto che spesso si cerca di tenerle nascoste in quanto tali e si tenta di dar loro la veste di credenze o certezze inìtorno alla realtà. La gente, di solito, pensa di poter contrabbandare le valutazioni, presentando le proprie posizioni come fossero nient'altro che inferenze logiche da ciò che si crede vero a proposito del reale Le opinioni della gente divengono così quel che noi chiamiamo razionalizzazioni. Nel corso di questo processo, le valutazioni vengono "oggettivate", presentandole come credenze o semplici inferenze da esse: il che implica il loro occultamento e, al tempo stesso, l'occultamento della loro mancanza di coerenza e concretezza. E' da questo processo che le credenze escono distorte" (p. 15).
Un esempio tipico di questo processo è rappresentato dai pregiudizi popolari: "L'esigenza psicologica di razionalizzazione delle valutazioni operanti al livello più basso dà origine a quelli che ho chiamato "sterotipi" o anche "teorie popolari". Questi sterotipi costituiscono fatti socialmente rilevanti in tutte le società e possono essere oggetto d'indagine empirica. Essi constano di complessi di credenze piegati ad aderire alle valutazioni di più basso livello nei confronti delle quali esercitano una funzione di occultamento o di razionalizzazione le valutazioni che gli stereotipi e le teorie popolari sono destinati a dissimulare o giustificare forniscono la carica emozionale. Esse sono abitualmente manifestate con la massima convinzione, quasi fossero affermazioni concernenti fatti di straordinaria importanza. Sottoposte ad analisi, queste teorie stereotipate si rivelano veri e propri grovigli di credenze riguardo al reale, grossolanamente false e spesso contraddittorie" (pp. 19 -20).
Se gli stereotipi sono indubbiamente più diffusi a livello popolare, è errato pensare che, a livello scientifico, soprattutto quando l'oggetto è l'uomo e i fatti umani, essi siano inesistenti: "Inganniamo noi stessi se ingenuamente crediamo che in quanto scienziati sociali, noi siamo meno "umani" della società che ci circonda; e che non siamo soggetti anche noi a inclinare opportunisticamente verso conclusioni atte a soddisfare pregiudizi segnatamente simili a quelli di qualunque altro membro della nostra società Tutti noi nelle nostre scienze siamo soggetti all'influenza della tradizione, del clima politico e culturale del nostro ambiente, nonché delle nostre specifiche e personali predisposizioni" (p. 35). In conseguenza di questo "dato che i preconcetti nella ricerca sono determinati da ragioni di opportunismo proprio come quelle distorte credenze popolari su cui di regola si modellano, può anche accadere che la ricerca in tal modo condizionata li confermi, almeno in parte e provvisoriamente" (p. 38).
Il problema dell'oggettività nell'ambito delle scienze umane e sociali non può, peraltro, essere risolto attenendosi ai fatti. Primo, perché le valutazioni latenti possono incidere, oltre che nella definizione dell'oggetto della ricerca, anche sulla metodologia adottata: "Il fatto che il condizionamento sociale svolga un ruolo tanto decisivo nellascelta del campo di ricerca dovrebbe renderci maggiormente consapevoli e sospettosi di un altro tipo di condizionamento: cioè a dire, gli approcci che noi scegliamo nella ricerca, col chè intendo i concetti, i modelli, e le teorie da noi usati, e il modo in cui selezionimao e ordiniamo le nostre osservazioni e presentiamo i risultati della ricerca" (p. 39). In secondo luogo, perché non esistono dati oggettivi in sé e per sé: "I preconcetti nelle scienze sociali non possono essere cancellati semplicemente "attenendosi ai fatti" e raffinando i metodi di approccio ai dati statistici. Invero, i dati e la loro manipolazione sono spesso più suscettibili di distorsioni tendenziose di quanto lo sia il "pensiero puro". Non basta la mera osservazione a organizzare il caos dei dati disponibili per la ricerca, in un corpo di conoscenza sistematico. Prima deve esserci un punto di vista, bisogna fissare un punto di osservazione, e ciò implica già una valutazione Se, nei loro tentativi di essere fattuali, gli scienziati non rendono esplicito il loro punto di vista, essi lasciano spazio ai preconcetti.
Né uno scienzaito può sfuggire ia preconcetti negandosi a conclusioni di ordine pratico e politico. Non si creda che la ricerca sia meglio protetta contro i preconcetti quando lo scienziato rifiuta di ordinarne i risultati in una forma disponibile ad un uso pratico e operativo. E' altresì evidente che, nonostante le assicurazioni contrarie, quasi infallibilmente vengono tratte conclusioni pratiche e politiche. Tutta la nostra letteratura è permeata da giudizi di valore, nonostante tutte le affermazioni preliminari in contrario. Ma queste conclusioni non sono presentate come deduzioni da esplicite premesse di valore; invece, secondo una moda vecchia di secoli, si sostiene che esse scaturiscono evidenti dalla natura delle cose: vale a dire come parte integrante di ciò che si presenta come dato oggettivo" (pp. 40 -41).
Il rimedio al mito dell'obbiettività dei fatti è semplice. Posto che "una scienza sociale "disinteressata" non è mai esistita, e logicamente non potrà mai esistere" (p. 44), "l'unico modo in cui è possiamo sforzarci di raggiungere una certa "oggettività" è - a livello di analisi teoretica - quello di portare innanzitutto le valutazioni in piena luce, di renderle consce, esplicite e precise e di lasciare che siano esse a guidare l'impostazione della ricerca" (p. 44).
Rigettare il mito dell'oggettività assoluta, non significa però nel gorgo del relativismo o del nichilismo morale. Infatti, "nessuna scienza sociale e nessun ramo di essa può pretendere di qualificarsi come "amorale" e "apolitica"; "La ricerca è sempre e per sua logica necessità fondata su valutazioni di ordine morale e politico, e il ricercatore sarà sempre tenuto a rendere conto di esse in modo esolicito. Una volta che queste valutazioni siano state portate alla luce, chiunque scopra che un particolare apsetto della ricerca è fondato su ciò che egli può considerare valutazioni errate sarà in grado di sottoporla a critica su quella base L'argomentare in termini morali e politici potrà invero venire stimolato e in larga misura facilitato non appena la scienza sociale convenzionale si sia spogliata di certe sue false pretese: come quella di potere, senza premesse di valore esplicite, accertare fatti rilevanti e significanti e persino raggiungere conclusioni di ordine pratico" (pp. 60 - 61).
Con ciò la lezione metodologica di Myrdal si conclude, ma il libro continua. L'ultima parte è dedicata all'"eventuale esistenza di certi principi morali al livello "più alto" di generalità" (p. 63) che, in a quanto tali, potrebbero essere assunti come premesse di valore universale nell'ottica delle scienze umane e sociali. Tra questi, il rispetto per la vita umana, per quanto disatteso, è riconosciuto da tutti, mentre molto più problematico risulta il principio ugualitario, secondo il quale "tutti gli esseri umani hanno uguali diritti" (p. 67) sicché "l'eguagliamento delle loro condizioni di vita e di lavoro è un ideale supremo" (p. 67). A riguardo, Myrdal non ha alcuna difficoltà a riconoscere che tale principio non può essere in alcun modo provato scientificamente. Cionondimeno, "l'impotenza delle "prove" del principio egualitario a reggere a critiche logicamente fondate, non lo inficia in quanto valutazione. Se una valutazione non può essere provata come vera, è vero, d'altra parte, che non se ne può provare neppure la falsità. Essa può esistere semplicemente come fatto. In quanto valutazione, il principio può ottenere la piena adesione dei nostri sentimenti, nella misura in cui esso corrisponde al concetto che noi abbiamo del modo in cui le cose dovrebbero andare nella nostra società e nel mondo.
Piuttosto la sua universalità e atemporalità implica che, al più alto livello della nostra sfera valutativa, esso è di fatto un'ambizione morale di tutta l'umanità. E' un ideale vivente e, come tale, parte della realtà sociale: una valutazione effettivamente percepita dalla gente come moralmente giusta. Nel mondo così com'è, tuttavia, non dobbiamo escludere che esso possa determinare il nostro comportamento privato e le scelte politiche pubbliche a un grado molto elevato" (pp. 70 -71).
2.
Le argomentazioni di Myrdal, esposte tra l'altro con una straordinaria chiarezza, possono sembrare ovvie. Oggi, che gli uomini, tutti gli uomini, compresi i pensatori e gli scienziati scienziati sociali, quando formulano affermazioni o conclusioni sui fatti umani, muovano da premesse di valore implicite, che fanno parte dell'infrastruttura ideologica intrinseca della loro soggettività, è universalmente riconosciuto. Il problema però è che, né a livello di opinione pubblica né a livello di esperti, studiosi e scienziati se ne tiene conto. Ciò è vero per l'economia, la sociologia, la psicologia e - aggiungerei - la psichiatria.
Sarebbe lungo semplificare questa rimozione in tutti i campi delle scienze umane e sociali. Mi limiterò pertanto ad una riflessione che concerne la psichiatria. Questa disciplina si articola su di una valutazione primaria che concerne ciò che è normale e ciò che non lo è da un punto di vista psichico. Tale valutazione, però, che è infinitamente complessa sotto il profilo filosofico, viene arbitrariamente ridotta all'assenza o alla presenza di sintomi, come se non fosse noto da tempo che l'assenza di sintomi può coincidere con un assetto di personalità indifferenziato e, talora, psicosocialmente pericoloso. La presenza di sintomi viene poi ricondotta univocamente, sulla base di un giudizio di valore, ad una disfunzione cerebrale, ignorando i rapporti complessi e reciproci che si danno tra stati mentali e stati cerebrali.
La psichiatria, insomma, è da sempre una scienza pregiudiziale.
Ciò non significa che, cambiando ottica, le cose migliorino di gran lunga. Anche alcuni presupposti della psicoanalisi ortodossa, come per esempio la teoria delle pulsioni, si fondano su valutazioni della natura umana tratte dalla tradizione culturale, dai luoghi comuni, da un sapere di lunga durata che non è mai stato convalidato scientificamente.
Per ambire ad uno statuto scientifico, la psichiatria dovrebbe fare i conti, tra l'altro, con le acute argomentazioni di Myrdal.
Dicembre 2003