E. DURKHEIM

LE REGOLE DEL METODO SOCIOLOGICO

Edizioni di Comunità, Milano, 1969

Introduzione

Con Le regole del metodo sociologico, pubblicato nel 1893, nasce in pratica la sociologia come scienza positiva preconizzata da Comte. Come accade per ogni nuovo paradigma scientifico, la nascita si realizza in opposizione al senso comune e ai pregiudizi del volgo, che non aspetta i ricercatori per farsi una qualche idea del mondo, e in aperta contestazione delle discipline, filosofiche o scientifiche, che si sono in precedenza cimentate su un terreno improprio.

L'esigenza metodologica di Durkheim comporta una rigorosa definizione dell'oggetto in questione, vale a dire dei fenomeni che richiedono una spiegazione scientifica, e alcuni presupposti di fondo che rappresentano l'infrastruttura della teoria

Oggetto della sociologia, secondo Durkheim, sono i fatti sociali nella misura in cui appaiono irriducibili alle loro manifestazioni individuali, vale a dire agli agenti psicologici che li sperimentano. I fatti sociali, siano essi abitudini mentali, tradizioni culturali, valori morali, pregiudizi, regole di comportamento, leggi, istituzioni, ecc., non sono il semplice sviluppo di fatti psichici: questi piuttosto rappresentano il loro prolungamento all'interno delle coscienze individuali.

La definizione dei fatti sociali fornita da Durkheim implica, dunque, immediatamente, il primato del sociale sull'individuale, vale a dire della sociologia sulla psicologia. Si tratta di un aspetto particolarmente importante ai fini di una nuova scienza del disagio psichico, tanto più in un'epoca come la nostra caratterizzata, a livello di opinione pubblica, da uno psicologismo di maniera, e, a livello neopsichiatrico, dall'enfatizzazione del biologico, che è una dimensione strettamente individuale. Nel 1893, la psicoanalisi è ancora in fase di gestazione. Solo dopo qualche anno Freud avrebbe messo a fuoco la nozione di super-io che comprova il primato del sociale sull'individuale all'interno della struttura della personalità umana. Per quest'aspetto, Durkheim si può ritenere un precursore.

Come in Freud anche in Durkheim, però, il primato del sociale sull'individuale si pone non già come espressione di una predisposizione della natura umana alla vita associativa, bensì come una necessità legata all'insufficienza dell'individuo, che ha bisogno di appartenere ad un gruppo, e come coercizione esterna. Il positivismo di Durkheim concerne la società, non la natura umana, alla quale egli si riferisce in termini che rivelano le originarie matrici culturali ebraiche. E' stato detto riguardo a Freud che la sua concezione antropologica condensa presupposti ideologici propri dell'ebraismo e della cultura borghese. Lo stesso vale per Durkheim.

Partendo dal pregiudizio per cui la natura umana è concepita come intrinsecamente resistente, se non addirittura ostile, alle leggi morali che governano la convivenza sociale, non c'è da sorprendersi che il primato del sociale divenga piuttosto una difesa della società dalle tendenze individuali che non una possibilità offerta all'individuo di realizzare la sua personale vocazione ad essere. E' vero che Durkheim, essendo un conservatore illuminato, non cade nell'eccesso di assolutizzare il sociale. Egli riconosce che la spinta al cambiamento interviene talora a partire dall'individuo, e giunge a parlare dell'individuazione in termini che richiamano Nietzsche. Considera però questa un'eccezione piuttosto che la regola.

Se si tratta di un'eccezione, essa si manifesta spesso nell'opposizione tra il pensiero dello studioso e il senso comune, che contrassegna la nascita di una scienza. Durkheim è consapevole di essere promotore di un nuovo modo di vedere e di analizzare i fatti umani, e rivendica orgogliosamente la sua originalità:

"Si è così poco abituati a trattare scientificamente i fatti sociali che alcune proposizioni contenute in quest'opera rischiano di sorprendere il lettore. Tuttavia, se esiste una scienza delle società, si può ritenere che essa non consista in una semplice parafrasi dei pregiudizi tradizionali, ma che ci faccia vedere le cose diversamente da come appaiono al volgo.

Lo scopo di ogni scienza è infatti quello di compiere scoperte, ed ogni scoperta disturba più o meno le opinioni tramandate. A meno quindi di non prestare al senso comune, in sede sociologica, un'autorità che da tempo esso non possiede più nelle altre scienze - e non vediamo da dove potrebbe venirgli - lo studioso deve prendere la decisione di non lasciarsi intimidire dai risultati ai quali giungono le sue ricerche, quando sono state condotte metodicamente.

Se è proprio di un sofista cercare il paradosso, sfuggirlo - quando è imposto dai fatti - è proprio di uno spirito privo di coraggio o di fede nella scienza." (p. 5)

Se si pongono tra parentesi i presupposti ideologici sulla natura umana da cui muove il pensiero durkheimiano, esso risulta denso di suggestive intuizioni. L'intuizione dell'interazione tra psicologia collettiva e psicologia individuale, la quale rappresenta un prolungamento della prima, appare ancora oggi prodigiosa, ma difficile da concettualizzare. L'approccio più profondo a questo problema è maturato in Francia, integrando le intuizioni di Durkheim con quelle di Marx e di Freud, ad opera della scuola storica de Les Annales. La nozione di "mentalità" rappresenta il frutto di tale integrazione e un contributo prezioso ad una scienza che indaga i rapporti interattivi e reciproci tra soggettività individuale e storia sociale.


Il metodo sociologico

"Il primo passo del sociologo deve quindi essere la definizione delle cose che tratta, per sapere – e per sapere bene – di che cosa deve occuparsi. Questa è la prima e la più indispensabile condizione di ogni prova e di ogni verificazione: una teoria può infatti venir controllata soltanto se si sanno riconoscere i fatti di cui deve rendere conto. […]Da ciò deriva la regola seguente: assumere sempre come oggetto di ricerca soltanto un gruppo di fenomeni precedentemente definiti mediante certi caratteri esterni ad essi comuni, e comprendere nella stessa ricerca tutti quelli che rispondono a questa definizione. […]

Procedendo in questa maniera, il sociologo mette piede, fin dal primo passo, nella realtà. Il modo in cui i fatti vengono classificati non dipende da lui, dalla configurazione particolare del suo spirito, bensì dalla natura delle cose. Il segno che li ha fatti mettere in questa o in quella categoria può venir indicato a tutti e riconosciuto da tutti, e le affermazioni di un osservatore possono venire controllate dagli altri.

È vero che la nozione così costruita non quadra sempre – ed anzi generalmente non quadra affatto - con la nozione comune. Per esempio, è evidente che per il senso comune le manifestazioni di libero pensiero o le mancanze commesse contro l'etichetta, così regolarmente e severamente punite in molteplici società, non sono considerate reati neppure in rapporto a tali società; e analogamente un clan non è una famiglia nell'accezione usuale del termine. Ma poco importa: infatti non si tratta semplicemente di scoprire un mezzo che ci consenta di ritrovare in modo abbastanza sicuro i fatti ai quali si applicano i termini del linguaggio corrente e le idee che essi traducono.

Occorre costruire in modo compiuto concetti nuovi, appropriati ai bisogni della scienza ed espressi mediante una terminologia specifica." (pp. 49-51)

"La vita sociale è quindi costituita da libere correnti che sono perpetuamente in via di trasformazione, e che lo sguardo dell’osservatore non riesce a fissare. Perciò non è da questo lato che lo studioso può affrontare l’esame della realtà sociale. Noi sappiamo che essa è suscettibile di cristallizzarsi, senza cessare di essere se stessa: al di fuori degli atti individuali che suscitano, le abitudini collettive si esprimono in forme definite, in regole giuridiche e morali, in detti popolari, in fatti di struttura sociale, ecc.

Esistendo in modo permanente e non mutando con le diverse applicazioni che ne vengono fatte, queste forme costituiscono un oggetto fisso, un campione costante che è sempre a portata dell'osservatore e che non lascia alcun margine alle impressioni soggettive o alla osservazioni personali: una regola del diritto è ciò che è, non vi sono due maniere di percepirla. Dato che d’altra parte queste pratiche non sono altro che la vita sociale consolidata, è legittimo - salvo indicazioni in contrario – studiare questa attraverso quelle.

Perciò, quando il sociologo si accinge ad esplorare un qualsiasi ordine di fatti sociali, egli deve sforzarsi di considerarli dal lato in cui si presentano isolati dalle loro manifestazioni individuali. In base a questo principio abbiamo studiato la solidarietà sociale, le sue diverse forme e la loro evoluzione attraverso il sistema delle regole giuridiche che le esprimono. Analogamente, cercando di distinguere e di classificare i differenti tipi familiari in base alle descrizioni letterarie dei viaggiatori, e talvolta degli storici, ci si espone al rischio di confondere le specie più diverse e di accostare i tipi più lontani; prendendo invece come base della classificazione la costituzione giuridica della famiglia, e in particolare il diritto successorio, si avrà un criterio oggettivo che - senza essere infallibile - preverrà molti errori.

Se si vuole classificare i differenti tipi di reato, ci si sforzerà di ricostruire i modi di vivere e le usanze professionali in uso nei differenti domini del reato, e si giungerà a riconoscere tanti tipi criminologici quante sono le forme differenti che presenta questa organizzazione; oppure, per attingere i costumi e le credenze popolari ci si rivolgerà ai proverbi e ai detti che le esprimono." (pp. 56-57)

"Riassumendo, i caratteri di questo metodo risultano i seguenti. In primo luogo, esso è indipendente da ogni filosofia. Essendo nata dalle grandi dottrine filosofiche, la sociologia ha conservato l’abitudine di appoggiarsi a qualche sistema, al quale si trova così connessa: per questo motivo essa è stata successivamente positivistica, evoluzionistica, spiritualistica, mentre deve accontentarsi di essere semplicemente la sociologia. […] Non spetta alla sociologia prender partito tra le grandi ipotesi che dividono i metafisici; non è suo compito affermare né la libertà né il determinismo. Essa richiede soltanto che le venga accordato che il principio di causalità si applica ai fenomeni sociali […]. Ma se la natura del vincolo causale escluda completamente la contingenza non è con ciò una questione risolta." (p. 129)

"In secondo luogo, il nostro metodo è oggettivo. Esso è interamente dominato dall’idea che i fatti sociali sono cose e devono essere trattati come tali. […] Ma se consideriamo i fatti sociali come cose, esse sono pur sempre per noi cose sociali.

Il terzo tratto caratteristico del nostro metodo consiste appunto nel fatto di essere esclusivamente sociologico. Spesso è sembrato che i fenomeni sociologici, a causa della loro estrema complessità, fossero refrattari alla scienza oppure che potessero entrarvi soltanto se ridotti alle loro condizioni elementari, psichiche o organiche, cioè se spogliati della loro natura. Al contrario, noi ci siamo proposti di stabilire che è possibile trattarli scientificamente senza privarli di nessuno dei loro caratteri specifici. Anzi, ci siamo anche rifiutati di ricondurre l’immaterialità sui generis che li caratterizza a quella – che pure è già complessa – dei fenomeni psicologici […]. Abbiamo mostrato che un fatto sociale può venir spiegato soltanto da un altro fatto sociale; e contemporaneamente abbiamo mostrato come questo tipo di spiegazione sia possibile, segnalando nell’ambiente sociale interno il motore principale dell’evoluzione collettiva." (pp. 131-132)

"Non bisogna quindi - come fa Spencer - presentare la vita sociale come una semplice risultante delle nature individuali, poiché, al contrario, sono piuttosto queste che derivano da quella.

I fatti sociali non sono il semplice sviluppo dei fatti psichici; ma i secondi non sono in gran parte che il prolungamento dei primi all'interno delle coscienza. Questa proposizione è importantissima, poiché il punto di vista contrario espone continuamente il sociologo al pericolo di scambiare le cause per gli effetti e viceversa.

Per esempio se, come è sovente accaduto, si vede nell'organizzazione della famiglia l'espressione logicamente necessaria di sentimenti umani inerenti ad ogni coscienza, si inverte l'ordine reale dei fatti; al contrario, è proprio l'organizzazione sociale dei rapporti di parentela che ha determinato i sentimenti rispettivi dei genitori e dei figli. Essi sarebbero stati completamente diversi se la struttura sociale fosse stata differente; prova ne sia il fatto che l'amore paterno è ignoto in molte società. Potremmo citare parecchi altri esempi dello stesso errore.

È indubbiamente una verità evidente che non c'è nulla nella vita sociale che non sia anche nelle coscienze individuali; però, quasi tutto quello che si trova in queste ultime proviene dalla società. La maggior parte dei nostri stati di coscienza non si sarebbero prodotti in esseri isolati, e si sarebbero prodotti in modo completamente diverso in esseri aggruppati in un'altra maniera. Essi derivano quindi non già dalla natura psicologica dell'uomo in generale, ma dal modo in cui gli uomini una volta associati agiscono gli uni sugli altri, a seconda che siano più o meno numerosi e più o meno vicini. Prodotti della vita in gruppo, soltanto la natura del gruppo può spiegarli. Beninteso, essi non sarebbero possibili se le costituzioni individuali non fossero atte a riceverli: ma queste ne sono soltanto le condizione remota, e non le cause determinanti. […]

La società non trova già fatte nelle coscienze le basi sulle quali riposa: se le fa da sola." (pp. 342-343)


Fatti sociali e sociologia

"La proposizione in base alla quale i fatti sociali devono essere considerati come cose – proposizione che è alla base stessa del nostro metodo – rientra tra quelle che hanno provocato il maggior numero di opposizioni. Si è trovato paradossale e scandaloso il fatto che assimiliamo alle realtà del mondo esterno quelle del mondo sociale."(p. 10)

"Un’altra proposizione è stata discussa non meno vivamente della precedente – quella che presenta i fenomeni sociali come esterni agli individui. Ci viene oggi accordato volentieri che i fatti della vita individuale e quelli della vita collettiva sono in qualche misura eterogenei." (p. 13)

"Rimane da dire ancora qualche parola a proposito della definizione dei fatti sociali che abbiamo dato nel capitolo I di quest’opera: essi consistono in modi di fare e di pensare riconoscibili in base al fatto che sono in grado di esercitare un’influenza coercitiva sulle coscienze individuali." (p. 17)

"[…] i modi collettivi di agire e di pensare hanno al di fuori degli individui una realtà a cui essi si conformano in ogni istante: essi sono cose dotate di esistenza propria. L’individuo li trova completamente costituiti, e non può far sì che non siano o che siano diversamente dal modo in cui sono: egli è quindi obbligato a tener conto di essi, ed è per lui tanto più difficile (non diciamo impossibile) modificarli per il fatto che essi sono dotati, in grado diverso, della supremazia morale e materiale che la società esercita sui suoi membri.

Senza dubbio, l’individuo partecipa alla loro genesi; ma affinché ci sia un fatto sociale, occorre che diversi individui riuniscano la loro azione e che da questa combinazione risulti qualche prodotto nuovo. E dal momento che questa sintesi ha luogo al di fuori di ciascuno di noi (poiché in essa interviene una pluralità di coscienze), essa ha necessariamente l'effetto di fissare e di istituire al di fuori di noi certi modi di agire e certi giudizi che non dipendono dalle volontà individuali prese singolarmente.

Come è stato fatto rilevare, c'è un termine che – a condizione di estenderne il significato corrente – esprime assai bene questo particolare modo di essere: il termine di istituzione. Si può infatti – senza svisare il senso dell’espressione – chiamare istituzione ogni credenza e ogni forma di condotta istituita dalla collettività; la sociologia può venir allora definita come istituita la scienza delle istituzioni, della loro genesi e del loro funzionamento." (pp. 19-20)

"Risulta in tal modo giustificata mediante un nuovo motivo la separazione che abbiamo prima stabilito tra la psicologia propriamente detta (o scienza dell’individuo mentale) e la sociologia.

I fatti sociali non differiscono dai fatti psichici soltanto in qualità: essi hanno un altro substrato, non si sviluppano nello stesso ambiente, non dipendono dalle medesime condizioni. Ciò non vuol dire che non siano essi pure in qualche maniera fatti psichici, dal momento che consistono tutti in modi di pensare o di agire. Ma gli stati della coscienza collettiva hanno una natura differente da quella degli stati della coscienza individuale; essi sono rappresentazioni di un altro tipo.

La mentalità dei gruppi non è quella dei singoli, e ha leggi che sono soltanto sue. Le due scienze sono perciò nettamente distinte nella misura in cui possono esserlo due scienze – quali che siano i rapporti che sussistono per altro verso tra di loro." (p. 14)


Il fatto sociale. Tra esteriorità e costrizione

"Quando assolvo il compito di fratello, di marito o di cittadino, quando soddisfo agli impegni che ho contratto, io adempio doveri che sono definiti - al di fuori di me e dei miei atti - nel diritto e nei costumi. Anche quando essi si accordano con i miei sentimenti, ed io ne sento interiormente la realtà, questa non è perciò meno oggettiva: non li ho fatti io, ma li ho ricevuti mediante l'educazione. Quante volte, d'altronde, ci succede di ignorare i dettagli delle obbligazioni a cui siamo tenuti e dobbiamo, per conoscerli, consultare il Codice ed i suoi interpreti autorizzati! Analogamente, per ciò che riguarda le credenze e le pratiche della vita religiosa, il fedele le ha trovate già fatte alla sua nascita; se esse esistevano prima di lui, è perché esistono al di fuori di lui.

Il sistema di segni del quale mi servo per esprimere il mio pensiero, il sistema monetario che impiego per pagare i miei debiti, gli strumenti di credito che utilizzo nelle mie relazioni commerciali, le pratiche seguite nella mia professione, e così via, funzionano indipendentemente dall'uso che ne faccio. Se prendiamo gli uni dopo gli altri tutti i membri di cui è composta la società, ciò che precede potrà essere ripetuto per ognuno di essi.

Vi sono dunque modi di agire, di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali. Questi tipi di condotta o di pensiero non soltanto sono esterni all'individuo, ma sono anche dotati di un potere imperativo e coercitivo in virtù del quale si impongono a lui, con o senza il suo consenso. Indubbiamente, quando mi conformo ad essi di mia spontanea volontà, questa coercizione non si fa sentire, o si fa sentire poco, perché è inutile. Ma essa rimane tuttavia un carattere intrinseco di tali fatti; lo dimostra il suo affermarsi nel momento stesso in cui tento di resisterle. […]

Ecco dunque un ordine di fatti che presentano caratteri molto specifici: essi consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso. Di conseguenza essi non possono venire confusi né con i fenomeni organici, in quanto consistono di rappresentazioni e di azioni, né con i fenomeni psichici, i quali esistono soltanto nella e mediante la coscienza individuale. Essi costituiscono quindi una nuova specie, e ad essi soltanto deve essere data e riservata la qualifica di sociali. […]

È vero che il termine "costrizione" mediante il quale li definiamo, rischia di impaurire i partigiani zelanti di un individualismo assoluto: professando la credenza che l’individuo è perfettamente autonomo, essi si sentono menomati tutte le volte che si rende l’individuo consapevole del fatto di non dipendere soltanto da se stesso. Ma dal momento che è ormai incontestabile che la maggior parte delle nostre idee e delle nostre tendenze non vengono elaborate da noi, ma ci vengono dal di fuori, esse non possono penetrare in noi se non imponendosi; ed è questo il significato della nostra definizione: Sappiamo d’altronde che la costrizione sociale non esclude necessariamente la personalità individuale." (pp. 25-27)

"Noi arriviamo dunque a rappresentarci in modo preciso il dominio della sociologia: esso comprende soltanto un gruppo determinato di fenomeni. Riconosciamo un fatto sociale in base al potere di coercizione esterna che esercita o che è in grado di esercitare sugli individui; e riconosciamo a sua volta la presenza di questo potere in base all’esistenza di qualche sanzione determinata o alla resistenza che il fatto oppone ad ogni iniziativa individuale che tenda a fargli violenza." (p. 31)

"È necessario quindi considerare i fenomeni sociali in se stessi, distaccati dai soggetti coscienti che se li rappresentano; è necessario studiarli dal di fuori come cose esterne dato che si presentano a noi in questa veste. Se questa esteriorità è soltanto apparente, l’illusione si dissiperà con il progredire della scienza e vedremo l'esterno - per così dire - interiorizzarsi. Ma la soluzione non può essere presupposta; e anche se, alla fine, i fenomeni sociali non avessero tutti i caratteri intrinseci della cosa, bisogna cominciare considerandoli come se li avessero. […]

Lungi dall'essere un prodotto della nostra volontà, essi la determinano dal di fuori; sono in un certo senso gli stampi in cui siamo costretti a versare le nostre azioni. Spesso questa necessità è tale che non possiamo sfuggirle; ma anche quando riusciamo a trionfare di essa, l'opposizione che incontriamo basta ad avvertirci che siamo in presenza di qualcosa che non dipende da noi. Perciò, considerando i fenomeni sociali come cose, non faremo altro che conformarci alla loro natura." (pp. 44-45)


Natura dei fenomeni sociali e loro analisi (concetti di causa e funzione)

"La maggior parte dei sociologi ritiene di aver reso conto dei fenomeni mostrando a che cosa servono e quale funzione assolvono. Si ragiona come se i fenomeni esistessero soltanto in vista di questa funzione e come se la loro unica causa determinante fosse la consapevolezza - chiara o confusa - dei servizi che sono chiamati a rendere. Ecco perché si crede di aver detto tutto quanto è necessario per renderli intelligibili quando si è stabilita la realtà di tali servizi, e mostrato a quale bisogno sociale essi soddisfino.

È questo il motivo per cui Comte riconduce tutta la forza progressiva della specie umana alla tendenza fondamentale "che spinge direttamente l'uomo a migliorare la sua condizione", e Spencer al bisogno di una maggiore felicità. In virtù di questo principio egli spiega la formazione della società in base ai vantaggi che risultano dalla cooperazione, l'istituzione del governo in base all'utilità che deriva dalla regolarizzazione della cooperazione militare, le trasformazioni attraverso cui è passata la famiglia in base al bisogno di conciliare sempre più perfettamente gli interessi dei genitori, dei figli e della società.

Ma questo metodo confonde due questioni molto differenti. Mostrare a che cosa un fatto sia utile non vuol dire spiegare né come esso sia nato, né come esso sia ciò che è, poiché gli impieghi ai quali serve suppongono sì le proprietà specifiche che lo caratterizzano – ma non le creano. Il bisogno che abbiamo delle cose non può far sì che esse siano proprio queste o quelle e, di conseguenza, non può trarle dal nulla e porle in essere: esse devono la loro esistenza a cause di altro genere. La consapevolezza della loro utilità può sì incitarci a mettere in opera tali cause e a trarne gli effetti che esse implicano, ma non a suscitare tali effetti dal nulla. […]

Ciò che mostra bene la dualità di questi due ordini di ricerche è la constatazione che un fatto può esistere senza servire a nulla, sia perché non ha mai collimato con uno scopo vitale, sia perché – dopo essere stato utile – ha perso completamente la sua utilità, continuando ad esistere soltanto per la forza dell’abitudine.

Nella società, infatti, le sopravvivenze sono ancora più numerose che nell’organismo; e in qualche caso è accaduto che una pratica o un’istituzione sociale abbiano mutato funzione senza però cambiare di natura. La regola is pater est quem iustae nuptiae declarant è materialmente restata nel nostro codice ciò che era nel vecchio diritto romano. Ma, mentre allora essa aveva lo scopo di tutelare i diritti di proprietà del padre sui figli nati da moglie legittima, oggi essa protegge piuttosto i diritti dei figli. Il giuramento ha cominciato con l’essere una specie di prova giudiziaria, per diventare semplicemente una forma solenne e imponente di testimonianza. I dogmi religiosi del Cristianesimo non mutano da secoli; ma la loro funzione nelle società moderne non è più quella che era nel Medioevo. In questo modo anche le parole servono a esprimere idee nuove senza che la loro trama muti." (pp. 91-93)

"Quando ci si accinge a spiegare un fenomeno sociale, bisogna dunque ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve. Ci serviamo del termine "funzione" preferendolo ai termini "scopo" o "fine", proprio perché i fenomeni sociali generalmente non esistono in vista dei risultati utili che producono. Ciò che dobbiamo determinare è se sussiste una corrispondenza tra il fatto considerato e i bisogni generali dell’organismo sociale e in che cosa consista questa corrispondenza, senza preoccuparsi di sapere se essa sia stata intenzionale o meno. Tutte le questioni relative all’intenzione sono d’altra parte troppo soggettive per poter essere trattate scientificamente.

Non soltanto i due ordini di problemi devono venire disgiunti, ma in generale conviene affrontare il secondo dopo il primo: quest’ordine corrisponde a quello dei fatti. […]

Anche se dobbiamo procedere soltanto in un secondo tempo alla determinazione della funzione, essa non cessa però di essere necessaria perché la spiegazione del fenomeno sia completa. Infatti, se l’utilità del fatto non è ciò che lo fa essere, occorre generalmente che esso sia utile per poter persistere: se non serve a niente, ciò basta a renderlo nocivo, poiché in questo caso costa senza rendere.

Se la generalità dei fenomeni sociali avesse quindi questo carattere parassitario, il bilancio dell’organismo risulterebbe in passivo e la vita sociale sarebbe impossibile. Di conseguenza, per renderla sufficientemente intelligibile è necessario mostrare come i fenomeni che ne costituiscono la materia cooperino tra loro in modo da porre la società in armonia con se stessa e con l’esterno.

Senza dubbio la formula corrente, che definisce la vita come una corrispondenza tra l’ambiente interno e quello esterno, è approssimativa; tuttavia essa è vera in generale – e, quindi, per spiegare un fatto di ordine vitale, non basta indicare la causa dalla quale dipende, ma occorre anche, nella maggior parte dei casi, trovare la parte che gli spetta nell’attuazione dell’armonia generale." (pp. 95-97)

"Questo potere costrittivo dei fenomeni sociologici attesta che essi esprimono una natura differente dalla nostra, poiché penetrano in noi a viva forza o, per lo meno, gravando su di noi con un peso più o meno grande. Se la vita sociale fosse soltanto un prolungamento dell'essere individuale, non la vedremmo risalire così verso la sua fonte e invaderla impetuosamente.

Dal momento che l'autorità a cui l'individuo si inchina agendo, sentendo o pensando socialmente lo domina a tal punto, ciò vuol dire che essa è un prodotto di forze che lo oltrepassano, e delle quali egli non sa perciò rendere conto. Non può certamente derivare da lui questa spinta esteriore che egli subisce; e quindi essa non può certamente venire spiegata in base a ciò che accade in lui.

È vero che noi non siamo incapaci di sottoporci a costrizioni, in quanto possiamo frenare le nostre tendenze, le nostre abitudini, perfino i nostri istinti, e arrestarne lo sviluppo mediante un atto di inibizione. Ma i movimenti inibitivi non possono venir confusi con quelli che costituiscono la costrizione sociale: il processo dei primi è centrifugo, mentre quello dei secondi è centripeto. Gli uni si elaborano nella coscienza individuale e tendono poi a esteriorizzarsi; gli altri sono dapprima esterni all'individuo, e tendono quindi a modellarlo dal di fuori a loro immagine. L'inibizione è sì - se vogliamo - il mezzo mediante cui la costrizione sociale produce i suoi effetti psichici; ma non è questa costrizione.

Scartato l'individuo, non resta che la società; perciò dobbiamo cercare la spiegazione della vita sociale nella natura della società stessa. Si ritiene infatti che essa, oltrepassando infinitamente l'individuo nel tempo come nello spazio, sia in grado di imporgli i modi di agire e di pensare che la sua autorità ha consacrati. Questa pressione, che è il segno distintivo dei fatti sociali, è quella che tutti esercitano su ognuno. Ma - qualcuno dirà - dal momento che i soli elementi di cui la società è formata sono gli individui, l'origine prima dei fenomeni sociologici non può essere che psicologica. […]

Un tutto non è identico alla somma delle sue parti, ma è qualcosa d'altro, le cui proprietà differiscono da quelle che presentano le parti dalle quali è composto.

[…] la società non è una semplice somma di individui; al contrario, il sistema formato dalla loro associazione rappresenta una realtà specifica dotata di caratteri propri. Indubbiamente nulla di collettivo può prodursi se non sono date le coscienze particolari: ma questa condizione necessaria non è sufficiente. Occorre pure che queste coscienze siano associate e combinate in una certa maniera; da questa combinazione risulta la vita sociale, e di conseguenza è questa combinazione che la spiega.

Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un'individualità psichica di nuovo genere. Perciò bisogna cercare nella natura di questa individualità, e non già in quella delle unità componenti, le cause prossime e determinanti dei fatti che vi si verificano: il gruppo pensa, sente ed agisce in modo del tutto diverso da quello in cui si comporterebbero i suoi membri, se fossero isolati. Se si parte da questi ultimi, non si può quindi comprendere nulla di ciò che accade nel gruppo. […] Una spiegazione puramente psicologica dei fatti sociali lascia quindi sfuggire tutto ciò che essi hanno di specifico – vale a dire di sociale." ( pp. 100-103)

"Giungiamo così alla regola seguente: la causa determinante di un fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali antecedenti, e non già tra gli stati della coscienza individuale. […] Possiamo quindi completare la proposizione dicendo che la funzione di un fatto sociale deve venir sempre cercata nel rapporto in cui si trova con qualche scopo sociale." ( p.106)

"Questa concezione dell’ambiente sociale come fattore determinante dell’evoluzione collettiva è della massima importanza. Se la si rifiuta, infatti, la sociologia è nell’impossibilità di stabilire qualsiasi rapporto di causalità. […] Le cause principali dello sviluppo storico non si troverebbero quindi tra i circumfusa, ma sarebbero tutte nel passato: anch’esse farebbero parte di questo sviluppo, del quale sarebbero semplicemente fasi più antiche. Gli avvenimenti attuali della vita sociale deriverebbero non già dallo stato attuale della società, bensì dagli eventi anteriori, dai precedenti storici, e le spiegazioni sociologiche consisterebbero esclusivamente nel collegare il presente al passato." (pp.101-111)


I concetti di "normale" e "patologico"

"Ogni fenomeno sociologico - come del resto ogni fenomeno biologico - è suscettibile, pur restando essenzialmente se stesso, di assumere forme differenti a seconda dei casi. Queste forme sono di due tipi. Le une sono generali per tutta l'estensione della specie; esse si ritrovano, se non in tutti gli individui, almeno nella maggior parte di essi e, anche se non si ripetono in modo identico in tutti i casi in cui possiamo osservarle, ma variano da un soggetto all'altro, queste variazioni sono però comprese entro limiti assai vicini. Ve ne sono invece altre che risultano eccezionali; non soltanto esse appaiono unicamente in una minoranza, ma anche dove si verificano accade spesso che non durino per tutta la vita dell'individuo. Esse costituiscono un'eccezione sia nel tempo che nello spazio. Noi siamo quindi in presenza di due distinte varietà di fenomeni, che devono venir designati con termini differenti.

Chiameremo normali i fatti che presentano le forme più generali, e denomineremo gli altri morbosi o patologici. Se conveniamo di chiamare tipo medio l'essere schematico che costituiremmo riunendo nel medesimo tutto - in una specie di individualità astratta – i caratteri più frequenti nella specie insieme alle loro forme più frequenti, possiamo dire che il tipo normale si confonde con il tipo medio, e che ogni divario nei confronti di questo campione della salute è un fenomeno morboso. […]

Una volta che si sappia riconoscere le diverse specie sociali […] è sempre possibile trovare qual è la forma più generale che un fenomeno presenta in una specie determinata. Si vede qui che un fatto non può venir qualificato patologico se non in rapporto ad una data specie.

Le condizioni della salute e della malattia non possono venire definite in astratto e in maniera assoluta. La regola è incontestata in biologia; a nessuno è mai passato per la mente che ciò che è normale per un mollusco lo sia anche per un vertebrato. Ogni specie ha la propria salute, perché ha il proprio tipo medio, e la salute delle specie più basse non è minore di quella delle specie più elevate. Lo stesso principio si applica alla sociologia, sebbene in essa venga sovente misconosciuto.

Bisogna rinunciare all’abitudine - ancora troppo diffusa - di giudicare un’istituzione, una pratica, una massima morale, come se fossero buone o cattive in sé e per sé, per tutti i tipi sociali indistintamente. Dal momento che il punto di riferimento nei confronti del quale si può giudicare lo stato di salute o di malattia varia con le specie, esso può variare anche per una sola ed unica specie se questa muta. Perciò, da un punto di vista puramente biologico, ciò che è normale per il selvaggio non lo è sempre per l’uomo civile, e viceversa. C’è soprattutto un ordine di variazioni delle quali dobbiamo tener conto, perché esse si verificano regolarmente in tutte le specie - le variazioni che dipendono dall’età. La salute del vecchio non è la salute dell’adulto, come quest’ultima non è quella del bambino; e lo stesso vale per le società.

Un fatto sociale può quindi venir definito normale per una specie sociale determinata soltanto in relazione ad una fase egualmente determinata del suo sviluppo; di conseguenza, per sapere se esso abbia diritto a questa denominazione non basta osservare in quale forma si presenta nella generalità delle società che appartengono a quella specie, ma occorre considerarle nella fase corrispondente della loro evoluzione." ( pp. 65-66)

"La normalità del fenomeno verrà spiegata soltanto ricollegandolo alle condizioni di esistenza della specie in questione […]. Il sociologo […] dopo aver stabilito mediante l’osservazione che il fatto è generale […] risalirà alle condizioni che hanno determinato tale generalità nel passato, e cercherà quindi se tali condizioni sono ancora date nel presente o se, al contrario, esse sono mutate. Egli avrà il diritto nel primo caso di considerare il fenomeno come normale, e nel secondo di rifiutargli questo carattere." ( pp. 68-69)

"1) un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro evoluzione;

2) possiamo verificare i risultati del metodo precedente mostrando che la generalità del fenomeno dipende dalle condizioni generali della vita collettiva nel tipo sociale considerato;

3) questa verificazione è necessaria quando il fatto si riferisce ad una specie sociale che non abbia ancora compiuto la sua evoluzione integrale. […] Applichiamo dunque le regole precedenti. Il reato non si riscontra soltanto nella maggior parte delle società di questa o quella specie, bensì in tutte le società di tutti i tipi: non c’è società in cui non esista qualche tipo di criminalità. Essa muta di forma, e gli atti così qualificati non sono dappertutto i medesimi; ma dappertutto e in ogni tempo vi sono stati uomini la cui condotta è stata tale da attirare su di essi la repressione penale. […] Senza dubbio può darsi che il reato stesso abbia forme anormali - ed e quello che accade quando, per esempio,attinge un tasso esagerato: un simile eccesso è infatti di natura morbosa. Normale è semplicemente il fatto che esista una criminalità, purché essa attinga e non sorpassi - per ogni tipo sociale - un certo livello che non è forse impossibile fissare conformemente alle regole precedenti." ( pp. 71-73)

"[…] dal momento che non può esserci società laddove gli individui non divergono più o meno dal tipo collettivo, è inevitabile che alcune di queste divergenze presentino un carattere criminale. Infatti ciò che conferisce ad esse tale carattere non è la loro importanza intrinseca, bensì quella attribuita dalla coscienza comune. Perciò, se quest'ultima sarà più forte, e se avrà abbastanza autorità per rendere tali divergenze molto deboli in valore assoluto, essa sarà anche più sensibile e più esigente e - reagendo contro deviazioni di scarsa importanza, con l'energia che di solito sfoggia soltanto nei confronti di dissidi più considerevoli - attribuirà loro la stessa gravità, cioè le bollerà come criminali. Il reato è dunque necessario; esso è vincolato alle condizioni fondamentali di ogni tipo di vita sociale, ma proprio per questo motivo è utile; infatti le condizioni a cui è legato sono indispensabili alla evoluzione normale della morale e del diritto.

Infatti non è possibile, al giorno d'oggi, contestare che non soltanto il diritto e la morale variano da un tipo sociale all'altro, ma anche che essi mutano all'interno di un certo tipo se si modificano le condizioni dell'esistenza collettiva. Ma affinché queste trasformazioni siano possibili, occorre che i sentimenti collettivi che sono alla base della morale non siano refrattari al mutamento, e che abbiano perciò soltanto un'energia moderata: se essi fossero troppo forti, non sarebbero più plastici. […]

Più una struttura è consolidata, tanto maggiore è la resistenza che essa oppone a ogni modificazione […]. Se non ci fossero reati questa condizione non sarebbe soddisfatta, poiché, un'ipotesi del genere presuppone che i sentimenti collettivi abbiano raggiunto un grado di intensità che non ha esempio nella storia. Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono. È necessario che l'autorità di cui gode la coscienza morale non sia eccessiva; altrimenti nessuno oserebbe levare la mano su di essa, che si irrigidirebbe troppo facilmente in una forma immutabile. Affinché essa possa evolvere, occorre che l'originalità individuale abbia la possibilità di emergere; e affinché la personalità dell'idealista che sogna di oltrepassare il proprio secolo possa manifestarsi, occorre che quella del criminale, che è al di sotto del suo tempo, sia possibile.L'una non può esistere senza l'altra. […]

Quante volte […] il reato non è altro che un'anticipazione della morale futura, il primo passo verso ciò che sarà! Secondo il diritto ateniese, Socrate era un criminale e la sua condanna non aveva nulla di men che giusto; eppure il suo reato - vale a dire la sua indipendenza di pensiero - è stato utile non soltanto all'umanità, ma anche alla sua patria. Esso serve infatti a preparare la nuova morale e la nuova fede di cui allora gli Ateniesi avevano bisogno, perché le tradizioni in base a cui erano vissuti fino a quel giorno non erano più in armonia con le loro condizioni di esistenza. Ed il caso di Socrate non è isolato, ma si riproduce periodicamente nella storia.

La libertà di pensiero della quale godiamo attualmente non avrebbe mai potuto venir proclamata se le regole che la vietavano non fossero state violate prima di venir solennemente abrogate." (pp. 75-77)


Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive

"Quando abbiamo detto - in altra sede - che i fatti sociali sono, in un certo senso, indipendenti dagli individui ed esterni alle coscienze individuali, abbiamo semplicemente affermato per il dominio sociale ciò che abbiamo stabilito adesso per il dominio psichico.

Il substrato della società è l'insieme degli individui associati. Il sistema che essi formano unendosi - e che varia secondo la loro disposizione sulla superficie del territorio, secondo la natura ed il numero delle vie di comunicazione - costituisce la base su cui si eleva la vita sociale. Le rappresentazioni che ne costituiscono la trama scaturiscono dalle relazioni tra gli individui così combinati o tra i gruppi secondari che si interpongono tra l'individuo e la società totale.

Se non si vede nulla di straordinario nel fatto che le rappresentazioni individuali, prodotte dalle azioni e dalle reazioni scambiate tra gli elementi nervosi, non siano inerenti a tali elementi, perché sorprendersi se le rappresentazioni collettive, prodotte dalle azioni e dalle reazioni scambiate tra le coscienze elementari di cui è costituita la società, non derivano direttamente da queste ultime e, di conseguenza, vanno al di là di esse?

Il rapporto che unisce il substrato sociale alla vita sociale è del tutto analogo a quello che si deve ammettere tra il substrato fisiologico e la vita psichica degli individui - a meno di non negare ogni psicologia propriamente detta. Le medesime conseguenze debbono quindi prodursi in entrambi i casi.

L'indipendenza e l'esteriorità relativa dei fatti sociali nei confronti degli individui è ancor più immediatamente evidente di quella dei fatti mentali nei confronti delle cellule cerebrali: infatti i primi, almeno i più importanti, recano visibile il marchio della loro origine. Infatti,anche ammesso che sia possibile contestare che tutti i fenomeni sociali senza eccezione si impongono all'individuo dal di fuori, il dubbio non sembra più possibile a proposito delle credenze e delle pratiche religiose, delle regole della morale e degli innumerevoli precetti del diritto, cioè per le manifestazioni più caratteristiche della vita collettiva. Esse sono tutte esplicitamente obbligatorie - e l'obbligazione è appunto la prova che questi modi di agire e di pensare non sono opera dell'individuo, ma emanano da un'autorità morale che l'oltrepassa, immaginata misticamente sotto forma di un dio oppure concepita in maniera più temporale e più scientifica." ( p. 156)