Alexis de Tocqueville

La democrazia in America (1)
Città Aperta, Troina (En) 2005

1.

Vate sacro della democrazia liberale, invocato ritualmente da tutti coloro che vantano la democrazia e i diritti naturali dell'individuo su cui si fonda e dai quali è imprescindibile (uguaglianza, libertà, proprietà), Alexis de Tocqueville è un pensatore - politologo, sociologo, antropologo - estremamente complesso.

Data l'imponente bibliografia esistente sullo studioso normanno, ci si può chiedere a quale fine analizzare la sua opera nella cornice di un sito panantropologico. Non basterebbe accludere ad una breve nota biografica - casomai psicobiografica - l'elenco dei più importanti saggi critici che lo riguardano?

Il problema è che Tocqueville, negli ultimi anni, viene continuamente citato dai democratici liberali (molto più ormai di Weber) come l'apostolo della democrazia e della libertà individuale, vale a dire come l'autore che, quasi nella stessa epoca di Marx, ha analizzato il cambiamento di civiltà che stava avvenendo - il passaggio dall'aristocrazia feudale allo Stato di diritto e all'egemonia borghese - con una finezza, una profondità e una capacità previsionale di gran lunga maggiore rispetto al filosofo di Treviri. Tocqueville vs Marx, liberalesimo vs socialismo, è, più spesso implicitamente che esplicitamente, uno dei temi portanti del dibattito degli ultimi anni sul sistema politico che il mondo nella sua totalità, alla fine, dovrà scegliere e adottare. Data la presunta morte di Marx e del marxismo, l'opposizione è puramente retorica. Si dà per scontato il trionfo definitivo della democrazia e del liberalesimo sul socialismo.

In questa ottica, il riferimento a Tocqueville è assolutamente pertinente, dato che, nei suoi scritti (nelle Lettere in particolare) l'avversione nei confronti di qualunque forma di socialismo è assolutamente esplicita e inequivocabile.

Non c'è da rimanere sopresi per la banalità dell'esegesi tocquevilliana. L'esultanza per la morte del comunismo sovietico è stata così intensa da essersi riverberata sinistramente sul pensatore che ne sarebbe stato l'ispiratore. Purtroppo, ancora oggi pochi hanno letto integralmente le opere di Marx (almeno quelle pubblicate) e, tra di essi, alcuni non lo hanno neppure compreso.

Stando al numero di citazioni che lo riguardano, Tocqueville, invece, sarebbe una bibbia da comodino per gran parte dei democratici liberali (di antica e nuova conversione). Dall'uso che fanno del suo pensiero, però, è lecito dubitare di questo. Se lo hanno letto, hanno trascurato qualcosa di molto importante.

Anticipo dove andrà a parare l'analisi de La democrazia in America.

Tocqueville ha scritto il suo primo volume a seguito di un viaggio nel corso del quale, confrontando il sistema politico americano con quello europeo (intorno al 1830), egli ha rilevato entusiasticamente i pregi e i vantaggi del primo sul secondo. La sua analisi concerne dunque una democrazia reale, nascente, ispirata rigorosamente ai principi dell'uguaglianza e della libertà, ed organizzata, sulla base di variabili altrove irriproducibili, in forma tale da esaltare l'intraprendenza individuale e, al tempo stesso, da tutelare l'equilibrio della comunità e del bene comune. Avendo uno spirito critico, Tocqueville coglie anche i limiti, i difetti e i pericoli potenziali della democrazia americana. E' fuor di dubbio però che il suo giudizio sulla nuova società creatasi da poco a seguito dell'affrancamento dalla dipendenza rispetto all'Inghilterra è sostanzialmente positivo.

Dopo aver pubblicato il libro, che riscuote un enorme successo, Tocqueville riprende le sue riflessioni. Anche se, nella prima parte del secondo volume, il riferimento all'America è costante, è evidente che il tema del nuovo saggio è la democrazia ideale, vale a dire le conseguenze dell'uguaglianza e della libertà sull'organizzazione politica e sociale, sulle abitudini di vita e sui costumi dei cittadini democratici, sulla mentalità e sui valori a cui essi fanno riferimento, ecc. Sembra, dunque, che egli parli della democrazia, ma, in realtà, l'analisi verte sulla previsione a lungo termine della civiltà borghese e sui suoi effetti sulla psicologia individuale e collettiva.

Tale previsione - questo è il paradosso che sfugge ai suoi sostenitori - è, nel complesso, più inquietante di quella fornita da Marx, perché essa fa riferimento ad un processo difficilmente scongiurabile di immiserimento non economico, ma antropologico, culturale e psicologico.

Marx prevede che l'alienazione prodotta dal sistema capitalistico, giunta ad un certo livello, non possa non attivare un moto di ribellione rivoluzionaria nella massa (all'epoca assolutamente maggioritaria) dei proletari.

Tocqueville, invece, dà per scontato che quel sistema, la cui iniquità e disumanità gli riesce del tutto chiara nel corso del viaggio in Inghilterra, è destinato a cambiare in virtù di un miglioramento progressivo delle condizioni di vita degli operai. Prevede, insomma, con maggiore acume rispetto a Marx, che gli operai sono destinati all'imborghesimento o meglio che l'evoluzione della democrazia liberale quasi inesorabilmente finirà con il produrre una mentalità maggioritaria ed egemone piccolo-borghese.

Questa previsione, però, è inquietante, perché, nonostante i correttivi attraverso i quali Tocqueville ritiene che tale pericolo potrebbe essere scongiurato, essa fa riferimento ad un modo di essere appiattito, omologato, mediocre, mutilato nelle sue possibilità di sviluppo: in breve, all'uomo ad una dimensione descritto dopo più di un secolo da Marcuse e all'individuo ěnormale" strutturalmente deficitario nel carattere di Fromm.

Marx ha dunque previsto la mondializzazione del sistema capitalistico con i suoi effetti progressivi di squilibrio economico. Tocqueville, viceversa, ha previsto la produzione in serie del cittadino medio piccolo-borghese come effetto della democrazia: del cittadino, dunque, il cui limitato orizzonte culturale e il cui sostanziale disinteresse nei confronti di tutto ciò che va al di là del privato escludono un processo di comprensione della realtà storica e una qualunque inquietudine che ecceda la sua sicurezza e la tutela dei suoi beni.

Posto che la diffusione di questo tipo antropologico (che oggi si definisce eufemisticamente moderato) implica che esso giunge a rappresentare la maggioranza della popolazione e dunque ad instaurare l'altro pericolo identificato profeticamente da Tocqueville - la tirannia della maggioranza -, la previsione del pensatore normanno anticipa la crisi della democrazia. Se consideriamo, infine, che il piccolo-borghese dall'orizzonte angusto vive, oggi, in un mondo che si va globalizzando e che egli non ha né gli strumenti né la disponibilità a comprendere nella sua complessità, riesce del tutto evidente il motivo per cui, di fronte alle molteplici minacce legate alla globalizzazione, la sua reazione non può essere che conservatrice, caratterizzata cioè da un progressivo spostamento verso la destra foriero di inquietanti esiti reazionari.

Ricondursi a Tocqueville, dunque, per elogiare le magnifiche sorti e progressive della democrazia sembra, oggi, piuttosto superficiale. Allo stesso modo si può giudicare anche l'affanno con cui tutte le forze politiche si prefiggono l'intento di catturare il consenso del cittadino medio in nome del fatto che, essendo maggioritario, incarnerebbe quanti altri mai la volontà e lo spirito della democrazia. La mentalità piccolo borghese è il piedistallo storico-sociale della democrazia liberale, ma è un piedistallo in via di erosione che rischia di compromettere la stabilità dell'edificio se non addirittura di indurne la destrutturazione.

La complessità del pensiero di Tocqueville, che, come accade a tutti i grandi sociologi, arricchisce le sue analisi di considerazioni filosofiche, culturali, psicologiche, ecc., richiede un'attenta valutazione.

In questo articolo analizzo il primo volume de La democrazia in America; nel successivo viene analizzato il secondo; l'ultimo articolo è un bilancio critico dell'opera tocquevilliana.

2.

L'avvio del primo capitolo fornisce una delle chiavi, forse la più importante, dell'opera. Vigile, attento e acuto indagatore della realtà, a partire dalla quale intreccia le sue riflessioni dense di filosofia e - diremmo oggi - di antropologia culturale, Tocqueville coglie al volo il valore supremo del sistema politico che si va instaurando nel Nuovo Mondo:

"Di tutte le cose nuove che hanno attirato la mia attenzione durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, nessuna mi ha impressionato più profondamente dell'uguaglianza delle condizioni. Scoprii, infatti, senza difficoltà, l'influenza prodigiosa che essa esercita sul cammino della società: imprime allo spirito pubblico una certa direzione e un andamento singolare alle leggi; conferisce ai governanti nuove massime, e abitudini particolari ai governati.

Ben presto compresi che questo stesso fatto estende la sua influenza assai al di là dei costumi politici e delle leggi e che esso non ha certo meno potere sulla società civile di quanto ne abbia sul governo: crea opinioni, fa nascere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto quanto non sia suo diretto prodotto.

Così, man mano che studiavo la società americana, vedevo sempre più, nell'uguaglianza delle condizioni, l'elemento generatore da cui ogni fatto particolare sembrava derivare e lo ritrovavo incessantemente davanti a me come un punto focale verso cui convergevano tutte le mie osservazioni.

Riportai allora il mio pensiero al nostro emisfero e mi sembrò di distinguervi qualcosa di analogo allo spettacolo che il Nuovo Mondo mi offriva. Vidi l'uguaglianza delle condizioni che, pur senza aver raggiunto come negli Stati Uniti i suoi limiti estremi, vi si avvicinava ogni giorno di più." (p. 3)

Dell'uguaglianza, che implica la pari dignità degli esseri umani, il diritto ad avere le stesse opportunità di sviluppo, l'assoggettamento comune alle leggi e alla loro amministrazione, Tocqueville subisce il fascino, che ritiene storicamente irreversibile. Via via che esso sarà riconosciuto dai popoli, è dunque inevitabile che la democrazia si affermi su ogni altro sistema.

Fin dall'inizio, però, Tocqueville intuisce che il sistema democratico, che può essere instaurato sulla base di una Costituzione, per funzionare e realizzare i suoi fini, richiede non solo il concorso della popolazione, ma anche un autentico salto di qualità culturale e morale. Intuisce, insomma, che al di là dei principi, la democrazia ideale e quella realizzata non sono la stessa cosa:

"Educare la democrazia, rianimarne, se possibile, le convinzioni, purificarne i costumi, regolarne i movimenti, sostituire a poco a poco la scienza della cosa pubblica alla inesperienza, la conoscenza dei suoi veri interessi ai ciechi istinti, adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il primo dei doveri imposto nel nostro tempo a coloro che dirigono la società.

Occorre una scienza politica nuova a un mondo completamente trasformato." (p. 8)

Il modello di democrazia ideale è così descritto:

"Mi faccio allora l'idea di una società nella quale tutti, considerando la legge come una propria opera, l'amerebbero e le si sottometterebbero senza fatica; nella quale, essendo l'autorità del governo rispettata come necessaria e non in quanto divina, l'amore portato al capo dello Stato non sarebbe affatto una passione, ma un sentimento ragionato e tranquillo. Per il fatto di avere ciascuno dei diritti e di essere sicuro di poterli conservare, si creerebbero tra tutte le classi una fiducia schietta e una sorta di reciproca accondiscendenza ugualmente lontana dall'orgoglio e dalla bassezza.

Consapevole dei suoi veri interessi, il popolo comprenderebbe che, per trarre profitto dai beni della società, è necessario sottomettersi ai suoi oneri. La libera associazione dei cittadini potrebbe allora prendere il posto della potenza individuale dei nobili, e lo Stato sarebbe al sicuro dalla tirannide e dalla licenza.

Mi rendo ben conto che, in uno Stato democratico costituito in questo modo, la società non resterà immobile. Tuttavia i movimenti del corpo sociale potranno essere regolati e graduali e, se vi sarà meno sfarzo che in seno a un'aristocrazia, vi si troveranno anche meno miserie; i piaceri saranno meno estremi, ma il benessere più generale; le conoscenze scientifiche di minore eccellenza ma l'ignoranza più rara, i sentimenti meno energici, ma le abitudini più miti; vi si riscontreranno più vizi, ma meno delitti.

In mancanza dell'entusiasmo e dell'ardore della fede, i lumi e l'esperienza otterranno grandi sacrifici dai cittadini.
Ogni uomo, per il fatto di essere debole come gli altri, sentirà un uguale bisogno dei suoi simili e, rendendosi conto che non può ottenere il loro appoggio che a condizione di prestare il suo concorso, scoprirà facilmente che per lui l'interesse particolare si confonde con l'interesse generale.

La nazione, considerata nel suo insieme, sarà forse meno brillante e meno gloriosa, probabilmente anche meno forte, ma la maggioranza dei cittadini godrà di condizioni più prospere e il popolo sarà pacifico, non perché dispererà di stare meglio, ma perché saprà di stare bene.

Se pure in un simile ordine di cose non tutto fosse buono e utile, la società almeno avrebbe fatto suo tutto ciò che di utile e di buono vi può essere, e gli uomini, abbandonando per sempre i privilegi sociali dell'aristocrazia, trarrebbero dalla democrazia tutto il bene che essa può offrire." (p. 10-11)

3.

Tenendo conto dell'elevatezza del modello democratico, Tocqueville si sorprende che esso non sia nato nella civilissima Europa ma in un altro continente desertico per opera di un manipolo di uomini in fuga dalla madrepatria. Ma cosa li faceva fuggire se non il desiderio di fondare una nuova civiltà?

"Se, dopo aver gettato un rapido sguardo sulla società americana del 1650, si esamina l'assetto dell'Europa, specialmente di quella continentale, verso la stessa epoca, ci si sente pervasi da un profondo stupore: all'inizio del secolo XVII, ovunque, nel continente europeo, la monarchia assoluta trionfava sulle rovine della libertà oligarchica e feudale del Medioevo. Mai come allora, in seno a quest'Europa brillante e letterata, l'idea del diritto era stata tanto misconosciuta; mai i popoli avevano partecipato così poco alla vita politica e mai i fondamenti della vera libertà erano stati ugualmente negletti.

E proprio allora questi stessi principi, sconosciuti alle nazioni europee o da esse disprezzati, venivano proclamati nei deserti del Nuovo Mondo e diventavano il simbolo futuro di un grande popolo. In questa società apparentemente così umile, di cui nessun uomo di Stato si sarebbe allora, con ogni probabilità, degnato di occuparsi, le più ardite teorie sullo spirito umano erano tradotte in pratica; lasciata all'originalità della sua natura, l'immaginazione dell'uomo vi improvvisava una legislazione senza precedenti. Nel cuore di quest'oscura democrazia, che ancora non aveva prodotto né generali, né filosofi, né grandi scrittori, un uomo poteva alzarsi in presenza di un popolo libero e dare, acclamato da tutti, questa bella definizione della libertà:

"Non inganniamoci su ciò che dobbiamo intendere come nostra indipendenza. Vi è, infatti, una sorta di libertà corrotta, il cui uso è comune agli animali e all'uomo, e che consiste nel fare tutto ciò che piace. Questa libertà è ostile ad ogni autorità, sopporta impazientemente le regole, ci fa divenire inferiori a noi stessi ed è nemica della verità e della pace; e Dio ha ritenuto necessario ergersi contro di essa. Ma vi è anche una libertà civile e morale, che trova la sua forza nell'unione e che spetta alla missione del potere difendere: è la libertà di fare senza timore tutto ciò che è buono e giusto.
Dobbiamo difendere ad ogni costo questa santa libertà e, se necessario, rinunciare per essa alla nostra vita"." (p. 41)

E' evidente, agli occhi di Tocqueville, che, per una delle singolari congiunture che modificano il corso della storia, nella landa americana è avvenuta una sintesi dialettica di due motivazioni solitamente in conflitto tra loro:

"[La] civiltà anglo-americana [...] è il prodotto (e tale punto di partenza deve essere sempre ben tenuto a mente) di due elementi perfettamente distinti che, altrove, si sono spesso fatti guerra, ma che in America si è riusciti ad incorporare l'uno nell'altro, combinandoli meravigliosamente: lo spirito di religione e lo spirito di libertà.

I fondatori della Nuova Inghilterra erano nel contempo ardenti settari e innovatori esaltati. Ma, sia pure vincolati da strettissimi legami religiosi, essi erano liberi da qualunque pregiudizio politico. Da qui due tendenze, divergenti ma non contrarie, di cui è facile trovare tracce dappertutto, nei costumi come nelle leggi.

Gli uomini di cui parliamo sacrificano a un'opinione religiosa i loro amici, la loro famiglia, la loro patria: potrebbero apparire totalmente presi dalla ricerca di questo bene di natura intellettuale che sono andati ad acquistare a così caro prezzo. Nondimeno perseguono con uguale fervore le ric-chezze materiali e gli appagamenti morali; il cielo nell'altro mondo, il benessere e la libertà in questo.

Nelle loro mani, i principi politici, le leggi e le istituzioni umane sembrano cose malleabili, che possono mutarsi e combinarsi a piacimento.

Davanti a loro crollano le barriere che imprigionavano la società nella quale sono nati; svaniscono le vecchie opinioni che dirigevano il mondo da secoli; una strada senza limiti e un campo senza orizzonte si svelano: lo spirito umano li percorre in tutte le direzioni, ma, giunto ai confini del mondo Politico, si ferma da solo; depone tremando l'uso delle sue facoltà più temibili; abiura il dubbio; rinuncia al bisogno di innovare; si astiene persino dal sollevare il velo del tempio; si inchina con rispetto davanti alle verità che ammette senza discutere.

Così, nel mondo morale, tutto è classificato coordinato previsto e deciso a priori; nel mondo politico, invece, tutto è agitato, contestato, incerto. Nell'uno, obbedienza passiva benché volontaria; nell'altro indipendenza, disprezzo dell'esperienza e gelosia di ogni autorità.

Lungi dal nuocersi, queste tendenze, in apparenza opposte, procedono d'accordo e sembrano prestarsi reciprocamente aiuto.

La religione vede nella libertà civile un nobile esercizio delle facoltà dell'uomo; nel mondo politico, un campo affidato dal Creatore agli sforzi dell'intelligenza. Libera e potente nella sua sfera, soddisfatta del posto che le è riservato, essa sa che il suo impero è tanto più solido quanto più go-verna con le sue sole forze e domina senza appoggio sui cuori. La libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi, la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi; i costumi come la garanzia delle leggi e il segno della sua durata."(p. 48-50)

Per questo aspetto, splendidamente colto da Tocqueville, la differenza tra la società americana e quella europea è abissale. Nell'una, la Religione assolve la sua funzione erigendosi come veicolo di una morale elevata che deve governare l'esercizio di una libertà individuale orientata allo sfruttare i talenti assegnati dal Creatore; nell'altra la Religione è ancora profondamente intrecciata e complice dell'esercizio di un Potere che pone ostacoli alla mobilità sociale perché non riconosce il valore dell'uguaglianza.

4.

Dal capitolo 4 della parte prima, Tocqueville avvia un'analisi delle istituzioni attraverso le quali, sulla base della Costituzione federale, si realizza l'esercizio del potere sia a livello periferico, negli Stati, che a livello centrale, ove si dà il governo dell'Unione. Nonostante l'analisi riguardi l'America di quasi due secoli orsono, essa non è di interesse solo storico. A differenza dell'Europa, ove, nello stesso periodo, sono avvenuti cambiamenti tali per cui l'assetto istituzionale odierno è profondamente mutato rispetto al passato, la struttura istituzionale degli Stati Uniti è rimasta per molti aspetti la stessa, a partire dalla Costituzione federale. Questa sorprendente continuità riconosce la sua matrice nel "miracoloso" equilibrio che i fondatori degli Stati Uniti sono riusciti a trovare tra il bene comune e l'interesse individuale, il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario, l'ampia autonomia dei singoli Stati e il governo centrale dell'Unione, il potere del Presidente e quello delle Camere, l'ambizione dei politici e il controllo eserciato dalla popolazione, ecc.

Tra questi diversi fattori, il più importante in assoluto è la Costituzione federale, nata paradossalmente proprio nel periodo in cui la fine della Confederazione sembrava imminente. Tocqueville tratteggia in questi termini la sua singolarità:

"Le democrazie sono naturalmente portate a concentrare tutta la forza sociale nelle mani del corpo legislativo che, essendo il potere che emana più direttamente dal popolo, è anche quello che partecipa maggiormente della sua onnipotenza. Si nota così in lui una naturale tendenza a riunire in sé ogni sorta di autorità.

Questa concentrazione dei poteri nuoce particolarmente alla buona conduzione degli affari e, nel contempo, fonda il dispotismo della maggioranza.

I legislatori degli Stati si sono spesso abbandonati a questi istinti della democrazia; quelli dell'Unione hanno sempre lottato coraggiosamente contro di essi.

Negli Stati, il potere esecutivo è affidato a un magistrato che, apparentemente, è posto a fianco della legislatura, mentre, in realtà, non è che un cieco esecutore e uno strumento passivo delle sue volontà. Da dove potrebbe attingere la propria forza? Dalla durata delle sue funzioni? In genere egli è nominato soltanto per un anno. Dalle sue prerogative? Non ne ha affatto. Gli organi del potere legislativo possono
ridurlo all'impotenza, incaricando dell'esecuzione delle leggi commissioni speciali scelte alloro interno. Se lo volessero, potrebbero in un certo senso annullarlo, privandolo del trattamento economico.

La costituzione federale ha concentrato tutti i diritti e tutta la responsabilità del potere esecutivo in un solo uomo. Ha dato al presidente quattro anni di vita; gli ha assicurato lo stipendio per tutta la durata della sua magistratura; gli ha creato una clientela e lo ha armato del veto sospensivo. In poche parole, dopo aver accuratamente tracciato la sfera d'azione del potere esecutivo, ha cercato di dargli una posizione per quanto possibile forte e libera all'interno di questa sfera.

Il potere giudiziario è, tra tutti i poteri, quello che, nelle costituzioni degli Stati, è rimasto il meno dipendente dal potere legislativo.

Tuttavia, in tutti gli Stati, il legislativo è rimasta padrone di fissare gli emolumenti dei giudici, cosa che pone necessariamente questi ultimi sotto la sua influenza immediata. In alcuni Stati, inoltre, i giudici sono nominati solo per un tempo limitato, il che li priva di gran parte della loro forza e della loro libertà.

In altri, il potere legislativo e quello giudiziario sono completamente confusi. Per esempio: il Senato di New York rappresenta, per determinati processi, il tribunale supremo dello Stato.

La costituzione federale, invece, si è preoccupata di separare il potere giudiziario da tutti gli altri e ha, inoltre, reso i giudici indipendenti, dichiarandone fisso il trattamento economico e irrevocabili le funzioni.

Le conseguenze pratiche di queste differenze sono facili da cogliere. A qualunque osservatore attento appare evidente che gli affari dell'Unione sono condotti infinitamente meglio che gli affari particolari di ogni singolo Stato.

Il governo federale è più giusto e moderato, nelle sue attività, di quello degli Stati. Ha maggior saggezza nelle vedute, maggiore perseveranza e sapienza nei progetti, maggiore abilità, coerenza e fermezza nell'esecuzione dei provvedimenti.

Bastano poche parole a riassumere questo capitolo.

Due pericoli principali minacciano l'esistenza delle democrazie: il completo asservimento del potere legislativo alle volontà del corpo elettorale; la concentrazione nel potere legislativo di tutti gli altri poteri del governo.

I legislatori degli Stati hanno favorito l'aumento di questi pericoli. I legislatori dell'Unione hanno fatto quanto in loro potere per renderli meno temibili." (p. 181-182)

La Costituzione federale, poi, si articola sul principio della sovranità popolare, che è, però, diversamente da quanto accade altrove, rigorosamente rispettato e realizzato:

"Ai giorni nostri, negli Stati Uniti, il principio della sovranità popolare ha avuto tutti gli sviluppi pratici che si possano immaginare. Spogliatosi da tutte le finzioni con cui si è avuto cura di rivestirlo altrove, esso assume una dopo l'altra tutte le forme, a seconda delle necessità del momento: talvolta è tutto il popolo che fa le leggi come ad Atene; sono i deputati, eletti a suffragio universale, che lo rappresentano e agiscono in suo nome sotto la sua sorveglianza quasi diretta.

Vi sono paesi in cui un potere in qualche modo esterno al corpo sociale agisce su di esso e lo forza a procedere in una certa direzione.

Ve ne sono altri, invece, in cui la forza è divisa, poiché siede nel contempo dentro la società e fuori di essa.

Niente di simile accade negli Stati Uniti: la società agisce da sé e su di sé. Non esiste potere se non in essa; non vi è quasi nessuno che osi concepire e soprattutto esprimere l'idea di cercarle altrove. Il popolo partecipa alla composizione delle leggi con la scelta dei legislatori, alla loro applicazione con l'elezione dei membri del potere esecutivo. Addirittura si può dire che esso governi direttamente, tanto è debole e ristretta la parte lasciata all'amministrazione e tanto l'amministrazione stessa risente della sua origine popolare e obbedisce alla potenza da cui emana. Il popolo regna sul mondo politico americano come Dio sull'universo. Esso è causa e fine di tutte le cose; tutto ne deriva e tutto vi si conduce." (p. 66)

"In America, il popolo nomina chi fa la legge e chi la esegue; forma lui stesso la giuria che punisce le infrazioni alla legge.
Le istituzioni non sono democratiche soltanto nel loro principio, ma anche in tutti i loro sviluppi; così il popolo nomina direttamente i suoi rappresentanti, e li sceglie, in genere, ogni anno, per tenerli nella più assoluta dipendenza. E dunque realmente il popolo che comanda, e, benché la forma del governo sia rappresentativa, è evidente che le opinioni, i pre-giudizi, gli interessi e persino le passioni del popolo non possano incontrare ostacoli duraturi che impediscano loro di manifestarsi nel dirigere quotidianamente la società.

Negli Stati Uniti, come in tutti i paesi in cui regna il popolo, è la maggioranza a governare in suo nome.

Questa maggioranza si compone essenzialmente dei cittadini pacifici che, o per passione o per interesse, desiderano sinceramente il bene del paese. Intorno ad essi si agitano senza posa i partiti, che cercano di attirarli al loro interno e di farsene un appoggio." (p. 205)

Su questo sfondo di partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, si sovrappone poi un altro aspetto specifico della società americana: la tendenza ad associarsi per sopperire alle inevitabili lacune dello Stato e per affrontare i problemi più vari sulla base della solidarieta:

"L'America è il solo paese al mondo in cui si sia tratto il massimo vantaggio dall'associazione, e in cui questo potente mezzo d'azione sia stato applicato a una assai grande varietà di situazioni.

A prescindere dalle associazioni permanenti, create dalla legge sotto il nome di comuni, città e contee, ve n'è una moltitudine di altre che devono la loro nascita e il loro sviluppo solo a volontà individuali.

L'abitante degli Stati Uniti impara fin dalla nascita che bisogna contare su se stessi per lottare contro i mali e le difficoltà della vita; egli rivolge all'autorità sociale uno sguardo diffidente e inquieto, e fa appello al suo potere solo quando non può farne a meno. Si comincia a notare questo fin dalla scuola, dove i bambini si sottomettono, persino nei loro giochi, a regole che essi hanno stabilito, e puniscono fra loro colpe da essi stessi definite. Lo stesso spirito si ritrova in tutti gli atti della vita sociale. Si crea un ostacolo sulla pubblica via, il passaggio è interrotto, la circolazione bloccata; i vicini si costituiscono subito in corpo deliberante; da questa assemblea improvvisata uscirà un potere esecutivo che rimedierà al male, ancor prima che l'idea di un'autorità preesistente a quella degli interessati sia venuta in mente a qualcuno. Se si tratta di divertimenti, ci si assocerà per dare più splendore e organizzazione alla festa. Ci si riunisce, infine, per resistere a nemici del tutto immateriali: si combatte in comune l'intemperanza. Negli Stati Uniti ci si associa per scopi di sicurezza pubblica, di commercio, di industria, di morale e di religione. Non vi è nulla che la volontà umana non creda di poter ottenere grazie alla libera azione del potere collettivo degli individui. " (p. 225-226)

5.

C'è, in questa mirabile organizzazione sociale, qualcosa di quasi misterioso, che Toqueville tenta di spiegare:

"Perché negli Stati Uniti, in cui gli abitanti sono arrivati ieri sul suolo che occupano, dove non hanno apportato né usanze, né ricordi; in cui si incontrano per la prima volta senza conoscersi; in cui, per dirlo in una parola, l'istinto della patria può appena esistere, perché, dunque, ciascuno si interessa agli affari del suo comune, del suo cantone e dell'intero Stato come ai propri? Il fatto è che ciascuno, nel suo ambito, prende parte attiva al governo della società.

L'uomo del popolo, negli Stati Uniti, ha capito l'influenza che la prosperità generale esercita sul suo benessere; idea, questa, così semplice e tuttavia così poco conosciuta dal popolo. Egli si è, inoltre, abituato a considerare questa prosperità come opera sua. Vede, dunque, nella fortuna pubblica la propria, e lavora al bene dello Stato non solo per dovere o per orgoglio, ma, oserei quasi dire, per cupidigia." (p. 284)

Non si sarebbe dato, peraltro, un tale spirito collettivo se non in nome di diritti politici attribuiti in ugual misura a tutti i cittadini:

"E con l'idea dei diritti che gli uomini hanno definito ciò che sono la licenza e la tirannia. Illuminato da essa, ognuno ha potuto mostrarsi indipendente senza arroganza, e sottomesso senza bassezza. L'uomo che obbedisce alla violenza si piega e si degrada; ma quando si sottomette al diritto di comandare che riconosce al suo simile, in qualche modo egli si innalza addirittura al di sopra di colui che lo comanda. Non vi sono grandi uomini senza virtù; senza rispetto dei diritti, non vi è grande popolo: si può quasi dire che non vi è società; che cos'è, infatti una riunione di esseri razionali e intelligenti, il cui solo legame è la forza?" (p. 285)

"In America, il popolo è stato rivestito di diritti politici in un'epoca in cui gli era difficile farne cattivo uso, poiché i cittadini erano in piccolo numero e semplici di costumi. Crescendo, gli Americani non hanno accresciuto, per così dire, i poteri della democrazia; ne hanno piuttosto esteso i domini.

Non si può mettere in dubbio che il momento in cui si accordano diritti politici a un popolo che fino ad allora ne è stato privo, non sia un momento di crisi, crisi spesso necessaria, ma sempre pericolosa.

Il bambino uccide quando ignora il valore della vita; toglie la proprietà altrui prima di sapere che gli si può strappare la sua. L'uomo del popolo, nello stesso momento in cui gli si accordano dei diritti politici, si trova, rispetto ai suoi diritti, nella stessa situazione del bambino di fronte a tutta lanatura, ed è il caso di applicargli questo celebre motto: Homo puer robustus.

Questa verità è evidente anche in America. Gli Stati in cui i cittadini godono da più tempo dei loro diritti sono quelli in cui essi sanno anche servirsene meglio.

Non lo si ripete mai troppo: non vi è nulla di più fecondo di prodigi dell'arte di essere libero; ma non vi è nulla di più duro dell'apprendistato della libertà." (p. 287)

Nel quadro di uno Stato di diritto, il suffragio universale ha un'importanza particolare:

"Non è sempre permesso chiamare l'intero popolo, direttamente o indirettamente, alla formazione della legge; ma non si può negare che, quando ciò è praticabile, la legge ne acquista una grande autorità. Questa origine popolare, che spesso nuoce alla bontà e alla saggezza della legislazione, contribuisce in modo singolare alla sua potenza...

Negli Stati Uniti, ad eccezione degli schiavi, dei domestici e degli indigenti mantenuti dai comuni, non vi è nessuno che non sia elettore e che, a questo titolo, non concorra indirettamente alla legge. Coloro che vogliono opporsi alle leggi sono quindi costretti a fare manifestamente una di queste due cose: devono o cambiare l'opinione della nazione, o calpestare le sue volontà.

Aggiungete a questa prima ragione quest'altra, più diretta e più forte: che negli Stati Uniti ognuno trova una specie di interesse personale a che tutti obbediscano alle leggi, poiché colui che oggi non fa parte della maggioranza, domani sarà forse tra le sue fila, e il rispetto che ora professa per le volontà del legislatore, avrà presto occasione di esigerlo per le proprie. Per spiacevole che sia la legge, l'abitante degli Stati Uniti le si sottomette senza fatica, non solo come all'opera della maggioranza, ma anche come alla sua propria; egli la considera dal punto di vita di un contratto, da lui stesso stipulato.

Così, dunque, se le leggi della democrazia non sono sempre rispettabili, esse sono quasi sempre rispettate. Coloro infatti che, di solito, violano le leggi, non possono non obbedire a quelle che hanno fatto e da cui traggono vantaggio. E i cittadini che potrebbero avere interesse a infrangerle sono portati per carattere e per posizione a sottostare a qualsiasi volontà del legislatore. Del resto, il popolo, in America, non obbedisce alla legge solo perché è opera sua, ma anche perché può cambiarla, quando per caso essa lo ferisca; le si sottomette in un primo tempo come a un male che esso stesso si è imposto, e poi come a un male passeggero."
(p. 288-289)

La partecipazione popolare è l'arma vincente della democrazia, nonostante essa comporti dei limiti:

"La democrazia non dà al popolo il governo più competente, ma fa ciò che il governo più competente spesso non ha il potere di fare; essa diffonde in tutto il corpo sociale una inquieta attività, una forza sovrabbondante e un'energia, che non esisterebbero senza di lei, e che, solo che le circostanze siano favorevoli, possono produrre meraviglie. Sono questi i suoi veri benefici.

Nel secolo presente, in cui i destini del mondo cristiano sembrano sospesi, gli uni si precipitano ad attaccare la democrazia come una potenza nemica, mentre essa cresce ancora; altri adorano già in essa un nuovo dio che nasce dal nulla; gli uni e gli altri, però, non conoscono che imperfettamente l'oggetto del loro odio o del loro desiderio; essi lottano nelle tenebre, e colpiscono solo a caso.

Che cosa chiedete alla società e al suo governo? Bisogna intendersi.

Volete conferire allo spirito umano una certa dignità, un modo generoso di affrontare le cose del mondo? Volete ispirare agli uomini una sorta di disprezzo per i beni materiali? Desiderate far nascere o alimentare convinzioni profonde, e gettare le basi per grandi abnegazioni?

Si tratta, per voi, di raffinare i costumi, di elevare le maniere, di far splendere le arti? Volete la poesia, la fama, la gloria?

Avete l'intenzione di organizzare un popolo in modo da agire fortemente sugli altri? Lo destinate a grandi imprese e, qualunque sia il risultato dei suoi sforzi, a lasciare una traccia immensa nella storia?

Se tale, a vostro avviso, è l'obiettivo principale che devono perseguire gli uomini uniti in società, non scegliete il governo della democrazia; sicuramente non vi condurrebbe allo scopo.

Ma se vi sembra utile orientare l'attività intellettuale e morale dell'uomo sulle necessità della vita materiale, ed impiegarla a produrre il benessere; se la ragione vi pare più proficua agli uomini del genio; se il vostro scopo non è di creare virtù eroiche, ma abitudini pacifiche; se preferite ve-dere vizi piuttosto che delitti, e trovare meno azioni grandi, pur di incontrare un numero minore di grandi crimini; se, invece di agire in seno a una società brillante, vi basta vivere in mezzo a una società prospera; se, infine, l'obiettivo principale di un governo non è, secondo voi, quello di dare all'intero corpo della nazione la maggior forza e la maggior gloria possibili, ma di procurare a ciascuno degli individui che lo compongono il massimo benessere e di evitargli la maggiore miseria possibile, allora rendete uguali le condizioni, e costituite un governo democratico." (p. 293-294)

6.

Ai limiti della democrazia, occorre aggiungere i pericoli potenziali che essa comporta. Tali pericoli Tocqueville non li vede in atto nella società americana, ma l'analisi che gli consente di prevederli ha un timbro profetico. Il pericolo principale è la tirannia della maggioranza:

"E' nell'essenza stessa dei governi democratici che la supremazia della maggioranza sia assoluta, poiché, al di fuori della maggioranza, nelle democrazie, non vi è nulla che resista.

La maggior parte delle costituzioni americane ha, inoltre, cercato di accrescere artificialmente questa forza naturale della maggioranza." (p. 295)

"L'instabilità legislativa è un male inerente al governo democratico, poiché è nella natura delle democrazie portare al potere uomini nuovi. Ma questo male è più o meno grande a seconda del potere e dei mezzi d'azione che si accordano al legislatore.

In America, si conferisce all'autorità che fa le leggi un potere sovrano. Essa può lasciarsi andare rapidamente e irresistibilmente a ciascuno dei suoi desideri, e tutti gli anni le si danno nuovi rappresentanti. Si è adottata, cioè, la soluzione che maggiormente favorisce l'instabilità politica e che permette dalla democrazia di dirigere le sue mutevoli volontà verso gli oggetti più importanti." (p. 298)

"L'onnipotenza della maggioranza, e la maniera rapida e assoluta in cui si eseguono le sue volontà negli Stati Uniti, non soltanto rende instabile la legge, ma esercita anche la medesima influenza sull'esecuzione della legge stessa e sull'azione dell'amministrazione pubblica." (p. 299)

Da questo punto in poi la requisitoria di Tocqueville diventa particolarmente pregnante:

"Considero empia e detestabile la seguente massima: che in materia di governo la maggioranza del popolo abbia il diritto di fare qualunque cosa; ciò nondimeno riconosco nella volontà della maggioranza l'origine di tutti i poteri. Sono forse in contraddizione con me stesso?

Esiste una legge generale che è stata fatta, o quanto meno adottata, non soltanto dalla maggioranza dell'uno o del- l'altro popolo, ma dalla maggioranza di tutti gli uomini. Questa legge è la giustizia.

La giustizia rappresenta, dunque, il limite del diritto di ciascun popolo.

Una nazione è come una giuria incaricata di rappresentare la società universale e di applicare la giustizia, che costituisce la sua legge. La giuria, che rappresenta la società, deve forse avere più autorità di quella stessa società di cui applica le leggi?

Ecco dunque che, se rifiuto di obbedire a una legge ingiusta, non nego con ciò in alcun modo alla maggioranza il diritto di comandare: semplicemente mi appello dalla sovranità del popolo alla sovranità del genere umano.

Da parte di alcuni si è osato affermare che un popolo, nelle questioni che interessano soltanto lui stesso, non può in nulla fuoriuscire dai limiti della giustizia e della ragione e che, di conseguenza, non si deve temere di accordare tutto il potere alla maggioranza che lo rappresenta. Ma questo è un parlare da schiavi.

Che cos'è, infatti, una maggioranza presa collettivamente, se non un individuo con opinioni e, più spesso, interessi contrari rispetto a quelli di un altro individuo cui viene dato il nome di minoranza? Ora, se ammettete che un uomo investito di un potere senza limiti possa abusarne contro i suoi avversari, per quale ragione non ammettete lo stesso per una maggioranza? Gli uomini, associandosi, hanno forse
cambiato indole? Con il divenire più forti, sono essi forse divenuti più pazienti nelle avversità? Per quanto mi riguarda, non potrei crederlo; e quello stesso potere assoluto che nego a uno solo dei miei simili, certamente non lo accorderei mai a un numero elevato di loro." (p. 300-301)

"L'onnipotenza mi pare in sé cosa cattiva e pericolosa. Il suo esercizio mi sembra al di sopra delle forze dell'uomo, di qualunque uomo, e non vedo che Dio che possa senza pericolo essere onnipotente, poiché la sua saggezza e la sua giustizia sono sempre pari al suo potere. Non vi è dunque sulla terra alcuna autorità tanto rispettabile in sé, o investita di un diritto tanto sacro, che io lascerei agire senza controllo e governare senza limiti. Quando, dunque, vedo accordare il diritto e la facoltà di fare ogni cosa a una qualunque potenza, che la si chiami popolo o re, democrazia o aristocrazia, che la si eserciti in una monarchia o in una repubblica, allora dico: ´Ecco il germe della tirannia!', e cerco di andare a vivere sotto altre leggi.

Ciò che maggiormente rimprovero al governo democratico, nel modo in cui esso è stato organizzato negli Stati Uniti, non è tanto, come molti sostengono in Europa, la sua debolezza, quanto al contrario la sua forza irresistibile. E ciò che più mi ripugna in America non è l'estrema libertà che vi regna, bensì il poco di garanzia che vi si trova contro la tirannide.

Quando un uomo o un partito sono vittime di un ingiustizia negli Stati Uniti, a chi volete che si rivolgano? All'opinione pubblica? Ma è essa stessa che costituisce la maggioranza. All'organo legislativo? Rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente. Al potere esecutivo? E nominato dalla maggioranza e le serve da strumento passivo. Alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi. Alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di pronunciare sentenze: gli stessi giudici, in alcuni Stati, sono eletti dalla maggioranza. Per quanto iniqua o irragionevole sia la misura che vi tocca, dovete, dunque, sottomettervi ad essa.

Supponete, al contrario, un corpo legislativo formato in modo tale da rappresentare la maggioranza, senza essere necessariamente schiavo delle sue passioni; un potere esecutivo che abbia una forza propria, e un potere giudiziario indipendente dagli altri due poteri; avrete sempre un governo democratico, ma non si correranno quasi più rischi di tirannia.

Non dico certo che, all'ora attuale, in America si ricorra di frequente alla tirannia; dico, però, che non vi si trova nessuna garanzia contro di essa e che bisogna cercare la causa della mitezza del governo nelle circostanze e nei costumi, piuttosto che nelle leggi." (p. 302-303)

"La potenza che domina negli Stati Uniti non ammette che ci si prenda gioco di lei. Il più lieve rimprovero la ferisce, la minima verità pungente la spaventa, e bisogna lodare tutto, dalle forme del suo linguaggio fino alle sue più solide virtù. Nessuno scrittore, qualunque sia la sua fama, può sfuggire all'obbligo di incensare i suoi concittadini. La maggioranza vive, quindi, in una perpetua adorazione di se stessa; soltanto gli stranieri o l'esperienza possono far giungere certe verità alle orecchie degli Americani." (p. 307)

"Nei paesi liberi, dove ciascuno è più o meno chiamato a esprimere la sua opinione sugli affari dello Stato; nelle repubbliche democratiche, dove la vita pubblica è continuamente confusa con la vita privata, dove il sovrano è avvicinabile da ogni parte, e dove basta alzare la voce per giungere al suo orecchio, si incontrano molte più persone che cercano di speculare sulle sue debolezze e di vivere a spese delle sue passioni, che non nelle monarchie assolute. Non che vi siano uomini per natura peggiori che altrove, ma la tentazione qui è più forte ed è offerta a più persone. Ne risulta un avvilimento spirituale molto più generalizzato.

Le repubbliche democratiche mettono lo spirito cortigiano alla portata dei più e lo fanno penetrare in tutte le classi nello stesso tempo. E uno dei maggiori rimproveri che si può muovere loro.

Questo è vero soprattutto negli Stati democratici, organizzati come le repubbliche americane, dove la maggioranza esercita un predominio così assoluto e irresistibile che, quando ci si vuole allontanare dalla via che essa ha tracciato, occorre in qualche modo rinunciare ai propri diritti di cittadino, e, per così dire, alle proprie qualità di uomo.

In mezzo alla folla immensa che, negli Stati Uniti, si accalca nella carriera politica, ho visto assai pochi uomini mostrare quel virile candore, quella vigorosa indipendenza del pensiero che hanno spesso distinto gli Americani nei tempi passati, e che, ovunque si trovino, costituiscono il tratto saliente delle grandi personalità. Si direbbe, a prima vista, che in America le menti siano state tutte formate sullo stesso modello, tanto esse seguono esattamente le medesime vie." (p. 309)

Traspare, in queste ultime frasi, il dubbio che la tirannia della maggioranza possa produrre un universo di automi conformisti. Il dubbio, come si vedrà, prenderà corpo, diventando pessimistica certezza, nel secondo volume.

Per ora esso non incide nella valutazione globalmente positiva della democrazia:

"Se gli uomini dovessero in effetti arrivare al punto in cui fosse necessario renderli tutti liberi o tutti schiavi, tutti uguali nei diritti o tutti dei diritti spogliati; se coloro che governano la società fossero ridotti a questa alternativa, di innalzare gradualmente la folla fino a loro, ovvero di lasciar cadere tutti i cittadini al di sotto del livello dell'umanità, tutto questo non sarebbe sufficiente a vincere tanti dubbi, rassicurare tante coscienze e preparare ciascuno a fare di buon grado, grandi sacrifici?

Sarebbe conveniente allora considerare lo sviluppo graduale delle istituzioni e dei costumi democratici, non come il migliore, ma come l'unico mezzo che ci resta per essere liberi; e, pur senza preferire il governo della democrazia, si sarebbe forse disposti ad adottarlo come il rimedio meglio applicabile e più onesto che si possa opporre ai mali della società contemporanea.

E difficile far partecipare il popolo al governo; è ancora più difficile fornirgli l'esperienza e dargli i sentimenti che gli mancano per governare bene.

Le volontà della democrazia sono mutevoli; di scarsa cultura coloro che agiscono in suo nome; le sue leggi imperfette. Lo riconosco. Ma se fosse vero che presto non vi sarà più alcuna possibilità intermedia tra il prevalere incontrastato della democrazia e il giogo di uno solo, non dovremmo forse tendere piuttosto verso il primo, che non sottometterci volontariamente all'altro? E se, infine, occorresse arrivare a una completa uguaglianza, non sarebbe meglio lasciarsi livellare dalla libertà piuttosto che da un despota?" (p. 378)

7.

L'ultimo capitolo del libro, letto a posteriori, è, forse al di là della volontà dell'autore, drammatico. Tocqueville s'interroga, infatti, sulla condizione attuale e sul probabile avvenire delle tre razze che abitano il territorio degli Stati Uniti. Amante della libertà e dei diritti individuali, il pensatore normanno non chiude gli occhi di fronte al fatto che la stessa civiltà che sembra aver recepito più di ogni altra quei valori nasce sulla base di un'intollerabile violenza operata per un verso sugli indigeni e per un altro sui neri estirpati dall'Africa e ridotti in schiavitù.

La sua indignazione morale, per quanto contenuta entro i limiti di un'analisi sociologica, è del tutto evidente. Scrive a proposito degli Indiani:

"La condotta degli Americani degli Stati Uniti nei confronti degli indigeni spira l'amore più puro delle forme e della legalità. Purché gli indiani restino allo stato selvaggio, gli Americani non si immischiano minimamente nei loro affari e li trattano come popoli indipendenti. Non si permettono di occupare le loro terre senza averle debitamente acquisite per mezzo di un contratto, e se, per caso, una nazione indiana non può più vivere sui suo territorio, essi la prendono fraternamente per mano e la conducono a morire fuori del paese dei loro padri.

Gli Spagnoli, con il ricorso a mostruosità senza precedenti, coprendosi di un'onta incancellabile, non sono riusciti a sterminare la razza indiana, e neppure a impedirle di condi-videre i loro diritti; gli Americani degli Stati Uniti hanno raggiunto questo duplice risultato con meravigliosa facilità, tranquillamente, legalmente, filantropicamente, senza spargere sangue, senza violare agli occhi del mondo uno solo dei grandi principi della morale. Non si potrebbe distruggere gli uomini rispettando meglio le leggi dell'umanità." (p. 408)

Riguardo al problema dei negri, Tocqueville osserva:

"Gli uomini, di solito, hanno bisogno di sforzi grandi e costanti per creare mali durevoli. Ma vi è un male che penetra nel mondo furtivamente: dapprima lo si scorge appena in mezzo agli abusi ordinari del potere; comincia con un individuo di cui la storia non conserva il nome e lo si depone come un germe maledetto su qualche punto del suolo. Si nutre in seguito di se stesso, si espande senza sforzo, e cresce naturalmente con la società che lo ha ricevuto: questo male è la schiavitù.

Il cristianesimo aveva distrutto la servitù; i cristiani del sedicesimo secolo l'hanno ristabilita; tuttavia, essi l'hanno ammessa solo come un'eccezione nel loro sistema, sociale, e hanno avuto cura di restringerla a una sola delle razze umane. In questo modo hanno inferto all'umanità una ferita meno larga, ma infinitamente più difficile da guarire.

Bisogna distinguere con cura due cose: la schiavitù in sé, e le sue conseguenze.

I mali immediati prodotti dalla schiavitù erano più o meno gli stessi presso gli antichi che presso i moderni, ma le conseguenze di questi mali erano diverse. Presso gli antichi, lo schiavo apparteneva alla stessa razza del suo padrone, e pesso gli era superiore per educazione e cultura. La libertà sola li separava; una volta accordata la libertà, essi si confondevano facilmente.

Gli antichi avevano dunque un mezzo molto semplice per liberarsi della schiavitù e delle sue conseguenze; questo mezzo era l'affrancamento, e, da quando essi l'hanno impiegato in modo sistematico, sono riusciti nello scopo.

Ciò non significa che, nell'antichità, le tracce della servitù non sussistessero, ancora qualche tempo dopo che la servitù era stata distrutta.

Vi è un naturale pregiudizio che spinge l'uomo a disprezzare colui che gli è stato inferiore, ancora molto tempo dopo che egli è divenuto suo eguale; alla disuguaglianza reale prodotta dalla fortuna o dalla legge, segue sempre una disuguaglianza immaginaria che ha le sue radici nei costumi; ma presso gli antichi questo effetto secondario della schiavitù aveva un termine. L'affrancato somigliava a tal punto agli uomini d'origine libera, che ben presto diventava impossibile distinguerlo in mezzo a loro.

La cosa più difficile presso gli antichi era modificare la legge: presso i moderni, invece, è cambiare i costumi e, per noi, la vera difficoltà inizia laddove l'antichità la vedeva finire.

Ciò deriva dal fatto che nel mondo moderno il fatto immateriale e temporaneo della schiavitù si combina nel modo più funesto con il fatto materiale e permanente della differenza di razza. Il ricordo della schiavitù disonora la razza, e la razza perpetua il ricordo della schiavitù.

Nessun Africano è venuto liberamente sulle sponde del Nuovo Mondo; ne consegue che, tutti coloro che vi si trovano ai giorni nostri, sono schiavi o affrancati. Ecco dunque che il negro, insieme alla vita, trasmette a tutti i suoi discendenti il segno esteriore della sua ignominia. La legge può distruggere la servitù; ma non vi è che Dio che possa farne sparire la traccia.

Lo schiavo moderno differisce dal padrone non solo a motivo della libertà, ma anche a causa della sua l'origine. Potete rendere libero il negro, ma non potrete fare in modo che egli non sia nella posizione di uno straniero di fronte all'Europeo.

E non è tutto: a quest'uomo, che nato nella bassezza, a questo straniero, che la servitù ha introdotto tra noi, riconosciamo a fatica i tratti generali dell'umanità. Il suo viso ci sembra ripugnante e la sua intelligenza limitata; i suoi gusti sono volgari; manca poco che non lo prendiamo per un essere intermedio tra l'uomo e la bestia.

I moderni, dopo aver abolito la schiavitù, devono quindi ancora distruggere tre pregiudizi ben più inafferrabili e tenaci di quella: il pregiudizio del padrone, il pregiudizio della razza, e, infine, il pregiudizio dell'uomo bianco." (p. 411- 412)

La negazione dei diritti degli Indigeni e di quelli dei negri è, dunque, l'altra faccia della medaglia della democrazia statunitense. Essa però non comporta, da parte dei cittadini statunitensi, alcun atteggiamento autocritico. C'è un altro dato, infatti, tipico della nuova civiltà che Tocqueville rileva con finezza:

"Gli Anglo-americani, mentre sono così uniti tra loro da idee comuni, sono separati da tutti gli altri popoli da un sentimento: l'orgoglio.

Da cinquant'anni a questa parte di continuo si ripete agli abitanti degli Stati Uniti che formano il solo popolo religioso, illuminato e libero. Essi vedono che, fino ad oggi, le istituzioni religiose prosperano presso di loro, mentre sono in declino nel resto del mondo; essi hanno, dunque, un'immensa opinione di loro stessi, e non sono lontani dal credere di formare una specie a parte nel genere umano." (p. 451)

Un ordinamento sociale ugualitario e meritocratico, l'orgoglio patriottico, il senso di superiorità morale rispetto agli altri popoli, la convinzione di un'elezione divina che comporta la missione di ěcivilizzare" il mondo, l'esaltazione dei diritti naturali dell'individuo e la negazione di tali diritti a coloro che non sono bianchi: sono questi gli aspetti essenziali della civiltà americana analizzata da Tocqueville. Una miscela, insomma, di ideali sociali, civili e morali elevati e di pratiche talora rispondenti ad essi, talaltra francamente contraddittori.

Nel primo volume del suo capolavoro, Tocqueville coglie il valore della democrazia ma pone in luce anche potenzialità di sviluppo aperte su prospettive ambigue e, al limite, inquietanti.

Estrarre dall'analisi della democrazia statunitense solo ciò che si dà in essa di positivo e mettere tra parentesi le ombre legate ai suoi sviluppi non dà il giusto merito allo sforzo del pensatore normanno.

8.

Rimandando al terzo articolo una valutazione politologica dei due volumi de La democrazia in America, non è superfluo - penso - soffermarsi un po' non già sull'attendibilità, bensì sulla completezza storica del quadro che Tocqueville fornisce della civiltà americana, con la quale viene a contatto nel maggio del 1831 e che esplora in lungo e in largo per circa diciotto mesi.

Alcune carenze sono riconducibili senz'altro alla relativa brevità del soggiorno, altre appaiono più significative.

Tocqueville rileva che gli Stati Uniti, data la loro situazione geografica, non hanno molto da temere dai Paesi confinanti e, essendo sostanzialmente isolati e orgogliosi del loro isolamento, la Politica estera, affidata al Presidente, ha in essi ben poco rilievo. E' senz'altro vero. ma, intanto, questa verità contrasta con il trattamento riservato agli Indiani e ai Neri, gli uni scacciati dalle loro terre, gli altri estirpati dai luoghi nativi, che Tocquevillle pure analizza con grande vigore morale. Non si tratta, certo, di situazioni riconducibili al rapporto con Stati stranieri: ma è in gioco pur sempre il rapporto con altri popoli e altre razze. La brutalità del trattamento getta un'ombra sulla civiltà americana, il cui nascente patriottismo sembra celare già un intrinseco riferimento alla superiorità dell'uomo bianco o meglio dello yankee.

C'è però un dato storico che Tocqueville non cita, ed è di grande interesse. Risale infatti al 1823 una famosa dichiarazione, contenuta nel messaggio annuale al Congresso, del Presidente americano James Monroe nella quale si definiva un principio ricordato in seguito come la dottrina Monroe. In tale dichiarazione, gli Usa definivano la loro convinzione che il continente americano dovesse essere affrancato da ogni colonizzazione da parte dell'Europa e che esso, nella sua totalità, compresa dunque l'America latina, dovesse essere considerato come globalmente rientrante nella loro sfera d'influenza e di interesse.

Se, all'epoca, la dichiarazione suonava come una mera dichiarazione di principio, che gli Stati Uniti non avrebbero potuto far valere in termini pratici, data la carenza del loro esercito. leggere in essa il primo indizio di una vocazione imperialistica non è affatto azzardato.

La politica estera s'intreccia con il potere del Presidente americano, al quale essa è deputata e che è il Capo dell'Esercito. Giustamente Tocqueville rileva che il sistema politico americano è organizzato in maniera tale da compensare il potere centrale con quello periferico degli Stati e scongiurare la possibilità di una qualunque forma di dispostismo. All'epoca della sua visita negli Usa, però, il Presidente in carica è Andrew Jackson che, dissociatosi dal partito repubblicano, ha fondato la corrente dei repubblicani democratici. Jackson ha dato un'impronta populista al suo mandato, nel corso del quale tenta in ogni modo di ampliare i poteri dell'esecutivo e di dare alla Presidenza un ruolo politico protagonista.

Anche il quadro sociale della democrazia americana fornito da Tocqueville non è del tutto realistico. Se è vero, infatti, che, in rapporto a quella europea, la società americana è ugualitaristica, partecipe, dinamica, non è tutto oro quel che luce. Le differenze di classe ci sono già e, per quanto sia dia una mobilità sociale incomparabile con il ristagno dell'Europa, gli squilibri nella distribuzione del reddito sono evidenti. Al Sud ci sono gli schiavi, ma al Nord la condizione della classe operaia e soprattutto degli immigrati è forse peggiore. L'alcolismo, che investe soprattutto le classi meno abbienti, è un fenomeno già endemico. Le condizioni carcerarie come quelle dei pazienti degli ospedali psichiatrici sono terribili e degradanti. La scuola pubblica gratuita è pressoché inesistente e, laddove esiste (nella Nuova Inghilterra e nello Stato di New York) la qualità dell'insegnamento è assolutamente mediocre. Il disprezzo per la cultura e per i libri, eccezion fatta per la Bibbia, è diffusissimo. I diritti delle donne, a parole riconosciuti enfaticamente in rapporto all'Europa, sono di fatto nella pratica misconosciuti. Le femministe, in numero ridotto, sono perseguitate. La schiavitù è ritenuta naturale, se non addirittura benefica, negli Stati del Sud, laddove gli abolizionisti vengono incarcerati e talora linciati, ma anche al Nord solo una minoranza difende i diritti dei neri.

Per quanto, insomma, l'analisi di Tocqueville sia eccellente, il quadro della società americana è più composito e contraddittorio di quello che egli decrive.