Zygmunt Bauman

Homo consumens

Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi

Erikson, Trento 2007

1.

Z. Bauman è ormai uno dei pochi pensatori che porta avanti la tradizione della grande sociologia critica, che è andata lentamente smarrita perché una parte dei sociologi procedono sulla via dell’adozione sempre più rigida del metodo sperimentale, che consente di ottenere un’enorme quantità di dati da ricerche sostanzialmente poco significative, mentre un’altra parte pone queste competenze a servizio del sistema sotto forma di indagini di mercato, sondaggi per i partiti politici, ecc.

Bauman non è un sommo sociologo, vale a dire non ha prodotto nulla che si possa ritenere memorabile. Ma è un sociologo serio che, nonostante l’età, continua a riflettere sullo stato di cose esistente nel mondo. Con l’età, un certo timbro moralistico, che è stato sempre costitutivo del suo pensiero, sembra essersi accentuato, ma forse questa è la conseguenza di un fondo di amarezza che serpeggia nell’anima di studiosi che, appena qualche decennio fa, non avrebbero previsto l’evoluzione della realtà sociale così come essa si è realizzata: all’insegna di uno stupefacente progresso tecnologico e, al tempo stesso, di una degradazione del tessuto civile, culturale e psicologico.

Se poniamo da parte questa valenza moralistica, che implica, in ultima analisi, un giudizio impietoso sull’umanità che, in difetto di consapevolezza, segue casualmente i tragitti determinati dai processi economici e storici,, il libro, nonostante sia costituito dal testo di alcune conferenze tenute dall’autore di recente in Italia, offre molteplici spunti di riflessione.

Il primo spunto concerne un tema di fondo dell’economia che Bauman affronta sotto il profilo sociologico.

Il capitalismo oscilla teoricamente tra il privilegiare la produzione (l’offerta) o il consumo (la domanda). L’oscillazione è dovuta al fatto che, secondo alcuni economisti, il motore centrale dell’economia è la produzione di beni, di cui il consumo è una conseguenza; secondo altri, è il consumo che, in una certa misura, orienta e determina la produzione. Si tratta di una contesa non solo ideologica, ma anche politica. Fino a qualche tempo fa i teorici dell’offerta, quasi tutti liberisti, insistevano sulla necessità che lo Stato lasciasse mano libera alle imprese, produttrici di reddito, affidando al mercato l’utilizzo di questo sotto forma di consumo. I teorici della domanda, socialisti o progressisti, sostenevano che alimentare da parte dello Stato la domanda attraverso adeguate politiche redistributive era una misura di equità che avrebbe impedito la concentrazione dei capitali e stimolato le imprese a rispondere ai bisogni sociali (scongiurando il pericolo che esse si dedicassero alla speculazione finanziaria).

Dalla crisi del 2001 in poi, le cose sono cambiate. Il liberismo, pur essendo orientato sempre più verso investimenti finanziari speculativi, ha scoperto le virtù della domanda, spingendo l’acceleratore, a partire dagli Stati Uniti, nella direzione di un consumismo sfrenato che, in assenza di una politica ridistributiva, ha innescato la tendenza dei cittadini (eccezion fatta per il 20% di privilegiati) a indebitarsi pur di non rimanere indietro nella soddisfazione dei loro bisogni di consumo (in gran parte alienati).

Bauman legge nell’esplosione dell’obbligo del consumo il tratto più tipico della società contemporanea, che egli definisce “liquida” in quanto caratterizzata da uno “sciame” di consumatori compulsivi che inseguono l’oggetto del desiderio secondo il dettame delle mode volatili, all’insegna dell’usa e getta.

“In una società abitata da consumatori, e in un'epoca di «politiche della vita» che vanno a sostituire la «Politica» di un tempo, quella che vantava la «P» maiuscola, l'autentico «ciclo economico» — l'unico che garantisce davvero il fun-zionamenro dell'economia — è quello del «compralo, goditelo, buttalo via...»…

La vita del consumatore, la vita fatta di consumi, non si riduce all'ac­quisto e al possesso di qualche cosa. Non si riduce nemmeno al fatto che ci liberiamo di ciò che abbiamo acquistato due giorni fa, e che ancora ieri esibivamo con orgoglio. Ciò che la contraddistingue più di ogni altra cosa, semmai, è l'essere in continuo movimento. (p. 23)

“Il principio etico alla base della vita del consumatore (ammesso che si possa tradurre un'etica siffatta in un codice di comportamenti prescritti) dovrebbe essere il seguente: è illegittimo sentirsi soddisfatti. Per una società che vede nella customer satìsfaction la motivazione di fondo e l'obiettivo a cui tendere, l'idea stessa di un consumatore «soddisfatto» non ha nulla né di una motivazione, né di uno scopo: si tratta, semmai, della più terribile delle minacce.

Ciò che vale per la società del consumo in generale, vale anche per i singoli individui che ne fanno parte. Il «consumatore soddisfatto» rappresenterebbe una catastrofe anche per se stesso (o per se stessa). Per dirla con Dan Slater, la cultura del consumatore «associa l'idea di "soddisfazione" a quella di "sta­gnazione economica": i bisogni non devono mai avere fine [...] [essa] prevede che i bisogni di ciascuno di noi siano insaziabili, e in perenne ricerca di nuovi prodotti attraverso cui essere soddisfatti». In altre parole, è come se fossimo sempre sospinti — e/o attratti — in una incessante ricerca di soddisfazione, salvo temere che, una volta «soddisfatti», smetteremmo di cercare...

Con il passare del tempo, non abbiamo nemmeno più bisogno di farci sospingere o attrarre, per sentirci in questo modo (e per agire di conseguenza). Forse che non abbiamo più niente da desiderare? Niente di cui andare in cerca? Niente da sognare, nella speranza di svegliarci scoprendo che è vero? Siamo forse destinati ad accontentarci per sempre di quello che abbiamo (e quindi, quasi per automatismo, di quello che siamo)? Forse che nulla più di nuovo e di straordinario si imporrà alla nostra attenzione, e non ci potremo più liberare di nulla, di quanto compare sulla nostra «ribalta»? Uno scenario di questo tipo — che vorremmo tutti avesse vita breve — ha un nome soltanto: «noia».” (p. 24)

In conseguenza della compulsione al consumo, la ricerca dell’identità diventa ossessiva, poiché essa si riduce al possesso di nuovi oggetti, pena l’identificazione come cittadini di serie B:

“Il rimescolamento delle identità, da cui l'inclinazione a scartare quelle costruite in precedenza e a sperimentarne di sempre nuove, è un effetto diretto del vivere in un tempo «divisionista», in cui ogni singolo momento è gravido di opportunità inesplorate, la maggior parte delle quali — se non sperimentate—sbiadiranno nel nulla. Al tempo stesso, però, il rimescolamen­to delle identità si sta trasformando in un'attività ricercata, e sperimentata, in sé e per sé…

Per una cultura consumista, coloro che si accontentano di ciò di cui credono di aver bisogno, e che si sforzano di realizzare quello e nulla di più, sono dei «consumatori avariati»: quasi dei reietti sociali, rispetto alla società dei consumi. La minaccia di esclusione, o il timore di essere esclusi, incombe anche su quanti sono soddisfatti dell'identità che possiedono, e tendono a riconoscersi nell'immagine che gli «altri significativi» hanno di loro. La cultura consumista, invece, racchiude in sé una inestirpabile pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo tendono sistematica­mente a svalutare le proprie offerte precedenti, per lasciare spazio libero alla domanda pubblica di nuovi beni e prodotti. Sono mercati che alimentano l'insoddisfazione dei consumatori per i prodotti che già utilizzano per soddisfare i propri bisogni, e incentivano, allo stesso modo, un sistematico scontento per le identità preesistenti, e quindi per l'insieme di bisogni in funzione dei quali si definiscono tali identità. A ben vedere, i cambiamenti di identità, l'abbandono del passato, la ricerca di sempre nuovi inizi e gli forzi di «rinascere» sono altrettanti doveri, travestiti da privilegi.” (p. 28-29)

In breve, secondo Bauman, il sistema si è specializzato nella “produzione” di consumatori perennemente inquieti e insoddisfatti. L’ossessione del consumo, diventando psicologicamente primaria, ha prodotto due conseguenze serie. La prima investe la sfera dei rapporti privati, che si vanno piegando essi stessi alla logica del consumo, vale a dire ad una sorta di mercificazione sentimentale:

“Anche la «logica sentimentale» tende ad assumere una sempre più evidente configurazione consumista: al giorno d'oggi, essa risponde allo scopo di ridurre ogni sorta di rischio, di ricondurre l'«oggetto ricercato» a categorie nitide e precise, di definire nel modo più preciso possibile le caratteristiche che potrebbero rendere una certa persona «adeguata», in quanto partner. La convinzione implicita è che sia possibile «comporre a tavolino» l'oggetto del proprio amore, secondo una serie predefinita di attributi fisici e sociali, nonché di tratti del carattere, ben definiti e misurabili come tali. Stando ai precetti i questo «marketing dell'amore», se il potenziale «oggetto d'amore» ottenesse un punteggio basso su una (o più di queste scale, il potenziale «acquirente» farebbe bene a rinunciare all'operazione, né più né meno di come farebbe di fronte a qualsiasi altro bene di consumo. Se l'inadeguatezza, invece, dovesse emergere dopo l'«acquisto», l'oggetto d'amore mancato — al pari di ogni altra merce — dovrebbe essere scartato e debitamente sostituito.” (p. 31-32)

La seconda conseguenza è una generalizzata “apatia” politica, un calo dell’interesse dei cittadini per la partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Alla democrazia, intesa appunto come partecipazione, si va sostituendo il “populismo di mercato”:

“Il rmerato cosi si dice, trasmette più fedelmente l'essenza della democrazia, cioè il diritto di scegliere. In quanto manifestazione della libertà di scelta, «possiamo confidare nel fatto che il mercato potrà soddisfare le richieste dei cittadini. Di conseguenza, ogni interferenza nelle leggi di mercato sarebbe un attacco alla democrazia e un passo verso la tirannia. I mercati sono «naturalmente» democratici e per funzionare al meglio non devono essere intralciati da interferenze politiche e da regolamentazioni di provenienza esterna (cioè politica). In contro tendenza rispetto al principio che ha gui­dato l'epoca moderna, cioè l'espansione della partecipazione politica, il «populismo di mercato» proclama la politica il nemico numero uno della democrazia e considera invece il mercato come lo strumento democratico più affidabile (se non addirittura l'unico possibile).” (p. 39)

Il venire meno della partecipazione politica e i sostanziale disinteresse per la vita pubblica trasforma la comunità nazionale, la società e i gruppi che la costituiscono in uno “sciame”:

“Nella società dei consumi della modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo con i suoi leader, le gerarchie e l'ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti questi meccanismi e accorgimenti. Gli sciami non hanno bisogno di imparare l'arte della sopravvivenza. Essi si radunano e si disperdono a seconda dell'occasione, spinti da cause effimere e attratti da obiettivi mutevoli. Il potere di seduzione di obiettivi mutevoli è generalmente sufficiente a coordinare i loro movimenti rendendo superfluo ogni ordine dall'alto. In verità, gli sciami non hanno un «alto», ma solo una direzione di fuga che in se stessa determina la posizione dei leader e dei seguaci per la durata di quella traiettoria, o almeno per una sua parte…

Le società di consumatori tendono verso la disgregazione dei gruppi a vantaggio della formazione di sciami perché il consumo è un'attività solitaria (è perfino l'archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia. Essa non stimola la formazione di legami durevoli, ma solo di legami che durano il tempo dell'atto di consumo. Questi legami possono mantenere unito lo sciame per la durata del volo (cioè, fino al prossimo cambio di obiettivo), ma rimangono del tutto occasionali e superficiali; non hanno alcuna influenza sui movimenti futuri dello sciame e non proiettano alcuna luce sul passato dei suoi componenti. (p. 48-49)

Il paradosso dei paradossi è che la promessa di felicità, intrinseca al miraggio consumistico, produce sociologicamente effetti contrari:

“La società dei consumatori aspira alla gratificazione dei desideri più di qualsiasi altro tipo di società del passato, ma tale gratificazione deve rimanere una promessa. Il desiderio deve rimanere insoddisfatto perché finché il cliente non è soddisfatto sentirà il bisogno di acquistare qualcosa di nuovo e diverso. I «lavoratori tradizionali» del passato, che erano facilmente soddisfatti e non desideravano lavorare più di quel che era necessario per mantenere il loro normale stile di vita, erano una minaccia per la nascente società dei consumi. Allo stesso modo, i «consumatori tradizionali» di oggi, ove fossero immuni dalla seduzione del consumo, sarebbero la fine del mercato, dell'industria I e della società dei consumi. Una visione più sobria e realistica della possi­bilità di soddisfazione dei desideri, unita alla disponibilità sul mercato dei beni veramente necessari a prezzo ragionevole, sono i nemici della società consumistica. Sono la non-soddisfazione dei desideri e la fede nella infinita perfettibilità delle merci a guidare la società dei consumi.” (p. 48-49)

2.

Se queste sono le conseguenza a carico della popolazione media, vale a dire dei cittadini che, pure indebitandosi, tentano di stare dietro all’offerta di mercato, c’è un’altra fascia della popolazione – i poveri – che, per motivi oggettivi, non può partecipare, se non in misura ridottissima, alla vita liquida dello sciame dei consumatori.

L’attenzione di Bauman per questa componente è estremamente viva e notevolmente originale rispetto alle consuete analisi sociologiche della povertà contemporanea.

Dato, infatti, che “la società contemporanea, a differenza delle precedenti, si rivolge ai suoi membri in quanto consumatori e solo secondariamente in quanto produttori, come è stato in passato, per essere riconosciuti pienamente come membri attivi della società noi dobbiamo rispondere positivamente alle tentazioni del mercato, cioè dobbiamo continuare a consumare per mantenere attivo il mercato e scongiurare la minaccia della recessione. È ovvio che non si può chiedere questo ai poveri, che per via dei loro scarsi redditi e mancanza di prospettive non sono in grado di sostenere un tale impegno. Perciò quel che definisce la povertà, cioè l'anormalità, al giorno d'oggi non è l'occupazione, ma la capacità di consumare. I poveri di oggi sono colpevoli di non contribuire al consumo di beni, non alla loro produzione.

I poveri di oggi sono prima di tutto dei non-consumatori o dei con­sumatori inadeguati e «difettosi»: la loro colpa è quella di non partecipare pienamente alle attività di consumo di beni e servizi…

I poveri di oggi sono prima di tutto dei non-consumatori o dei con­sumatori inadeguati e «difettosi»: la loro colpa è quella di non partecipare pienamente alle attività di consumo di beni e servizi. A differenza dei loro predecessori della società dei produttori/soldati (quell'esercito di prestatori d'opera che doveva essere mantenuto in salute e pronto a entrare in servizio), nella società dei consumatori i poveri sono un peso morto e una presenza totalmente improduttiva.

Così, per la prima volta nella storia i poveri sono diventati un puro e semplice onere sociale, senza alcun merito che possa compensare i loro vizi. Non avendo nulla da offrire, non possono ripagare i servizi che ottengono dalla società. Sono, quindi, un cattivo investimento, una pura perdita, un buco nero che ingurgita qualsiasi cosa gli si avvicini senza restituire nulla, se non fastidi. I consumatori, cioè gli onesti membri della società, non chiedono né si aspettano nulla da loro. I poveri sono del tutto inutili e nessuno (o almeno nessuno che conti e che venga ascoltato) ha bisogno di loro: tolleranza zero.” (p. 56-57)

Nonostante questa inutilità di fatto, i poveri però sono simbolicamente indispensabili al sistema: la loro esclusione, infatti, funziona come monito e stimolo per tutti gli altri di fare bene il loro dovere di consumatori:

“La neutralizzazione ed espulsione dei giocatori inetti o falliti è l'indispensabile alternativa alla loro integrazione nella società dei consumi attraverso la strategia della seduzione all'acquisto. I giocatori impotenti e indolenti devono essere tenuti lontani dal gioco. Essi sono gli scarti pro­dotti dal gioco, rifiuti che il gioco non smette mai di risputare fuori. Essi sono il prezzo da pagare perché il gioco possa andare avanti. È importante che si produca abbondante materiale di scarto perché i giocatori abbiano l'occasione di vedere che cosa succede agli esclusi e siano dunque pronti a sopportare le difficoltà e la durezza del gioco.

La miseria degli esclusi, che un tempo veniva considerata un'ingiu­stizia collettiva da affrontare collettivamente, è ora vista come il risultato di un crimine individuale. Quel che un tempo erano le pericolose classi sociali, oggi sono ridefinite come aggregati di individui pericolosi. Oggi le prigioni stanno prendendo il posto degli istituti del welfare ormai in corso di smantellamento, e lo faranno sempre di più, vista la continua erosione di tali risorse.

Per rendere le previsioni ancora più fosche, osserviamo che la crescente incidenza dei comportamenti considerati criminali non è un ostacolo per la società consumistica, anzi, ne è un elemento e perfino un prerequisito: i consumatori difettosi, quelli che rimangono fuori dal gioco perché le loro risorse non corrispondono ai loro desideri e che quindi non possono stare alle regole ufficiali del gioco, sono l'incarnazione dei demoni rimossi dalla vita nella società dei consumi. La loro ghettizzazione e criminalizzazione, la severità con cui sono puniti e la generale crudeltà del loro destino sono un modo di esorcizzare i demoni e di bruciarne le effigi.” (p. 59-60)

“Tutti noi, in una qualche misura, sperimentiamo il mondo che abitiamo come carico di rischi, incertezza e insicurezza. La posizione sociale, il lavoro, il valore di mercato delle nostre competenze, i rapporti, le relazioni di vicinato e di amicizia di cui disponiamo sono tutti instabili e vulnerabili: rifugi poco sicuri, per ancorare la nostra fiducia. Né offre maggiore tranquillità la vita, fatta di scelte continue, del consumatore: che dire dell'ansia delle scelte che ogni giorno ci tocca fare; degli oggetti del desiderio che perdono subito attrattiva, delle fonti di orgoglio che si trasfor­mano — dall'oggi al domani — in motivo di stigma e vergogna; dell'iden­tità che tutti cerchiamo in modo disperato, e che ha l'orribile abitudine di andare fuori moda, «nel dimenticatoio», ancora prima che la raggiungiamo? In realtà, la vita è piena di ansia e paure, e ben pochi direbbero che non ne cambierebbero nulla, se potessero. La nostra Risikogesellschaft ha davanti a sé un compito terribile, quando si tratta di riconciliare i suoi membri con le insidie e i timori della vita di ogni giorno. E questo il compito che i poveri, un tempo rappresentati come sottoclasse di esclusi, rendono un po' più agevole. Se il loro genere di vita rappresenta l'unica alternativa al «rimanere dentro il gioco», allora i rischi e gli orrori del mondo flessibile e dell'incertezza di tutta la vita «normale» appaiono un po' meno repellenti e insostenibili: ossia, sono meglio di ogni altra alternativa concepibile. Si potrebbe quasi dire, con un certo cinismo, che la pace della nostra mente, il riconciliarsi con la vita e qualsiasi gioia che da questo può derivare, tutto ciò dipende - a livello psicologico - dall'abiezione e dalla miseria dei poveri e degli esclusi.

E cosi, rendere il destino dei poveri ancora peggiore di quanto già non sia fa apparire migliori le sorti di tutti gli altri.” (p.91)

La contrapposizione tra il mondo degli inseriti e quello degli esclusi che, per ovvi motivi, non è possibile incarcerare tutti, si realizza soprattutto a livello di strutture urbane e comincia a dare luogo anche in Europa, sul modello attivo negli Stati Uniti, a forme di separazione spaziale e abitativa, di segregazione e di ghettizzazione all’insegna di quella che Bauman definisce la mixofobia. Un fenomeno destinato inesorabilmente a crescere per effetto dei processi di globalizzazione e degli squilibri sociali che essi producono:

“Non è difficile prevedere che con l'avanzare della globalizzazione, e l'intensificarsi delle varietà lingui­stiche e culturali, le reazioni mixofobiche derivanti dall'estraneità e ostilità dell'ambiente causeranno un aumento delle tendenze segregazioniste.” (p. 66)

3.

L’analisi di Bauman giunge ad una conclusione che non è eccessivo definire disperata. A tutti i livelli i legami sociali, che dovrebbero essere sottesi dal riconoscimento dell’altro come simile, si stanno inasprendo. La società contemporanea sembra dominata dal risentimento: dei poveri contro i ricchi, dei cittadini medi tra loro stessi per accrescere competitivamente il potere personale, di pressoché tutti contro lo straniero e il profugo. A tutti i livelli della scala sociale sembra prevalere lo stesso principio,

“La morale del gioco della sopravvivenza è sempre la stessa: la compassione e la fiducia … sono tendenze suicidarle. Se non diventi più forte e più spregiudicato degli altri, sarai fatto fuori senza rimorsi. Siamo ritornati nel mondo di Darwin: solo i più forti sopravvivono, o meglio, il fatto che sopravvivano è prova che siano i più forti.” (p. 75)

Quale speranza può esserci in futuro per questo mondo desolato?

La risposta di Bauman è affidata ad una densa appendice che verte sul Welfare assediato in nome del fatto che la sua originaria istituzione mirata a tutelare in qualche misura i deboli, i bisognosi e i meno abbienti è messa a dura prova dal fatto che tale condizione sociale, messa a loro carico alla stregua di una colpa, viene ritenuta una zavorra che non giustifica il sacrificio di coloro che sono socialmente inseriti, producono e consumano. Ancor peggio, questo sacrificio è vissuto come un’ingiustizia da parte di coloro che sono chiamati ad assolverlo:

“I timori che perseguitano, quotidianamente, la maggior parte di noi scaturiscono dall'insufficiente certezza del nostro benessere; loro i poveri veri sono, per contro, anche troppo sicuri nella loro miseria. Se noi soffriamo, ciò dipende dalla flessibilità e dall'instabilità della nostra condizione di vita; tuttavia, l'instabilità è l'ultima cosa di cui persone condannate a una vita di miseria si lamenterebbero. Loro soffrono a causa delle modeste opportunità di cui godono, nel mondo che si vanta di offrire a chiunque altro opportunità senza precedenti; noi, nondimeno, tendiamo a leggere nella loro mancanza di opportunità una libertà dai rischi che ci tormentano, e nel fondo del nostro cuore arriviamo persino a provare invidia per il loro destino, che non sembrerebbe poi così sgradevole. Il loro reddito sarà anche esiguo, ma per lo meno è garantito; gli assegni sociali, comunque vada, arrivano regolarmente, sicché «costoro» non hanno bisogno di dare prova di se stessi ogni giorno, per essere sicuri dell'indomani. Senza fare assolutamente nulla, riescono a ottenere quella condizione di certezza per cui noi continuiamo a faticare, senza peraltro raggiungerla. Ecco il motivo per cui gli schemi «dal welfare al workfare» possono contare sul sostegno, dichiarato o meno, della maggio­ranza degli «occupati con flessibilità»: che si lascino travolgere anche loro, come tutti noi, dalle onde mutevoli del mercato del lavoro. Che si facciano inseguire anche loro dall'incertezza che ci perseguita tutti.

Perciò, la caduta in disgrazia dello stato sociale è «sovradeterminata». Chi è ricco e potente lo considera un cattivo investimento e uno spreco di denaro, chi non lo è non prova alcuna solidarietà per gli «utenti del welfare», né intravede più nella loro situazione un riflesso dei propri problemi. Il welfare state sta sulla difensiva. Giorno dopo giorno, deve continuare a scusarsi e a rendere conto della propria raison d'ètre. Nel fare questo, ben difficilmente potrà utilizzare il linguaggio che va per la maggiore ai nostri tempi, quello dell'interesse e del profitto. Si può persino affermare che non esista alcun argomento razionale che ne giustifichi la sopravvivenza. La tutela del benessere «dell'esercito di riserva del lavoro» poteva, a suo tempo, essere sostenuta come frutto di una decisione razionale, anzi, come un imperativo razionale. Oggi, mantenere l'underclass viva e vegeta è un'opzione che sfida ogni razionalità e non appare funzionale ad alcuno scopo.” (p. 92)

In breve: “Dopo un secolo di felice coabitazione tra etica e razionalità strumentale, il secondo elemento della coppia si è autoescluso dal matrimonio e l'etica è rimasta, da sola, a farsi carico di tutto. E quando rimane sola, l'etica è più vulnerabile. Non le è facile restare in piedi per conto proprio.” (p. 93)

Nonostante questo divorzio, la restaurazione dell’etica rimane l’unica alternativa allo stato presente nella direzione di una riumanizzazione del mondo:

“Normalmente si misura la tenuta di un ponte a partire dalla solidità del suo pilastro più piccolo. La qualità umana di una società dovrebbe essere misurata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri. E poiché l'essenza di ogni morale è data dalla responsabilità nei confronti del­l'umanità degli altri, questa è anche l'unità di misura degli standard morali di una società.” (p.93)

“Il futuro del welfare state, risultato tra i più grandi della storia del-1 umanità e conquista per eccellenza della società civilizzata, sta al centro di una sorta di crociata morale. Una crociata che è certo possibile venga persa, come, del resto, tutte le battaglie. Senza di essa, tuttavia, non c'è alcuno sforzo operativo che abbia possibilità di successo. Certo non ci aiuteranno le argomentazioni razionali: a essere sinceri, non esiste alcuna «buona ragione» per la quale dovremmo essere responsabili dei nostri fratelli, prenderci cura di loro, essere morali; né, in una società orientata al perseguimento dell'uti­le, i poveri e gli indolenti (che sono «non funzionali») possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. Ammettiamolo: non c'è nulla di «ragionevole» nell'assunzione di responsabilità, nella care, nell'essere morali. L'etica ha solo se stessa a proprio sostegno: è meglio prendersi cura di qual­cuno che lavarsene le mani, essere solidali con l'infelicità dell'altro piuttosto che esservi indifferenti, e, in ultima istanza, è meglio essere morali, anche se questo non rende più ricchi gli individui, né le imprese. È la decisione (dalla storia lunga e gloriosa) di assumersi le proprie responsabilità, la decisione di misurare la qualità di una società in relazione alla qualità dei suoi standard morali, ciò che oggi è più importante che mai sostenere.” (p. 96-97)

4.

Non c’è dubbio che gran parte dei fenomeni di trasformazione e di degradazione sociale descritti da Bauman sono imprescindibili dal fatto che il dominio della “razionalità” economica ha sabotato, invalidato e squalificato le motivazioni etiche che, per un lungo periodo (dalla nascita nel secondo Ottocento dello Stato sociale), hanno opposto resistenza all’ideologia del darwinismo sociale e hanno dato luogo a forme di assistenza e a pratiche di solidarietà pubblica atte ad impedire che una quota della popolazione scivolasse al di sotto di una soglia minima di sussistenza e di vita dignitosa.

Il problema è che il divorzio non è avvenuto per caso. Il Welfare State non è nato e non si è mantenuto sulla base di motivazioni etiche, che esso ha riconosciuto sotto forma di diritti delle persone in quanto cittadini, bensì sulla base di motivazioni politiche. Esso è risultato funzionale ad arginare le tensioni sociali e ad impedire che confluissero massicciamente nei partiti di sinistra.

E’ stata insomma la minaccia, se non della rivoluzione, dell’inasprirsi dei conflitti di classe tra ceti abbienti e ceti meno abbienti (operai, disoccupati, sottoccupati, ecc.) a rendere necessario l’ammortizzamento della logica intrinseca al capitalismo.

La globalizzazione si può ritenere una fase di sviluppo del sistema che ha delle componenti endogene, che muove cioè dall’uso intensivo di tecnologie e di strumenti finanziari che hanno consentito il superamento delle economie nazionali, ma, di sicuro, esso non si sarebbe realizzato nella forma in cui si è realizzato se la caduta del muro di Berlino e, in conseguenza di esso, l’arretramento delle forze di sinistra in Occidente non avessero fatto venire meno il deterrente della paura di aspre tensioni sociali generate da crescenti squilibri economici.

Tale arretramento ha praticamente disattivato il pericolo del “comunismo”, vale a dire di un movimento organizzato e orientato verso il superamento del capitalismo, ma ha attivato quello dell’anarchia, cioè di un attacco alla proprietà privata e all’ordine costituito portato in maniera disorganica dai poveri, dagli emarginati, dagli immigrati, e, su scala internazionale, dal terrorismo ecc.

Il fantasma che si profila all’orizzonte dell’Occidente è, in pratica, quello dei nuovi “barbari”, ovvero di masse crescenti di disperati che potrebbero assediarlo. Si tratta di un fantasma del tutto realistico se è vera la previsione, operata da esperti, di un movimento immigratorio che, per sfuggire alla desertificazione delle terre e alla morte certa, potrebbe nei prossimi due decenni coinvolgere non meno di trenta milioni di persone.

Se questo è vero, la proposta etica di Bauman è destinata a lasciare il tempo che trova se essa non si aggancia alla prospettiva politica di un progetto che affronti il problema alla radice, andando al di là dell’esigenza, di cui si fanno carico tutti i partiti, dell’ordine e della sicurezza dei cittadini occidentali. Come nessun governo può assicurare la protezione dalle catastrofi naturali che, attraverso le modificazioni climatiche, il modello di sviluppo capitalistico sta determinando, così nessun governo potrà arginare lo tsunami di masse di disperati animate da una sia pure inconsapevole volontà vendicativa nei confronti delle nazioni ricche e da una rivendicazione anarchica di diritti violati.

La prospettiva politica non serve solo a togliere alla proposta di Bauman ciò che essa ha di astratto nella misura in cui si sovrappone ad una realtà sociale che sembra allontanarsi sempre più da qualsivoglia preoccupazione di tipo morale. Essa ha un significato più profondo poiché rappresenta la nemesi di una civiltà che, nata dall’affermazione rivoluzionaria dei diritti umani estesi a tutti i membri appartenenti alla specie umana, non sembra in grado di rispettarli e di assicurarne la realizzazione.

L’esigenza morale è secondaria rispetto al fatto che tali diritti, almeno per quanto concerne la parei dignità, la giustizia e la libertà, sono ormai sia pure confusamente radicati e rivendicati da tutti gli esseri umani. Ciò dovrebbe indurre a capire che quell’esigenza, prodotta dallo sviluppo storico, ha e non può non avere un fondamento psicobiologico.

La necessità dunque di un progetto politico e culturale che, senza trascurare le identità nazionali, le tradizioni locali, i costumi e le leggi proprie di una determinata società abbia un respiro internazionale e universale appare assoluta. Ciò che sta avvenendo nel mondo attesta che il liberalesimo, i cui valori sono giuridicamente universali, sta andando incontro ad un fallimento in conseguenza del suo abbraccio mortale con il capitalismo. Quale altro progetto può farsi carico di quella necessità se non il Socialismo, posto che esso si faccia carico di quei valori ponendosi, però, in opposizione al capitalismo?

Bauman è disperato perché non crede più ad un progetto del genere, anche se la sua collocazione politica progressista è fuor di dubbio. Ha anche ragione nel sostenere che un cambiamento profondo della situazione attuale non può prescindere da valori etici. Il Socialismo implica tali valori, ma ritiene che la loro realizzazione possa avvenire solo sulla base di una necessità storica. E’ tale necessità che si sta profilando nel mondo, con una carica di drammaticità rispetto alla quale le tensioni sociali che hanno avviato il movimento socialista, riconducibili alle miserevoli condizioni del proletariato, sembrano un nonnulla.