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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontà
e rappresentazione


 

Tomo I


Indice generale
 
PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE
 
LIBRO PRIMO


IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE  

PRIMA CONSIDERAZIONE


Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto dell'esperienza e della scienza.  


LIBRO SECONDO


IL MONDO COME VOLONTÀ   

PRIMA CONSIDERAZIONE


L'obiettivazione del volere.   



PROEMIO ALLA PRIMA EDIZIONE

Mi sono qui proposto d'indicare come sia da leggere questo libro, perché si riesca possibilmente a capirlo. Quel che per suo mezzo dev'esser comunicato, è un unico pensiero. Eppure, malgrado ogni sforzo, non ho potuto trovare per comunicarlo nessuna via più breve che questo libro intero. Io considero quel pensiero come ciò, che per sì gran tempo s'è cercato sotto il nome di Filosofia, e la cui scoperta sembra quindi ai dotti in istoria altrettanto impossibile quanto quella della pietra filosofale, sebbene loro già dicesse Plinio: Quam multa fieri non posse, priusquam sint facta, judicantur? (Hist, nat., 7, 1).

Secondo l'aspetto da cui si considera quell'unico pensiero ch'io ho a comunicare, esso si mostra come ciò che s'è chiamato Metafisica, o Etica, o Estetica: e invero dovrebbe essere tutto codesto insieme, se fosse quel ch'io, come ho già affermato, ritengo che sia.

Un sistema di pensieri deve sempre avere un organismo architettonico, ossia tale, che sempre una parte sostenga l'altra, ma non questa anche sostenga quella: la pietra fondamentale sostiene tutte le parti, senza venir da esse sostenuta; il vertice è sorretto, senza sorreggere. Invece un pensiero unico deve, per quanto comprensivo esso sia, conservare la più perfetta unità. Si lasci pure, per il fine della propria comunicabilità, scomporre in parti: ma tuttavia deve la concatenazione di queste parti essere organica, ossia tale, che ogni parte altrettanto regga il tutto, quando viene retta dal tutto; nessuna è la prima e nessuna è l'ultima; l'intero pensiero guadagna in chiarezza mediante ogni sua parte, ed anche la più piccola particella non può venir compresa appieno, se già prima non è stato compreso l'insieme. Ma un libro deve intanto avere un primo ed un ultimo rigo, e per questo rimarrà sempre molto dissimile da un organismo, per quanto si mantenga somigliante a questo il suo contenuto: di conseguenza staranno qui in contrasto forma e contenuto.

Risulta da sé che, in tali circostanze, non v'ha altro consiglio, per vedere a fondo nel pensiero qui esposto, se non leggere il libro due volte, e a dir vero la prima volta con molta pazienza; la quale si può attingere soltanto dalla spontanea fiducia che il principio presupponga la fine, quasi altrettanto come la fine il principio; e così ogni parte che sta innanzi presupponga quella che segue, quasi altrettanto come questa quella. Io dico «quasi»: perché non è così in tutto e per tutto; e quanto era possibile di fare, per mettere innanzi ciò che meno richiede d'esser chiarito dal seguito, come del resto quanto poteva contribuire alla più facile comprensibilità e chiarezza possibile, è stato fatto onestamente e coscienziosamente. Anzi, questo sarebbe fino a un certo punto riuscito, se il lettore, ciò che è molto naturale, invece di fermarsi solo a quel che è detto di volta in volta, non pensasse anche alle deduzioni possibili: dalla qual cosa, oltre ai molti contrasti effettivamente esistenti con l'opinione dell'epoca e presumibilmente del lettore medesimo, tanti altri ancora possono sorgere anticipati ed arbitrari, che per conseguenza deve presentarsi come vivace disapprovazione ciò che ancora è semplice malinteso. Ma tanto meno si riconosce il malinteso, quando la limpidezza faticosamente raggiunta dell'esposizione e la chiarezza dell'espressione non lasciano forse mai in dubbio sul senso immediato d'ogni luogo del testo; sebbene non possano simultaneamente esprimere i suoi rapporti con tutto il complesso dell'opera. Perciò adunque richiede la prima lettura, come ho avvertito, una pazienza attinta alla fiducia, che nella seconda o molto o tutto sarà visto in ben altra luce. Inoltre il meditato sforzo di raggiungere una più piena e perfino più agevole comprensibilità in un argomento molto difficile dev'esser di scusa se qua e là si trova una ripetizione. Già la struttura del complesso, organica e non disposta a mo' di catena, ha reso necessario il toccar talora due volte lo stesso argomento. Appunto questa struttura, e la strettissima coerenza di tutte le parti, non ha consentito la divisione, d'altro canto per me così apprezzabile, in capitoli e paragrafi; e invece m'ha obbligato a contentarmi di quattro partizioni capitali, come a dire quattro aspetti dell'unico pensiero. In ciascuno di questi quattro libri bisogna specialmente guardarsi dal perdere di vista, disopra dai punti particolari de' quali per necessità si tratta, il pensiero essenziale cui quelli appartengono, e il procedere dell'esposizione nel suo complesso. Con ciò è formulata la prima richiesta, indispensabile come l'altra che seguirà, che io rivolgo al lettore malevolo (malevolo verso il filosofo, appunto perché il lettore è filosofo anch'esso).

La seconda è questa, che prima del libro si legga l'opera che gli serve d'introduzione, sebbene non stia qui unita, essendo comparsa cinque anni prima, col titolo: «Sulla quadruplice radice del principio della ragione sufficiente: trattazione filosofica». Senza la conoscenza di questa introduzione e propedeutica, la vera comprensione del presente scritto è del tutto impossibile; e il contenuto di quella è qui ognora presupposto, come se facesse parte dell'opera. D'altronde, se quella non avesse preceduto già di parecchi anni l'opera presente, non le starebbe ora innanzi come un proemio, bensì sarebbe incorporata nel primo libro; il quale ora, mancandogli ciò ch'è detto in quella trattazione, dimostra una certa incompiutezza per le lacune che di continuo deve riempire riferendosi ad essa. Era tuttavia così grande la mia ripugnanza a copiare me stesso, o a presentare un'altra volta faticosamente con altre parole ciò che già una prima volta avevo detto a sufficienza, che ho preferito questa via, quantunque avessi ora potuto dare al contenuto di quella memoria un'esposizione alquanto migliore, soprattutto sgombrandola di parecchi concetti derivati dalla mia troppa suggezione d'allora alla filosofia di Kant: categorie, senso interno ed esterno, e simili. Nondimeno codesti concetti si trovano colà, soltanto perché fino allora non m'ero profondamente addentrato in essi, e vi stanno quindi come elementi accessori, senz'alcun vincolo con l'essenziale; sì che la rettificazione di cotali luoghi in quella memoria si farà benissimo da sé nel pensiero del lettore, con la conoscenza dello scritto presente. Ma solo quando per mezzo di quella memoria si è conosciuto appieno ciò che sia e significhi il principio di ragione, dove si estenda e dove no il suo vigore, e come esso non preceda tutte le cose, per modo che il mondo venga ad esistere solo in conseguenza e conformità sua, essendone quasi il corollario; bensì non sia altro che la forma in cui l'oggetto sotto condizione del soggetto, di qualunque specie quello sia, viene ovunque conosciuto, in quanto il soggetto è un individuo conoscente: solo allora sarà possibile penetrare a fondo nel metodo di filosofare qui per la prima volta tentato, affatto diverso da tutti i precedenti.

Ma la medesima riluttanza a copiare me stesso parola per parola, o anche a dire una seconda volta proprio lo stesso con altre peggiori parole, dopo che avevo già la prima volta usato le migliori, ha prodotto ancora un'altra lacuna nel primo libro di quest'opera; avendo io tralasciato quanto si trova nel primo capitolo della mia memoria Sopra la vista e i colori, e che altrimenti avrebbe qui trovato posto integralmente. Quindi anche la conoscenza di questo piccolo scritto anteriore viene qui presupposta.

Finalmente la terza richiesta da fare al lettore potrebbe anche esser sottintesa: perché non è altra se non quella di conoscere la più importante apparizione che sia avvenuta da due secoli nella filosofia: intendo gli scritti principali di Kant. L'azione, che essi esercitano sullo spirito al quale effettivamente parlino, io la trovo invero paragonabile, come forse è già stato detto, all'operazione della cateratta sui ciechi: e se vogliamo continuare il paragone, il mio intento si può designare dicendo, che a coloro ai quali quell'operazione è riuscita ho voluto porre in mano gli occhiali che adoprano gli operati di cateratta, per l'uso dei quali è adunque prima condizione quell'atto operativo. Ma per quanto io prenda le mosse da ciò che il gran Kant ha fatto, tuttavia appunto lo studio serio delle sue opere mi ha fatto scoprire in quelle notevoli errori, ch'io dovevo staccare dal resto e mostrare come condannabili, per poter presupporre e adoprare puro e purgato da essi quanto nella dottrina kantiana è di véro e di eccellente. Tuttavia, per non interrompere e confondere la mia propria esposizione con la frequente polemica contro Kant, ho concentrato questa in una speciale appendice. Ora, secondo ho detto, come la mia opera presuppone la conoscenza della filosofia kantiana, così presuppone dunque pur la conoscenza di quella appendice: perciò sotto questo riguardo sarebbe consigliabile di leggere prima l'appendice, tanto più che il suo contenuto ha precisi rapporti proprio col primo libro dell'opera presente. D'altra parte non si potè evitare, per la natura della cosa, che anche l'appendice qua e là si riferisse all'opera stessa: da ciò nient'altro consegue se non che anch'essa, come il corpo dell'opera, deve esser letta due volte.

La filosofia di Kant è dunque la sola, di cui assolutamente si suppone una conoscenza a fondo per ciò che qui verrà esposto. Ma se per di più il lettore s'è ancora intrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglio ne riuscirà preparato e disposto ad udirmi. Se poi anche è diventato partecipe del benefizio dei Veda, l'accesso ai quali, apertoci mediante le Upanisciade, è a' miei occhi il maggior privilegio che questo ancor giovine secolo può vantare sul precedente, in quanto io ritengo che l'influsso della letteratura sanscrita non sarà meno profondo che il rinascimento della cultura greca nel secolo xv, se adunque, io dico, il lettore ha già ricevuto e accolto con animo ben disposto anche la consacrazione dell'antichissima saggezza indiana, allora è nel miglior modo preparato a udire ciò che io ho da esporgli. La materia non sembrerà allora a lui, come a qualche altro, straniera o addirittura ostica; perché io, se non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle singole sentenze staccate, le quali costituiscono le Upanisciade, si lascia dedurre, come conclusione, dal pensiero ch'io devo comunicare; sebbene questo pensiero viceversa non si possa in alcun modo trovare colà.

Ma già sono i più de' lettori scattati con impazienza, prorompendo nel rimprovero a stento trattenuto per tanto tempo, come mai io possa osar di presentare al pubblico un libro con esigenze e condizioni, delle quali le due prime sono presuntuose e affatto immodeste: e questo in una epoca sì ricca di singolari pensieri, che in Germania soltanto per mezzo della stampa ve n'ha i quali diventano annualmente dominio comune in tremila opere dense di contenuto, originali, assolutamente indispensabili, e inoltre in periodici innumerevoli, o addirittura nei giornali quotidiani; in un'epoca, nella quale soprattutto non v'ha punto difetto di filosofi pienamente originali e profondi: sì che nella sola Germania vivono tanti di essi a un tempo, quanti prima potevan produrre varii secoli l'un dopo l'altro. Come mai dunque, interroga l'irato lettore, si può venirne a capo, se bisogna darsi tanto da fare per un libro solo?

Poiché non ho la minima obiezione da fare contro tali rimproveri, da questi lettori non m'attendo qualche gratitudine, se non per averli avvertiti in tempo, affinché essi non perdano un'ora con un libro la cui lettura non potrebbe dar frutto senza la soddisfazione delle esigenze formulate, e perciò è da tralasciare affatto; massime essendovi d'altronde anche da scommetter grosso, che il libro non piacerebbe loro; che piuttosto esso sarà sempre soltanto paucorum hominum, e perciò paziente e modesto deve attendere i pochi, la cui maniera di pensare non comune lo trovi leggibile. Perché, anche astraendo dall'ampiezza d'idee e dallo sforzo che domanda al lettore, quale uomo colto del nostro tempo, in cui il sapere è arrivato vicino a quel mirabile punto dove paradosso ed errore sono tutt'uno, potrebbe sopportar di trovare quasi ad ogni pagina pensieri, che francamente contrastano con ciò che egli stesso, una volta per sempre, ha stabilito per vero e indubitato? E poi, come taluno si troverà spiacevolmente deluso, non imbattendosi qui in nessun discorso di ciò che egli proprio qui pensa di dover cercare, perché il suo modo di speculare s'incontra con quello di un grande filosofo vivente1, il quale ha scritto libri davvero commoventi, ed ha soltanto la piccola debolezza di veder pensieri fondamentali, innati nello spirito umano, in tutto quanto egli ha imparato e accettato prima del suo quindicesimo anno! Chi potrebbe sopportare tutto ciò? Quindi il mio solo consiglio è di metter via il libro, ancora una volta. Ma temo io stesso di non uscirne così. Il lettore, una volta arrivato al proemio che lo respinge, ha pur comprato il libro a denaro sonante, e domanda che cosa ne lo risarcirà. Mio ultimo riparo è ora il rammentargli che egli può utilizzare un libro in vari modi, senza bisogno di leggerlo. Può, come tanti altri, riempire un vuoto della sua biblioteca, dov'esso, ben rilegato, farà certo buona mostra di sé, O anche deporlo sulla toilette o sul tavolino da the della sua dotta amica. O infine egli può ancora, ciò che di certo è il meglio di tutto ed io particolarmente consiglio, farne una recensione.

E così, dopo che mi son permesso lo scherzo, al quale non c'è pagina per quanto seria che non debba far posto in questa vita, la quale sempre e ovunque mostra una duplice faccia, offro con intima gravità il libro, con la fiducia che presto o tardi raggiungerà coloro, ai quali solo può esser rivolto; e d'altronde tranquillamente rassegnato a vedergli toccare in piena misura il destino, che sempre toccò alla verità, in ogni dominio del sapere, e tanto più in quello che più importa: alla quale verità è destinato solo un breve trionfo, fra i due lunghi spazi di tempo in cui ella è condannata come paradossale o spregiata come banale. E il primo destino colpisce insieme colui che l'ha trovata. Ma la vita è breve, e la verità opera lontano e lungamente vive: diciamo la verità.

(Scritto in Dresda nell'agosto 1818).

LIBRO PRIMO


IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

PRIMA CONSIDERAZIONE


Rappresentazione sottomessa al principio della ragione: l'oggetto dell'esperienza e della scienza.


Sors de l'enfance, ami, réveille-toi!

Jean-Jacques Rousseau


§ 1.

«Il mondo è mia rappresentazione»: – questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e conoscente, sebbene l'uomo soltanto sia capace d'accoglierla nella riflessa, astratta coscienza: e s'egli veramente fa questo, con ciò è penetrata in lui la meditazione filosofica. Per lui diventa allora chiaro e ben certo, ch'egli non conosce né il sole né la terra, ma appena un occhio, il quale vede un sole, una mano, la quale sente una terra; che il mondo da cui è circondato non esiste se non come rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto ad un altro, a colui che rappresenta, il quale è lui stesso. Se mai una verità può venire enunciata a priori è appunto questa: essendo l'espressione di quella forma d'ogni possibile e immaginabile esperienza, la quale è più universale che tutte le altre forme, più che tempo, spazio e causalità; poi che tutte queste presuppongono appunto quella, E se ciascuna di tali forme, che noi abbiamo tutte riconosciute come altrettante determinazioni particolari del principio della ragione, ha valore solo per una speciale classe di rappresentazioni, la divisione in oggetto e soggetto è invece forma comune di tutte quelle classi: è la forma unica in cui qualsivoglia rappresentazione, di qualsiasi specie, astratta o intuitiva, pura o empirica, è possibile ed immaginabile. Nessuna verità è adunque più certa, più indipendente da ogni altra, nessuna ha minor bisogno d’esser provata, di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, – adunque questo mondo intero, – è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. Naturalmente questo vale, come per il presente, così per qualsiasi passato e qualsiasi futuro, per ciò che è lontanissimo come per ciò che è vicino: imperocché vale finanche per il tempo e lo spazio, dentro i quali tutto viene distinto. Tutto quanto è compreso e può esser compreso nel mondo, deve inevitabilmente aver per condizione il soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione.

Questa verità è tutt'altro che nuova. Ella era già nella concezione degli scettici, donde mosse Cartesio. Ma Berkeley fu il primo ad esprimerla risolutamente, e si acquistò così un merito immortale verso la filosofia, quantunque il resto delle sue dottrine non possa reggere. Il primo errore di Kant fu la negligenza di questo principio, come verrà esposto nell'appendice. Quanto remotamente invece tal fondamentale verità fosse riconosciuta dai saggi indiani, apparendo come base della filosofia Vedanta attribuita a Vyasa, ci attesta W. Jones, nell'ultima sua memoria On the philosophy of the Asiatics; «Asiatic Researches», vol. IV, p. 164: «the fundamental tenet of the Vedanta school consisted not in denying the existence of matter, that is of solidity, impenetrability, and extended figure (to deny which would be lunacy), but in correcting the popular notion of it, and in contending that it has no essence independent of mental perception; that existence and perceptibility are convertible terms»2. Queste parole esprimono sufficientemente la coesistenza della realtà empirica con l'idealità trascendentale,

Dunque solo dal punto di vista indicato, solo in quanto è rappresentazione, noi consideriamo il mondo in questo primo libro. Che nondimeno questa considerazione, malgrado la sua verità, sia unilaterale, e quindi ottenuta mediante un'astrazione arbitraria, è fatto palese a ciascuno dall'intima riluttanza ch’ei prova a concepire il mondo soltanto come sua pura rappresentazione; al quale concetto d'altra parte non può mai e poi mai sottrarsi. Ma l'unilateralità di questa considerazione verrà integrata nel libro seguente con un'altra verità, la quale non è di certo così immediata come quella da cui qui muoviamo; bensì tale che vi si può esser condotti solo da più profonda indagine, più difficile astrazione, separazione del diverso e riunione dell'identico – una verità che deve apparire molto grave e per ognuno, se non proprio paurosa, almeno meritevole di riflessione: ossia questa, che egli appunto può dire e deve dire: «il mondo è la mia volontà».

Ma per ora, in questo primo libro, è necessario considerare, senz'allontanarsene, quell'aspetto del mondo da cui prendiamo le mosse – l'aspetto della conoscibilità – e perciò, lasciando ogni riluttanza, esaminare tutti gli oggetti esistenti, compreso perfino il nostro corpo (come sarà spiegato meglio ben presto), esclusivamente quali rappresentazioni; e quali pure rappresentazioni definire. In tal modo si viene a fare astrazione, unicamente e sempre, dalla volontà, secondo più tardi sarà per apparire evidente, spero, a tutti; come da quella che da sola costituisce l'altro aspetto del mondo: perché come il mondo è da un lato, in tutto e per tutto, rappresentazione, così dall'altro, in tutto e per tutto, volontà. Una realtà invece che non sia né questa né quella, ma sia bensì un oggetto in sé (com'è purtroppo divenuta la cosa in sé di Kant degenerando nelle sue mani) è una chimera di sogno, e la sua assunzione un fuoco fatuo della filosofia.

§ 2.

Quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto, è il soggetto. Esso è dunque che porta in sé il mondo; è l'universale, ognora presupposta condizione d'ogni fenomeno di ogni oggetto: perché ciò che esiste, non esiste se non per il soggetto. Questo soggetto ciascuno trova in sé stesso; ma tuttavia solo in quanto conosce, non in quanto è egli medesimo oggetto di conoscenza. Oggetto è già invece il suo corpo: ed anch’esso perciò, secondo questo modo di vedere, chiamiamo rappresentazione. Invero il corpo è oggetto fra oggetti, e sottoposto alle leggi degli oggetti, sebbene sia oggetto immediato3. Esso sta, come tutti gli oggetti dell'intuizione, nelle forme d'ogni conoscimento, nel tempo e nello spazio, per mezzo dei quali si ha pluralità. Ma il soggetto, il conoscente, non mai conosciuto, non sta anch'esso in quelle forme, dalle quali appunto viene invece sempre già presupposto: non gli tocca perciò né pluralità né il contrapposto di quella, unità. Giammai lo conosciamo, ma esso è che conosce, dovunque sia conoscenza.

Il mondo come rappresentazione, adunque – e noi non lo consideriamo qui se non sotto questo aspetto – ha due metà essenziali, necessarie e inseparabili. L'una è l'oggetto, di cui sono forma spazio e tempo, mediante i quali si ha la pluralità. Ma l'altra metà, il soggetto, non sta nello spazio e nel tempo: perché essa è intera e indivisa in ogni essere rappresentante; perciò anche un solo di questi esseri, con l'oggetto, integra il mondo come rappresentazione, sì appieno quanto i milioni d'esseri esistenti. Ma, se anche solo quell'unico svanisse, cesserebbe d'esistere pure il mondo come rappresentazione. Queste metà sono perciò inseparabili, anche per il pensiero; perché ciascuna di esse consegue solo mediante e per l'altra significazione ed esistenza, ciascuna esiste con l’altra e con lei dilegua. Esse si limitano a vicenda direttamente: dove l'oggetto comincia, finisce il soggetto. La comunanza di questi limiti si mostra appunto in ciò, che le forme essenziali e perciò universali d'ogni oggetto, le quali sono tempo, spazio e causalità, possono, muovendo dal soggetto, venir trovate e pienamente conosciute anche senza la conoscenza stessa dell'oggetto; il che val quanto dire, nel linguaggio di Kant, che esse stanno a priori nella nostra coscienza. L’aver ciò scoperto è un capitale merito di Kant, un immenso merito. Io affermo ora in più, che il principio di ragione è l'espressione comune per tutte queste forme dell'oggetto, delle quali siamo consci a priori; e che perciò tutto quanto noi sappiamo puramente a priori, non è nulla se non appunto il contenuto di quel principio e ciò che da esso deriva; in esso adunque propriamente viene formulata tutta quanta la nostra conoscenza certa a priori. Nel mio scritto intorno al principio di ragione ho ampiamente mostrato che qualsivoglia oggetto possibile è a quello sottomesso; vale a dire, sta in una relazione necessaria con altri oggetti, da un verso come determinato, dall'altro come determinante: ciò va tanto lungi, che l'intera esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e null'altro, in tutto e per tutto fa capo a quel loro necessario, scambievole rapporto; e solo in esso ella consiste, dunque è affatto relativa. Ma su ciò si dirà presto di più. Io ho inoltre mostrato che a seconda delle classi nelle quali gli oggetti si ripartiscono avendo riguardo alla loro possibilità, si presenta in vario modo quel necessario rapporto che il principio di ragione genericamente esprime; dal che si conferma la giusta ripartizione delle classi medesime. Qui sempre suppongo già conosciuto e presente al lettore quanto ho detto in quella trattazione; perché, se non fosse già stato detto colà, qui dovrebbe per necessità avere il suo posto.

§ 3.

La differenza capitale fra tutte le nostre rappresentazioni è quella dell'intuitivo e dell'astratto. Astratta e una classe sola di rappresentazioni, che sono i concetti: e questi sulla terra sono patrimonio speciale dell'uomo. Tale capacità, che lui distingue da tutti gli animali, fu dai più remoti tempi chiamata ragione4. Esamineremo a parte in seguito codeste rappresentazioni astratte, ma dapprima si discorrerà esclusivamente della rappresentazione intuitiva. Questa adunque comprende l'intero mondo visibile, o il complesso dell'esperienza, oltre le condizioni di possibilità della medesima. È, come ho detto, un'assai importante scoperta di Kant, che appunto queste condizioni, queste forme dell'esperienza (ossia ciò che v'ha di più generale nella sua percezione, ciò che in egual modo è proprio di tutti i suoi fenomeni – intendo il tempo e lo spazio) possono per se stesse, disgiunte dal loro contenuto, venir non pure pensate in abstracto, ma anche immediatamente intuite; e che tale intuizione non sia per avventura un fantasma ricavato dall'esperieza5 mediante il suo ripetersi, bensì dall'esperienza sia tanto indipendente, da doversi questa viceversa pensare piuttosto come dipendente da quella: per ciò che le proprietà dello spazio e del tempo, quali li riconosce a priori l'intuizione, valgono come leggi per ogni possibile esperienza; leggi, a cui questa deve ovunque conformarsi. Per questo motivo nella mia memoria sul principio di ragione ho considerato tempo e spazio, in quanto vengono intuiti puri e privi di contenuto, come una classe particolare di rappresentazioni, esistente di per sé. Ora, per quanto importante sia pure codesta natura, scoperta da Kant, di quelle forme universali dell'intuizione, che cioè le si possano intuire in sé e indipendenti dall'esperienza, e conoscere dalla loro piena legittimità (sul che si fonda la matematica con la sua infallibilità), non è tuttavia meno osservabile quest’altra loro proprietà, che il principio di ragione (il quale determina l'esperienza come legge della causalità e motivazione, e il pensiero come legge del fondamento dei giudizi) si presenti qui sotto un aspetto tutto speciale, a cui ho dato il nome di ragione dell'essere; e che è, nel tempo, il succedersi dei suoi momenti, e nello spazio la posizione delle sue parti vicendevolmente determinantisi all'infinito.

Quegli a cui dalla mia dissertazione introduttiva sia risultata chiara la piena identità di contenuto del principio di ragione, malgrado tutta la varietà delle sue modificazioni, sarà pur convinto di quanto importi, a penetrar nella sua più intima essenza, la nozione della più semplice tra le sue forme, come tali: e per tale abbiamo riconosciuto il tempo. Come nel tempo ciascun attimo esiste solo in quanto ha cancellato l'attimo precedente – suo padre – per venire anch'esso con la medesima rapidità alla sua volta cancellato; come passato e avvenire (facendo astrazione dalle conseguenze del loro contenuto) sono illusori a modo di sogni, e il presente non è che un limite tra quelli, privo di estensione e durata: proprio così riconosceremo la stessa nullità anche in tutte le altre forme del principio di ragione. E comprenderemo che come il tempo, così anche lo spazio, e come questo, così tutto ciò che è insieme nello spazio e nel tempo, tutto, insomma, ciò che proviene da cause o motivi, ha un'esistenza solo relativa, esiste solo mediante e per un'altra cosa che ha la stessa natura, ossia esiste anch'essa soltanto a quel modo. La sostanza di questa opinione è antica: Eraclito lamentava con essa l'eterno fluire delle cose; Platone ne disdegnò l'oggetto come un perenne divenire, che non è mai essere; Spinoza chiamò le cose puri accidenti della unica sostanza, che sola esiste e permane; Kant contrappose ciò che conosciamo in tal modo, come pura apparenza, alla cosa in sé; e infine l'antichissima sapienza indiana dice: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un serpente» (Questi paragoni si trovano ripetuti in luoghi innumerevoli dei Veda e dei Purana). Ma ciò che tutti costoro pensavano, e di cui parlano, non è altro se non quel che anche noi ora, appunto, consideriamo: il mondo come rappresentazione, sottomesso al principio della ragione.

§ 4.

Chi ha conosciuto quella forma del principio di ragione che apparisce nel tempo puro in quanto è tale, e su cui poggia ogni numerazione e calcolo, ha con ciò appunto conosciuto anche l'intera essenza del tempo. Esso non è se non proprio della forma del principio di ragione, e non ha alcun'altra proprietà. Successione è la forma del principio di ragione nel tempo, successione è tutta l'essenza del tempo. Chi poi ha conosciuto il principio di ragione quale esso domina nell'intuizione pura dello spazio, ha con ciò stesso dato fondo all'intera essenza dello spazio; perché questo in tutto e per tutto niente altro è se non la possibilità delle vicendevoli determinazioni delle sue parti, la quale si chiama posizione. Lo studio ampio di questa, e la fissazione in concetti astratti, per più comodo uso, dei risultati che ne seguono, è il contenuto di tutta la geometria. Ora appunto così, chi ha conosciuto il modo del principio di ragione che regge il contenuto di quelle forme (il tempo e lo spazio) e la loro percettibilità, cioè la materia, e ha quindi conosciuto la legge della causalità; quegli ha pur conosciuto proprio con ciò l'intera essenza della materia come tale: perché questa è in tutto e per tutto nient'altro che causalità: ciò che ognuno immediatamente vede, appena vi rifletta. Poiché il suo essere è la sua attività: nessun altro suo essere si può anche solamente pensare. Solo come agente riempie essa lo spazio, riempie il tempo: la sua azione sull'oggetto immediato (che pur esso è materia) determina l’intuizione, senza la quale non esiste materia: il risultato dell’azione di ogni oggetto materiale sopra un altro è solo conosciuto in quanto quest'ultimo agisce alla sua volta diversamente che innanzi sull'oggetto immediato; e in ciò solo consiste. Causa ed effetto è dunque tutta la essenza della materia: il suo essere è la sua attività. (Su ciò più minutamente nella dissertazione intorno al principio di ragione, § 21, p. 77). Giustissimamente perciò in tedesco il concetto di tutto ciò che è materiale vien chiamato6 Wirklichkeit, da wirken, agire, la qual parola è molto più precisa che non realtà. Ciò su cui la materia agisce, è ancora e sempre materia: tutta la sua sostanza consiste adunque nella regolare modificazione che una parte di essa produce nell'altra, e perciò del tutto relativa, relazione vigente solo dentro i suoi confini; adunque proprio come il tempo, proprio come lo spazio.

Ma tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza la materia intuitivamente rappresentabili; invece non la materia senza quelli. Già la forma, che da lei è inseparabile, presuppone lo spazio; e la sua attività, in cui sta tutto il suo essere, concerne sempre un cambiamento – e perciò una determinazione – del tempo. Ma tempo e spazio non vengono isolatamente, ciascuno per sé, presupposti dalla materia; bensì l'unione d'entrambi costituisce l'essenza di questa; appunto perché tale essenza, com'è dimostrato, consiste nell'attività, nella causalità. Tutti gli immaginabili, innumerevoli fenomeni e stati potrebbero invero nello spazio infinito, senza darsi impaccio, l'un presso l'altro coesistere, o anche nel tempo infinito, senza disturbarsi, l'un l'altro seguire; perciò dunque una necessaria relazione fra loro ed una regola che li determinasse in conformità di questa relazione non sarebbe in niun modo indispensabile, e nemmeno applicabile: non si avrebbe dunque allora, malgrado ogni giustapposizione nello spazio e ogni mutamento nel tempo, ancora nessuna causalità, fin che ciascuna di quelle due forme avesse la sua esistenza e il suo corso di per sé, senza connessione con l'altra. E poiché la causalità costituisce propriamente l'essenza della materia, non si avrebbe nemmeno materia. Ora invece la legge di causalità trae la sua significazione e necessità solo da ciò, che l'essenza del cambiamento non sta nel puro mutar degli stati in sé, bensì piuttosto nel fatto che nello stesso punto dello spazio è ora uno stato e successivamente un altro, e in uno stesso momento determinato è qui questo stato, là un altro: solo questa reciproca limitazione del tempo e dello spazio da significato e insieme necessità ad una regola, secondo la quale deve svolgersi il cambiamento. Ciò che viene determinato mediante la legge di causalità non è adunque la successione degli stati nel tempo puro, ma codesta successione riguardo a uno spazio determinato, e non la presenza degli stati in un luogo determinato, ma in questo luogo in un tempo determinato. La modificazione, ossia il cambiamento sopravveniente secondo la legge causale, concerne perciò ogni volta una determinata parte dello spazio e una determinata parte del tempo, simultaneamente e insieme, Quindi la causalità congiunge lo spazio col tempo. Ma noi abbiamo trovato che nell'attività, e perciò nella causalità, consiste l'intera essenza della materia: di conseguenza devono anche in questa spazio e tempo esser congiunti, ossia essa deve avere simultaneamente in sé le proprietà del tempo e dello spazio, per quanto queste si contrastino; e ciò che in ciascuno di quelli è da solo impossibile, deve essa in sé riunire, ossia l'inconsistente fuga del tempo con la rigida, immutabile persistenza dello spazio: la divisibilità infinita essa l'ha da entrambi. In tal modo noi troviamo primamente per suo mezzo prodotta la simultaneità, che non poteva essere né nel tempo puro, il quale non conosce alcuna giustapposizione, né nel puro spazio, il quale non conosce alcun innanzi, dopo, e ora. Ma è appunto la simultaneità di molti stati che costituisce l'essenza della realtà [Wirklichkeit]: perché dalla simultaneità in primissimo luogo è resa possibile la durata, essendo questa conoscibile solo al variar di ciò che è insieme presente e durevole: com'anche solo mediante il durevole nella variazione prende questa il carattere della modificazione, ossia del mutamento di qualità e forma nel perdere della sostanza, cioè della materia7. Nello spazio puro il mondo sarebbe rigido ed immobile: nessuna successione, nessuna modificazione, nessuna attività: ma appunto con l'attività è anche tolta via la rappresentazione della materia. D’altra parte, nel tempo puro tutto sarebbe fuggitivo: nessun persistere, nessun coesistere, e perciò nulla di simultaneo, quindi nessuna durata: ossia anche in questo caso niente materia. Solo dall'unione di tempo e spazio risulta la materia, vale a dire la possibilità della esistenza simultanea e quindi della durata; mediante questa poi, la possibilità del permanere della sostanza nel mutar degli stati8. Avendo la sua essenza nell'unione di tempo e spazio, la materia reca sempre l'impronta d'entrambi. Ella attesta la sua origine dallo spazio, in parte con la forma, che da lei è inseparabile, ma soprattutto (perché il cambiamento appartiene solo al tempo, ed in questo, considerato in sé e per sé, non è nulla di stabile) col suo permanere (sostanza); la cui certezza a priori va perciò derivata in tutto e per tutto da quella dello spazio9: invece la sua origine dal tempo manifesta ella con la qualità (accidente) senza la quale mai non appare, e che non è altro se non causalità (azione sopr'altra materia, ossia cambiamento, che è un concetto di tempo). Ma la legittima possibilità di questa azione si riferisce sempre simultaneamente a spazio e tempo, e appunto da ciò soltanto acquista un senso. Quale stato debba aversi in un dato tempo e luogo è la sola determinazione su cui s'estende la giurisdizione della causalità. Su questa provenienza delle determinazioni fondamentali della materia dalle forme a priori della nostra conoscenza, poggia il riconoscimento a priori che noi facciamo in lei di talune proprietà, come quella di riempir lo spazio, ossia impenetrabilità, ossia attività; inoltre estensione, infinita divisibilità, permanenza, ossia indistruttibilità, e infine mobilità: la gravità invece, malgrado ammetta eccezioni, sarà da attribuire alla conoscenza a posteriori, sebbene Kant nei Principi metafisici della scienza della natura, p. 71 (ed. Rosenkranz, p. 372) la ponga come conoscibile a priori.

Ma come l’oggetto esiste solo per il soggetto, quale sua rappresentazione, così ogni speciale classe di rappresentazione esiste nel soggetto soltanto per un'altrettanta speciale determinazione, che si chiama facoltà conoscitiva. Il correlato subiettivo di tempo e spazio in sé, come forme vuote, fu da Kant chiamato sensibilità pura, e questa espressione, poiché qui Kant aperse la via, può esser mantenuta; sebbene non convenga perfettamente, per ciò che sensibilità presuppone già materia. Il correlato subiettivo della materia o causalità, le quali sono tutt'uno, è l'intelletto, che non altro è fuori di questo. Sua esclusiva funzione, sua unica forza è conoscere la causalità – ed è una forza grande, che molto abbraccia, di svariata applicazione, ma di non disconoscibile identità in tutte le sue manifestazioni. Viceversa ogni causalità, perciò ogni materia, e quindi l'intera realtà esiste soltanto per l'intelletto, mediante l'intelletto, nell'intelletto. La prima, più semplice, sempre presente manifestazione dell'intelletto è l'intuizione del mondo reale: questa non è altro se non conoscenza della causa dall'effetto: perciò ogni intuizione è intellettuale. Non vi si potrebbe tuttavia pervenire mai, se un effetto qualsiasi non fosse conosciuto immediatamente, servendo con ciò da punto di partenza. E questo è l'effetto sui corpi animali. In tale senso sono questi gli oggetti immediati del soggetto: l'intuizione di tutti gli altri oggetti si ha per loro mezzo. Le modificazioni che ogni corpo animato subisce sono immediatamente conosciute, ossia provate; e in quanto codesto effetto viene tosto riferito alla sua causa, nasce l'intuizione di quest'ultima come di un oggetto. Questo riferimento non è una conclusione di concetti astratti, non accade per mezzo di riflessione né con arbitrio, ma immediatamente, necessariamente e sicuramente. Esso è il modo di conoscere del puro intelletto, senza il quale non si verrebbe mai all’intuizione; ma s'avrebbe una coscienza ottusa, vegetativa, delle modificazioni dell'oggetto immediato, che si succederebbero prive in tutto di senso, se non avessero forse un senso di dolore o di piacere per la volontà. Ma come, con l'apparir del sole, il mondo visibile si scopre, così l'intelletto con la sua unica, semplice funzione trasforma d'un tratto in intuizione la confusa e bruta sensazione. Ciò che sente l'occhio, l'orecchio, la mano, non è l'intuizione, ma sono appena i dati dell'intuizione. Solo allor che l'intelletto risale dall'effetto alla causa, apparisce il mondo, esteso nello spazio come intuizione, mutevole nella forma, eterno in quanto materia: perché l'intelletto congiunge spazio e tempo nella rappresentazione di materia, ossia di attività. Questo mondo come rappresentazione esiste solo mediante l'intelletto, e solo per l'intelletto. Nel primo capitolo della mia dissertazione «sulla vista ed i colori», ho già spiegato come sui dati, che i sensi forniscono, l'intelletto foggi l'intuizione; come dal confronto delle impressioni che i vari sensi ricevono dal medesimo oggetto il bambino apprenda l'intuizione; come soltanto ciò fornisca la spiegazione di tanti fenomeni dei sensi: la visione unica con due occhi; la doppia visione nello strabismo, o nella ineguale distanza di oggetti posti l'uno dietro l'altro, che l'occhio veda simultaneamente; e tutte le illusioni prodotte da un'improvvisa modificazione negli organi sensorii. Molto più estesamente e più a fondo ho tuttavia studiato questo importante argomento nella seconda edizione dello scritto sul principio di ragione (§ 21). Tutto ciò che là vien detto avrebbe qui di necessità il suo luogo, dovrebbe quindi in verità esser qui ripetuto: ma poi che io ho quasi altrettanta ripugnanza a copiare me stesso che gli altri, né sono in grado di esporre le mie idee meglio di quanto abbia fatto colà, vi rinunzio; e invece di ripeterle qui, le do per già conosciute.

L'apprendimento della visione da parte dei bambini e dei ciechi nati che siano stati operati, la visione unica di ciò che vien percepito doppio con due occhi, il doppio vedere o la doppia sensibilità tattile nello spostamento degli organi sensorii dalla loro posizione ordinaria, il veder l’oggetto diritto mentre l’immagine sta capovolta nell’occhio, l’attribuzione del colore – che è solo una funzione interna, una divisione polare dell'attività dell'occhio – agli oggetti esterni e infine anche lo stereoscopio – tutte queste sono salde e indiscutibili prove del fatto che ogni intuizione non è puramente sensibile, bensì intellettuale, ossia pura conoscenza intellettiva della causa dall'effetto, e quindi presuppone la legge di causalità. Dal conoscimento di quella dipende ogni intuizione, e perciò ogni esperienza, nella sua prima e intera possibilità; e non viceversa il conoscimento della legge causale dall'esperienza, secondo voleva lo scetticismo di Hume, che per la prima volta viene confutato con questa dimostrazione. Poiché l'indipendenza della cognizione della causalità da ogni esperienza, ossia la sua apriorità, non può venir dimostrata se non col dipendere di tutta l'esperienza da lei e questo alla sua volta può solamente accadere quando si provi nel modo qui indicato, e ampiamente svolto nei luoghi più sopra citati, che la nozione di causalità è già universalmente implicita nell'intuizione, nel cui dominio sta tutta l'esperienza; sì che quella nozione sussiste pienamente a priori in rapporto all'esperienza, e viene da questa presupposta, non la presuppone. Ciò non si può invece dimostrare nel modo tentato da Kant e da me criticato nella dissertazione sul principio della ragione (§ 23).

§ 5.

Ma bisogna guardarsi dal grande equivoco di pensare che, poiché l'intuizione richiede la nozione della causalità, ne sorga di conseguenza fra oggetto e soggetto il rapporto di causa ed effetto; mentre questo rapporto ha sempre luogo invece fra oggetto immediato e mediato, quindi sempre soltanto fra oggetti. Appunto su quella falsa premessa poggia l'insana contesa intorno alla realtà del mondo esterno, nella quale stanno di fronte dogmatismo e scetticismo, e quello interviene ora come realismo, ora come idealismo. Il realismo pone l'oggetto come causa, e il suo effetto pone nel soggetto. L'idealismo di Fichte fa invece l’oggetto del soggetto. Ma non potendo esservi alcun rapporto fra soggetto ed oggetto secondo il principio di ragione – ciò che non sarà mai ribadito abbastanza – non poté venir provata né l'una né l'altra di quelle affermazioni, e contro entrambe fece vittoriosi assalti lo scetticismo. Invero come la legge di causalità già precede, essendone condizione, l'intuizione e l'esperienza, e quindi non può venir ricavata da queste (secondo Hume pensava); così oggetto e soggetto, già quali prime condizioni, precedono ogni conoscenza e quindi in genere il principio di ragione, perché questo non è se non la forma di tutti gli oggetti, il modo costante del loro apparire. Ma l'oggetto già presuppone sempre il soggetto: fra i due non può adunque sussistere alcun rapporto di causa ed effetto. Il mio scritto sul principio di ragione mira appunto a questo, a esporre il contenuto di quel principio come la forma essenziale di ogni oggetto, ossia come il modo universale di ogni esistenza oggettiva, come qualcosa che appartiene in proprio all'oggetto in quanto è tale; ma in quanto è tale, l'oggetto presuppone ognora il soggetto come suo necessario correlato: questo rimane perciò sempre fuori del dominio in cui ha valore il principio di ragione. La contesa sulla realtà del mondo esterno si fonda appunto su quella falsa estensione di valore data al principio di ragione fino a comprendere anche il soggetto; e muovendo da questo equivoco non potè mai chiarirsi. Da un lato il dogmatismo realistico, considerando la rappresentazione come effetto dell'oggetto, vuole separare queste due cose – rappresentazione ed oggetto – che sono invece una cosa sola, ed ammettere una causa affatto differente dalla rappresentazione, un oggetto in sé indipendente dal soggetto: qualcosa del tutto inconcepibile perché appunto come oggetto presuppone sempre il soggetto e sempre rimane perciò una semplice rappresentazione di questo. Al dogmatismo realistico lo scetticismo oppone, con la stessa falsa premessa, che nella rappresentazione si ha sempre unicamente l’effetto, mai la causa, perciò non si conosce mai l'essenza, ma soltanto l'azione degli oggetti. L'azione poi potrebbe forse non avere alcuna analogia con l’essenza; anzi in genere sarebbe questa analogia un’opinione del tutto falsa, poiché la legge di causalità non è ricavata che dalla esperienza, la cui realtà alla sua volta dovrebbe poi poggiare su quella legge. Ora a questo proposito conviene ad entrambe le dottrine l’ammonimento, in primo luogo, che oggetto e rappresentazione sono tutt'uno; poi, che l'essenza degli oggetti intuibili è appunto la loro azione; che proprio nell’azione consiste la realtà dell'oggetto, e la pretesa di un esistenza dell'oggetto fuori della rappresentazione del soggetto, e anche di un'essenza della cosa reale diversa dalla sua azione non ha senso di sorta, anzi è una contraddizione; che per conseguenza il conoscimento del modo d'agire d'un oggetto intuito lo esaurisce, in quanto è oggetto, ossia rappresentazione, perché all'infuori di ciò nulla rimane in esso per la conoscenza. Sotto questo rispetto adunque il mondo intuito nello spazio e nel tempo, il mondo che si manifesta come pura causalità, è pienamente reale, ed è in tutto come esso si dà: e si dà intero e senza riserve come rappresentazione, disposta secondo la legge di causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altro lato ogni causalità è soltanto nell'intelletto e per l'intelletto; quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è come tale condizionato ognora dall'intelletto, e non è nulla senza di questo. E non solo per tale motivo, ma perché generalmente non si può, a meno di cadere in contraddizione, pensare un oggetto senza soggetto, al dogmatico che spiega la realtà del mondo esterno con la sua indipendenza dal soggetto noi dobbiamo negare francamente codesta realtà. L'intero mondo degli oggetti è e rimane rappresentazione, e appunto perciò in tutto ed eternamente relativo al soggetto: ossia ha una idealità trascendentale. Tuttavia il mondo non è per questo né menzogna né illusione: si dà per quello che è, come rappresentazione, e precisamente come una serie di rappresentazioni, il cui vincolo comune è il principio di ragione. Come tale esso è comprensibile, fin nel suo senso più intimo, da un intelletto sano, e gli parla una lingua che questi comprende pienamente. Soltanto ad uno spirito contorto dal sofisticare può venir l'idea di contendere sulla realtà del mondo; il che sempre accade per una inesatta applicazione del principio di ragione, il quale collega, è vero, tutte le rappresentazioni di qualsiasi specie fra loro, ma non mai collega quelle col soggetto, o con qualcosa che non sia né soggetto né oggetto, ma solo ragione dell'oggetto: uno sproposito, perché soltanto oggetti possono essere cause, e cause sempre di altri oggetti. Se andiamo a investigare più attentamente l'origine di questo problema della realtà del mondo esterno, troviamo che oltre quel falso riferimento del principio di ragione a ciò che sta fuori del suo dominio, si aggiunge ancora una speciale confusione delle sue forme: ossia la forma ch'esso assume esclusivamente riguardo ai concetti o rappresentazioni astratte, viene trasportata alle rappresentazioni intuitive, agli oggetti reali, e si pretende una ragione di conoscenza da oggetti che non possono avere se non una ragione di divenire. Imperocché sulle rappresentazioni astratte, sui concetti collegati in giudizi, domina il principio di ragione siffattamente, che ciascuno di quelli ha il suo valore, la sua portata, la sua intera esistenza – chiamata qui verità – esclusivamente mediante la relazione del giudizio con qualcosa che ne sta fuori, ossia il suo principio di conoscenza; al quale bisogna dunque sempre far capo. Sugli oggetti reali invece, sulle rappresentazioni intuitive, il principio di ragione non domina come principio di ragione della conoscenza, ma del divenire, come legge di causalità: ciascuno di quegli oggetti gli ha già pagato il suo debito pel fatto che è divenuto, ossia è stato prodotto come effetto da una causa: la pretesa d'un principio di conoscenza non ha dunque qui nessun valore e nessun senso, bensì appartiene a tutt'altra classe di oggetti. Perciò il mondo dell'intuizione non suscita, finché si rimane nei suoi confini, né scrupolo né dubbio in chi l'osserva: qui non v'ha né errore né verità; che sono confinati nel dominio dell'astratto, della riflessione. Qui invece sta il mondo aperto ai sensi ed all'intelletto, dandosi con ingenua verità per ciò che è, per una rappresentazione intuitiva che legittimamente si svolge sul filo della causalità.

Il problema della realtà del mondo esterno, come l'abbiamo considerato finora, era sempre generato da uno smarrimento della ragione che andava fino a misconoscere se stessa, e sotto questo rispetto il problema era da risolvere con la semplice dilucidazione del suo contenuto. Dopo investigata tutta l'essenza del principio di ragione, la relazione fra oggetto e soggetto e la vera natura dell'intuizione sensitiva, esso doveva cadere da sé, appunto perché non gli rimaneva più alcun significato. Ma il problema ha ancora un'altra origine, affatto diversa da quella, tutta speculativa, indicata finora: un'origine propriamente empirica, sebbene essa anche in questa forma sia ancor sempre messa in campo con intendimenti speculativi. Ed esso ha in questo senso un significato molto più intelligibile che in quel primo, venendo a formularsi così: noi abbiamo sogni; non è forse tutta la vita un sogno? – o più precisamente: non c'è un criterio sicuro per distinguere sogno e realtà, fantasmi ed oggetti reali? – L'addurre la minor vivacità e chiarezza del sogno in confronto dell'intuizione reale non merita alcuna considerazione, perché nessuno finora ha avuto presenti contemporaneamente l'uno e l'altro per confrontarli, ma soltanto il ricordo del sogno si poteva confrontare con la realtà presente. Kant scioglie il problema così: «II rapporto delle rappresentazioni fra di loro secondo la legge di causalità distingue la vita dal sogno». Ma anche nel sogno ciascun particolare dipende egualmente in tutte le sue forme dal principio di ragione, e questo rapporto si spezza soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe quindi suonare soltanto così: il lungo sogno (la vita) ha connessione costante in sé secondo il principio di ragione, ma non l'ha coi sogni brevi; sebbene ciascuno di questi abbia in sé la stessa connessione; fra questi e quello è adunque rotto il ponte, e in base a ciò vengono distinti. Tuttavia l'intraprendere una investigazione secondo questo criterio, per sapere se qualcosa sia sognato o veramente accaduto, sarebbe assai difficile e spesso impossibile; perché non siamo in alcun modo in grado di seguire anello per anello la concatenazione causale fra quella circostanza passata e il momento presente, e tuttavia non possiamo per questo affermare che sia un sogno. Quindi nella vita reale, per distinguere sogno da realtà, non ci si serve ordinariamente di quel modo d'investigazione. Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà è in verità quello affatto empirico del risveglio, col quale infatti la concatenazione causale fra le circostanze sognate e quelle della vita cosciente viene espressamente e sensibilmente rotta. Un ottimo esempio di ciò è fornito dall'osservazione che fa Hobbes nel Leviathan, cap. 2, che cioè allora noi teniamo facilmente i sogni per realtà, anche dopo il risveglio, quando senza farlo di proposito abbiamo dormito vestiti; ma soprattutto quando si aggiunge che un'impresa o un proposito assorbe tutti i nostri pensieri e ci occupa nel sogno come nella veglia: perché in questi casi il risvegliarsi viene avvertito quasi tanto poco quanto l'addormentarsi, il sogno confluisce nella realtà e si confonde con questa. Allora non rimane in verità altro che l'applicazione del criterio kantiano: ma se poi, come spesso accade, in nessun modo può venire scoperto il nesso causale col presente, oppure la sua mancanza, in tal caso deve per sempre rimaner dubbio se un fatto sia sognato o accaduto. Qui in verità ci salta agli occhi la stretta parentela fra vita e sogno: e non ci vergogneremo di confessarla, dopo che è stata riconosciuta e dichiarata da molti grandi spiriti. I Veda ed i Purana per l'intera conoscenza del mondo reale, che essi chiamano il velo di Maya, non conoscono miglior paragone né altro usano più di frequente, che quello del sogno. Platone dice spesso che gli uomini non vivono che in sogno, e il solo filosofo s'affatica a svegliarsi. Pindaro dice (ii, η, 135): σχιας οναρ ανθρωπος [umbrae somnium homo] e Sofocle:

Ὅρω γαρ ἡμας ουδεν οντας αλλο, πλην
Ειδωλ’, ὁσοιπερ ζωμεν, η χουφην σχιαν.

Ajax 125,

[Nos enim, quicumque vivimus, nihil aliud esse comperio, quam simulacra et levem umbram.]

Accanto ai quali sta più degnamente di tutti Shakespeare:

We are such stuff

As dreams are made on, and our little life
Is rounded with a sleep.

Temp., a. 3, sc. 110.

Finalmente era Calderon così profondamente preso da questo pensiero, che cercò di esprimerlo in un dramma in certo modo metafisico, La vita è sogno.

Dopo tutti questi passi di poeti sia ora anche a me concesso di esprimermi con un paragone. La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l'ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo, allora noi spesso seguitiamo ancora fiaccamente, senza ordine e connessione, a sfogliare or qua or là una pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un'altra ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro. È vero che una pagina letta così isolatamente è senza connessione con la lettura ordinata: tuttavia non sta molto indietro a questa, se si pensa che anche il complesso della lettura ordinata comincia e finisce egualmente all'improvviso, e si deve quindi considerare come un'unica pagina più lunga.

Sebbene adunque i singoli sogni siano distinti dalla vita reale per questo, che non entrano nella connessione della esperienza, connessione che si prosegue costante nella vita, e il risveglio riveli questa differenza; tuttavia appunto quella connessione dell'esperienza appartiene già come sua forma alla vita reale, ed anche il sogno ha da palesare egualmente una connessione, che è a sua volta in se stesso. Ora, se per giudicare si prende un punto di vista fuori d'entrambi, non si trova nella loro essenza alcuna distinzione precisa, e si è costretti a concedere ai poeti, che la vita sia un lungo sogno.

Volgendoci ora da questa origine empirica, di per sé stante, del problema circa la realtà del mondo esteriore, per tornare alla sua origine speculativa, abbiamo bensì trovato che questa si fonda primamente sulla falsa applicazione del principio di ragione (ossia nel vederlo anche fra soggetto e oggetto) e poi ancora sulla confusione delle sue forme, ossia sul fatto che il principio di ragione della conoscenza veniva trasportato nel dominio dove vige il principio di ragione del divenire: ma tuttavia difficilmente quel problema avrebbe potuto occupar così a lungo i filosofi, se fosse del tutto senza vero contenuto, e non si celasse nel suo intimo, come vera origine di esso, un qualche pensiero e senso giusto – del quale si dovesse poi ammettere che, penetrando nella riflessione e cercando la propria espressione, fosse degenerato in quelle assurde, incomprensibili forme e quistioni. Così è veramente, secondo io penso: e come pura espressione di quell'intimo senso finora inafferrabile del problema, io pongo la domanda: Che cosa è questo mondo dell'intuizione, oltre ad essere la mia rappresentazione? Il mondo di cui io sono conscio in un solo modo, cioè come rappresentazione, non sarebbe, analogamente al mio proprio corpo, di cui sono conscio in duplice modo, da un lato rappresentazione, dall'altro volontà? La chiara spiegazione e la risposta affermativa a questa domanda formerà il contenuto del secondo libro; e le conclusioni che ne derivano occuperanno il resto dell'opera.

§ 6.

Frattanto consideriamo per ora in questo primo libro il tutto come semplice rappresentazione, come oggetto per il soggetto: e come ogni altro oggetto reale, guardiamo anche il nostro corpo, dal quale in ciascuno muove l'intuizione del mondo, sotto il solo rispetto della conoscibilità; per il quale è anch'esso una semplice rappresentazione. È vero che la coscienza comune, la quale già si rivoltava contro il dichiarar pure rappresentazioni gli altri oggetti, ancor più si ribella quando il proprio corpo dev'essere nient'altro che una rappresentazione; il che proviene dal fatto che ad ognuno la cosa in sé è conosciuta immediatamente in quanto si manifesta come il suo proprio corpo, e solo mediatamente, in quanto viene oggettivata negli altri oggetti dell'intuizione. Ma l'andamento della nostra ricerca rende necessaria questa astrazione, questa maniera di considerazione unilaterale, questa violenta separazione di ciò che sostanzialmente è insieme connesso: perciò quella riluttanza dev'essere provvisoriamente soffocata e tranquillata dall'attesa che le considerazioni seguenti compiano l'unilateralità della presente, per venire alla piena cognizione dell'essenza del mondo.

Il corpo è adunque qui per noi oggetto immediato, ossia quella rappresentazione, che serve di punto di partenza al conoscimento da parte del soggetto, per ciò che essa, con le sue modificazioni immediatamente percepite, precede l'applicazione del principio di causalità e fornisce a questo i primi dati. Tutta l'essenza della materia consiste, come s'è dimostrato, nella sua attività. Ma causa ed effetto esistono solamente per l'intelletto, come quello che non è altro se non il loro correlato soggettivo. L'intelletto tuttavia non potrebbe mai pervenire all'applicazione, se non vi fosse qualcos'altro da cui esso muove. Questa cosa è la sensazione semplice, la coscienza immediata delle modificazioni del corpo, per la quale il corpo è oggetto immediato. La possibilità della conoscenza del mondo dell'intuizione noi la troviamo dunque in due condizioni. La prima è, se l'esprimiamo oggettivamente, l'attitudine dei corpi ad agire l'uno sull'altro, producendo reciproche modificazioni; senza la qual generale proprietà di tutti i corpi anche mediante la sensibilità dei corpi animali non sarebbe punto possibile alcuna intuizione. Ma se vogliamo esprimer soggettivamente questa stessa prima condizione, diciamo: l'intelletto anzitutto rende possibile l'intuizione: perché soltanto da esso procede e per esso soltanto vige la legge di causalità, la possibilità di causa ed effetto; e soltanto per esso e mediante esso esiste quindi il mondo dell'intuizione. La seconda condizione è invece la sensibilità dei corpi animali, ossia la proprietà che certi corpi hanno, di essere oggetti immediati del soggetto. Ora le semplici modificazioni che subiscono gli organi dei sensi mediante l'azione esterna specificamente adatta ad essi, sono invero già da chiamare rappresentazioni, fin quando codeste azioni non producono né dolore né piacere, ossia non hanno alcun significato per la volontà, e tuttavia vengono percepite; quindi esistono solo per la conoscenza. In questo senso dunque io dico che il corpo è conosciuto immediatamente, è oggetto immediato. Nondimeno il concetto di oggetto non va qui preso in senso proprio: poiché mediante questa immediata conoscenza del corpo, la quale precede l'applicazione dell'intelletto ed è pura sensazione, non il corpo esiste precisamente come oggetto, bensì soltanto i corpi che agiscono su di esso; essendo che ogni conoscenza di un vero e proprio oggetto, ossia di una rappresentazione percettibile nello spazio, può esistere unicamente mediante e per l'intelletto – quindi non prima, bensì appena dopo l'applicazione di questo. Quindi il corpo come vero e proprio oggetto, ossia come rappresentazione intuibile nello spazio, vien conosciuto solo mediatamente, al modo di tutti gli altri oggetti, per mezzo dell'applicazione della legge di causalità all'azione di una delle sue parti sulle altre, quando, per esempio, l'occhio vede il corpo, o la mano lo tocca. Conseguentemente la forma del nostro corpo non ci è nota per mezzo della semplice sensibilità generale; bensì solo per mezzo della conoscenza, solo nella rappresentazione; ossia solo nel cervello il nostro corpo viene rappresentato come un che di esteso, di articolato, di organico. Un cieco nato non riceve questa rappresentazione che a poco a poco, per mezzo dei dati che il tatto gli fornisce; un cieco senza mani non conoscerebbe mai la propria forma, o al più la ricaverebbe e costruirebbe gradualmente dall'azione di altri corpi su di lui. Con questa restrizione bisogna adunque intendere, quando chiamiamo il corpo oggetto immediato.

Per altro, in conseguenza di ciò che si è detto, tutti i corpi animati sono oggetti immediati, ossia punto di partenza per l'intuizione del mondo, da parte del soggetto che tutto conosce e appunto perciò non è mai conosciuto. Il conoscere, col muoversi secondo motivi determinati dalla conoscenza, è quindi il carattere proprio dell'animalità, come il movimento per effetto di stimoli è il carattere della pianta: i corpi inorganici invece non hanno altri movimenti che quelli prodotti da vere e proprie cause nel senso più stretto. Ho spiegato più ampiamente tutto ciò nello scritto sul principio di ragione, 2a ed. (§ 20), nell'Etica, prima dissert. (§ 3), e in Sulla vista e i colori (§ 1); ai quali luoghi rinvio il lettore.

Da ciò che ho detto risulta che tutti gli animali hanno intelletto, anche i più imperfetti: perché tutti conoscono oggetti, e questa conoscenza determina come motivo i loro movimenti. L'intelletto è in tutti gli animali e in tutti gli uomini il medesimo, ha sempre la stessa semplice forma: conoscenza della causalità, passaggio dall'effetto alla causa e dalla causa all'effetto, e nient'altro. Ma i gradi della sua acutezza e l'estensione della sua sfera conoscitiva sono estremamente diversi, variati e in più modi sviluppati: dal grado più basso, che conosce soltanto il rapporto causale fra l'oggetto immediato e il mediato, bastando così appena, col passaggio dall'azione che il corpo subisce alla causa di essa, a intuire questa come oggetto nello spazio; fino ai gradi più alti della conoscenza del nesso causale dei semplici oggetti mediati fra loro – conoscenza che va fino a intendere le più complicate concatenazioni di cause ed effetti nella natura. Perché quest'ultima capacità appartiene ancor sempre all'intelletto, non alla ragione; i cui concetti astratti servono ad accogliere, fissare e collegare ciò che è stato inteso immediatamente, ma non mai a produrre l'intendimento medesimo. Ogni forza e ogni legge della natura, ogni caso in cui quelle si manifestano, deve essere immediatamente conosciuto dall'intelletto, afferrato intuitivamente, prima di entrare in abstracto per la ragione nella coscienza riflessa. Intuitiva, immediata comprensione mediante l'intelletto fu la scoperta fatta da R. Hookes della legge di gravitazione, e il ricondurre tanti grandi fenomeni a quest'unica legge, come poi confermarono i calcoli di Neuton11; tale fu anche per Lavoisier la scoperta dell'ossigeno e della sua importante funzione nella natura; tale per Goethe la scoperta del modo di formazione dei colori naturali. Tutte queste scoperte non sono altro che un esatto, immediato risalir dall'effetto alla causa, cui tosto segue il riconoscimento dell'identità della forza naturale manifestantesi in tutte le cause dello stesso genere: e questa intera penetrazione è un atto, diverso soltanto nel grado, della medesima ed unica funzione dell'intelletto, per cui anche un animale intuisce come oggetto nello spazio la causa agente sul suo corpo. Perciò anche tutte quelle grandi scoperte sono, proprio come l'intuizione e ogni manifestazione dell'intelletto, una penetrazione immediata, e, come tali, l'opera di un attimo, un appergu, un'idea improvvisa, e non il prodotto di lunghe deduzioni in abstracto; le quali ultime servono invece a fissare per la ragione, deponendola nei suoi concetti astratti, l'immediata conoscenza intellettiva, ossia a mettersi in grado di spiegarla, dichiararla ad altri. Quell'acume dell'intelletto nell'afferrare le relazioni causali dell'oggetto conosciuto immediatamente, trova la sua applicazione non solo nella scienza naturale (che gli deve tutte le sue scoperte), ma anche nella vita pratica, dove prende il nome di avvedutezza; mentre invece nel primo uso vien meglio chiamato acutezza, penetrazione e sagacità: in senso preciso, avvedutezza indica esclusivamente l'intelletto che sta al servizio della volontà. Tuttavia i limiti di questi concetti non devono esser tracciati troppo recisamente, perché si tratta sempre di un'unica funzione del medesimo intelletto che opera in ogni animale con l'intuizione degli oggetti nello spazio. Questa nel suo più alto grado ora investiga rettamente nei fenomeni della natura la causa ignota, partendo da un dato effetto, e dà così alla ragione la materia per escogitar regole universali, come leggi della natura; ora, con l'impiego di cause conosciute per fini prestabiliti, inventa complicate, ingegnose macchine; ora, applicandosi alla motivazione, o penetra e rende vani sottili intrighi e macchinazioni, oppure quegli stessi motivi e gli uomini, che a ciascuno di essi sono sensibili, dispone convenientemente e mette in moto a suo piacere come macchine mosse da leve e ruote, guidandoli ai suoi fini. Mancanza d'intelletto si chiama in senso proprio stupidità, ed è appunto ottusità dell'applicazione della legge causale, incapacità d'afferrare immediatamente le concatenazioni di causa ed effetto, motivo ed azione. Uno sciocco non vede il nesso dei fenomeni naturali, né dove si presentano abbandonati a se stessi, né dove sono diretti intenzionalmente, ossia utilizzati nelle macchine: perciò crede volentieri ad arte magica ed a miracoli. Uno sciocco non osserva che diverse persone, in apparenza indipendenti le une dalle altre, in realtà agiscono secondo un accordo prestabilito, e perciò si lascia facilmente mistificare e raggirare; non osserva i celati motivi di consigli dati, di giudizi espressi, e così via. Questo solo gli manca costantemente: acume, sveltezza, facilità nell'applicare la legge di causalità, ossia gli manca la forza dell'intelletto. Il maggiore, e per l'argomento che ci occupa più istruttivo esempio di stupidità, che mi sia mai capitato, era un ragazzo di circa undici anni, del tutto idiota, al manicomio: il quale aveva sì l'uso di ragione, perché parlava ed ascoltava, ma per intelletto stava al di sotto di più di un animale. Imperocché ogni volta ch'io venivo, osservava un paio d'occhiali che portavo al collo e in cui si riflettevano le finestre della stanza con le cime degli alberi prospicienti: di ciò aveva ogni volta maraviglia e gioia grande, né si stancava di contemplare con stupore; perché non comprendeva questa causalità affatto immediata del riflesso.

Come negli uomini sono assai differenti i gradi dell'acume intellettuale, così fors'anche più differenti sono fra le varie specie animali. Ma in tutte, e perfino in quelle che stanno più vicine alla pianta, è tuttavia tanto intelletto quanto basta per il passaggio dell'azione sull'oggetto immediato all'oggetto mediato come causa: quanto basta dunque per l'intuizione, per l'apprendimento di un oggetto; perché l'intuizione appunto fa che siano animali, porgendo loro la possibilità di muoversi secondo dati motivi e quindi di cercare o almeno di ghermire il nutrimento. Le piante invece hanno solo un moto prodotto da stimoli, di cui debbono attendere l'azione diretta, oppure languire, senza poterne andare in traccia o afferrarle. Negli animali più perfetti ammiriamo la grande sagacia: per esempio nel cane, nell'elefante, nella scimmia, nella volpe, la cui astuzia ha così magistralmente descritta il Buffon. In questi animali più intelligenti possiamo con sufficiente precisione misurare quanto possa l'intelletto senza l'aiuto della ragione, ossia della conoscenza astratta per concetti; in noi stessi non possiamo giudicar di questo egualmente, perché in noi intelletto e ragione si sorreggono sempre a vicenda. Perciò troviamo sovente le manifestazioni d'intelligenza presso gli animali ora sopra ora sotto la nostra aspettazione. Da un lato ci sorprende la sagacia di quell'elefante il quale, dopo esser passato su molti ponti durante il suo viaggio in Europa, si rifiuta un giorno di varcarne uno, sul quale vede tuttavia passar come al solito la carovana di uomini e animali di cui fa parte, sol perché gli sembra troppo leggermente costruito per il suo peso; ma dall'altra parte ci meravigliamo che gli intelligenti oranghi non alimentino, aggiungendovi legna, il fuoco da essi trovato sul camino, al quale si scaldano: prova che questo richiederebbe già una riflessione, la quale senza concetti astratti è impossibile. Che il conoscimento di causa ed effetto, come forma universale dell'intelletto, sia insito a priori negli animali, è invero già pienamente sicuro pel fatto che quel conoscimento è per essi, come per noi, la condizione prima d'ogni conoscimento intuitivo del mondo esterno. Se poi si vuole averne ancora una prova particolare, basti considerar per esempio come finanche un giovanissimo cane non osi saltar giù dalla tavola, per quanto desiderio ne abbia, perché prevede l'effetto del peso del suo corpo; pur senza aver prima sperimentato questa caduta. Nel giudicar l'intelletto degli animali, noi dobbiamo tuttavia guardarci dall'attribuirgli ciò che è manifestazione dell'istinto; proprietà la quale, sebbene affatto diversa dall'intelletto, com'anche dalla ragione, pure opera spesso in modo assai analogo all'azione combinata dell'intelletto e della ragione. La spiegazione di ciò non appartiene a questo luogo, ma troverà il suo posto nel secondo libro, dove si tratta della armonia o cosiddetta teleologia della natura; ed a tale spiegazione è consacrato esclusivamente il 27° capitolo dei Supplementi12.

Mancanza d'intelletto si chiama stupidità; mancato impiego della ragione nel campo pratico riconosceremo in seguito per insania; così anche mancanza di giudizio, per scempiaggine; e infine parziale o completa mancanza di memoria per follia. Ma d'ogni cosa si tratterà a suo luogo. Ciò che dalla ragione vien riconosciuto esatto è verità, ossia un giudizio astratto con ragion sufficiente (Dissertazione sul principio di ragione, § 29 sgg.): ciò che vien riconosciuto esatto dall'intelletto è realtà, ossia legittimo passaggio alla causa dall'effetto prodotto nell'oggetto immediato. Alla verità si contrappone l'errore come inganno della ragione, alla realtà l'illusione come inganno dell'intelletto. L'illustrazione più ampia di tutto ciò è da leggersi nel primo capitolo del mio scritto sopra la vista ed i colori. Illusione si ha quando uno stesso effetto può esser prodotto da due cause del tutto diverse, delle quali l'una agisce molto spesso, e l'altra raramente: l'intelletto, che non ha alcun dato per distinguere quale causa agisca in quel caso, poiché l'effetto è proprio il medesimo, presuppone allora una volta per tutte la causa più frequente; e non essendo la sua attività riflessiva e discorsiva, ma diretta ed immediata, quella falsa causa sta davanti a noi come oggetto intuito, il che, appunto costituisce la falsa apparenza. Come sorga in questo modo la doppia percezione visiva o tattile, quando gli organi sensorii sono adoprati in una posizione non abituale, ho già mostrato nel luogo citato; e appunto con ciò ho fornito una prova indiscutibile del fatto che l'intuizione si ha solo mediante l'intelletto e per l'intelletto. Esempi di questo inganno dell'intelletto, o illusione, sono inoltre il bastone immerso nell'acqua, che sembra spezzato; le immagini degli specchi sferici, che se la superficie è convessa appariscono alquanto indietro di questa, e se la superficie è concava appariscono davanti alla superficie stessa, a una certa distanza. Qui anche va ricordata la dimensione apparentemente maggiore della luna all'orizzonte che allo zenith, non per effetto di ottica; perché, come dimostra il micrometro, l'occhio vede anzi la luna allo zenith in un angolo visuale alquanto più grande che all'orizzonte; ma per l'intelletto, il quale attribuisce il più debole splendore della luna e delle altre stelle sull'orizzonte ad una loro distanza maggiore, considerandole secondo la prospettiva aerea come oggetti terrestri; perciò ritiene la luna all'orizzonte molto più grossa che allo zenith, e anche la volta celeste ritiene più ampia all'orizzonte, quasi fosse più distesa. Lo stesso falso apprezzamento dovuto alla prospettiva aerea ci fa ritenere più vicine dal vero, con pregiudizio della loro altezza, altissime montagne, di cui la sola vetta è a noi visibile nella pura aria trasparente, come per esempio il Monte Bianco visto da Salenche. E tutte queste illusioni ingannatrici stanno davanti a noi come intuizione immediata, che non si può allontanare per mezzo d'alcun ragionamento. Quest'ultimo può solo impedir l'errore, ossia un giudizio senza ragion sufficiente, contrapponendogli un giudizio esatto: come per esempio il conoscere in abstracto che non la maggior distanza, bensì i vapori più densi all'orizzonte sono cause del più debole splendore della luna e delle stelle. Ma l'illusione rimarrà incrollabile in tutti i casi citati, malgrado qualsivoglia conoscenza astratta: perché l'intelletto è completamente e nettamente separato dalla ragione – facoltà conoscitiva aggiuntasi esclusivamente all'uomo – ed è in se stesso a dir vero irragionevole anche nell'uomo. La ragione non può che sapere: al solo intelletto, e libero dall'influsso di quella, rimane l'intuizione.

§ 7.

Sul proposito di tutta la nostra precedente considerazione è forse ancora da osservare quanto segue. In essa non abbiamo preso le mosse né dall'oggetto né dal soggetto; bensì dalla rappresentazione, la quale già li contiene e presuppone entrambi; poiché la divisione in oggetto e soggetto è la sua forma prima, più generale e più essenziale. Abbiamo dunque dapprima considerato questa forma come tale, dipoi (pur rinviando per la sostanza alla dissertazione introduttiva) le altre forme a lei subordinate, tempo, spazio e causalità; le quali appartengono soltanto all'oggetto. Ma poiché esse sono essenziali a questo in quanto è tale, e l'oggetto a sua volta è essenziale al soggetto in quanto soggetto, possono dal soggetto stesso venir trovate, ossia conosciute a priori; e pertanto sono da considerare come limite comune d'entrambi. Ma tutte si lascian ricondurre ad una comune espressione – il principio di causa – com'è ampiamente mostrato nella dissertazione introduttiva.

Ora, questo procedimento distingue affatto la nostra concezione dalle filosofie tentate finora, come quelle che tutte partivano o dall'oggetto o dal soggetto, e per conseguenza cercavano di spiegare l'uno mediante l'altro, precisamente secondo il principio di ragione, alla signoria del quale noi veniamo invece a sottrarre il rapporto tra oggetto e soggetto, lasciandole solamente l'oggetto. Si potrebbe considerar come non compresa nella suaccennata contrapposizione di sistemi filosofici la filosofia della identità, sorta a' nostri giorni e universalmente conosciuta; in quanto questa non fa né l'oggetto né il soggetto il vero e primo punto di partenza, bensì un terzo, l'Assoluto, conoscibile mediante l'intuizione razionale; il quale non è né oggetto né soggetto, ma identità di entrambi. Sebbene io, per assoluta mancanza d'ogni intuizione razionale, non presuma entrare a discorrere con gli altri della suddetta venerabile identità e dell'assoluto, devo tuttavia osservare, fondandomi sui protocolli aperti a tutti, anche a noi profani, di coloro i quali sanno intuire razionalmente, che la detta filosofia non va eccettuata dalla opposizione di due errori più sopra esposta. Perché essa, malgrado l'identità di soggetto e oggetto – identità che non può esser pensata, ma solo intuita intellettualmente o appresa mediante uno speciale assorbimento in lei – non evita tuttavia quei due errori opposti, ma piuttosto li unisce in sé, scindendosi ella medesima in due discipline: ossia in primo luogo l'idealismo trascendentale, che è la teoria fichtiana dell'io, e per conseguenza, secondo il principio di ragione, fa venir l'oggetto fuori dal soggetto o svolto da questo come un filo dalla rocca; e in secondo luogo la filosofia della natura, che egualmente fa sviluppare a poco a poco il soggetto dall'oggetto, con l'impiego di un metodo che vien chiamato costruzione. Di questo ben poco m'è chiaro, ma abbastanza per vedere che esso è un avanzar progressivo secondo il principio di ragione in forme svariate. Alla profonda sapienza, che quella filosofia contiene, rinunzio; poiché per me, cui manca del tutto l'intuizione razionale, tutti quei discorsi che la presuppongono devono essere un libro chiuso con sette suggelli. Il che poi anche è vero in tal grado, che – strano a dirsi – davanti alla profonda saggezza di quelle dottrine ho l'impressione di non ascoltar nient'altro che spaventose e per di più noiosissime fanfaronate.

I sistemi che prendevano le mosse dall'oggetto si ponevano invero sempre come problema tutto il mondo dell'intuizione e il suo ordinamento; ma l'oggetto, che essi stabiliscono come punto di partenza, non è sempre quel mondo, o la materia, suo elemento fondamentale: piuttosto si può fare una partizione di tali sistemi conformemente alle quattro classi di oggetti possibili, fissate nella dissertazione introduttiva. Si può dire così che dalla prima di quelle classi, ossia dal mondo reale, sono partiti: Talete e la scuola jonica, Democrito, Epicuro, Giordano Bruno ed i materialisti francesi. Dalla seconda, ossia dal concetto astratto: Spinoza (precisamente dal puro concetto astratto di sostanza esistente soltanto nella sua definizione) e innanzi a lui gli Eleati. Dalla terza classe, ossia dal tempo, e conseguentemente dai numeri: i Pitagorici e la filosofia chinese dell'I-king. Finalmente, dalla quarta classe, ossia dall'atto di volontà motivato dalla conoscenza: gli scolastici, che insegnano una creazione dal Nulla, mediante l'atto di volontà di un essere personale fuori del mondo.

Il metodo obiettivo si può sviluppare con maggior conseguenza e condur più lontano quando si presenta come vero e proprio materialismo. Questo pone la materia, e con lei tempo e spazio, come esistenti assolutamente, e trascura il rapporto col soggetto, senza pensare che materia, tempo e spazio esistono solo in questo. Prende poi per filo conduttore la legge di causalità, e con essa vuole avanzare, considerandola come un ordine delle cose in sé esistente, veritas aeterna; passando così sopra all'intelletto, nel quale e per il quale esclusivamente esiste causalità. Poi cerca di trovare il primo, più semplice stato della materia, e quindi ricavare da esso gli altri, salendo dal puro meccanismo al chimismo, alla polarità, alla vegetazione, all'animalità: e supposto che ciò riesca, ultimo anello della catena sarebbe la sensibilità animale, il conoscere: che comparirebbe quindi a questo punto come una semplice modificazione della materia, uno stato di questa prodotto dalla causalità. Ora, se noi avessimo seguito fin là, con rappresentazioni intuitive, il materialismo, appena giunti con esso al suo vertice saremmo stati presi da un accesso del riso inestinguibile degli Olimpi: accorgendoci d'un tratto, come svegliati da un sogno, che il suo ultimo risultato così faticosamente raggiunto – la conoscenza – era già presupposto come condizione assoluta fin dal primissimo punto di partenza, dalla semplice materia; e noi c'eravamo figurati di pensare col materialismo la materia, mentre in realtà nient'altro avevamo pensato che il soggetto, il quale rappresenta la materia, l'occhio che la vede, la mano che la sente, l'intelletto che la conosce. Così sarebbe venuta inaspettatamente a scoprirsi l'enorme petitio principii: quando all'improvviso l'ultimo anello si fosse presentato come il punto d'appoggio dal quale già pendeva il primo, e la catena come un circolo; il materialista avrebbe rassomigliato al Barone di Munchhausen, il quale, nuotando a cavallo nell'acqua, con le gambe solleva il cavallo, e solleva se stesso tirandosi pel codino della propria parrucca ripiegato sul davanti. Perciò l'assurdità fondamentale del materialismo consiste in questo, che parte dall'oggettivo, e un oggettivo prende come termine: sia poi questo la materia, in abstracto, come essa viene solamente pensata, o la materia data empiricamente, che già ha preso forma, ossia la materia costitutiva, come per esempio i corpi chimici semplici, con le loro combinazioni più elementari. Cotali cose prende il materialismo come esistenti in sé e assolutamente, per farne scaturire la natura organica e infine il soggetto conoscente, dando con ciò piena spiegazione di quella e di questo – mentre in realtà ogni elemento oggettivo, già in quanto tale, ha in varia maniera per condizione il soggetto conoscente, secondo le forme della sua conoscenza, e quelle forme presuppone; sì che svanisce del tutto, se si toglie di mezzo il soggetto. Il materialismo è adunque il tentativo di spiegar ciò che ci è dato immediatamente con ciò che ci è dato mediatamente. Tutto l'oggettivo, l'esteso, l'agente, cioè tutta la materialità, che dal materialismo è ritenuta così solido fondamento delle sue spiegazioni da non potersi più altro desiderare dopo essere stati ricondotti a quella (massimamente se mette capo da ultimo alla legge di azione e reazione), tutto questo, dico io, è qualcosa che è dato più che mediatamente e condizionatamente, sì da avere un'esistenza appena relativa: perché è passato attraverso il meccanismo e la fabbricazione del cervello, e penetrato così nelle forme di questo, tempo, spazio, causalità; in grazia delle quali comincia a presentarsi come esteso nello spazio ed agente nel tempo. Con un tal dato pretende il materialismo di spiegare persino il dato immediato ossia la rappresentazione (in cui quello è tutto compreso) e finalmente la volontà stessa, con la quale piuttosto sono in realtà da spiegare tutte quelle forze elementari che si manifestano legittimamente, seguendo il filo conduttore delle cause. All'affermazione, che il conoscere sia modificazione della materia, si contrappone sempre con egual diritto l'altra, che ogni materia non è se non modificazione del conoscere nel soggetto, come rappresentazione di questo. Nondimeno il fine e l'ideale di tutta la scienza della natura è una compiuta attuazione del materialismo. Ora, l'opinione che riconosce questo come palesemente impossibile è confermata da un'altra verità, che sarà per risultare dal seguito della nostra indagine: che cioè nessuna scienza nel significato preciso della parola – con la quale io intendo la conoscenza sistematica secondo il principio di ragione – può raggiungere una mèta finale né una spiegazione che soddisfi del tutto; perché non coglie mai la più intima essenza nel mondo, né mai può andare oltre la rappresentazione; bensì piuttosto null'altro insegna, in fondo, che il rapporto d'una rappresentazione con l'altra.

Ciascuna scienza parte sempre da due dati fondamentali. Di questi, l'uno è costantemente il principio di ragione, in una forma qualsiasi come organo; l'altra, il suo oggetto particolare, come problema. Così ad esempio la geometria ha per problema lo spazio, e come organo il principio d'esistenza nello spazio; l'aritmetica ha come problema il tempo, e il principio dell'essere nel tempo come organo; la logica ha per problema il collegamento dei concetti come tali, e per organo il principio di conoscenza; la storia ha come problema i fatti accaduti agli uomini nel loro complesso, e il principio di motivazione come organo; la scienza naturale infine ha la materia come problema, e come organo la legge di causalità. Sua mèta e suo scopo è quindi ricondurre l'uno all'altro e finalmente ad uno stato unico, seguendo il filo conduttore della causalità, tutti i possibili stati della materia; poi viceversa dedurli gli uni dagli altri, e alla fine da un unico stato. Due stati si trovano adunque come estremi nella storia naturale: lo stato in cui la materia è nel minor grado, e quello in cui essa è nel maggior grado oggetto immediato del soggetto: ossia la bruta, inerte materia, la materia primitiva, da una parte; e dall'altra l'organismo umano. La scienza naturale in quanto è chimica studia la prima, in quanto fisiologia il secondo. Ma finora questi due estremi non sono stati raggiunti, e s'è conquistato solo qualche punto fra di essi. Anzi, le prospettive sono alquanto disperate. I chimici, in base alla premessa che la divisibilità qualitativa della materia non vada all'infinito come la quantitativa, cercano di ridurre sempre più il numero dei suoi corpi semplici, che sono ancora circa 60: e li avessero pure ridotti a due: ancora vorrebbero ricondur questi due ad uno solo. Imperocché la legge d'omogeneità conduce alla ipotesi di un primo stato chimico della materia, che solo appartiene alla materia in quanto tale, ed ha preceduto tutti gli altri, come quelli che alla materia in quanto materia non sono essenziali, bensì appaiono forme e qualità casuali di essa. Per altro non si riesce a vedere come un tale stato, non essendovene un secondo in grado di agire su di esso, abbia potuto subire una trasformazione chimica; dal che nasce qui nel campo chimico il medesimo imbarazzo in cui cadde in fatto di meccanica Epicuro, quand'ebbe da mostrare come il primo atomo fosse deviato dalla direzione originaria del suo moto. Questa contraddizione, che sorge di per se stessa e non si può né impedire né risolvere, potrebbe benissimo esser presentata come un'antinomia chimica: e come essa si trova qui al primo dei due estremi della scienza naturale, così verrà a mostrarsi all'altro estremo una contraddizione corrispondente. Altrettanto poca speranza v'ha di raggiungere quest'altro estremo; perché sempre più si comprende che non può un fenomeno chimico essere ricondotto ad un fenomeno meccanico, né un fenomeno organico ad un fenomeno chimico o elettrico. E coloro che oggi s'incamminano di nuovo per questo sentiero fallace dovranno ben presto ritrarsene quatti quatti, come tutti i loro predecessori. Di ciò sarà fatto più ampio discorso nel libro seguente. Le difficoltà qui ricordate di sfuggita si oppongono alla scienza naturale nel suo stesso territorio. Presa come filosofia, ella sarebbe inoltre materialismo: ma questo porta fin dalla nascita, come abbiamo veduto, la morte nel cuore, perché passa sopra al soggetto e alle forme della conoscenza; le quali nondimeno vanno premesse tanto per la più bruta materia, da cui il materialismo vorrebbe muovere, quanto per la materia organica, a cui vuol pervenire. Imperocché «nessun oggetto senza soggetto» è il principio, che rende per sempre impossibile ogni materialismo. Sole e pianeti, senza un occhio che li veda e un intelletto che li conosca, si possono bensì esprimere a parole: ma queste parole sono per la rappresentazione un sideroxylon. È vero d'altra parte che la legge di causalità e l'osservazione e la ricerca della natura, che su quella si fonda, ci conducono necessariamente alla certezza che ogni più perfetto stato organico della materia ha seguito nel tempo uno stato più grossolano: che cioè gli animali sono comparsi prima degli uomini, i pesci prima degli animali terrestri, le piante anche prima dei pesci, la materia inorganica prima della organica; che quindi la materia primitiva ha dovuto traversare una lunga serie di modificazioni, innanzi che il primo occhio si aprisse. E tuttavia l'esistenza del mondo intero rimane sempre dipendente da questo primo occhio che si è aperto – fosse pure stato l'occhio di un insetto – come dall'indispensabile intermediario della conoscenza, per la quale e nella quale esclusivamente il mondo esiste, e senza la quale esso non può nemmeno essere pensato: perché il mondo è semplicemente rappresentazione; e tale essendo, abbisogna del soggetto conoscente come fondamento della sua esistenza. Anzi, quella medesima lunga successione di tempi, riempita da innumerevoli trasformazioni, attraverso cui la materia si elevò di forma in forma fino all'avvento del primo animale conoscente, può esser pensata soltanto nell'identità di una coscienza: di cui essa costituisce la serie delle rappresentazioni e la forma della conoscenza. Senza quest'identità, tale successione perde ogni senso e non è più nulla. Così vediamo da un lato l'esistenza del mondo intero dipendere di necessità dal primo essere conoscente, per quanto sia quest'ultimo ancora imperfetto; e dall'altro lato con la stessa necessità questo primo animale conoscente dipendere in tutto e per tutto da una lunga catena anteriore di cause e di effetti, alla quale esso viene ad aggiungersi come un piccolo anello. Queste due opposte vedute, a ciascuna delle quali siamo invero condotti da una pari necessità, si potrebbero dire anch'esse un'antinomia nella nostra facoltà conoscitiva, e porre a riscontro dell'antinomia trovata alla prima estremità della scienza naturale; mentre la quadrupla antinomia di Kant sarà dimostrata una inconsistente illusione nella critica della filosofia kantiana che fa da appendice all'opera presente. La contraddizione che qui da ultimo ci è necessariamente risultata si risolve tuttavia osservando che, per parlare nel linguaggio di Kant, tempo, spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé, bensì esclusivamente al suo fenomeno, del quale essi sono forma; il che nel linguaggio mio viene a dire che il mondo oggettivo, il mondo come rappresentazione non è l'unico, bensì è uno degli aspetti, anzi l'aspetto esteriore del mondo; il quale ha poi un tutt'altro aspetto, che è la sua intima essenza, il suo nocciolo, la cosa in sé: e questo noi esamineremo nel libro seguente, dandogli il nome della più immediata fra le sue oggettivazioni – volontà. Ma il mondo come rappresentazione, il solo che qui consideriamo, comincia veramente dall'aprirsi del primo occhio, senza il quale mezzo della conoscenza esso non può esistere, e quindi non esisteva anteriormente. Ma senza quell'occhio, ossia senza la conoscenza, non c'era neppure nulla di anteriore, non c'era il tempo. Tuttavia non per ciò il tempo ha un principio, essendo invece ogni principio in esso: ma poi che il tempo è la forma più generale della conoscenza, in cui tutti i fenomeni vengono a connettersi mediante il vincolo della causalità, anche il tempo comincia ad esistere, in tutta la sua bilaterale infinità, con la prima conoscenza. Il fenomeno che riempie questo primo presente deve esser conosciuto come causalmente collegato e dipendente da una serie di fenomeni, che si stende all'infinito nel passato; il qual passato tuttavia è anch'esso altrettanto sotto condizione di questo primo presente, come viceversa questo di quello. Sicché, come il primo presente, anche il passato da cui esso deriva dipende dal soggetto conoscente e non è nulla senza di questo. Tuttavia il passato genera la necessità, che questo primo presente non apparisca come veramente primo, ossia come principio del tempo, senz'avere alcun passato per padre, bensì come seguito del passato, secondo il principio d'esistenza nel tempo. E così anche il fenomeno che lo riempie apparirà come effetto di stati anteriori, che riempivano quel passato secondo la legge di causalità. Chi ama le sottigliezze simboliche della mitologia può considerare come l'immagine del momento qui rappresentato, in cui principia il tempo, che tuttavia non ha principio, la nascita di Kronos (χρόονος‘) il più giovine titano; col quale, avendo egli evirato il padre, cessano i mostruosi prodotti del cielo e della terra, e viene in iscena la razza degli dèi e degli uomini.

Questa esposizione, nella quale siamo venuti seguendo le tracce del più conseguente fra i sistemi filosofici che prendono le mosse dall'oggetto – il materialismo, – serve nello stesso tempo a fare intuire l'indissolubile dipendenza reciproca, accompagnata da un'opposizione indistruttibile, fra soggetto ed oggetto; la qual conoscenza è di guida a cercare l'intima essenza del mondo, la cosa in sé, non più in uno di quei due elementi della rappresentazione, ma piuttosto in alcunché di affatto diverso dalla rappresentazione, che non sia partecipe di tale originaria, essenziale e quindi insolubile contraddizione.

Contro il su esposto dipartirsi dall'oggetto, per fare sviluppare da questo il soggetto, sta il partire dal soggetto per far spuntar fuori da questo l'oggetto. Se frequente e generale è stato in tutte le filosofie fino al giorno d'oggi quel primo sistema, del secondo si trova invece un unico esempio, e recentissimo: la pseudofilosofia di J. G. Fichte. Il quale merita quindi di venir notato sotto questo rispetto, per quanto poco genuino pregio e intimo contenuto abbia avuto la sua dottrina in sé stessa; essendo stata in verità nient'altro che un vaniloquio, il quale, esposto tuttavia con aria di profondissima gravità, tono sostenuto e vivo calore, e difeso con abile polemica contro deboli avversari, poteva brillare e aver l'apparenza d'essere qualche cosa. Ma a questo come a tutti gli altri somiglianti filosofi, che si conformano alle circostanze, mancava affatto la vera serietà, che insensibile a tutti gli influssi esteriori tien l'occhio fisso imperturbabilmente alla sua mèta – la verità. Né a lui di certo poteva capitare altrimenti. Imperocché il filosofo diventa sempre tale in virtù di una perplessità, che egli cerca di superare, e che è il θαυμαζειν di Platone,che Platone medesimo chiama μαλα φιλοσοφικον παθος. Ma qui i falsi filosofi si distinguono dai veri, in questo, che nei veri quella perplessità nasce dalla vista diretta del mondo; negli altri invece soltanto da un libro, da un sistema, che si trovano già belli e pronti. E questo era anche il caso di Fichte, che divenne filosofo solo a proposito della cosa in sé di Kant e senza di questa probabilissimamente si sarebbe occupato di tutt'altre cose con molto miglior successo, poiché possedeva un notevole talento retorico. Ma, se fosse almeno penetrato un po' addentro nel senso del libro che fece di lui un filosofo – la Critica della ragion pura – avrebbe capito che lo spirito della dottrina fondamentale della Critica è il seguente: che il principio di ragione non è, come vuole tutta la filosofia scolastica, una veritas aeterna, ossia non ha un valore incondizionato, fuori e sopra del mondo: bensì soltanto un valore relativo e condizionato, valido esclusivamente nel fenomeno, sia che si presenti come nesso necessario dello spazio o del tempo, o come legge di causalità o come legge del principio di conoscenza; che quindi l'essenza interna del mondo, la cosa in sé, non può mai essere trovata seguendo il principio di ragione, ma tutto ciò, a cui questo conduce, è ancora alla sua volta dipendente e relativo, è sempre soltanto un fenomeno, non cosa in sé; che inoltre il principio di ragione non si applica punto al soggetto, ma è solo forma degli oggetti, i quali appunto perciò non sono cose in sé; e con l'oggetto si presenta immediatamente insieme il soggetto, e quello con questo; sì che né l'oggetto può venir dopo il soggetto né questo dopo quello, come un effetto viene dopo la sua causa. Ma nulla di tutto ciò è minimamente penetrato in Fichte; la sola cosa che lo interessava in questo era il partire dal soggetto; via scelta da Kant per dimostrare falso il partire dall'oggetto, come s'era usato fino allora, il quale oggetto era perciò diventato la cosa in sé. Invece Fichte prese il partir dal soggetto per la cosa importante; suppose, come tutti gli imitatori, che se egli in ciò andasse più lontano di Kant, perverrebbe a superarlo; e ripetè in quest'indirizzo gli errori, che fino allora aveva commesso il dogmatismo, provocando appunto con ciò la critica di Kant. Così nulla era mutato nella sostanza; e il vecchio errore fondamentale, l'ammissione di un rapporto di causa ed effetto tra oggetto e soggetto, continuò come per l'innanzi; quindi il principio di ragione conservò, proprio come prima, un valore incondizionato. E la cosa in sé, invece di stare come al solito nell'oggetto, veniva ora trasferita nel soggetto della conoscenza; ma la completa relatività di entrambi – la quale indica che la cosa in sé, ossia l'intera essenza del mondo, non va cercata in essi, bensì fuori di questa come d'ogni altra esistenza condizionata – seguitò a rimanere, come per l'innanzi, sconosciuta. Proprio come se Kant non fosse esistito, il principio di ragione è in Fichte ancora quel che era in tutti gli scolastici, una aeterna veritas. Imperocché, come imperava sugli dèi degli antichi l'eterno fato, così imperavano sul Dio degli scolastici quelle aeternae veritates, ossia le verità metafisiche, matematiche e metalogiche, e presso alcuni anche la validità della legge morale. Queste sole verità erano affatto indipendenti da tutto: e in virtù della loro necessità esistevano tanto Dio che il mondo. In virtù adunque del principio di ragione, come d'una tale veritas aeterna, è l'Io per Fichte causa del mondo, ossia del Non-io, dell'oggetto: il quale appunto è sua conseguenza, sua produzione. Perciò si è ben guardato dall'esaminare o controllare più oltre il principio di ragione. Ma s'io dovessi indicare la forma di quel principio, seguendo la quale Fichte fa venir fuori il Non-io dall'Io, come dal ragno la sua tela, troverei che è il principio della ragione dell'essere nello spazio: perché solo riferendosi a questo acquistano un qualche senso e significato quelle tormentose deduzioni del modo come l'Io produce dal suo seno e fabbrica il Non-io – deduzioni le quali costituiscono il contenuto del più insensato e, anche solo per questo, del più noioso libro che mai sia stato scritto. La filosofia fichtiana, pel resto neppur degna di ricordo, c'interessa soltanto come il vero e proprio contrapposto, comparso tardi, dell'antichissimo materialismo; il quale era il più conseguente sistema che partisse dall'oggetto, come quella il più conseguente fra i sistemi che partono dal soggetto. Come il materialismo non s'accorgeva, che insieme col più semplice oggetto veniva a stabilire contemporaneamente anche il soggetto, così non s'accorgeva Fichte che insieme col soggetto (lo chiamasse poi come voleva) aveva già stabilito anche l'oggetto, perché nessun soggetto può esser pensato senza oggetto; e inoltre gli sfuggiva il fatto che ogni deduzione a priori, anzi in generale ogni dimostrazione, poggia sopra una necessità, ma ogni necessità si fonda esclusivamente sul principio di ragione. Imperocché l'esser necessario e il derivare da una data causa sono concetti equivalenti13. E gli sfuggì che il principio di ragione non è altro se non l'universal forma dell'oggetto come tale, sì che già presuppone l'oggetto, né può viceversa, vigendo all'infuori e prima di quello, produrlo e farlo nascere conformemente alla propria legge. Insomma, adunque, il partir dal soggetto ha in comune col su esposto partir dall'oggetto il medesimo errore, di ammettere in anticipazione ciò che afferma di dedurre solo in seguito, ossia il necessario correlato del suo punto di partenza.

Ora, da codesti due contrari equivoci il nostro metodo si distingue toto genere, in quanto noi non partiamo né dall'oggetto né dal soggetto, ma dalla rappresentazione, come primo fatto della coscienza, di cui è essenzialissima forma fondamentale lo sdoppiarsi in oggetto e soggetto. La forma dell'oggetto alla sua volta è il principio di ragione nelle sue differenti forme, ciascuna delle quali domina talmente la classe di rappresentazioni a lei spettante, che, come s'è mostrato, con la conoscenza di tale forma è conosciuta insieme l'essenza dell'intera classe; non essendo questa (come rappresentazione) nient'altro per l'appunto che quella forma medesima. Così il tempo non è altro che il principio dell'essere nel tempo, ossia successione; lo spazio nient'altro che il principio di ragione nello spazio, ossia posizione; la materia nient'altro che causalità; il concetto (come sarà subito dimostrato) niente altro che relazione col principio di conoscenza. Questa integrale e costante relatività del mondo come rappresentazione, sia nella sua forma più generale (soggetto e oggetto), sia in quella sottoposta alla prima (principio di ragione), ci richiama, come s'è detto, a cercar l'intima essenza del mondo in un aspetto di esso del tutto diverso dalla rappresentazione – un aspetto che il libro seguente dimostrerà come cosa non meno immediatamente certa in ogni essere vivente.

Tuttavia bisogna dapprima esaminare ancora quella classe di rappresentazioni, che appartiene soltanto all'uomo: classe che ha per materia il concetto, e per correlato soggettivo la ragione; come correlato delle rappresentazioni finora considerate erano intelletto e sensibilità, che sono proprii di tutti gli animali14.

§ 8.

Come dalla diretta luce del sole al derivato riflesso della luna, passiamo ora dalla rappresentazione intuitiva, immediata, che sostiene e garentisce se stessa, alla riflessione: agli astratti, discorsivi concetti della ragione, che tutto il loro contenuto hanno solo da quella conoscenza intuitiva ed in rapporto a lei. Fino a quando noi restiamo nella pura intuizione, tutto è chiaro, solido e sicuro. Non ci sono problemi, né dubbi, né errori: non si domanda di più, non si può andar oltre; si ha riposo nell'atto d'intuire, soddisfazione nel presente. L'intuizione basta a se stessa: quindi ciò che da lei scaturisce puro ed a lei è rimasto fedele, come per esempio la genuina opera d'arte, non può mai essere falso, né essere giammai confutato: perché non si tratta di opinione, bensì della cosa stessa. Con la conoscenza astratta invece, con la ragione, penetrano nel campo teoretico il dubbio e l'errore, nel campo pratico l'ansia e il pentimento. Se nella rappresentazione intuitiva l'apparenza può per qualche istante deformare la realtà, viceversa nella rappresentazione astratta l'errore può dominare per secoli, imporre a popoli interi il suo giogo di ferro, soffocare le più nobili aspirazioni dell'umanità; e perfino colui, ch'esso non riesce a ingannare, può far mettere in ceppi dai proprii schiavi, vittime dell'inganno. Esso è il nemico, contro il quale i più saggi spiriti d'ogni tempo sostennero una lotta disuguale; e soltanto ciò, che quelli hanno a lui strappato, è divenuto patrimonio della umanità. Per questo è bene richiamar subito l'attenzione su di esso, mentre cominciamo a mettere il piede sul suolo ove si estende il suo dominio. Per quanto sia stato detto sovente che bisogna seguir le tracce della verità, anche dove non c'è da sperare alcun vantaggio, potendo questo essere indiretto e venire quando non lo si aspetta: tuttavia io qui voglio ancora aggiungere che in egual modo bisogna darsi da fare per iscoprire e disperdere ogni errore, pur dove non è da attenderne alcun danno: anche il danno potendo essere indiretto, e comparire inaspettatamente, perché ogni errore ha nel suo interno un veleno. Se è lo spirito, se è la conoscenza che fa l'uomo signore della terra, non possono esservi errori inoffensivi, e ancor meno errori rispettabili o sacri. Ed a conforto di coloro, i quali in qualsivoglia maniera ed occasione dedicano forza e vita alla difficile e così aspra guerra contro l'errore, non posso astenermi dall'aggiungere qui, che l'errore può bensì aver libero giuoco, come civette e pipistrelli nella notte, fin che la verità non è apparsa: ma è più facile attendersi di veder civette e pipistrelli respingere il sole verso l'oriente, che veder la verità, una volta riconosciuta e chiaramente, compiutamente affermata, esser di nuovo respinta, perché l'antico errore riprenda daccapo, indisturbato, il suo comodo posto. Tale è la potenza della verità: di cui è difficile e faticosa la vittoria; ma questa, una volta raggiunta, non può più esserle strappata.

Oltre le rappresentazioni fin qui considerate – le quali, per la loro costituzione, si potevan ricondurre a tempo, spazio e causalità, ponendo mira all'oggetto; ed a pura sensibilità ed intelletto (ossia conoscimento della causalità) ponendo mira al soggetto – è dunque penetrata nell'uomo, unico fra tutti gli abitatori della terra, ancora un'altra facoltà conoscitiva: è sorta una conscienza affatto nuova, molto calzantemente e con profonda giustezza chiamata riflessione. Imperocché essa è in verità un riflesso, un derivato di quella conoscenza intuitiva, pure avendo natura e costituzione fondamentalmente diversa; non conosce le forme di quella, ed anche il principio di ragione, che impera su tutti gli oggetti, assume in lei un aspetto del tutto diverso. È solo questa nuova coscienza di secondo grado, questo astratto riflesso dell'intuitivo in un concetto di ragione non intuitivo, che dà all'uomo la riflessione, per cui la sua coscienza è così nettamente distinta da quella degli animali, e tutto il suo passaggio sulla terra si compie in modo così diverso da quello de' suoi fratelli irragionevoli. Molto anche l'uomo li supera in potenza e in dolore. Essi vivono solo nel presente, mentre l'uomo per di più vive contemporaneamente nell'avvenire e nel passato. Essi soddisfano il bisogno momentaneo; egli provvede con le più accorte disposizioni al proprio avvenire, anzi perfino ad epoche che non giungerà a vedere. Essi sono in tutto sottoposti all'impressione del momento, alla azione del movente intuitivo; egli è guidato da concetti astratti indipendenti dal presente. Perciò esegue piani meditati, oppure agisce secondo massime prestabilite, senza riguardo all'ambiente e alle impressioni fortuite dell'istante. Può, per esempio, prendere con calma le complicate disposizioni per la propria morte, può infingersi, fino a rendersi impenetrabile, e portar con sé nella tomba il suo segreto; ha finalmente una vera scelta fra numerosi motivi: perché solo in abstracto possono vari motivi, l'un presso l'altro, esser presenti nella coscienza, trarre con sé il conoscimento che l'uno esclude l'altro, misurando così in contrasto il loro potere sulla volontà; quindi il motivo preponderante, dando il tratto alla bilancia, diventa meditata risoluzione della volontà, e manifesta come certo indizio la sua natura. Al contrario, la sola impressione momentanea determina l'animale: soltanto la paura di una costrizione immediata può domare le sue cupidigie, finché quella paura finisce col diventare abitudine, e allora lo determina come tale: questo significa ammaestramento. L'animale sente e intuisce; l'uomo per di più pensa e sa: entrambi vogliono. L'animale comunica la sua sensazione e disposizione per mezzo di movimento e suono: l'uomo comunica all'altro uomo pensieri, per mezzo del linguaggio, o nasconde pensieri, per mezzo del linguaggio. Il linguaggio è il primo prodotto e il necessario strumento della sua ragione; per questo in greco ed in italiano linguaggio e ragione vengono indicati con la stessa parola: ὁ λογος, il discorso15. In tedesco Vernunft (ragione) viene da vernehmen, che non è sinonimo di hóren, udire, ma indica la comprensione del pensiero comunicato per mezzo di parole. Solo con l'aiuto del linguaggio può la ragione eseguire i suoi compiti importantissimi, come sarebbe la concorde azione di molti individui, la metodica collaborazione di molte migliaia d'uomini, la civiltà, lo stato; e inoltre la scienza, la conservazione dell'esperienza anteriore, l'aggruppamento delle note comuni in un concetto, la partecipazione della verità, la diffusione dell'errore, il pensare e il poetare, i dogmi e le superstizioni. L'animale conosce la morte solo nella morte: l'uomo s'appressa di ora in ora coscientemente alla morte sua, e questo rende talvolta pensosa anche la esistenza di chi non ha ancora riconosciuto alla vita intera questo carattere di perenne distruzione. Soprattutto per questo ha l'uomo filosofie e religioni: ma rimane tuttavia incerto, se sia frutto di quelle ciò che noi a buon diritto stimiamo in più alto grado nel suo operare, la volontaria giustizia e l'animo generoso. Invece come indubbi, esclusivi germogli delle filosofie e delle religioni, e prodotti della ragione, appaiono le più stravaganti e arrischiate opinioni filosofiche delle diverse scuole, e le stranissime, talora anche crudeli costumanze dei preti delle diverse religioni.

Che tutte queste sì svariate ed estese manifestazioni provengano da un principio comune, da quella particolare facoltà dello spirito, che è privilegio dell'uomo in confronto dell'animale e che fu chiamata ragione, ὁ λογος το λογιστικον, το λογιμον, ratto, è opinione unanime di tutti i tempi e di tutti i popoli. E anche sanno tutti gli uomini benissimo riconoscere le manifestazioni di questa facoltà, e dire ciò che è ragionevole e ciò che è irragionevole, e dove la ragione viene a conflitto con le altre facoltà e proprietà dell'uomo, e finalmente ciò che non ci si potrà mai attendere anche dal più intelligente degli animali, per la mancanza di ragione. I filosofi di tutti i tempi anche si esprimono generalmente in armonia con quell'universale conoscenza della ragione, ed oltre a ciò mettono in rilievo qualche sua manifestazione più importante, come sarebbe il dominio sugli affetti e sulle passioni, la capacità di giudicare e di porre principi generali con una certezza che talvolta precede ogni esperienza, e così via. Nondimeno tutte le loro spiegazioni intorno alla vera essenza della ragione sono traballanti, non determinate nettamente, prolisse, senza unità né centro, intese a mettere in rilievo or questa or quella manifestazione, e perciò spesso divergenti l'una dall'altra. Si aggiunga, che molte partono dal contrasto fra ragione e rivelazione, il quale è del tutto estraneo alla filosofia, e non serve che ad accrescere la confusione. È oltremodo sorprendente, che finora nessun filosofo abbia rigidamente ricondotto quelle svariate manifestazioni della ragione ad una funzione semplice, la quale sia da riconoscere in tutte, e tutte le spieghi, e costituisca perciò la vera intima essenza della ragione. L'esimio Locke indica bensì molto giustamente nell'Essay on Human Understanding, libro 2, cap. 11, §§ 10 e 11, come carattere distintivo fra animale ed uomo, i concetti universali astratti, e Leibniz ripete lo stesso con pieno accordo nei Nouveaux essays sur l'entendement humain, libro 2, cap. 11, §§ 10 e 11. Ma quando Locke nel libro 4, cap. 17, §§ 2, 3, viene alla vera e propria spiegazione della ragione, perde affatto di vista quel semplice carattere fondamentale, e cade anche lui in una oscillante, imprecisa, incompiuta esposizione di manifestazioni derivate e frammentarie di quella: anche Leibniz, nel luogo corrispondente della sua opera, si contiene in complesso nel medesimo modo, solo con maggior confusione ed oscurità. E fino a qual punto abbia poi Kant confuso e falsato il concetto dell'essenza della ragione, ho detto ampiamente nell'appendice. Ma chi voglia darsi la pena di scorrere sotto questo riguardo la massa di scritti filosofici venuti in luce da Kant in qua, riconoscerà che, come gli errori dei principi sono scontati da popoli interi, gli errori dei grandi spiriti distendono la loro influenza dannosa su intere generazioni anche per secoli; anzi, crescendo e propagandosi, finiscono col degenerare in mostruosità: e tutto questo deriva dal fatto che, come dice Berkeley: «Few men think; yet all will have opinions»16.

Come l'intelletto ha soltanto una funzione: immediata conoscenza del rapporto di causa ed effetto: e l'intuizione del mondo reale, come anche tutta l'avvedutezza, sagacia, facoltà inventiva – per quanto sia molteplice la loro applicazione – non sono tuttavia evidentemente null'altro che manifestazioni di quella funzione semplice; così anche la ragione ha una sola funzione: formare il concetto. In base a quest'unica funzione si spiegano molto facilmente, e compiutamente, e spontaneamente tutti i fenomeni sopra citati, che distinguono la vita dell'uomo da quella dell'animale. E all'uso o al non-uso di quella funzione si riconduce sempre ciò che ovunque e in ogni tempo si è chiamato ragionevole o irragionevole17.

§ 9.

I concetti formano una classe speciale di rappresentazioni, che si trova solo nello spirito dell'uomo, toto genere diversa dalle rappresentazioni intuitive esaminate finora. Perciò non possiamo mai raggiungere una conoscenza intuitiva, assolutamente evidente, del loro essere; ma soltanto una conoscenza astratta e discorsiva. Sarebbe quindi assurdo pretender che venissero provati con l'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondo reale esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva; o che fossero portati davanti agli occhi, o davanti alla fantasia, come oggetti d'intuizione. Essi si lasciano esclusivamente pensare, non intuire; e soltanto gli effetti che per mezzo di quelli l'uomo produce, sono materia di vera e propria esperienza. Tali sono la lingua, l'azione metodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto quanto nasce da queste. Evidentemente il discorso, come oggetto dell'esperienza interna, non è altro che un telegrafo molto perfezionato, il quale comunica segni convenzionali con rapidità massima e delicatissima precisione. Ma che cosa significano questi segni? Come vengono decifrati? Forse che noi, mentre un altro parla, traduciamo immediatamente il suo discorso in immagini della fantasia, le quali con la rapidità del lampo ci trasvolano innanzi e si muovono, si concatenano, si trasformano e si colorano a seconda delle fluenti parole e delle loro flessioni grammaticali? Quale tumulto sarebbe allora nel nostro capo all'atto d'ascoltare un discorso o di leggere un libro! Ma non accade punto così. Il senso del discorso viene compreso immediatamente, afferrato con precisione e determinatezza, senza che di regola si confondano i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione, mantenendosi nel proprio dominio; e ciò che essa comunica o riceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non intuitive, le quali, formate una volta per sempre e relativamente scarse di numero, comprendono, contengono e rappresentano nondimeno tutti gli innumerevoli oggetti del mondo reale. Solo con ciò si spiega che non mai un animale può parlare o comprendere, sebbene abbia comuni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche le rappresentazioni intuitive; appunto perché le parole esprimono quella classe affatto speciale di rappresentazioni, di cui è correlato soggettivo la ragione, esse sono per l'animale prive di valore e di significato. Pertanto il linguaggio, come ogni altro fenomeno che noi ascriviamo alla ragione, e come tutto ciò che distingue l'uomo dall'animale, va spiegato mediante quest'una e semplice origine: i concetti – le rappresentazioni astratte, non intuitive; universali, non individuate nel tempo e nello spazio. Solo in alcuni casi passiamo dai concetti alla rappresentazione, formandoci fantasmi che sono intuitivi rappresentanti di concetti, ai quali tuttavia non sono mai adeguati. Questi sono stati particolarmente illustrati nella memoria sul principio della ragione, § 28, né voglio quindi ripetermi ora. Con ciò che è detto colà va confrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoi Philosophical Essays, p. 244, e Herder nella Metacritica (libro d'altronde cattivo), Parte I, p. 274. L'idea platonica, che diventa possibile mediante l'unione di fantasia e ragione, forma l'argomento principale del terzo libro dell'opera presente.

Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamentalmente diversi dalle rappresentazioni intuitive, stanno tuttavia in un necessario rapporto con queste, senza di cui non esisterebbero; il qual rapporto costituisce quindi tutta la loro essenza ed esistenza. La riflessione è necessariamente imitazione, riproduzione dell'originario mondo intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro genere, in una materia del tutto eterogenea. Perciò i concetti si posson benissimo chiamare rappresentazioni di rappresentazioni. Il principio di ragione ha qui egualmente una forma particolare; e come la forma con cui esso domina in una classe di rappresentazioni costituisce ed esaurisce tutta l'essenza di questa classe in quanto è formata di rappresentazioni, – sì che, come abbiamo veduto, il tempo è in tutto e per tutto successione, e nient'altro, lo spazio in tutto e per tutto posizione, e nient'altro, la materia in tutto e per tutto causalità e nient'altro – così anche tutta l'essenza dei concetti, ossia della classe delle rappresentazioni astratte, consiste esclusivamente nella relazione che in essi esprime il principio di ragione. Ed essendo questa la relazione col principio di conoscenza, la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza unicamente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altra rappresentazione, che è il suo principio di conoscenza. Ora questa può essere alla sua volta un concetto, o rappresentazione astratta, ed anch'essa può avere ancora un altrettale principio di conoscenza astratta. Ma non si continua così all'infinito: bensì alla fine la serie dei principi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, che ha la sua base nella conoscenza intuitiva. Imperocché tutto il mondo della riflessione poggia sul mondo dell'intuizione come suo principio di conoscenza. Quindi la classe delle rappresentazioni astratte ha di fronte alle altre la seguente nota distintiva: che in queste il principio di ragione esige sempre soltanto un rapporto con un'altra rappresentazione della medesima classe, mentre nelle rappresentazioni astratte esige alla fine un rapporto con una rappresentazione di altra classe.

Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamente, bensì solo mediante l'intermediario di uno o anche più altri concetti si riferiscono alla conoscenza intuitiva, vengono chiamati di preferenza abstracta; e concreta viceversa quelli che hanno il loro fondamento immediato nel mondo intuitivo. Ma quest'ultima denominazione non conviene se non molto impropriamente ai concetti da lei indicati, perché ancor questi sono pur sempre abstracta, e non già rappresentazioni intuitive. Tali denominazioni sono venute solamente da una coscienza molto confusa del divario che si voleva così esprimere; ma con l'interpretazione qui indicata possono tuttavia sussistere. Esempi della prima maniera, ossia abstracta in senso eminente, sono concetti come «relazione, virtù, investigazione, inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia impropriamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo, pietra, cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo figurato e perciò tendente allo scherzo, si potrebbe con immagine calzante chiamare gli ultimi concetti il pianterreno, mentre i primi sarebbero invece i piani superiori dell'edifizio della riflessione18.

Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia che molte rappresentazioni intuitive o magari anche astratte stiano con lui nel rapporto del principio di conoscenza, cioè vengano pensate per suo mezzo, non è, come solitamente si ammette, proprietà essenziale di quel concetto, bensì solamente secondaria e derivata; la quale può addirittura non sempre trovarsi di fatto, per quanto ognora possibile. Codesta proprietà deriva da ciò, che il concetto è rappresentazione di una rappresentazione, ossia ha tutta la sua essenza esclusivamente nella sua relazione con un'altra rappresentazione; ma il concetto non è tale rappresentazione, ed anzi questa addirittura appartiene di solito a tutt'altra classe di rappresentazioni: avendo carattere intuitivo, può di conseguenza aver determinazioni di tempo, di spazio, ed altre. Può insomma aver molte relazioni, che nel concetto non vengono punto pensate: quindi più rappresentazioni, fra loro diverse in ciò che non è sostanziale, possono venir pensate con lo stesso concetto, ossia venir assunte sotto di questo. Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà essenziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono adunque dare concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto reale, ma che sono tuttavia astratti ed universali, e non già rappresentazioni isolate ed intuitive. Tale è per esempio il concetto che si ha d'una città determinata, la quale ci è nota solo dalla geografia: sebbene con codesto concetto venga pensata quella sola città, sarebbero tuttavia possibili più città, pur differenti in alcune parti, alle quali tutte converrebbe il concetto medesimo. Non per essere astratto da più oggetti acquista universalità un concetto: bensì al contrario, essendo per esso, in quanto rappresentazione astratta della ragione, essenziale l'universalità, ossia la non-determinazione del singolo, possono diverse cose esser pensate per mezzo del medesimo concetto.

Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appunto perché è rappresentazione astratta, non intuitiva e quindi non in tutto determinata, ha quel che chiamiamo una estensione circolare o sfera, perfino nel caso che gli corrisponda un solo oggetto reale. Ora, noi troviamo costantemente che la sfera d'ogni concetto ha qualcosa di comune con quelle d'altri concetti: ossia, che in esso viene parzialmente pensato ciò che si pensa in quegli altri, e viceversa; sebbene, quando sono davvero concetti differenti, ciascuno o per lo meno uno dei due contenga qualcosa che l'altro non ha. In questo rapporto sta ogni soggetto col suo predicato. Riconoscere questo rapporto, dicesi giudicare. La rappresentazione di quelle sfere mediante figure geometriche è stata un pensiero felicissimo. L'ha avuto forse per primo Goffredo Plouquet, il quale si servì a tal fine di quadrati; il Lambert, sebbene venuto dopo, usò ancora semplici linee, che disponeva l'una sotto l'altra; l'Euler perfezionò la figurazione valendosi di cerchi. Su che cosa poggi in fondo questa sì precisa analogia fra i rapporti dei concetti e quelli delle figure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la logica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti i rapporti dei concetti, perfino secondo la loro possibilità, ossia a priori, si possano rappresentare intuitivamente per mezzo di tali figure, nel modo che segue:

1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio il concetto della necessità e quello dell'effetto prodotto da una data causa; così quello di ruminantia e di bisulca (ruminanti e animali con l'unghia fessa); e similmente il concetto di vertebrati e d'animali a sangue rosso (al che sarebbe tuttavia qualcosa da opporre a proposito degli anellidi). Tutti codesti sono concetti equivalenti. Li rappresenta un unico circolo, il quale indica tanto l'uno quanto l'altro.

2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quella d'un altro:

3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono e contemporaneamente riempiono la prima:

4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:

5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempirla:



Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sfere non hanno una comunione immediata: perché ve n'è sempre una terza, se pur sovente assai ampia, che li racchiude entrambi.

A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combinazioni dei concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giudizi; con la loro conversione, contrapposizione, reciprocazione, disgiunzione (quest'ultima conformemente alla terza figura). E così anche le proprietà dei giudizi, sulle quali Kant stabiliva le pretese categorie dell'intelletto; facendo nondimeno eccezione della forma ipotetica, che non è più una combinazione di puri concetti, bensì di giudizi, ed eccettuando inoltre la modalità: della quale, come d'ogni proprietà dei giudizi che serve di fondamento alle categorie, da conto distesamente l'appendice. Circa le possibili combinazioni di concetto sopraindicate, è solo da aggiungere che esse possono anche venir combinate variamente; per esempio la quarta figura con la seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contiene un'altra in tutto o in parte, viene a sua volta contenuta tutta in una terza, le tre insieme rappresentano il sillogismo della prima figura, ossia quella combinazione di giudizi mediante la quale viene riconosciuto che un concetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è anche contenuto egualmente in un terzo concetto che contenga quest'altro: o anche rappresentano il caso opposto, la negazione; la cui espressione figurata può naturalmente consistere solo in due sfere congiunte, che non sono comprese in una terza. Quando molte sfere si comprendono l'una nell'altra in questa maniera, ne vengono lunghe catene di sillogismi. Questo schematismo dei concetti, il quale già in molti trattati è abbastanza bene esposto, può esser messo come fondamento alla dottrina dei giudizi, com'anche a tutta la sillogistica; dal che l'esposizione d'entrambe sarà resa assai facile e semplice. Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono approfondite, dedotte e spiegate secondo la loro origine. Ma il sovraccaricar di queste regole la memoria non è necessario; perché la logica non ha pratica utilità, ma solo importanza teorica per la filosofia. Poiché sebbene si dica che la logica si comporta riguardo al pensiero raziocinativo come il basso fondamentale riguardo alla musica, o anche, se vogliamo esser meno precisi, come l'etica riguardo alla virtù, o l'estetica all'arte; tuttavia bisogna riflettere che nessuno è divenuto artista per lo studio dell'estetica, né un nobile carattere s'è formato con lo studio dell'etica; che da gran tempo prima del Rameau fu composta musica corretta e bella, e che inoltre non c'è bisogno di sentirsi padroni del basso fondamentale per accorgersi delle disarmonie: similmente non occorre saper la logica per non lasciarsi trarre in inganni da sofismi. Si deve tuttavia convenire che, se non per l'apprezzamento, il basso fondamentale è di grande utilità per la pratica della composizione musicale: e perfino l'estetica o addirittura l'etica possono, sebbene in misura assai minore, esser nella pratica di qualche utilità – per quanto sia un'utilità più che altro negativa – sì che non può esser loro negato ogni valore pratico. Ma della logica non può dirsi nemmeno questo. Essa non è se non la consapevolezza in abstracto di ciò che ognuno sa in concreto. Quindi, come non se n'ha bisogno per respingere un falso ragionamento, così non si ricorre alle sue regole per farne uno giusto; e finanche il più addottrinato dei logici le lascia affatto da canto nell'atto del suo effettivo pensare. Questo si spiega con l'osservazione che segue. Ogni scienza consiste in un sistema di verità, leggi e regole generali, e quindi astratte, relative a un qualche genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare, che venga a capitare fra questi, viene di volta in volta determinato secondo quella nozione generale, che vale una volta per tutte; perché questa applicazione della regola generale è infinitamente più facile che non l'investigare da capo, per sé, ogni sopravveniente caso isolato; essendo che la general conoscenza astratta, una volta raggiunta, ci è ognora più agevole che l'investigazione empirica del caso singolo. Ma con la logica accade il contrario. Essa è la consapevolezza generale del modo di procedere della ragione, raggiunta mediante la diretta osservazione della ragione stessa, e l'astrazione da ogni contenuto. Ma un tal modo di procedere è per la ragione necessario ed essenziale: in nessun caso ella se ne può rimuovere, non appena sia abbandonata a se stessa. È adunque più facile e più sicuro in ogni caso speciale lasciarla procedere conformemente alla sua natura, che non metterle innanzi, in forma di legge esteriore, venuta dal di fuori, una teoria tratta appunto da quel suo procedere. È più facile: perché, se in tutte le altre scienze la regola generale ci è più comoda che l'investigazione del singolo caso da solo o in se medesimo, invece nell'uso della ragione il suo natural modo di comportarsi in un dato caso ci vien più spontaneo sempre che non la regola generale tratta da quello: poi che l'elemento pensante in noi è per l'appunto la ragione stessa. Ed è più sicuro: perché molto più agevolmente può capitare un errore in quel sapere astratto o nella sua applicazione, che non possa subentrare un processo della ragione, il quale ripugni alla sua essenza, alla sua natura. Da ciò proviene il fatto singolare, che se di regola nelle altre scienze si prova la verità del caso particolare con la regola, nella logica all'opposto la regola viene sempre sperimentata nel caso singolo: ed anche il logico più esercitato, accorgendosi che in un singolo caso viene a concludere differentemente dal modo imposto da una regola, cercherà sempre l'errore nella regola, prima che nella deduzione da lui fatta. Voler fare uso pratico della logica, sarebbe dunque un voler derivare, con indicibile pena, da regole generali, ciò di cui noi siamo immediatamente consci, con la massima sicurezza, caso per caso: sarebbe come un voler prender consiglio nei propri movimenti dalla meccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi apprende la logica per fini pratici somiglia a colui che voglia insegnare a un castoro la costruzione del suo nido. Sebbene la logica sia adunque senza pratica utilità, deve nondimeno venir conservata, perché ha importanza filosofica, come speciale conoscenza dell'organismo e attività della ragione. Nella sua qualità di disciplina chiusa, esistente di per sé, in sé compiuta, perfetta, e affatto sicura, è in diritto di essere trattata scientificamente, da sola, e senza dipender da tutte le altre scienze, venendo anche insegnata nelle università: ma non acquista il suo effettivo valore se non nel complesso dell'intera filosofia, nell'esame della conoscenza, e precisamente della conoscenza razionale o astratta. Perciò la sua esposizione non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza rivolta alla pratica, né contener soltanto nude regole pel giusto modo di formular giudizi, sillogismi e così via; bensì esser piuttosto indirizzata a meglio riconoscer l'essenza della ragione e del concetto, ed ampiamente esaminare il principio di ragione della conoscenza. Imperocché la logica è una semplice parafrasi di questo, e precisamente per il solo caso, in cui il principio che dà verità ai giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logico o metalogico. Accanto al principio di ragione della conoscenza, sono quindi da porre le tre rimanenti leggi fondamentali del pensiero, ossia giudizi di verità metalogica, a quello così strettamente affini; e su questa base si forma a poco a poco l'intera tecnica della ragione. L'essenza del pensare vero e proprio, ossia del giudizio e del sillogismo, va spiegata con le combinazioni delle sfere dei concetti, conformemente allo schema geometrico, nel modo sopra accennato; e da questo, per costruzione, vanno derivate tutte le regole del giudizio e del sillogismo. In un sol modo si può far uso pratico della logica: quando nel disputare si dimostrano all'avversario non tanto le sue conclusioni veramente errate, quanto quelle intenzionalmente false, chiamandole col loro nome tecnico di paralogismi e sofismi. Ma per codesto rigetto dell'indirizzo pratico e per la messa in rilievo della connessione che ha la logica con l'intera filosofia, come un capitolo di questa, non dovrebbe quella divenir tuttavia più trascurata che oggi non sia; poi che al giorno d'oggi deve aver studiato filosofia speculativa ciascuno il quale non voglia rimanere incolto in ciò che più importa, e confuso nella massa ignorante ed opaca. Imperocché questo secolo decimonono è un secolo filosofico; con la qual cosa non si deve tanto intendere che esso possegga una filosofia o che la filosofia vi domini, quanto piuttosto che per la filosofia il secolo è maturo, e appunto perciò ne ha bisogno assoluto. Questo è un segno di cultura molto elevata, anzi addirittura un punto fermo sulla scala della civiltà19.

Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, non si può tuttavia negare che essa fu inventata per un fine pratico. Io mi spiego la sua origine nel modo che segue. Quando fra gli eleatici, megarici e sofisti il gusto del disputare si fu sempre più sviluppato, arrivando fin presso alla mania, la confusione in cui quasi ogni disputa cadeva dovè far loro presto sentire la necessità di un procedimento metodico: e, come introduzione a questo, era da cercare una dialettica scientifica. La prima cosa da osservare era che le due parti contendenti dovevano sempre essere d'accordo sopra un principio qualunque, a cui eran da ricondurre i punti controversi nell'atto del disputare. L'inizio del procedimento metodico è consistito nel fatto, che questi principi da tutti ammessi vennero formalmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazione. Ma tali principi concernevano dapprima soltanto il lato materiale di questa. Presto si comprese che, pur nella maniera di rifarsi dalla verità universalmente riconosciuta, e tentar di derivarne le proprie affermazioni, si seguivano certe forme e leggi, intorno alle quali anche senza precedente intesa non mai si dissentiva; dal che apparve, che quelle dovevano essere il procedimento proprio ed essenziale della ragione, ossia il lato formale dell'investigazione. Ora, sebbene questo non fosse esposto al dubbio e al disaccordo, un cervello sistematico fino alla pedanteria venne nondimeno a pensare, che farebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dialettica metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa, codesto sempre regolare procedimento della ragione medesima venisse anch'esso formulato in principi astratti; i quali, appunto, al modo di quei principi universalmente riconosciuti, che concernono il lato materiale dell'investigazione, si ponessero a capo di questa, come un canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognora volger l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si voleva coscientemente riconoscer per legge, e formalmente dichiarare, quello che fino allora s'era seguito in virtù di tacito accordo o praticato come per istinto, si trovarono a poco a poco espressioni più o meno perfette per i principi logici, come il principio di contraddizione, di ragion sufficiente, del terzo escluso, il dictum de omni et nullo, e poi le speciali regole della sillogistica, come per esempio ex meris particularibus aut negativis nihil sequitur, a rationato ad rationem non valet consequentia, etc. Ma come di ciò si venisse a capo solo lentamente e con molta fatica, e come tutto fosse rimasto assai imperfetto prima di Aristotele, vediamo in parte dal modo impacciato e prolisso con cui vengono portate alla luce le verità logiche in alcuni dialoghi platonici; e ancor meglio da ciò che ci riferisce Sesto Empirico sulle contese dei megarici intorno alle più facili e semplici leggi logiche, ed alla faticosa maniera con cui le chiarivano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.). Aristotele raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innanzi a sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmente più alta. Se si considera in questo modo come il cammino della cultura greca aveva preparato e provocato il lavoro di Aristotele, si sarà poco disposti a prestar fede alla testimonianza di scrittori persiani comunicataci da Jones, il quale vi dà molto peso: che cioè Callistene abbia trovata presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, e l'abbia inviata a suo zio Aristotele («Asiatic Researches», vol. IV, p. 163). Si comprende facilmente, che nel triste medioevo la logica aristotelica sia stata oltremodo bene accetta allo spirito degli scolastici, avido di contese e, nella mancanza d'ogni conoscenza positiva, nutrito soltanto di formule e parole; e da quello cupidamente ghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevata a centro di tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria, si è nondimeno conservata fino al nostro tempo nella rinomanza d'una scienza indipendente, pratica, ed utilissima; finanche a' nostri giorni la filosofia kantiana, la quale propriamente tolse dalla logica la propria base, ha fatto nascer daccapo un nuovo interesse per lei; interesse ch'ella d'altronde merita sotto questo rispetto, ossia come mezzo per conoscere l'essenza della ragione.

Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservando con cura il rapporto delle sfere concettuali, e sol quando una sfera è precisamente contenuta in un'altra, e questa a sua volta è tutta contenuta in una terza, si riconosce anche la prima come contenuta appieno nella terza; l'arte della persuasione, invece, poggia sul fatto, che i rapporti delle sfere concettuali sono sottoposti a una considerazione appena superficiale, e si determinano in modo unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni. Ciò accade soprattutto quando – mentre la sfera di un concetto preso in esame è solo parzialmente compresa in un'altra, ed il resto è compreso invece in una sfera affatto diversa – la si fa passare come tutta compresa nella prima, o tutta nella seconda, come conviene a chi parla. Se, per esempio, si discorre di passione, questa si può far entrare a piacere nel concetto della maggior forza e del più poderoso agente che sia al mondo, oppure nel concetto dell'irragionevolezza; e questo, a sua volta, nel concetto dell'impotenza, della debolezza. Questo sistema potrebbe esser continuato e applicato ad ogni concetto, sul quale cada il discorso. Quasi sempre nella sfera di un concetto s'incrociano più sfere, ciascuna delle quali contiene nel proprio dominio una parte del dominio del primo concetto, ma abbraccia inoltre anche altro dominio: e di queste ultime sfere concettuali si mette in evidenza solo quella, sotto di cui si vuole assumere il primo concetto; lasciando le altre inosservate, o tenendole nascoste. Su questo artifizio poggiano precisamente tutte le insidie della persuasione, tutti i più sottili sofismi: poiché i sofismi logici, come il mentiens, velatus, cornutus, etc. sono evidentemente troppo grossolani per l'impiego effettivo. Non constandomi che finora l'essenza d'ogni sofisticazione e persuasione sia stata ricondotta a quest'ultimo principio della sua possibilità, e additata nella particolare natura dei concetti, ossia nel modo di conoscenza della ragione; voglio, or che il mio discorso m'ha condotto a questo punto, chiarire la cosa – per quanto essa sia di facile comprensione – mediante uno schema esposto nella tavola qui annessa [v. pp. 90-1].

Il quale schema intende mostrare come variamente s'intreccino le sfere concettuali, offrendo campo all'arbitrio di passar da ogni concetto a questo o a quell'altro. Soltanto, non vorrei che dalla tavola si fosse falsamente indotti ad attribuire a questa piccola dilucidazione incidentale maggiore importanza di quella che per sua natura le compete. Come esempio, ho scelto il concetto del viaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altre quattro, in ciascuna delle quali può passare a volontà chi parli col proposito di persuadere; queste, alla lor volta, s'intersecano con altre sfere, e talune di esse contemporaneamente con due o più, tra le quali colui che parla sceglie arbitrariamente la propria via, sempre come se ve ne fosse una sola – e così alla fine perviene – a seconda del suo proposito, o al Bene o al Male. Ma nel procedere da sfera a sfera si deve sempre andar dal centro (ossia da un dato concetto fondamentale) verso la periferia, e non camminare all'indietro. Questa sofistica può assumere la forma del discorso filato o anche quella del rigido sillogismo, secondo consiglia il lato debole dell'ascoltatore. In fondo, la più parte delle dimostrazioni scientifiche e specialmente filosofiche non sono fatte molto diversamente. Altrimenti, come sarebbe possibile che tante cose, in tempi diversi, non solo siano state erroneamente accettate (perché l'errore in se stesso ha un'altra origine), ma dimostrate e provate, e nondimeno più tardi riconosciute falsissime; per esempio la filosofia di Leibnitz e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chimica di Stahl, la dottrina dei colori di Newton, etc., etc.?20.

§ 10.

In tutto questo ci si fa sempre più vicina la domanda, come mai sia da raggiungere la certezza, come siano da fondare i giudizi, in che consistano il sapere e la scienza, che noi, accanto al linguaggio e all'agire con riflessione, vantiamo come il terzo grande privilegio ottenuto mediante la ragione.

La ragione è di natura femminile: ella può dare soltanto dopo di aver ricevuto. Da per sé sola non ha se non le vuote forme del suo operare. Non v'è altra conoscenza razionale in tutto pura, fuori dei quattro principi, ai quali io ho attribuito verità metalogica, ossia i principi di identità, di contraddizione, del terzo escluso e di ragion sufficiente. Imperocché perfino il resto della logica non è già più conoscenza razionale affatto pura, presupponendo i rapporti e le combinazioni delle sfere dei concetti. E concetti in genere si hanno soltanto in seguito a precedenti rappresentazioni intuitive; essendo tutta l'essenza di quelli costituita dalla lor relazione con queste, sì che i concetti presuppongono le rappresentazioni. Ma poiché codesta presupposizione non si estende al contenuto determinato dei concetti bensì soltanto ad un'esistenza di essi in genere, può tuttavia la logica, presa nel suo complesso, valere come una pura scienza razionale. In tutte le altre scienze la ragione ha preso il suo contenuto dalle rappresentazioni intuitive: nella matematica dalle relazioni, intuitivamente conosciute prima d'ogni esperienza, dello spazio e del tempo; nella scienza naturale pura, ossia in quello che noi sappiamo sul corso della natura anteriormente ad ogni esperienza, il contenuto proviene dal puro intelletto, cioè dalla conoscenza a priori della legge di causalità e del suo collegamento con le pure intuizioni dello spazio e del tempo. In ogni altro sapere tutto ciò che non è tolto dalle intuizioni or ora indicate appartiene all'esperienza. Sapere, in generale, significa aver in potere della propria mente, per riprodurli a volontà, quei giudizi, che hanno il lor principio sufficiente di conoscenza in qualcosa fuori di se stessi, ossia sono veri. Solo la conoscenza astratta è quindi un sapere; questo è perciò sotto condizione della ragione; e parlando degli animali, per esser precisi, non possiamo dire che essi sappiano, sebbene abbiano conoscenza intuitiva e, quindi, anche memoria, e perciò fantasia: il che d'altronde dimostrano i loro sogni. Riconosciamo loro la coscienza; il concetto della quale, per conseguenza, sebbene la parola derivi da scire, viene a coincidere con quello di rappresentazione, di qualunque specie questa poi sia. Perciò anche s'attribuisce bensì da noi vita alla pianta, ma non coscienza. Sapere è adunque la conscienza astratta: l'aver fissato in concetti della ragione ciò che è stato conosciuto per altra via.

§ 11.

Ora, da, questo punto di vista il vero contrapposto del sapere è il sentimento, del quale dobbiamo a questo punto introdurre l'esame. Il concetto espresso dalla parola sentimento ha un contenuto del tutto negativo, ossia significa che qualcosa, presente nella coscienza, non è concetto, non è conoscenza astratta della ragione. Sia poi d'altronde quel che vuole, sempre va nel concetto di sentimento, la cui sfera smisuratamente ampia comprende le cose più eterogenee; delle quali non si viene a capo di scorgere come possano accozzarsi insieme, fin quando non si sia riconosciuto che s'accordano soltanto per questo rispetto negativo, di non essere concetti astratti. Imperocché gli elementi più disparati, anzi i più contrastanti stanno tranquillamente l'un presso l'altro in quel concetto; per esempio, sentimento religioso, sentimento del piacere, sentimento morale, sentimento corporeo come tatto, come dolore, come sentimento dei colori, dei suoni, e delle loro armonie e disarmonie; sentimento dell'odio, della ripugnanza, della contentezza di sé, dell'onore, dell'onta, del diritto, del torto; sentimento della verità, sentimento estetico, sentimento di forza, debolezza, sanità, amicizia, amore, etc. etc. Nessuna affinità passa tra questi sentimenti, se non quella negativa di non essere conoscenze astratte di ragione. Ma è ancor più sorprendente, quando perfino la conoscenza intuitiva a priori delle relazioni spaziali, e oltre a ciò la conoscenza puramente intellettiva, vengon ricondotte al concetto di sentimento; e in genere d'ogni conoscenza, d'ogni verità, della quale si sia consci solo intuitivamente, ma che non anco è deposta in concetti astratti, vien detto che la si sente. Di ciò intendo, a mo' di chiarimento, riferire alcuni esempi tolti a libri recenti, perché sono prove efficaci della mia spiegazione. Mi rammento d'aver letto nel proemio d'una traduzione tedesca di Euclide, che ai principianti in geometria si debbano far disegnare tutte le figure, prima di procedere alle dimostrazioni; affinchè in tal modo essi sentano la verità geometrica, ancor prima che la dimostrazione dia loro la conoscenza compiuta. Similmente nella Critica della dottrina dei costumi di F. Schleiermacher si parla di sentimento logico e matematico (p. 339), e anche del sentimento d'identità o differenza di due formule (p. 342); inoltre nella Storia della filosofia di Tennemann, vol. I, p. 361, si legge: «Si sentiva, che i sofismi erano sbagliati, ma non si poteva tuttavia scoprirne il difetto». Fin quando questo concetto di sentimento non venga considerato da un giusto punto di vista, e non si riconosca quell'unica caratteristica negativa che gli è propria, esso deve costantemente fornir materia d'equivoci e di contese, per l'eccessiva ampiezza della sua sfera, e per il suo tenue contenuto, affatto negativo e solo unilateralmente determinato. Poiché noi abbiamo in tedesco la voce abbastanza corrispondente Empfindung (sensazione), sarebbe utile riservar questa per i sentimenti corporei, come una sottospecie. Ma l'origine di quel concetto di sentimento, senza paragone sproporzionato in confronto di tutti gli altri, è fuor d'ogni dubbio la seguente. Tutti i concetti – e soltanto concetti sono espressi dalle parole – esistono esclusivamente per la ragione, da questa prendono le mosse: si sta dunque con essi già da un punto di vista unilaterale. Ma guardando da questo punto, ciò che è vicino apparisce chiaro, e viene stabilito come positivo; ciò ch'è lontano si confonde, e vien presto a esser considerato solo negativamente. Nello stesso modo ogni nazione chiama straniere le altre, il greco chiama barbari gli altri popoli, l'inglese chiama continent e continental ciò che non è Inghilterra o non è inglese, il devoto chiama eretici o pagani tutti gli altri, pel nobile sono tutti roturiers, per lo studente tutti Philister (filistei), e così via. In questa medesima unilateralità, o si può dire in questa medesima grossolana ignoranza proveniente da orgoglio, incorre anche la ragione, per quanto ciò possa parere strano, quando comprende sotto l'unico concetto di sentimento ogni modificazione della coscienza, che non spetti immediatamente alla sua maniera di rappresentazione, cioè che non sia concetto astratto. E finora, non essendosi resa conscia del suo stesso procedimento per mezzo d'una profonda conoscenza di se medesima, ha dovuto scontare ciò con equivoci e smarrimenti nel suo proprio dominio; perché s'è perfino stabilita una particolare facoltà del sentimento, e se ne sono costruite le teorie.

§ 12.

Sapere – il cui opposto contraddittorio è il concetto di sentimento or ora chiarito – è, come ho detto, ogni conoscenza astratta, ossia conoscenza di ragione. Ora, poiché la ragione offre sempre alla conoscenza solo ciò che ha ricevuto per altro mezzo, non allarga propriamente i confini della conoscenza, bensì non fa che darle un'altra forma. Ossia ciò ch'era stato conosciuto intuitivamente, in concreto, lo fa conoscere in modo astratto e universale. Ma ciò è senza confronto più importante che non sembri, così formulato, a tutta prima. Imperocché ogni sicura conservazione, ogni possibile comunicazione, ogni precisa e ampia applicazione della conoscenza al campo pratico dipende dall'esser divenuta un sapere, una conoscenza astratta. La conoscenza intuitiva vale sempre solamente per un caso solo, si riferisce solo a ciò ch'è più vicino, ed a questo si ferma, perché senso e intelletto possono propriamente afferrare un solo oggetto alla volta. Ogni attività durevole, coordinata, sistematica deve perciò muovere da principi, ossia da un sapere astratto, ed esser guidata secondo quelli. Per esempio, la conoscenza che ha l'intelletto del rapporto di causa ed effetto è invero in sé molto più compiuta, profonda ed esauriente di quanto possa esserne pensato in abstract o: l'intelletto solo conosce per intuizione, immediatamente e compiutamente, il modo d'agire d'una leva, d'una carrucola, d'una ruota d'ingranaggio, la stabilità d'una volta etc. Ma per la proprietà or ora toccata della conoscenza intuitiva, di riferirsi solo a ciò ch'è immediato e presente, l'intelletto non perviene da solo alla costruzione di macchine e di edifizi: qui deve piuttosto intervenire la ragione, porre concetti astratti in luogo d'intuizioni, quelli prendere a guida dell'azione; e il buon successo verrà, se i concetti son giusti. Così nella pura intuizione noi conosciamo perfettamente l'essenza e la regolarità d'una parabola o iperbole o spirale; ma per fare nella realtà una sicura applicazione di tale conoscenza, questa deve dapprima esser diventata sapere astratto; nel che essa perde, è vero, il carattere intuitivo, ma guadagna in compenso la certezza e la determinatezza del sapere astratto. Così ogni calcolo differenziale non allarga punto la nostra conoscenza delle curve, e nulla contiene che già non contenesse la semplice intuizione pura di quelle; bensì cambia il modo della conoscenza, trasmuta la conoscenza intuitiva in astratta, e questo è di grandissima importanza per l'applicazione. Ma qui è il momento di trattar d'un'altra proprietà del nostro potere conoscitivo, che non si poteva bene osservare finora, non essendo del tutto chiarita la distinzione tra conoscenza intuitiva ed astratta. Ed è questa: che le relazioni di spazio non possono essere trasferite immediatamente, e come tali, nella conoscenza astratta; bensì sono a ciò adatte soltanto le grandezze di tempo, ossia i numeri. I numeri soli, non le quantità spaziali, possono venire espressi in concetti astratti, che loro perfettamente corrispondano. Il concetto mille è altrettanto diverso dal concetto dieci, quanto entrambe le grandezze temporali sono diverse nell'intuizione: noi pensiamo nel mille un determinato multiplo del dieci; nel quale possiamo scomporre quello a piacere per l'intuizione nel tempo, ossia possiamo contarlo. Ma fra il concetto astratto d'un miglio e quello d'un piede, senza nessuna rappresentazione intuitiva d'entrambi e senz'aiuto del numero, non c'è una distinzione netta e corrispondente a quelle grandezze. In entrambe viene pensata solo una quantità spaziale; e se debbono venir distinte con sufficiente precisione, bisogna in ogni modo o ricorrere all'intuizione spaziale, abbandonando perciò il dominio della conoscenza astratta, o pensare la differenza in numeri. Se si vuol quindi avere una conoscenza astratta delle relazioni spaziali, queste prima devon esser ridotte a relazioni temporali, ossia in numeri: perciò solamente l'aritmetica, e non la geometria, è dottrina universale delle quantità; e la geometria dev'esser tradotta in aritmetica, se vuole avere comunicabilità, determinazione precisa, e possibilità d'applicazione al campo pratico. È vero che una relazione di spazio si può pensar come tale anche in abstracto, per esempio: «il seno cresce in ragione dell'angolo»; ma se la quantità di questa relazione dev'essere indicata, ha bisogno del numero. È questa necessità di convertir lo spazio con le sue tre dimensioni nel tempo, che ha una dimensione sola, quando si voglia aver una conoscenza astratta (ossia un sapere e non una semplice intuizione) delle sue relazioni; è questa necessità che rende così difficile la matematica. La cosa diventa chiarissima, se paragoniamo l'intuizione delle curve col loro calcolo analitico, o anche soltanto le tavole dei logaritmi delle funzioni trigonometriche con l'intuizione delle relazioni variabili delle parti del triangolo, le quali vengono espresse mediante quelle tavole. Ciò che l'intuizione afferra qui in un'occhiata, pienamente e con la massima precisione, ossia come il coseno diminuisca col crescer del seno, come il coseno di un angolo sia il seno dell'altro, il rapporto inverso del diminuire o crescere dei due angoli, etc.; di quale immane contesto di numeri, di qual faticoso computo abbisognerebbe, per esprimersi in abstracto! Come deve tormentarsi il tempo, si potrebbe dire, con la sua unica dimensione, per rendere le tre dimensioni dello spazio! Ma questo era necessario, se volevamo, all'effetto dell'applicazione pratica, posseder le relazioni dello spazio formulate in concetti astratti. Quelle non potevano passare direttamente in questi, ma solo per la trafila della quantità puramente temporale, del numero, come quello che immediatamente si muta in conoscenza astratta. Inoltre è da notare, che mentre lo spazio è tanto atto all'intuizione, e, per mezzo delle sue tre dimensioni, lascia facilmente scorgere relazioni anche complicate, esso si sottrae invece alla conoscenza astratta. Viceversa il tempo rientra facilmente nei concetti astratti, ma dà invece ben poco all'intuizione. La nostra intuizione dei numeri nel loro proprio elemento, il tempo puro, senza aggiungervi lo spazio, giunge appena fino a dieci; più in su abbiamo solamente concetti astratti, ma non conoscenza intuitiva dei numeri: al contrario colleghiamo con ciascun numero e con tutti i segni algebrici concetti astratti precisamente determinati.

Va qui notato di sfuggita, che taluni spiriti trovano piena soddisfazione solo in ciò che viene conosciuto intuitivamente. Causa ed effetto dell'essere nello spazio, intuitivamente manifesto, è ciò ch'essi cercano: una dimostrazione euclidea, o una soluzione aritmetica di problemi geometrici non li attira. Altri spiriti all'opposto domandano i concetti astratti, che soli si prestano all'applicazione e alla comunicazione: essi hanno pazienza e memoria per i principi astratti, formule, dimostrazioni in lunghe serie di sillogismi, e calcoli, i segni dei quali rappresentano le più complicate astrazioni. Questi cercano determinatezza: quelli, intuitività. La differenza è caratteristica.

Il sapere, la conoscenza astratta, ha il suo maggior pregio nella comunicabilità e nella possibilità di venir conservato in forma fissa: con ciò solo diventa così inestimabilmente importante per la pratica. Taluno può avere nel puro intelletto una conoscenza immediata, intuitiva del nesso causale dei cambiamenti e dei moti dei corpi naturali, e trovare in quella una piena soddisfazione; ma essa diviene atta ad esser comunicata, solo dopo che egli l'ha fissata in concetti. Per la pratica è sufficiente una conoscenza della prima maniera, fin tanto che colui assume tutto solo l'attuazione, e quando sia un'azione da eseguirsi allor che ancora è viva la conoscenza intuitiva; ma non più, se egli abbisogna d'aiuto estraneo, o anche di una propria azione personale da attuarsi in diverse epoche, e quindi d'un piano meditato. Così, per esempio, può un esercitato giocator di bigliardo avere soltanto nell'intelletto, soltanto per l'intuizione immediata, una piena conoscenza delle leggi che riflettono l'urto di corpi elastici l'un contro l'altro; e con ciò raggiungere appieno le sue mire: all'opposto solo uno scienziato della meccanica ha una vera e propria scienza di quelle leggi, ossia ne ha una conoscenza in abstracto. Perfino alla costruzione di macchine basta la conoscenza intellettuale puramente intuitiva, quando l'inventore della macchina la costruisce egli medesimo da solo, come si vede spesso fare a ingegnosi operai senz'alcuna scienza: invece non appena son necessari più uomini ed una loro attività coordinata, esercitantesi in momenti diversi, pel compimento d'una operazione meccanica, d'una macchina, d'una costruzione, allora deve colui che li dirige aver tracciato il piano in abstracto, e solo mediante il contributo della ragione divien possibile una tale attività collettiva. Notevole è tuttavia che in quella prima maniera d'attività, dove taluno deve eseguir da solo qualcosa in una ininterrotta operazione, il sapere, l'uso della ragione, la riflessione possono essergli perfino d'impedimento; per esempio nel gioco del bigliardo, nella scherma, nel suono d'uno strumento, nel canto. Qui dev'esser la conoscenza intuitiva a guidare direttamente l'attività: il passare per la riflessione la rende malsicura, per il fatto che scinde l'attenzione confonde l'uomo. Perciò selvaggi e uomini incolti, i quali sono pochissimo avvezzi a pensare, eseguono vari esercizi corporali, lotta con le belve, tiro dell'arco e simili, con una sicurezza e rapidità, che il riflessivo europeo non raggiunge mai, appunto perché la sua riflessione lo fa tentennare ed esitare: poi ch'egli cerca di trovar, per esempio, il posto buono, o il momento opportuno a pari distanza da due falsi estremi; mentre l'uomo semplice li coglie immediatamente, senza deviazioni. Così non m'è d'aiuto il saper indicare in abstracto per gradi e per minuti l'angolo in cui ho da adoperare il rasoio, se non lo conosco intuitivamente, ossia non lo formo naturalmente impugnando il rasoio. Nella stessa maniera ci disturba l'uso della ragione nell'apprezzamento della fisonomia: questo anche deve avvenire direttamente, mediante l'intelletto. Si dice, che l'espressione, il significato dei lineamenti si può solo sentire, ossia che appunto non rientra nei concetti astratti. Ciascun uomo ha la sua immediata fisiognomica e patognomica intuitiva: ma l'uno riconosce più chiaramente che l'altro quella signatura rerum. Una fisiognomica in abstracto, che si possa insegnare ed apprendere, non si può costruire; perché le sfumature sono qui tanto fine, che il concetto non vi può discendere. Quindi il sapere astratto si comporta di fronte a quelle come una figura a mosaico di fronte a una di van der Werft o Denner; come, per fino che sia il mosaico, rimangono tuttavia sempre visibili i contorni d'ogni pietruzza e non è perciò possibile il passaggio continuo da una tinta all'altra; così anche i concetti con la loro rigidità e la lor netta limitazione, per quanto sottilmente si possano suddividere mediante una più minuta determinazione, sono pur sempre incapaci di raggiungere le fine sfumature dell'intuizione, che son quelle che importano appunto nella fisiognomica qui addotta ad esempio21.

Questa medesima costituzione dei concetti, che li fa simili alle pietruzze della figura musiva, e grazie alla quale l'intuizione rimane sempre la loro asintote, è anche il motivo, per cui nell'arte nulla vien fatto di buono con essi. Se il cantante, il musicista vuol prodursi con la guida della riflessione, si demolisce. Lo stesso vale per il compositore, il pittore, il poeta stesso: il concetto rimane sempre infruttuoso per l'arte. Esso non può guidare in lei che la tecnica: suo dominio è la scienza. Nel terzo libro esamineremo più da vicino, perché ogni vera arte provenga dalla conoscenza intuitiva, non mai dal concetto. Perfino riguardo al modo di contenersi, alla piacevolezza nei rapporti sociali, il concetto non serve se non negativamente, per trattenere le grossolane esplosioni dell'egoismo e della bestialità, come d'altra parte è suo lodevole frutto la cortesia: ma ciò che attira, ciò che è grazioso, avvincente nel contegno, amorevole e gentile, non deve provenire dal concetto: in caso contrario

fühlt man Absicht und man ist verstimmt

[si sente il voluto e si è male disposti].

Ogni finzione è frutto di riflessione; ma alla lunga e di continuo la finzione non può durare: nemo potest personam diu ferre fictam, dice Seneca, nel libro De clementia: inoltre essa viene il più delle volte smascherata, e manca il suo effetto. In un alto fervore di vita, dove occorre veloce risoluzione, azione ardita, rapida e ferma iniziativa, è bensì la ragione necessaria; ma può facilmente guastare tutto se prende il sopravvento. Allora, generando confusione, impedisce la trovata intuitiva, diretta, puramente intellettiva, la pronta e giusta risoluzione, ed è causa d'irresolutezza.

Finalmente, anche virtù e santità non provengono dalla riflessione, ma dall'intima profondità del volere e dalla sua relazione col conoscere. Il dimostrar ciò spetta a tutt'altro luogo di quest'opera: qui voglio soltanto osservare, che i dogmi riferentisi al mondo etico possono essere i medesimi nella ragione di popoli interi, ma diverso l'agire in ogni individuo, e viceversa. Si agisce, come suol dirsi, per sentimenti: ossia non per concetti, ossia non secondo il lor contenuto etico. I dogmi tengono occupata la pigra ragione: l'azione procede indipendente da quelli pel suo cammino, il più delle volte secondo massime non astratte, ma inespresse, di cui è espressione appunto tutto l'uomo, medesimo. Quindi, per quanto diversi siano i dogmi religiosi dei popoli, pure è per tutti causa d'inesprimibile contento la buona azione, e la cattiva è accompagnata da orrore infinito. Nessun dileggio scuote quel contento; nessuna assoluzione del confessore libera da quell'orrore. Tuttavia non si vuol negare con questo, che l'uso della ragione sia necessario nella pratica continuata della virtù: soltanto, la ragione non è la fonte di questa; bensì la sua funzione è subordinata, e consiste nell'osservanza di deliberazioni già prese, nel tener presenti le massime, per resistere alle debolezze momentanee e agire conseguentemente. Lo stesso ufficio compie la ragione anche nell'arte, dov'essa non ha bensì alcun potere sostanziale, ma sorregge l'esecuzione; appunto perché il genio non sta a disposizione in tutti i momenti, mentre l'opera dev'essere compiuta in ogni sua parte e arrotondata in un tutto22.

§ 13.

Tutte queste considerazioni, sì intorno all'utilità che allo svantaggio dell'impiego della ragione, devono servire a render chiaro, che sebbene il sapere astratto sia il riflesso della rappresentazione intuitiva e si fondi su questa, non è tuttavia in alcun modo identico a lei, sì da poter fare ovunque le sue veci. Anzi, non le corrisponde mai perfettamente; quindi, come abbiamo veduto, è vero che molte delle azioni umane vengono a buon termine solo con l'aiuto della ragione e della condotta meditata, ma talune riescon meglio senza. Appunto quella incongruenza del conoscere intuitivo e dell'astratto, in grazia della quale quest'ultimo s'agguaglia al primo solo approssimativamente, come il mosaico alla pittura, è anche il motivo d'un fenomeno molto singolare; il quale, appunto come la ragione, è proprio esclusivamente della natura umana. Le spiegazioni sempre nuove che ne furon tentate finora sono tutte insufficienti: intendo parlare del riso. In virtù di questa sua origine, non possiamo sottrarci qui ad una spiegazione di esso, sebbene ne venga ancora ritardato il nostro cammino. Il riso volta per volta nasce da nient'altro che da un'incongruenza, improvvisamente percepita, fra un, concetto e gli oggetti reali, che erano pensati mediante quel concetto, in una relazione qualsiasi: ed esso medesimo è proprio solamente l'espressione di tale incongruenza. Questa è prodotta sovente da ciò, che due o più oggetti reali sono pensati mediante un unico concetto, la cui identità è trasportata in essi: ma tosto una completa dissomiglianza loro nel resto rende palese che il concetto conveniva ad essi sotto un solo punto di vista. Tuttavia è altrettanto frequente un unico oggetto reale, la cui incongruenza col concetto, a cui da un lato era stato sussunto con ragione, divien sensibile d'un tratto. Quanto è più giusta da un lato la sussunzione di tali oggetti reali sotto un concetto, e più grossa e stridente dall'altro la loro discordanza da quello; tanto più forte è l'azione del ridicolo emergente a questo contrasto. Ogni riso è provocato quindi da una sussunzione paradossale e quindi inattesa, si esprima questa in parole od in atti. Tale è, in breve, l'esatta spiegazione del ridicolo.

Non m'indugierò qui a narrare aneddoti ed esempi per chiarire la mia spiegazione, essendo questa tanto semplice e agevole, da non averne bisogno; e ciascun caso ridicolo, di cui si sovvenga il lettore, serve in egual modo di prova. Ma forse la nostra spiegazione riceve conferma e chiarimento insieme dalla distinzione di due generi del ridicolo, che appunto ne risultano. Può accadere che si siano trovati prima nella conoscenza due o più oggetti reali meno diversi (rappresentazioni intuitive) e li si abbia arbitrariamente eguagliati nell'unità di un concetto che li racchiude entrambi: questo modo di ridicolo si chiama spirito. O, viceversa, il giudizio è primo a trovarsi nella conoscenza, e si parte da esso per venire alla realtà e all'azione sulla realtà, alla pratica. In questo caso oggetti nel resto fondamentalmente diversi, ma tutti pensati sotto quel concetto, vengono ora riguardati e trattati ad un modo, fin quando la lor grande diversità in tutto il rimanente balza fuori, producendo sorpresa e stupore in chi agisce: questo genere di ridicolo si chiama buffoneria. Per conseguenza ogni ridicolo è una trovata umoristica, oppure un'azione buffonesca, a seconda che si proceda dalla discrepanza degli oggetti all'identità del concetto, o viceversa. Il primo caso è sempre volontario, il secondo sempre involontario ed imposto esteriormente. Aver l'aria di permutare questi punti di partenza, e mascherare l'umorismo da buffoneria, è l'arte del buffone di corte e del pagliaccio: di chi, pur essendo ben conscio della diversità degli oggetti, li ravvicina, con celata arguzia, sotto un concetto; e partendo poi da questo, ricava dalla diversità degli oggetti, in seguito scoperta, quella sorpresa che egli stesso s'era preparata. Da questa breve, ma sufficiente teoria del ridicolo appare che (facendo astrazione dall'ultimo caso citato del burlone), lo spirito si deve mostrar sempre a parole, la buffoneria invece il più sovente nei fatti, sebbene a volte si mostri anche a parole, come quando non fa che esporre il suo proposito invece di eseguirlo, o si manifesta soltanto in giudizi ed opinioni.

Alla buffoneria appartiene anche la pedanteria. Essa proviene dall'aver poca fiducia nel nostro intelletto, e dal non poterlo lasciar libero di trovare immediatamente la via giusta in ogni singolo caso; quindi lo si colloca in tutto e per tutto sotto la tutela della ragione, e ci si vuol servire sempre di questa: ossia muover sempre da concetti universali, regole, massime; ed attenervisi esattamente nella vita, nell'arte, perfino nella buona condotta morale. Di qui l'attaccamento, caratteristico della pedanteria, alla forma, alla maniera, all'espressione, alla parola; che per lei si sostituiscono all'assenza della cosa. Allora non si tarda a veder l'incongruenza del concetto con la realtà; si vede come quello non scende mai fino al particolare, e come quella universalità e rigida determinatezza non possa mai adattarsi alle fine sfumature e alle variate modificazioni della realtà. Quindi il pedante con le sue massime generali si trova sempre al disotto nella vita, e si mostra inetto, insulso, inservibile; nell'arte, per la quale il concetto è sterile, produce aborti esanimi, rigidi, artificiosi. Perfino il rispetto etico il proposito d'agir giustamente o nobilmente non può sempre essere attuato secondo massime astratte; perché in molti casi la natura delle circostanze con le loro infinite, delicate sfumature richiede una scelta della vita giusta emersa lì per lì dal carattere dell'individuo. Invece l'applicazione di pure massime astratte in parte da cattivi risultati, perché queste non convengono che a metà; in parte non si può fare, quando le massime sono estranee al carattere individuale di chi agisce, e questi non può rinnegar del tutto se stesso: da ciò possono derivare inconseguenze. Non possiamo assolvere pienamente Kant dall'accusa di pedanteria, quando pone a condizione del valore morale di un atto, che questo si faccia secondo pure massime astratte razionali, senz'alcuna inclinazione o eccitazione del momento; accusa che è anche il senso dell'epigramma schilleriano «Scrupolo di coscienza». Quando, soprattutto in cose politiche, si parla di dottrinari, teorici, eruditi, etc., s'intendono sempre pedanti: ossia persone che conoscono bensì le cose in abstracto, ma non in concreto. L'astrazione consiste nel cancellar dal pensiero le circostanze particolari: mentre sono appunto queste, che hanno grande importanza nella pratica.

Per compiere la teoria è da ricordare ancora un falso genere di spirito: il giuoco di parole, calembourg, pun, al quale si può ravvicinare anche il doppio senso, l’équivoque, usato principalmente per l'oscenità. Come lo spirito forza due oggetti reali ben diversi a stare sotto un concetto, così il giuoco di parola riunisce con l'aiuto del caso due concetti differenti in un'unica parola. Ne viene lo stesso contrasto, ma molto più fiacco e superficiale, essendo sorto non dall'essenza delle cose, bensì dal caso delle denominazioni. Il vero spirito ha identità nel concetto, differenza nella realtà; col giuoco di parole invece si ha differenza nei concetti e identità nella realtà, considerando come tale il suono della parola. Sarebbe un paragone un po' troppo ricercato, il dire che il giuoco di parole sta allo spirito come la parabola del cono superiore rovesciato sta a quella dell'inferiore. Il fraintendimento della parola poi, ossia il quid pro quo, è il calembourg involontario, e sta a questo proprio come la buffoneria all'umorismo. Perciò un uomo duro d'orecchi può, come il buffone, dar materia al riso; e i commediografi scadenti se ne servono in luogo di quello.

Ho considerato qui il riso unicamente dal lato psichico; sotto l'aspetto fisico si vegga quanto se ne dice nei Parerga, vol. II, Cap. 6, § 96, p. 134 (prima ediz.)23.

§ 14.

Dopo tutte queste varie considerazioni (le quali è sperabile abbian posto in piena luce la differenza e la relazione fra il modo di conoscere della ragione, ossia il sapere, il concetto, da un lato, e dall'altro la conoscenza immediata nella pura intuizione sensibile e matematica, nonché il suo apprendimento da parte dell'intelletto); e quindi dopo le dilucidazioni episodiche intorno al sentimento ed al riso – cui siamo stati condotti quasi inevitabilmente attraverso l'esame di quella singolare relazione dei nostri modi di conoscenza – riprendo ora a spiegare che cosa sia la scienza: come quella che accanto al linguaggio e all'azione meditata, è il terzo privilegio concesso all'uomo dalla ragione. L'esame generale della scienza, che qui c'incombe, toccherà per una parte la sua forma, per l'altra il fondamento dei suoi giudizi, e finalmente anche il suo contenuto.

Abbiamo veduto che – facendo eccezione del fondamento della logica pura – nessun altro sapere ha la sua origine nella ragione; bensì, attinto da altra sorgente in qualità di conoscenza intuitiva, nella ragione viene depositato, passando così in un modo di conoscenza affatto diverso: la conoscenza astratta. Ogni sapere, ossia ogni conoscenza elevata alla coscienza in abstracto, sta alla vera e propria scienza come un frammento sta al tutto. Ciascun uomo, sia per esperienza, sia per considerazione dei singoli dati, ha raggiunto un sapere intorno ad oggetti svariati: ma solo chi s'impone d'acquistare compiuta conoscenza in abstracto d'una data specie d'oggetti, aspira veramente alla scienza. Solo per mezzo del concetto può isolare quella specie: quindi al sommo d'ogni scienza sta un concetto, mediante il quale dal complesso di tutte le cose viene staccata una parte, di cui la scienza promette una piena cognizione in abstracto. Per esempio il concetto delle relazioni spaziali, o dell'azione reciproca dei corpi organici, o della natura delle piante e degli animali, o delle successive trasformazioni della superficie della terra, o dell'evoluzione complessiva del genere umano, o della formazione d'una lingua, e così via. Se la scienza volesse acquistar cognizione del suo campo, indagando ad una ad una tutte le cose pensate col concetto, e venendo così a poco a poco a conoscere il tutto, né la memoria umana basterebbe allo scopo, né si raggiungerebbe mai la certezza d'aver tutto conosciuto. Perciò la scienza si vale della proprietà, più sopra illustrata, che hanno le sfere concettuali, di esser comprese l'una nell'altra; e considera principalmente le sfere più ampie fra quelle che si trovano racchiuse nel concetto del suo oggetto. Quando ha determinato le loro relazioni reciproche, ha contemporaneamente determinato in genere tutto ciò che in quelle sfere viene pensato e che ora sarà determinato con sempre maggiore precisione, man mano che si vengano ad isolare sfere concettuali più ristrette. Così diventa possibile ad una scienza di abbracciare completamente il suo oggetto. E questa via, che conduce alla conoscenza procedendo dall'universale verso il particolare, distingue la scienza dal sapere comune: quindi la forma sistematica è una caratteristica essenziale della scienza. Il collegamento delle più vaste sfere concettuali d'ogni scienza, ossia la conoscenza dei suoi principi superiori, è condizione assoluta del suo apprendimento: rimane poi ad arbitrio dello scienziato il punto a cui vuol pervenire, scendendo da quei principi superiori a principi di mano in mano più limitati; con ciò si accresce non la profondità, ma l'estensione della scienza. Il numero dei principi superiori, ai quali sono tutti subordinati i rimanenti, è molto diverso a seconda delle varie scienze, tanto che in alcune si ha più subordinazione, in altre più coordinazione; sotto il qual punto di vista quelle richiedono più forza di giudizio, queste più memoria. Era già noto agli scolastici24 che, richiedendo il sillogismo due premesse, nessuna scienza può muovere da un unico principio superiore, che non sia a sua volta derivabile da un altro; ma deve averne parecchi; o almeno due. Le scienze di classificazione vera e propria: zoologia, botanica, ed anche fisica e chimica, in quanto queste due ultime riconducono a poche forze elementari ogni azione inorganica, hanno la massima subordinazione; viceversa la storia non ne ha punto, perché in lei l'universale consiste appena nel prospetto delle epoche principali maggiori, da cui tuttavia non si posson derivare le circostanze particolari. Queste sono a quelle subordinate solo per il tempo, ma coordinate in quanto al concetto. Perciò la storia, presa in senso preciso, è bensì un sapere, ma non una scienza. Nella matematica gli assiomi sono, secondo la trattazione euclidea, i soli principi superiori non dimostrabili, e tutte le dimostrazioni sono di grado in grado rigidamente subordinate a quelli: tuttavia questo modo di trattazione non è essenziale alla matematica, e in realtà ogni teorema fa sorgere una nuova costruzione spaziale, che in sé è indipendente dalle precedenti e può invero indipendentemente da quelle esser conosciuta, di per se stessa, nella pura intuizione dello spazio, nella quale anche la più complicata costruzione ha in realtà la stessa immediata evidenza dell'assioma. Ma di ciò sarà trattato ampiamente in seguito. Frattanto, ogni principio matematico rimane pur sempre una verità universale, applicabile ad innumerevoli casi singoli; alla matematica è anche essenziale un graduato procedere dai principi semplici ai meno semplici, e questi vanno ricondotti a quelli. Perciò la matematica è sotto ogni rispetto una scienza. La perfezione d'una scienza in quanto tale, ossia nella sua forma, consiste nell'aver quanto più è possibile subordinazione di principi, e poca coordinazione. Quindi il talento scientifico in genere è l'attitudine a subordinare le sfere concettuali, secondo le loro varie determinazioni; affinchè, come ripetutamente esorta Platone, non costituisca scienza un solo principio universale, sotto cui siano giustapposti una sterminata varietà di casi singoli, ma bensì la conoscenza proceda gradualmente dal più universale al particolare, attraverso concetti intermedi e partizioni, fatte secondo determinazioni sempre più strette. Con le parole di Kant, questo si chiama soddisfare egualmente la legge di omogeneità e quella di specificazione. Ma appunto dal fatto che ciò costituisce la vera perfezione scientifica, deriva che scopo della scienza non è una maggiore certezza, la quale può esser altrettanto data anche dalla più limitata conoscenza singola; bensì una maggior facilità del sapere mediante la forma di esso, o per tal via la possibilità di un sapere compiuto. È quindi opinione corrente ma sbagliata, che il carattere scientifico della conoscenza sta nella maggior certezza, ed altrettanto falsa è l'affermazione che ne deriva, che soltanto la matematica e la logica siano scienze in senso proprio; essendo solo in quelle, a causa della loro completa apriorità, un'incrollabile certezza della conoscenza. Quest'ultimo privilegio non si può contrastare: ma esso non dà loro nessuno speciale monopolio del carattere scientifico, poiché questo consiste non già nella certezza, bensì nella sistematica forma della conoscenza fondata sul graduale discendere dal generale al particolare. Codesto cammino della conoscenza proprio delle scienze (ossia il discender dal generale al particolare), porta con sé che molto in esse poggia sulla derivazione da principi anteriori, e quindi su dimostrazioni. E questo ha provocato l'antico errore, esser vero soltanto ciò che è provato, ed ogni verità abbisognar d'una prova; mentre al contrario ogni prova abbisogna piuttosto d'una verità non provata, che appoggi la prova stessa o anche, alla lor volta, le prove di questa. Perciò una verità direttamente accertata è da preferire a quella fondata su una dimostrazione, come l'acqua della sorgente è preferibile a quella dell'acquedotto. Intuizione – o pura, a priori, come quella della matematica, o empirica, a posteriori, come quella di tutte le altre scienze – è la sorgente d'ogni verità e il fondamento d'ogni scienza. (Va eccettuata solo la logica, fondata sulla conoscenza non intuitiva, sebbene sia anche immediata conoscenza che la ragione ha delle sue proprie leggi). Non i giudizi provati, né le loro prove: bensì quelli direttamente attinti dall'intuizione e fondati su questa, in luogo d'ogni prova, sono nella scienza quel ch'è il sole nell'universo: perché da essi deriva tutta la luce, dalla quale illuminati splendono gli altri alla lor volta. Fondar direttamente sull'intuizione la verità di codesti giudizi primi; estrarre dall'infinita moltitudine di oggetti reali codesti cardini della scienza: tale è il compito della facoltà giudicante; la quale consiste nel trasferire con giustezza e precisione nella coscienza astratta ciò che è conosciuto intuitivamente, e quindi è intermediaria tra intelletto e ragione. Solo una forza di giudizio eccezionale, superiore alla media, in un individuo, può far davvero avanzare le scienze: ma derivare principi da principi, dimostrare, sillogizzare può ciascuno, sol che abbia sana ragione. All'opposto, deporre e fissare in concetti convenienti, per riflessione, la conoscenza intuitiva; sì che da un lato i caratteri comuni di molti oggetti reali siano pensati con un concetto, e dall'altro con altrettanti concetti i loro caratteri differenti; per modo che il differente, malgrado una parziale concordanza, sia conosciuto e pensato come differente, e l'identico alla sua volta come identico, malgrado una parziale differenza (sempre secondo lo scopo e il punto di vista che in ogni singolo caso predomina), tutto questo fa il giudizio. Mancanza di giudizio è stoltezza. Lo stolto misconosce ora la parziale o relativa differenza di ciò che per un altro riguardo è identico, ora l'identità del relativamente o parzialmente diverso. D'altronde a questa spiegazione del giudizio si può applicare la partizione che fa Kant in giudizio riflettente e sussumente, a seconda ch'esso proceda dagli oggetti intuitivi verso il concetto, o da questo a quelli; ma, nell'un caso e nell'altro, sempre facendo da intermediario tra la conoscenza intuitiva dell'intelletto e quella riflessa della ragione. Non esiste nessuna verità, che possa incondizionatamente essere ricavata solo mediante sillogismi; e il bisogno di fondarla coi soli sillogismi è sempre relativo, anzi subiettivo. Essendo sillogismi tutte le dimostrazioni per una verità nuova, non si deve cominciare a cercar una prova, bensì l'evidenza assoluta; e solo finché questa viene a mancare, è da costruire in via provvisoria una dimostrazione. Nessuna scienza può esser provata in tutto e per tutto, come un edifizio non può reggersi in aria: tutte le sue prove devono risalire ad un fatto intuitivo e quindi non più dimostrabile. Imperocché l'intero mondo della riflessione poggia e ha le sue radici nel mondo intuitivo. Ogni evidenza ultima, ossia originaria, è intuitiva: la parola stessa lo dice. Può essere empirica, oppure fondata sull'intuizione a priori delle condizioni dell'esperienza possibile: ma in entrambi i casi essa fornisce conoscenza immanente, non trascendente. Ogni concetto ha il suo valore e la sua essenza soltanto nella relazione, sia pur molto indiretta, con una rappresentazione intuitiva. E, ciò che vale pei concetti, vale anche per i giudizi, che son composti di concetti, e per tutte le scienze. Dev'esser dunque possibile, in qualche modo, di conoscer direttamente, senza sillogismi e senza prove, ciascuna verità che sia stata trovata con sillogismi e comunicata con prove. La cosa è più difficile per certi complicati principi matematici, cui perveniamo solo attraverso catene di sillogismi, come per esempio il calcolo delle corde e delle tangenti per tutti gli archi, cui si perviene, per mezzo di sillogismi, dal teorema di Pitagora. Ma anche codesta verità non può poggiare sostanzialmente ed esclusivamente su principi astratti, e così le relazioni spaziali, che le servono di fondamento, devono poter esser ricavate con la pura intuizione a priori, in modo che la loro astratta enunciazione venga fondata direttamente. Ma della dimostrazione matematica si tratterà subito distesamente.

Si parla spesso in tono enfatico di scienze, le quali poggiano esclusivamente su deduzioni esatte da sicure premesse, e quindi devono essere incrollabilmente vere. Ma con una serie puramente logica di deduzioni, siano pur vere le premesse quanto si voglia, non si otterrà mai altro che una maggior chiarezza e dimostrazione di ciò, che già si trova bell'e pronto nelle premesse: non si farà quindi che esporre explicite ciò che si trova implicite colà. Quelle scienze così vantate sono in ispecial modo le scienze matematiche, e soprattutto l'astronomia. Ma la certezza dell'astronomia proviene dal fatto, ch'ella ha per fondamento l'intuizione a priori, e quindi infallibile, dello spazio; mentre tutte le relazioni spaziali si svolgono l'una dall'altra con una necessità (principio dell'essere) che dà certezza a priori, e si posson quindi dedurre successivamente con sicurezza. A queste determinazioni si aggiunge qui una sola forza naturale, la gravità, che agisce nella precisa relazione delle masse e del quadrato della distanza; e finalmente ancora la legge d'inerzia, che è certa a priori, perché derivante dalla causalità, accanto al dato empirico del movimento impresso una volta per sempre a ciascuna di quelle masse. Questo è tutto il materiale dell'astronomia; il quale, tanto per la sua semplicità quanto per la sua certezza, conduce a risultati fermi, e molto interessanti a causa della grandezza e importanza degli oggetti. Se io, per esempio, conosco la massa d'un pianeta e la distanza del suo satellite, potrò con certezza determinare il tempo di rivoluzione di quest'ultimo, in conformità della seconda legge di Keplero: ma il principio di questa legge è che, ad una data distanza, una data velocità può insieme tener legato il satellite al pianeta ed impedirgli di cadere in questo. Quindi solo su tal fondamento geometrico, ossia per mezzo di un'intuizione a priori, e inoltre con l'applicazione d'una legge naturale, si può andar così lontano con le deduzioni; perché queste sono qui nient'altro che ponti da un'intuizione ad un'altra. Ma non altrettanto si può fare con semplici e pure deduzioni per via esclusivamente logica. L'origine delle prime verità fondamentali dell'astronomia è propriamente induzione, ossia riunione di ciò ch'è dato da molte intuzioni in un giudizio esatto, direttamente fondato. Su quest'ultimo vengono poi formate ipotesi, la cui conferma mediante l'esperienza – induzione molto prossima alla compiutezza – fornisce la prova di quel primo giudizio. Per esempio, l'apparente moto dei pianeti è conosciuto empiricamente: dopo molte false ipotesi sulla connessione spaziale di questo moto (orbita dei pianeti) fu trovata infine la giusta; poi, subito, le loro leggi (leggi di Keplero); e finalmente anche la loro causa (gravitazione universale). Ed a tutte le ipotesi diede piena certezza l'accordo, empiricamente conosciuto, di tutti i casi avveratisi con le ipotesi stesse e con le loro conseguenze – ossia l'induzione. La scoperta delle ipotesi era compito del giudizio, che afferrò esattamente, e convenientemente espresse, i dati di fatto; ma l'induzione, ossia intuizione molteplice, ne confermò la verità. Questa poteva tuttavia poggiare anche direttamente sopra un'unica intuizione empirica, se noi fossimo stati in grado di trasvolar liberamente per gli spazi, avendo occhi telescopici. Per conseguenza anche qui le deduzioni non sono l'essenziale ed unica sorgente della conoscenza, ma sempre un semplice espediente.

Finalmente, per citare un terzo esempio d'altra natura, vogliamo ancora osservare, che neppur le cosiddette verità metafisiche – ossia quelle che Kant enumera nei Principi metafisici della scienza detta natura – devono alle dimostrazioni la loro evidenza. Ciò che è certo a priori, lo conosciamo direttamente: come forma di ogni conoscenza, ha per noi il carattere della massima necessità. Per esempio, che la materia persista, cioè non abbia principio né fine, ci è noto direttamente come verità negativa: perché la nostra intuizione pura dello spazio e del tempo dà la possibilità del moto, e l'intelletto dà, nella legge di causalità, la possibilità del cambiamento di forma e qualità; ma le forme dell'intuizione possibile ci mancano per un nascere o svanire della materia. Quindi codesta verità fu sempre, dovunque ed a tutti evidente, né mai posta seriamente in dubbio; il che non potrebbe essere, se il suo principio di conoscenza non fosse ben diverso dalla dimostrazione così difficile di Kant, che sembra procedere su punte di spilli. Oltre a ciò, la prova di Kant l'ho trovata falsa (com'è spiegato nell'appendice); ed ho più sopra mostrato che la permanenza della materia non va dedotta dalla partecipazione che ha il tempo alla possibilità della esperienza, ma da quella che v'ha lo spazio. La vera base di tutte le verità chiamate in questo senso metafisiche, ossia espressioni astratte delle forme necessarie e universali della conoscenza, non può stare alla sua volta in principi astratti; ma solo nella coscienza diretta delle forme della rappresentazione. La qual coscienza si manifesta a priori mediante affermazioni apodittiche, più forti di qualunque obiezione. Se nondimeno si vuol darne una prova, questa può consister solo nel dimostrare che la verità da provarsi è già contenuta – sia come parte, sia come premessa – in qualche altra verità non mai contestata. Così io ho dimostrato, per esempio, che ogni intuizione empirica già contiene l'applicazione della legge di causalità; la cui cognizione è quindi base d'ogni esperienza, e non può per tal motivo esser data e condizionata da questa, come Hume affermava. Le dimostrazioni d'altronde servono meno a chi impara, che non a chi vuol disputare. Questi ultimi negano con ostinazione ogni certezza direttamente conseguita. Ma la verità sola può esser conseguente da tutti i lati: si deve quindi mostrare a costoro, che essi in un modo e direttamente concedono ciò, che in un altro modo e indirettamente negano; ossia mostrare la necessaria connessione logica fra quel ch'è negato e quel ch'è concesso.

Inoltre la forma scientifica, che è subordinazione di tutto il particolare al generale e così via, salendo sempre più alto, ha per conseguenza, che la verità di molti principi sia fondata solo logicamente, cioè in virtù della loro dipendenza da altri principi; quindi per mezzo di deduzioni, che fanno insieme le veci di dimostrazioni, Ma non va mai dimenticato, che tutta codesta forma scientifica è semplicemente facilitazione della conoscenza, e non mezzo per raggiungere una maggiore certezza. È più facile conoscere la natura di un animale dalla specie a cui esso appartiene, e questa via via dal genere, dalla famiglia, dall'ordine e dalla classe, anzi che studiare volta per volta ogni animale isolatamente; ma la verità di tutti i principi derivati da deduzioni è sempre appena relativa, e alla fine dipendente da un'altra verità, la quale riposa non sopra deduzioni, ma sopra l'intuizione. Se questa fosse sempre così accessibile come una deduzione per sillogismi, sarebbe in tutti i modi da preferire. Poiché ogni deduzione da concetti è – per la varia intersecazione delle sfere più sopra mostrata, e per la determinazione spesso incerta del loro contenuto – esposta a molti sbagli; dei quali sono esempi tante dimostrazioni di false dottrine, e sofismi d'ogni genere. I sillogismi sono invero certissimi quanto alla forma, ma assai malsicuri quanto alla loro materia, che sono i concetti; perché in parte le sfere di questi non sono spesso determinate con sufficiente nettezza, in parte s'intrecciano così variamente, che una sfera è in modo frammentario contenuta in molte altre, e da lei si può liberamente passare all'una o all'altra di queste e così via; come fu già esposto. O con altre parole: il terminus minor ed anche il medius possono sempre venir subordinati a differenti concetti, fra' quali si sceglie a volontà il terminus maior ed il medius: dal che dipende la diversità della conclusione. Sempre è adunque la diretta evidenza da preferire di gran lunga alla verità dimostrata; e questa va accolta solo quando l'altra s'avrebbe a cercar troppo lontano, ma non quando sono egualmente vicine o è più vicina l'evidenza. Perciò vedemmo, che in realtà anche nella logica, dove la conoscenza diretta in ogni singolo caso ci è più prossima che la derivata conoscenza scientifica, guidiamo il nostro pensiero sempre secondo la conoscenza immediata delle leggi del pensiero stesso, e lasciamo la logica stessa in disparte25.

§ 15.

Ora, se noi con la nostra fede che l'intuizione sia la fonte prima d'ogni evidenza, e sola assoluta verità sia la diretta o mediata relazione con lei; che inoltre la via più sicura per giungere alla verità sia sempre la più breve, perché ogni frapposizione di concetti può esser causa di inganni – se noi, dico, con questa fede ci volgiamo alla matematica, quale è stata eretta a scienza da Euclide e rimasta in complesso fino al giorno d'oggi, non possiamo fare a meno di giudicar singolare, anzi assurda, la via che questa percorre. Noi pretendiamo che ogni argomentazione logica sia ricondotta ad un'intuizione; la matematica invece si sforza a gran fatica di rigettare temerariamente l'evidenza intuitiva che le è propria e le sta sempre a portata di mano, per sostituire un'evidenza logica. Questo a noi fa l'effetto di qualcuno che si tagli le gambe, per camminare con le grucce; o del principe che nel «Trionfo della sensibilità» rifugge dalla vera, bella natura, per compiacersi d'una decorazione teatrale che la imita. Devo qui richiamare quel che ho detto nel sesto capitolo della memoria sopra il principio di ragione, e che suppongo fresco nella memoria al lettore e ben presente, sì da potervi riannodare le mie osservazioni senza spiegar daccapo il divario tra il semplice principio di conoscenza di una verità matematica, che può esser dato logicamente, e il principio dell'essere, che è la connessione diretta, conoscibile solo intuitivamente, delle parti dello spazio e del tempo. Solo il penetrare in questa dà vero appagamento e piena conoscenza; mentre il semplice principio di conoscenza rimane sempre alla superficie, facendoci sapere che qualcosa è così, ma non perché è così. Euclide ha seguito questa seconda via, con palese svantaggio della scienza. Imperocché, ad esempio, fin dal principio, dove dovrebbe dimostrare una volta per sempre che nel triangolo angoli e lati si determinano a vicenda, e sono reciprocamente causa ed effetto gli uni degli altri, secondo la forma che ha il principio di ragione nello spazio puro e che produce quivi, come ovunque, la necessità che una cosa sia così com'è, perché un'altra, da quella affatto diversa, è così com'è – invece di rivelare in questo modo a fondo l'essenza del triangolo, stabilisce alcune proposizioni frammentarie sul triangolo, scelte a suo modo, e ne dà un principio logico di conoscenza con una dimostrazione faticosa, logica, condotta secondo il principio di contraddizione. Da ciò, invece d'una conoscenza a fondo di codeste relazioni spaziali, si vengono ad avere solo alcune risultanze di quelle, comunicate ad arbitrio; e ci si trova nelle condizioni di colui al quale si mostrino le differenti operazioni d'una macchina, ma tacendone la costituzione interna ed il funzionamento. Che tutto sia come Euclide dimostra, bisogna concedere, costretti dal principio di contraddizione: ma perché sia così, non si apprende. Si ha quindi press'a poco la stessa impressione spiacevole che ci lascia un giuoco di destrezza; e in verità a questi somigliano in massima parte le dimostrazioni euclidee. Quasi sempre la verità irrompe da una porticina secondaria, risultando per accidens da qualche circostanza accessoria. Sovente una dimostrazione apagogica chiude tutte le porte, l'una dopo l'altra, e ne lascia aperta una sola, nella quale s'ha quindi da entrare per forza. Spesso, come accade nel teorema di Pitagora, vengono tirate certe linee senza che si sappia perché: dipoi si apprende che erano lacciuoli destinati a stringersi all'improvviso, per imprigionar l'assenso del discepolo: il quale ora, stupito, deve accettare un fatto che gli rimane ancora del tutto incomprensibile nel suo intimo nesso. Tanto incomprensibile, ch'egli deve studiare Euclide da capo a fondo senza potersi render davvero conto delle leggi delle relazioni spaziali, e imparandone invece a memoria appena pochi risultati. Questa conoscenza, empirica e non scientifica, somiglia a quella del medico, il quale conosce bensì malattia e rimedio, ma non la connessione d'entrambi. Tutto ciò è prodotto dal respinger capricciosamente il modo di dimostrazione e l'evidenza propri d'un genere di conoscenza, introducendo invece per forza un metodo eterogeneo. Nondimeno la maniera in ciò adoperata da Euclide merita tutta l'ammirazione, che per secoli le è stata tributata, e che è giunta tant'oltre da farla proclamare il prototipo d'ogni dimostrazione scientifica, sul quale si cercò di modellare tutte le altre scienze. Più tardi s'è cambiata opinione, senza saper bene perché. Ai nostri occhi tuttavia quel metodo euclideo nella matematica apparisce non altrimenti che una brillantissima stortura. Ma di ogni grande aberrazione, seguita con proposito e con metodo, sia che tocchi la vita o la scienza, si troverà sempre il principio nella filosofia corrente al suo tempo. Gli Eleatici furono i primi a scoprire il divario, anzi il frequente contrasto, fra l'intuito, φαινομενον, e il pensato, νοουμενον 26, e se ne servirono variamente pei loro filosofemi, ed anche per sofismi. A loro tennero dietro poi Megarici, Dialettici, Sofisti, Neoaccademici e Scettici; questi attirarono l'attenzione sull'apparenza, ossia sull'illusione dei sensi, o piuttosto dell'intelletto, che i loro dati trasforma in intuizione; la quale illusione ci fa spesso veder cose di cui la ragione con certezza nega la realtà, per esempio il bastone spezzato nell'acqua e così via. Si comprese che non c'è da fidarsi incondizionatamente dell'intuizione sensibile, e con troppa fretta si concluse che soltanto il razionale, logico pensiero fosse fondamento di verità; sebbene Platone (nel Parmenide), i Megarici, Pirrone e i Neoaccademici dimostrassero con esempi (come fece più tardi Sesto Empirico), come d'altra parte anche sillogismi e concetti inducano in errore, generando paralogismi e sofismi molto più facili a sorgere e più difficili a disperdere che non sia l'illusione nell'intuizione sensibile. Frattanto, adunque, quel razionalismo, sorto in opposizione all'empirismo, mantenne il sopravvento, e sulle sue tracce elaborò Euclide la matematica: poggiando per necessità sull'evidenza intuitiva (φαινομενον) i soli assiomi, e tutto il resto su illazioni (νοουμενον). Il suo metodo rimase a dominare per tutti i secoli, e così doveva essere, fin quando l'intuizione pura a priori non venne distinta dall'intuizione empirica. È vero che già Proclo, commentatore d'Euclide, sembra aver conosciuto appieno quella distinzione, come dimostra il passo di lui tradotto in latino da Keplero nel suo libro de harmonia mundi: ma Proclo non diede abbastanza peso alla cosa, la presentò troppo isolatamente, rimase inosservato e non ebbe successo. Quindi solo due secoli dopo, la dottrina di Kant, cui tocca in sorte di produrre così grandi trasformazioni in tutto il sapere, il pensiero e l'azione dei popoli europei, provocherà la stessa trasformazione anche nella matematica. Poiché soltanto dopo aver appreso da questo grande spirito che le intuizioni dello spazio e del tempo sono affatto diverse dalle intuizioni empiriche, affatto indipendenti da ogni impressione dei sensi, essendo essi condizione dell'impressione e non viceversa; che sono in altri termini a priori, e quindi inaccessibili all'illusione dei sensi – soltanto ora possiamo comprendere, che la trattazione euclidea della matematica fondata sulla logica è una provvidenza inutile, una gruccia per gambe sane. E rassomiglia ad un pellegrino, che, scambiando per acqua nella notte una bella strada chiara, si guardi dal posarvi il piede, e la vada fiancheggiando sul terreno disuguale, contento d'imbattersi di tanto in tanto nell'acqua supposta. Ora soltanto possiamo con certezza affermare, che quando ci si rivela necessario nell'intuizione di una figura non viene dalla figura stessa, disegnata forse molto male sulla carta, e nemmeno dal concetto astratto che noi ce ne facciamo, bensì direttamente dalla forma d'ogni conoscenza, forma di cui siam consci a priori. Questa è, in tutto, il principio di ragione. Qui essa come forma dell'intuizione, ossia spazio, è principio di ragione dell'essere; la cui evidenza e validità è altrettanto grande ed immediata come quella del principio di ragione di conoscenza, ossia della certezza logica. Non abbiamo dunque bisogno né dobbiamo, per creder solo alla logica, abbandonare il dominio proprio della matematica, venendo a dimostrare questa sopra un dominio che le è affatto estraneo – quello dei concetti. Se ci teniamo sul terreno proprio della matematica, ne ricaviamo il grande vantaggio, che quivi il sapere che qualcosa sta in un certo modo, è tutt'uno col sapere perché sta così. Mentre invece il metodo euclideo separa nettamente questi due termini, e fa conoscere solo il primo, non il secondo. Ma, dice ottimamente Aristotele negli Analyt. post, I, 27: Ακριβεστερα δ’επιστημη επιστημης και προτερα ἡτε του ὁτι και του διοτι ἡ αυτη, αλλα μη χωρις του ὁτι, της του διοτι (Subtilior autem et praestantior ea est scientia, qua quod aliquis sit, et cur sit una simulque intelligimus, non separatim quod, et cur sit). In fisica siamo pur soddisfatti sol quando la conoscenza che qualcosa è in un certo modo, si congiunge con quella del perché è così. Che il mercurio del tubo torricelliano s'alzi a 28 pollici, è un povero sapere, se non si aggiunge che vien trattenuto a quel limite dal contrappeso dell'aria. Ma ci dovrà bastare in matematica quella qualitas occulta del circolo, per cui i segmenti d'ogni due corde intersecantisi in esso formano sempre rettangoli uguali? Che sia così, dimostra invero Euclide nella 35a proposizione del terzo libro: il perché sta ancora nell'ombra. Nello stesso modo c'insegna il teorema di Pitagora a conoscere una qualitas occulta del triangolo rettangolo; ma la dimostrazione zoppicante, anzi insidiosa di Euclide ci lascia senza il perché; e la semplice figura che qui segue, già nota, ci fa in un solo sguardo veder la cosa molto più addentro che non faccia quella dimostrazione; e ci dà la intima, ferma persuasione di quella necessità, e della dipendenza di quella proprietà dell'angolo retto.



Anche se i cateti sono disuguali, si deve pervenire a codesta convinzione intuitiva, e così nel caso di tutte le verità geometriche possibili: anche solo per questo, che la loro scoperta derivò sempre da una consimile necessità d'intuizione, e la dimostrazione ne fu pensata soltanto in seguito. Basta dunque un'analisi del processo mentale nella prima scoperta d'una verità geometrica, per conoscere intuitivamente la sua necessità. Il metodo, che in genere io preferisco per l'esposizione della matematica, è l'analitico, e non il metodo sintetico che ha usato Euclide. È vero tuttavia che, quando si tratta di verità matematiche complicate, quello offre grandi difficoltà: ma non insuperabili. Già si comincia qua e là in Germania a modificare l'esposizione della matematica, seguendo più spesso questa via analitica. L'ha fatto più risolutamente il signor Kosack, insegnante di matematica e fisica nel ginnasio di Nordhausen, nell'accompagnare il programma d'esame del 6 aprile 1852 con un diffuso tentativo di trattazione geometrica secondo i miei principi.

Per migliorare il metodo della matematica, si richiede soprattutto di rinunziare al pregiudizio che la verità dimostrata abbia una qualsivoglia preminenza sulla verità conosciuta intuitivamente: o che la verità logica, fondata sul principio di contraddizione, prevalga sulla verità metafisica, la quale è di evidenza diretta, ed a cui appartiene anche l'intuizione pura dello spazio.

Quel che c'è di più certo, né mai può essere spiegato, è il contenuto del principio di ragione. Imperocché questo, nei suoi vari atteggiamenti, esprime la forma universale di tutte le nostre rappresentazioni e conoscenze. Ciascuna spiegazione è un risalire a codesto principio; un constatare nel caso singolo il nesso delle rappresentazioni, che quello esprime in genere. Esso è quindi il principio d'ogni spiegazione, e perciò non può avere spiegazione alla sua volta, né di spiegazioni ha bisogno: poi che ciascuna spiegazione lo presuppone, e solo per suo mezzo acquista un senso. Ma nessuna delle sue manifestazioni ha preminenza sulle altre: esso è a un modo certo e indimostrabile in qualità di principio dell'essere, o del divenire, o dell'agire, e del conoscere. Nell'una come nell'altra delle sue forme, è sempre necessaria la relazione di causa ed effetto; anzi è questa l'origine, nonché l'unico significato, del concetto di necessità. Non c'è altra necessità che quella dell'effetto, allorché è data la causa; e non v'ha causa che non generi la necessità dell'effetto. Con la stessa certezza con cui dal principio di conoscenza, dato nelle premesse, deriva la conseguenza espressa nella proposizione finale, determina il principio d'essere nello spazio la sua conseguenza nello spazio: e quando ho conosciuto intuitivamente quest'ultima relazione, ho una certezza altrettanto grande quanto una certezza logica. Ma qualsiasi teorema geometrico esprime una tal relazione egualmente bene, come un de' dodici assiomi: perché è una verità metafisica, e come tale immediatamente certo, al modo stesso del principio di contraddizione, il quale è una verità metalogica e serve di base universale a tutte le dimostrazioni logiche. Chi nega la necessità intuitivamente manifestata delle relazioni spaziali espresse in un qualsiasi teorema, può con lo stesso diritto negare gli assiomi, e con lo stesso diritto la derivazione della conclusione dalle premesse, o addirittura il principio di contraddizione: perché in tutto ciò sono egualmente relazioni indimostrabili, d'immediata evidenza, e conoscibili a priori. Se quindi la necessità delle relazioni spaziali, conoscibile intuitivamente, si vuol derivare attraverso una dimostrazione logica dal principio di contraddizione, gli è come se al diretto signore d'una terra volesse un altro conceder la stessa terra in feudo. E proprio questo ha fatto Euclide. Soltanto i suoi assiomi egli fa per forza poggiare sull'immediata evidenza: tutte le verità geometriche, che ne derivano, vengono dimostrate logicamente, ossia con la premessa di quegli assiomi, mediante l'accordo con le ipotesi fatte nel teorema, o con un teorema precedente; o anche mediante la contraddizione dell'opposto del teorema con le ipotesi, gli assiomi, i teoremi precedenti, o addirittura con se stesso. Ma gli assiomi stessi non hanno evidenza diretta maggiore d'ogni altro teorema geometrico, bensì soltanto maggiore semplicità a causa del minor contenuto.

Se si interroga un delinquente, si stende un verbale delle sue dichiarazioni, per giudicarne la verità dalla loro concordanza. Ma questo è un semplice espediente, del quale certo non ci si appagherebbe, se si potesse indagare a parte la verità di ciascuna delle sue dichiarazioni: tanto più ch'egli potrebbe mentire con conseguenza dal principio alla fine. Eppure è proprio con quel primo metodo, che Euclide ha indagato lo spazio. È vero ch'egli partì in ciò dalla giusta premessa che la natura dappertutto – e quindi anche nella sua forma principale, lo spazio – dev'esser conseguente, e quindi – perché le parti dello spazio stanno reciprocamente in relazione di causa ed effetto – neppure una determinazione spaziale può esser diversa da quel che è, senza trovarsi in contraddizione con tutte le altre. Ma questo è un deviar dalla via diritta, molesto e poco soddisfacente; che preferisce la conoscenza mediata a quella – altrettanto certa – immediata; e con danno grave della scienza separa la cognizione che qualcosa esista, da quella del perché esista. E, infine, impedisce del tutto al discepolo la penetrazione nelle leggi dello spazio, anzi, lo distoglie dalla vera e propria indagine del fondamento e dell'intimo nesso delle cose, avviandolo invece a contentarsi d'un sapere storico, che la cosa stia in un certo modo. L'esercizio d'acume mentale, tanto incessantemente vantato in questo metodo, consiste solo in ciò, che lo scolaro si esercita a sillogizzare, ossia a usare il principio di contraddizione; ma soprattutto affatica la propria memoria, per ritenere quei dati dei quali deve giudicare l'accordo.

Va notato inoltre, che questo metodo dimostrativo è stato applicato soltanto alla geometria e non all'aritmetica. In questa effettivamente la verità si lascia svelare dalla sola intuizione, che qui consiste nel puro contare. Poi che l'intuizione dei numeri è nel tempo solamente, e non può quindi venir rappresentata da uno schema sensibile, come la figura geometrica, non si ebbe qui il sospetto che l'intuizione fosse solo empirica e quindi soggetta all'illusione; sospetto che soltanto il metodo della dimostrazione logica ha potuto introdurre nella geometria. Il contare è – poi che il tempo ha una sola dimensione – l'unica operazione aritmetica, alla quale sono da ricondurre tutte le altre: e questo contare non è tuttavia altro, che un'intuizione a priori, alla quale ci si richiama qui senz'alcuna riluttanza; e per suo mezzo viene da ultimo confermato tutto il resto, ogni equazione, ogni calcolo. Non si dimostra, per esempio, che ; ma ci si riferisce alla pura intuizione nel tempo, al contare. Ogni singola proposizione diventa dunque un assioma. Invece delle dimostrazioni che riempiono la geometria, tutto il contenuto dell'aritmetica e dell'algebra è quindi un semplice metodo per abbreviare il conto. La nostra intuizione immediata dei numeri nel tempo non arriva, come fu detto, più in là del dieci all'incirca: più oltre deve già un concetto astratto del numero, fissato mediante una parola, fare le veci dell'intuizione; la quale perciò non è più effettivamente attuata, ma soltanto indicata con tutta determinatezza. Tuttavia anche così, col valido aiuto dell'ordine dei numeri, che fa sempre rappresentare i numeri grandi per mezzo dei piccoli, è resa possibile un'evidenza intuitiva d'ogni calcolo; perfino là dove si ricorre tanto all'astrazione, che non solo i numeri ma anche indeterminate quantità ed intere operazioni sono pensate unicamente in abstracto, e in cotal forma espresse; come ad esempio []; sì che non si eseguono, ma vengono appena accennate.

Con lo stesso diritto e la stessa certezza, come nell'aritmetica, si potrebbe anche nella geometria lasciar la verità fondata soltanto sulla pura intuizione a priori. In verità è pur sempre questa necessità conosciuta intuitivamente, secondo il principio di ragione dell'essere, che dà alla geometria la sua grande evidenza, e su cui poggia nella coscienza d'ognuno la certezza delle sue proposizioni: e non è di certo la prova logica, avanzante faticosamente sui trampoli. Questa, estranea sempre al vivo della cosa, il più sovente vien subito dimenticata senza danno della persuasione, e potrebbe essere eliminata del tutto, senza che ne fosse diminuita l'evidenza della geometria, essendo questa affatto indipendente dalla prova logica; la quale dimostra soltanto ciò di cui già si ha piena certezza mediante un altro modo di conoscenza. Somiglia sotto questo rispetto ad un soldato, che vibrasse un colpo al nemico già ucciso da altri e si vantasse d'averlo abbattuto27.

In seguito a tutto ciò, spero non vi sia più alcun dubbio sul fatto che l'evidenza della matematica, la quale è diventata modello e simbolo d'ogni evidenza, per propria natura non poggia su dimostrazioni, bensì sull'immediata intuizione: e questa in matematica come dappertutto è base, è la prima base e la sorgente d'ogni verità. Tuttavia l'intuizione che sta a fondamento della matematica ha un gran privilegio su ciascun'altra, quindi anche sull'intuizione empirica. Ossia, ella è a priori, e perciò indipendente dall'esperienza, che vien data sempre soltanto in modo frammentario e successivo: tutto è vicino egualmente, e si può a volontà partir dalla causa o dall'effetto. Ora, questo le dà una piena infallibilità, per il fatto che in lei l'effetto viene conosciuto dalla causa, la qual conoscenza è la sola ad aver necessità: per esempio l'eguaglianza dei lati vien conosciuta come fondata sull'eguaglianza degli angoli. All'opposto, ogni intuizione empirica e la maggior parte di tutta l'esperienza procede invece dall'effetto alla causa – modo di conoscere non infallibile, perché la necessità appartiene solo all'effetto quando è data la causa, e non alla conoscenza della causa dall'effetto; potendo questo effetto provenire da cause differenti. Quest'ultimo modo di conoscenza non è altro che induzione: ossia movendo da molti effetti, che fanno capo ad una causa, viene ammessa la causa come certa. Ma poiché i casi non possono mai esser raccolti tutti, la verità non è qui mai assolutamente certa. Eppur questo è il solo genere di verità che appartenga alla conoscenza raggiunta mediante intuizione sensibile, ed alla massima parte dell'esperienza. L'impressione d'un senso provoca un passar dell'intelletto dall'effetto alla causa: ma poi che il passaggio dal causato alla causa non è mai sicuro, sempre rimane possibile e si ha sovente una falsa apparenza, come inganno dei sensi; secondo è sopra dimostrato. Solo quando più sensi, o tutti e cinque, ricevono impressioni che fan capo alla stessa causa, solo allora diventa minima la possibilità dell'inganno, per quanto ancor sussista; poi che in taluni casi, per esempio con monete false, s'ingannano tutti quanti i sensi. Nella stessa condizione si trova tutta la conoscenza empirica, e quindi l'intera scienza della natura, lasciandone fuori la parte pura (o metafisica, secondo Kant). Anche qui le cause vengono conosciute attraverso gli effetti: quindi ogni dottrina naturale è fondata su ipotesi, che spesso son false, e solo a poco a poco cedono il posto a dottrine più esatte. Solo negli esperimenti disposti con un dato proposito la conoscenza va dalla causa all'effetto, seguendo la via sicura: ma anch'essi sono dapprima intrapresi in conseguenza di ipotesi. Perciò non poteva nessun ramo della scienza naturale, come fisica, o astronomia, o fisiologia, essere scoperto d'un tratto, come furono matematica e logica: bensì fu ed è necessaria l'esperienza comparata di molti secoli. Solo una molteplice conferma empirica porta l'induzione – su cui poggia l'ipotesi – tanto vicina alla compiutezza, che questa per la pratica prende il posto della certezza. Ed alla ipotesi reca la propria origine così poco danno, quanto ne reca all'applicazione della geometria l'incommensurabilità delle linee rette e curve, o all'aritmetica l'impossibilità di raggiunger l'assoluta esattezza del logaritmo. Imperocché come la quadratura del cerchio e il logaritmo si possono accostare all'esattezza fino ad esserne separati da una distanza infinitesimale, così l'induzione, ossia conoscenza della causa dall'effetto, mediante molteplici esperienze viene accostata all'evidenza matematica, per modo che ne la divida una distanza non proprio infinitesimale, ma tuttavia minima; sì che la possibilità dell'errore si riduca tanto da poterla trascurare. Ciò nondimeno, tale possibilità sussiste: ad esempio, quando da innumerevoli casi l'induzione conclude per tutti i casi, ossia precisamente per la causa ignota, da cui tutti dipendono. Quale fra le conclusioni di tal sorta ci appare più sicura di questa, che tutti gli uomini hanno il cuore a sinistra? Tuttavia ci sono, come rarissime, isolate eccezioni, uomini che hanno il cuore a destra. Intuizione sensibile e scienza sperimentale hanno dunque la stessa maniera d'evidenza. Il privilegio che matematica, scienza naturale pura e logica in quanto conoscenza a priori hanno su di quelle, consiste solo in ciò, che il lato formale delle conoscenze, sul quale ogni apriorità si fonda, è dato per intero e tutto in una volta, e quindi si può qui sempre passare dalla causa all'effetto, mentre là si passa generalmente dall'effetto alla causa. In sé d'altronde la legge di causalità, o principio di ragione del divenire, che guida la conoscenza empirica, è tanto certa, quanto quelle altre forme del principio di ragione, cui seguono le citate scienze a priori. Dimostrazioni logiche dedotte da concetti, o sillogismi, hanno, nello stesso modo come la conoscenza per intuizione a priori, il privilegio di passar dalla causa all'effetto: per la qual cosa essi sono in se stessi, ossia rispetto alla lor forma, infallibili. Questo ha molto contribuito a procacciar tanto rispetto alle dimostrazioni. Ma codesta loro infallibilità è relativa: essi non fanno che sussumere sotto i principi superiori della scienza: ma son pur sempre questi, che contengono tutto il fondo di verità della scienza stessa, né si possono alla lor volta dimostrare: bensì devono fondarsi sull'intuizione, che se è pura in quelle poche scienze a priori citate, è invece sempre empirica altrove, e solo mediante induzione è stata elevata dal particolare al generale. Se adunque anche nelle scienze empiriche il singolo viene provato col generale, il generale alla sua volta ha ricevuto tutta la sua verità dal singolo. È un magazzino carico di provviste, non un suolo di per sé fecondo.

Questo basti intorno al fondamento della verità. Circa l'origine e la possibilità dell'errore, molte spiegazioni sono state tentate, a partir dalle soluzioni figurate di Platone, come quella della colombaia, dove invece del colombo desiderato se ne ghermisse un altro, e così via (Theaetet., p. 167 sgg.). La vaga, indeterminata spiegazione dell'origine dell'errore fatta da Kant mediante l'immagine del moto diagonale si trova nella Critica della ragion pura, p. 294 della prima, e p. 350 della quinta edizione. Essendo la verità relazione d'un giudizio col suo principio di conoscenza, è un vero problema come avvenga che colui, il quale giudica, creda d'avere effettivamente codesto principio, mentre invece non l'ha; ossia, come sia possibile l'errore, l'inganno della ragione. Io trovo questa possibilità affatto analoga a quella dell'illusione, o inganno dell'intelletto, che più sopra è stata chiarita. La mia opinione invero è (e perciò trova qui posto la mia spiegazione) che ogni errore è una conclusione dall'effetto alla causa, conclusione che ha valore. quando si sa che l'effetto può avere quella causa e nessun'altra; ma non in altri casi. Chi sbaglia, o attribuisce all'effetto una causa, che quello non può punto avere; nel che dimostra vera mancanza di intelletto, ossia incapacità di conoscer direttamente il nesso tra causa ed effetto: oppure, come accade più spesso, dato l'effetto determina bensì una causa possibile, ma alla maggior premessa del sillogismo, con cui va dall'effetto alla causa, aggiunge che codesto effetto costantemente proviene dalla causa attribuitagli. In ciò potrebbe esser giustificato solo da una compiuta induzione, che egli bensì presuppone, ma che non ha fatta. Quel costantemente è dunque un concetto troppo ampio, invece del quale potrebbe star solo un talvolta, o il più sovente; sì che la conclusione verrebbe ad esser problematica, e come tale non sarebbe erronea. Un tal modo di procedere da parte di chi sbaglia può essere effetto di precipitazione, oppure di troppo limitata conoscenza della possibilità; per cui ignora la necessità dell'induzione da fare. L'errore è quindi affatto analogo all'illusione. Entrambi sono conclusioni dall'effetto alla causa: l'illusione si compie sempre nel puro intelletto, e secondo la legge di causalità, quindi direttamente nell'intuizione stessa; l'errore si compie dalla ragione, secondo tutte le forme del principio di ragione (quindi nel pensiero vero e proprio), ma più spesso secondo la legge di causalità, come mostrano i tre esempi seguenti che si posson considerare come tipi o rappresentanti di questa classe d'errori. 1. L'illusione dei sensi (inganno dell'intelletto) genera errore (inganno della ragione), per esempio, quando si scambia una pittura per un altorilievo e veramente per tale la si tiene. Questo accade mediante una deduzione dalla seguente premessa maggiore: «Se il grigio oscuro qua e là passa nel bianco attraverso tutte le sfumature, di ciò è sempre causa la luce che diversamente batte i rilievi e le cavità: ergo ...». 2. «Se manca denaro nella mia cassa, ne è sempre cagione il fatto che il mio domestico ha una chiave falsa: ergo ..», 3. «Se l'immagine del sole rotta, ossia sospinta all'insù o all'ingiù dal prisma, appare allungata, il motivo è sempre questo: che nella luce si trovano raggi omogenei variamente colorati e variamente rifrangibili; i quali, separatisi per la loro varia rifrangibilità, mostrano ora un'immagine allungata e insieme variopinta: ergo... bibamus!». Ogni errore va ricondotto ad una consimile deduzione da una premessa maggiore spesso soltanto falsamente generalizzata, ipotetica, sorta dall'ammetter una data causa per un dato effetto. Fanno eccezione gli errori di calcolo, che non sono per l'appunto errori veri e propri, ma semplici sbagli. Non l'operazione, che i concetti dei numeri indicavano, è stata eseguita nell'intuizione pura, nel calcolo; bensì un'altra in sua vece.

Per quanto riguarda il contenuto delle scienze in genere, questo è sempre in relazione scambievole dei fenomeni del mondo, in conformità del principio di ragione e sulle orme del perché; il quale da esso principio unicamente trae significazione e valore. L'indicar quella relazione si chiama spiegazione. Questa non può dunque mai far di più, che mostrar due rappresentazioni nel loro reciproco rapporto, secondo la forma del principio di ragione dominante nella classe a cui tali rappresentazioni appartengono. Arrivati a questo punto, non si può domandare altro perché: poiché la relazione indicata non si può in nessun modo rappresentare altrimenti, ossia è la forma d'ogni conoscenza. Quindi non ci si domanda perché 2 + 2 = 4; o perché eguaglianza d'angoli nel triangolo determini eguaglianza di lati; o perché a una data causa segua il suo effetto; o perché dalla verità delle premesse brilli la verità della conclusione. Ogni spiegazione, che non faccia capo ad un rapporto, oltre il quale non si possa pretendere alcun perché, si arresta davanti a una supposta qualitas occulta: e di tal sorta è ogni forza elementare della natura. Davanti a queste deve alfine arrestarsi ogni spiegazione scientifica: ossia davanti ad alcunché affatto oscuro. Deve quindi lasciare tanto inesplicata l'intima essenza d'una pietra, quanto quella dell'uomo; non può dar conto della gravità, della coesione, delle proprietà chimiche, che la pietra manifesta, più di quanto possa dar conto del conoscere e dell'agire dell'uomo. Così per esempio la gravità è una qualitas occulta: perché si può fare a meno di pensarla, e non sorge quindi come una necessità dalla forma del conoscere. Questo invece è il caso della legge d'inerzia, in quanto deriva da quella di causalità: quindi il richiamarvisi è una spiegazione del tutto sufficiente. Due cose invero sono proprio inesplicabili, non si possono cioè ricondurre alla relazione formulata dal principio di ragione: in primo luogo, il principio stesso di ragione, nelle sue quattro forme, perché esso è il principio d'ogni spiegazione, quello in rapporto al quale ogni spiegazione ha senso; e, in secondo luogo, ciò che non è raggiunto dal principio di ragione, ma da cui proviene l'elemento primordiale in tutti i fenomeni – ossia la cosa in sé, la cui conoscenza non è punto subordinata al principio di ragione. Quest'ultima deve rimaner per ora nell'ombra, perché diventerà comprensibile solo col libro seguente, nel quale riprenderemo anche questa considerazione della capacità delle scienze. Ma là, dove la scienza naturale, anzi ogni scienza, s'arresta davanti agli oggetti, e non solo la spiegazione che ne dà, ma perfino il principio di questa spiegazione – il principio di ragione – non oltrepassa quel punto: là viene la filosofia a prender codesti oggetti e li considera a suo modo, con metodo affatto diverso dalla scienza. Nella memoria sul principio di ragione, § 51, ho mostrato che nelle varie scienze è principal filo conduttore l'una o l'altra forma di quel principio: e invero si potrebbe far su questa base la miglior suddivisione delle scienze. Ma ogni spiegazione data seguendo quel filo è, come ho detto, sempre relativa: spiega gli oggetti in reciproca relazione, lasciando sempre qualcosa d'inesplicato, che appunto già presuppone. Questo è il caso, per esempio, di spazio e tempo nella matematica; così nella meccanica, nella fisica e nella chimica la materia, le qualità, le forze elementari, le leggi naturali; nella botanica e nella zoologia la varietà delle specie e la vita stessa; nella storia la razza umana, con le sue proprietà del pensare e del volere; – in tutte, il principio di ragione; nella forma che volta per volta è applicata. La filosofia ha questo di caratteristico, che non presuppone nulla di già noto, ma tutto le è in egual misura estraneo e costituisce un problema: non solo le relazioni dei fenomeni, ma anche i fenomeni stessi, e lo stesso principio di ragione, al quale le altre scienze s'appagano di tutto ricondurre. Da codesto risalire al principio di ragione la filosofia non avrebbe nulla da guadagnare, perché un anello della catena le è sconosciuto come l'altro, e quella stessa maniera di connessione è per lei un problema pari al problema dei termini che essa congiunge; e questi rimangono problemi dopo rilevato il loro rapporto, come prima. Perché, come ho detto, appunto ciò, che le scienze presuppongono e mettono a base delle loro spiegazioni e si stabiliscono come limite, è il vero problema della filosofia; la quale per conseguenza comincia, dove le scienze finiscono. Dimostrazioni non possono essere il suo fondamento: perché queste ricavano principii ignoti dai noti, mentre a lei tutto è ad un modo ignoto e straniero. Non vi può esser nessun principio, in base del quale abbia preso esistenza il mondo con tutti i suoi fenomeni: perciò non si può per via di dimostrazioni dedurre, come Spinoza voleva, una filosofia ex firmis principiis. La filosofia è anche il sapere più universale, i cui principi fondamentali non possono perciò esser derivazioni da un altro più universale ancora. Il principio di contraddizione stabilisce semplicemente la concordanza dei concetti; ma non da esso medesimo concetti. Il principio di ragione spiega i collegamenti dei fenomeni, ma non i fenomeni: perciò la filosofia non può andar a cercar una causa efficiens o una causa finalis del mondo intero. La filosofia moderna, almeno, non indaga punto l'origine e la finalità del mondo; bensì soltanto che sia il mondo. Ma il perché è qui subordinato al che cosa: poiché esso già fa parte del mondo, sorgendo unicamente dalla forma in cui questo appare – il principio di ragione – e solo per tal rispetto acquista significato e valore. Si potrebbe dire bensì, che ciascuno senz'altro aiuto conosce da sé che cosa sia il mondo, essendo egli medesimo il soggetto della conoscenza, del quale il mondo è rappresentazione: ed anche questo sarebbe vero in tal senso. Ma quella conoscenza è di natura intuitiva, in concreto: riprodurla in abstracto, elevare a sapere astratto, chiaro, durevole l'intuizione successiva e mutabile, e specialmente tutto ciò, che il vasto concetto del sentimento abbraccia ed indica appunto in modo negativo come un sapere non astratto, confuso – ecco la missione della filosofia. Ella dev'esser quindi una dichiarazione in abstracto dell'essenza del mondo intero, del suo complesso come di tutte le sue parti. Ma tuttavia, per non perdersi in una massa infinita di giudizi singoli, deve servirsi dell'astrazione, ed ogni singolo pensare in forma generale, ed in forma generale anche le sue differenze: quindi in parte separerà, in parte congiungerà, per trasmettere al sapere, condensata in pochi concetti astratti, tutta la molteplicità del mondo nella sua essenza. Con quei concetti, in cui ella fissa l'essenza del mondo, deve nondimeno, come il generale, anche il particolarissimo venir conosciuto, e la conoscenza d'entrambi esser quindi collegata strettissimamente: perciò l'attitudine alla filosofia consiste appunto là dove Platone la poneva, nel conoscer l'uno nel molteplice, e il molteplice nell'uno. La filosofia sarà dunque una somma di giudizi molto generali, il cui principio di conoscenza è direttamente il mondo medesimo nel suo complesso, senza alcuna esclusione: ossia tutto ciò che si trova nella coscienza umana. Ella sarà una completa ripetizione, e quasi un riflesso del mondo in concetti astratti, possibile solo mediante la riunione di ciò ch'è essenzialmente identico in un concetto, e l'isolamento del diverso in un altro concetto. Questo compito assegnava già Bacone da Verulamio alla filosofia, dicendo: «Ea demum vera est philosophia, quae mundi ipsius voces fidelissime reddit, et veluti dictante mundo conscripta est, et nihil aliud est, quam ejusdem simulacrum et reflectio, ncque addit quidquam de proprio, sed tantum iterat et resonat» (De augm. scient., 1. 2, e. 13). Noi prendiamo tuttavia la cosa in senso più ampio di quanto potesse allora pensare Bacone.

La reciproca concordanza che hanno fra loro tutti gli aspetti e le parti del mondo, appunto perché appartengono ad un tutto, deve ritrovarsi anche in quell'astratta riproduzione del mondo. Così fu possibile in quella somma di giudizi derivare in certo modo l'uno dall'altro; e viceversa, sempre. Ma per ciò devono i giudizi in primo luogo esistere, e dunque prima venir stabiliti, come direttamente fondati in concreto sulla conoscenza del mondo; tanto più che ogni fondamento immediato è più sicuro che il mediato. La loro armonia reciproca, in grazia della quale confluiscono perfino nell'unità di un pensiero, e che sgorga dall'armonia ed unità del mondo intuitivo medesimo, che è il lor comune principio di conoscenza, non è adunque adoprata come primo argomento per la loro dimostrazione; ma verrà solo come una conferma della loro verità: Tuttavia questo compito può diventar ben chiaro solo mediante la sua attuazione28.

§ 16.

Dopo tutto questo esame sia della ragione, come d'una forza conoscitiva propria, particolare dell'uomo soltanto, sia delle operazioni e dei fenomeni anche proprii dell'umana natura, che da quella derivano, mi rimarrebbe a parlar della ragione in quanto guida le azioni degli uomini; e sotto tal rispetto può definirsi pratica. Ma la maggior parte di ciò, che qui andrebbe detto, ha trovato luogo altrove, ossia nell'appendice di quest'opera, dove mi propongo di combattere l'esistenza della cosiddetta ragion pratica di Kant; la quale egli (invero molto comodamente) rappresenta come sorgente immediata d'ogni virtù, e come sede di un dovere assoluto (ovvero caduto dal cielo). La diffusa e radicale confutazione di questo principio della morale kantiana io l'ho fatta più tardi, nei Problemi fondamentali dell'etica. Perciò non ho che poco da dire qui ancora sull'effettivo influsso che la ragione – nel vero senso della parola – ha sull'azione. Già sul principio del nostro esame della ragione abbiamo in generale osservato quanto la condotta dell'uomo si distingua da quella dell'animale, e come codesta distinzione sia unicamente da considerare come dovuta alla presenza di concetti astratti nella coscienza. L'influsso di questi su tutto il nostro essere è così penetrante e significativo, che in certo modo ci pone davanti agli animali nella stessa situazione, in cui si trovano gli animali veggenti in confronto di quelli privi della vista (alcune larve, vermi e zoofiti). Questi ultimi conoscono solo mediante il tatto ciò, che si trova nello spazio immediatamente presso di loro, e li tocca; mentre i veggenti dispongono di un'ampia sfera da presso e da lungi. Similmente l'assenza della ragione limita gli animali alle rappresentazioni intuitive, ossia agli oggetti reali, che son loro immediatamente presenti nel tempo: mentre noi, grazie alla conoscenza in abstracto, abbracciamo, di là dal ristretto presente della realtà, anche tutto il passato ed il futuro, oltre l'ampio dominio della possibilità; noi dominiamo con lo sguardo la vita, liberi da ogni parte, fino a grandissima distanza dal presente e dalla realtà. Quel che l'occhio è nello spazio, e per la conoscenza sensibile, è in certo modo la ragione nel tempo, e per la conoscenza interiore. Ma, come la visibilità degli oggetti ha valore e significato solo perché ne denota la tangibilità, così sempre l'intero valore della conoscenza astratta consiste nella sua relazione con la conoscenza intuitiva. Quindi l'uomo conforme alla natura dà sempre maggior peso a ciò che ha conosciuto immediatamente ed intuitivamente, che non ai concetti astratti, ossia a ciò che ha soltanto pensato: egli preferisce la conoscenza empirica alla conoscenza logica. Opposta è la disposizione di coloro che vivono più in parole che in fatti, che hanno guardato più alla carta ed ai libri che al mondo reale, e nella loro grandissima degenerazione diventano pedanti e spulciatori di vocaboli. Così soltanto si comprende come Leibniz e Wolff e tutti i loro seguaci si potessero tanto smarrire, sull'esempio di Duns Scoto, da dir che la conoscenza intuitiva non è che una conoscenza astratta ingarbugliata! Ad onore di Spinoza devo ricordare che il suo buon senso ha viceversa ritenuto tutti i concetti comuni come sorti dalla confusione della conoscenza intuitiva (Eth., II, prop. 40, schol. 1). Da quella assurda concezione è anche derivato che si rigettasse il genere d'evidenza proprio della matematica, per far valere la sola evidenza logica; che in genere ogni conoscenza non astratta si comprendesse e si trascurasse sotto l'ampio nome di sentimento; che finalmente l'etica kantiana dichiarasse senza valore e senza merito, come puro sentimento ed emozione, quella volontà buona, che si fa immediatamente sentire con la conoscenza dei fatti, e spinge al giusto operare ed al bene – mentre invece attribuiva valore morale soltanto alla condotta guidata da massime astratte.

Il privilegio, che l'uomo in grazia della ragione ha sull'animale, di dominar da ogni parte con lo sguardo la vita nel suo complesso, si può anche paragonare ad un disegno geometrico, incolore, astratto, rimpicciolito, del corso della sua vita. L'uomo con ciò sta rispetto all'animale, come il navigatore, il quale con l'aiuto della carta di navigazione, della bussola e del quadrante sappia con precisione il suo percorso ad ogni punto del mare, sta rispetto alla ciurma ignara, la quale non vede che le onde e il cielo. Ne consegue un fatto notevole, anzi mirabile: che l'uomo, accanto alla propria vita in concreto, ne conduce una seconda in abstracto. Nella prima è dato in balia a tutte le tempeste della realtà e all'influenza del presente: deve lottare, soffrire, morire come l'animale. Ma la sua vita in abstracto, qual'essa sta davanti alla sua ragionante riflessione, è quel disegno ridotto, qui sopra accennato. Quivi, nel dominio della pacata meditazione, gli appare freddo, incolore ed estraneo al momento presente ciò, che colà tutto lo possiede e violentemente lo agita: quivi egli è un semplice spettatore ed osservatore. In codesto ritrarsi nella riflessione egli rassomiglia ad un attore, il quale ha recitato la sua scena, e, fino al momento di ricomparire, prende posto fra gli spettatori; donde contempla indifferente qualunque cosa possa accader nel dramma, foss'anche la preparazione della propria morte. Poi, al momento dato, torna sulla scena e agisce e soffre come deve. Da questa doppia vita sorge quell'umana calma – tanto diversa dall'animale spensieratezza – con la quale taluno per ben ponderata riflessione, per una risoluzione presa o una riconosciuta necessità, lascia freddamente venir su di sé o compie egli medesimo cose per lui essenzialissime, spesso terribili: suicidio, supplizio, duello, temerità mortali d'ogni specie e, in genere, cose contro le quali si ribella tutta la sua natura animale. Qui si vede, in qual misura la ragione si renda padrona della natura animale, e gridi all'uomo forte: σιδηρειον νυ τοι ητορ! (ferreum certe tibi cor!) Il, 24, 521. E qui può dirsi che davvero si manifesti la ragione praticamente: quindi, ovunque l'atto è guidato dalla ragione, dove i moventi sono concetti astratti, dove il motivo determinante non è costituito da isolate rappresentazioni intuitive né dall'impressione momentanea, che guida gli animali, – qui si mostra ragione pratica. Ma che tutto ciò sia affatto diverso ed indipendente dal merito etico della condotta; che condotta razionale e condotta virtuosa siano due cose del tutto distinte; che la ragione possa unirsi sì con grande cattiveria come con grande bontà, e questa come quella renda attive con la propria presenza; che la ragione sia ugualmente pronta e valevole per l'attuazione metodica e conseguente d'un nobile proposito come d'un cattivo, di una massima intelligente come d'una massima stolta (il che proviene dal suo carattere femminile, atto a ricevere e conservare, ma non a produrre direttamente); – tutto ciò ho ampiamente spiegato nell'appendice e illustrato con esempi. Le cose quivi dette dovrebbero invero trovarsi in questo luogo; ma han dovuto esser trasportate colà per la polemica contro la pretesa ragion pratica di Kant. Perciò torno a rinviare all'appendice.

Il più perfetto svolgimento della ragione pratica nel vero e proprio senso della parola; il più alto culmine a cui l'uomo può elevarsi col semplice impiego della sua ragione, e sul quale più evidente appare la sua diversità dagli animali, è come ideale rappresentato nel sapiente stoico. Imperocché l'etica stoica originariamente ed essenzialmente non è punto una dottrina di virtù, ma semplice avviamento alla vita razionale, di cui è meta e scopo la felicità ottenuta con la calma dello spirito. La condotta virtuosa vi si trova solo come per accidens, come mezzo, non come scopo. Perciò l'etica stoica, in tutta la sua essenza e nella sua concezione, è radicalmente diversa dai sistemi etici, che spingono direttamente alla virtù, come sarebbero le dottrine dei Veda, di Platone, del Cristianesimo e di Kant. Il fine dell'etica stoica è la felicità: τελος το ευδαιμονειν (virtutes omnes finem habere beatitudinem) si legge nell'esposizione della Stoa presso Stobeo (Ecl, 1. II, e. 7, p. 114, ed anche p. 138). Tuttavia l'etica stoica insegna, che la felicità si può trovar con certezza solo nella pace interiore e nella calma dello spirito (αταραξια), e la calma alla sua volta si raggiunge esclusivamente con la virtù: questo appunto significa l'espressione, che bene supremo sia la virtù. Ma se poi a poco a poco si dimentica il fine per il mezzo e la virtù viene raccomandata in modo da rilevar tutt'altro interesse che quello della propria felicità, sì da star con quest'ultima in aperto contrasto; abbiamo in ciò una delle inconseguenze, per le quali in ogni sistema la verità direttamente conosciuta (o, come suol dirsi, sentita) riconduce sul diritto cammino, facendo violenza ai ragionamenti. La qual cosa si vede chiaramente, per esempio, nell'etica di Spinoza, che dall'egoistico suum utile quaerere deriva, mediante sofismi da toccarsi con mano, una pura dottrina della virtù. Secondo il modo in cui ho inteso lo spirito dell'etica stoica, la sua origine sta nel pensare, se il grande privilegio dell'uomo – la ragione, che, mediatamente, per mezzo della condotta sistematica e di ciò che ne deriva, di tanto gli allevia la vita ed i suoi pesi – non sarebbe anche capace di sottrarlo d'un tratto direttamente, ossia per conoscenza pura, ai mali ed ai tormenti d'ogni specie che gli riempiono la vita: sottrarlo del tutto, ovvero quasi del tutto. Si ritenne non conveniente al privilegio della ragione, che l'essere, il quale ne è dotato, e per suo mezzo abbraccia e domina un'infinità di cose e di fatti, fosse nondimeno in balia di tanto dolore, di sì grande angoscia e sofferenza, quanta ne può sorgere dal tumultuoso impeto della brama o dell'avversione: e ciò per l'effetto del momento presente, e per i casi che i pochi anni d'una sì breve, fugace, incerta vita possono contenere. E si pensò che il conveniente uso della ragione potesse elevar l'uomo sopra a questo male, renderlo invulnerabile. Disse perciò Antistene: Δει̃ κτα̃σθαι νου̃ν, ἣ βρόχον (aut mentem parandam, aut laqueum, Plut., De sthoic. repugn., e. 14), ossia: la vita è così piena di tormenti e di molestie, che conviene o collocarsene fuori mediante la saviezza del pensiero, o abbandonarla. Si comprese che la privazione, il soffrire, non nascono direttamente e necessariamente dal non avere, bensì dal voler avere e non avere; che quindi questo voler avere è la condizione necessaria, per la quale il non avere diventa privazione, e genera il dolore. Ου πενια λυπην εργζεται, αλλ επιθυμια (non paupertas dolorem efficit, sed cupiditas, Epict. fragm. 25). Si conobbe inoltre dall'esperienza, che solo la speranza, l'idea d'aver diritto ad una cosa, genera ed alimenta il desiderio; perciò né i molti mali a tutti comuni ed inevitabili, né gl'irraggiungibili beni ci agitano e tormentano: bensì solo l'insignificante misura maggiore o minore di ciò che l'uomo può raggiungere o evitare. Si conobbe anzi, che perfin quanto non è irraggiungibile in modo assoluto, ma soltanto relativo, ci lascia del tutto tranquilli; perciò i mali, che stabilmente si sono associati alla nostra individualità, o i beni, che per necessità a lei devono rimanere negati, si considerano con indifferenza; ed in grazia di questa proprietà dell'uomo, ogni desiderio tosto muore né può più generare dolore, non appena la speranza cessa d'alimentarlo. Da questo risultò, che tutta la felicità consiste solo nella proporzione delle nostre aspirazioni con ciò che ci viene accordato: la maggior o minor misura delle due grandezze di questa proporzione è indifferente, e la proporzione può esser ristabilita sia con l'impiccolir la prima grandezza, sia con l'ingrandir la seconda. Egualmente risultò, che ogni dolore invero nasce dalla sproporzione di ciò, che pretendiamo ed aspettiamo, con ciò che ci è dato; la qual sproporzione tuttavia sta evidentemente solo nella conoscenza29, e potrebbe esser tolta di mezzo appieno, mediante una miglior valutazione. Disse perciò Crisippo: δει ζην κατ’εμπειριαν των φυσει συμβαινοντων (Stob., Ecl., 1. il, e. 7, p. 134), ossia: si deve vivere con opportuna conoscenza dell'andamento delle cose del mondo. Imperocché ogni volta che un uomo in qualsiasi modo perda il dominio di sé, o è schiacciato da un dolore, o s'infuria, o si scoraggia; egli dimostra così di trovar le cose diverse da quel che s'attendeva; dimostra quindi d'essere stato impigliato nell'errore, di non aver conosciuto il mondo e la vita; non aver saputo come la natura inanimata intralci ad ogni passo la volontà di ciascuno per mezzo del caso, e la natura animata l'intralci sia con l'opporle fini contrari, sia con la malvagità. Adunque egli o non s'è servito della sua ragione per venire ad una generale consapevolezza di questa condizione della vita, oppure ha mancato di giudizio, disconoscendo nel caso particolare quel che conosceva in generale; e perciò appunto si sorprende, e perde il dominio di sé30. Nello stesso modo è ogni viva gioia un errore, un vaneggiamento; perché nessun desiderio appagato può soddisfare a lungo, e perché ogni possessione, ogni felicità ci è concessa dal caso per un tempo indeterminato – e quindi ci può esser tolta nello spazio di un'ora. Ma intanto ogni dolore proviene dal dileguarsi di codesto vaneggiamento. Questo e quello derivano adunque da manchevole conoscenza. Perciò dal saggio rimangono gioia e dolore sempre lontani e nessun evento scuote la sua αταραξια.

Conformemente a tale spirito ed a tal mira della Stoa, Epitteto parte dal principio – e vi torna sopra continuamente, come al nocciolo della sua sapienza – che occorra ben meditare e distinguere ciò che dipende e ciò che non dipende da noi, e non contare mai su quest'ultimo. In questo modo si può fiduciosamente tenersi liberi da ogni dolore, sofferenza ed angoscia. Ciò che dipende da noi, è solamente la volontà; e qui si viene a fare un graduale passaggio alla dottrina della virtù, mentre si osserva che, come il mondo esterno da noi indipendente determina gioia e dolore, così dalla volontà nasce interna soddisfazione o insoddisfazione di noi stessi. In seguito poi si domandò, se nel primo o nel secondo caso si convenissero i nomi di bene e di male. Questo era invero un problema arbitrario, da risolversi a piacere e non mutava nulla alla cosa. Eppure su di esso contesero incessantemente Stoici con Peripatetici ed Epicurei, si baloccarono con l'impossibile paragone di due quantità affatto incommensurabili e con le opposte, paradossali sentenze che ne derivavano, scagliandosele vicendevolmente addosso. Un'interessante raccolta, dal punto di vista stoico, ce n'è tramandata nei Paradoxa di Cicerone.

Zenone, il fondatore, sembra aver seguito in origine un cammino alquanto diverso. Il suo punto di partenza era questo: che per raggiungere il massimo bene, ossia la felicità mediante la calma dello spirito bisognerebbe vivere d'accordo con se stessi. (ὁμολογουμενως ζην τουτο δ’εστι καθ’ ἑνα λογον και συμφωνον ξην. Consonanter vivere: hoc est secundum unam rationem et concordem sibi vivere; Stob. Ecl, eth., L. II, c. 7, p. 132. Così ancora: αρετην διαθεσιν ειναι ψυχης συμφωνον ἑαυτῃ περι ὁλον τον βιον. Virtutem esse animi affectionem secum per totam vitam consentientem, ibid., p. 104). Ma questo era possibile solo informando tutta la propria vita alla ragione, secondo concetti, non secondo mutevoli impressioni e fisime. E poi che né il successo, né i fatti esterni, ma solo le massime direttive sono in nostro potere, si doveva fare di queste sole, non di quelle il proprio scopo, se si voleva rimaner conseguenti; entrando così per quest'altra via nella dottrina della virtù.

Ma già agl'immediati successori di Zenone parve il suo principio morale – vivere armonicamente – troppo formale e privo di contenuto. Gli diedero perciò un contenuto materiale, con quest'aggiunta: «vivere in armonia con la natura» (ὁμολογουμενως τῃ φυσει ξῃν.); la quale aggiunta, secondo c'informa Stobeo nel luogo indicato, venne fatta dapprima da Cleante ed allargò di molto il principio, per l'ampia sfera del concetto e l'indeterminatezza dell'espressione. Imperocché Cleante intendeva tutta la natura in generale, Crisippo invece la natura umana in particolare (Diog. Laert., 7, 89). La cosa conforme solo a quest'ultima doveva quindi esser la virtù, come la soddisfazione degl'istinti animali è conforme alla natura dei bruti. E così si rientrava di nuovo risolutamente nella dottrina della virtù; l'etica – venisse pure a piegarsi o a rompersi – doveva esser fondata sulla fisica. Imperocché gli Stoici miravano soprattutto all'unità del principio; Dio e il mondo non essendo per loro punto distinti.

L'etica stoica, presa in complesso, è veramente un pregevolissimo e considerevolissimo tentativo di giovarsi della maggior prerogativa umana – la ragione – per uno scopo importante e salutare com'è quello di elevarsi sopra i patimenti e i dolori toccati in sorte a ciascuna vita, con un ammonimento:

Qua ratione queas traducere leniter aevum:
Ne te semper inops agitet vexetque cupido,
Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes.

Con ciò l'etica stoica tendeva a far l'uomo partecipe in altissimo grado della dignità che a lui, essere ragionevole, spetta in confronto dell'animale – dignità che solo in questo senso e in nessun altro va presa. Questo mio modo di considerar l'etica stoica mi ha condotto a doverne parlare qui, dove tratto di ciò che la ragione è, e di ciò che può compiere. È certamente vero, che quello scopo è fino a un dato punto raggiungibile con l'uso della ragione, e con un'etica esclusivamente razionale; perché anche l'esperienza dimostra, che gli uomini di carattere puramente razionale, i quali si soglion chiamare filosofi pratici (e con ragione, perché, come il filosofo vero, ossia teorico, trasporta la vita nei concetti, trasportano essi il concetto nella vita) sono forse i più felici. Tuttavia moltissimo manca, perché si possa in questa maniera giungere ad alcunché di perfetto, e la ragione esattamente applicata possa davvero liberarci da tutto il peso, da tutti i patimenti della vita, conducendoci alla felicità. C'è piuttosto una assoluta contraddizione nel proposito di voler vivere senza soffrire; contraddizione che reca in sé anche il comune modo di dire: «vita felice». Questo brillerà ben chiaro a chi avrà compresa fino all'ultimo l'esposizione seguente. Codesta contraddizione si rivela già in quell'etica della ragione pura, pel fatto che lo Stoico è costretto ad intercalare nel suo avviamento ad una vita felice (e tale rimane pur sempre la sua etica) la raccomandazione del suicidio – come nel sontuoso corredo dei depositi orientali si trova anche una preziosa fiala di veleno – per il caso che i dolori del corpo, i quali non si lasciano sopprimere da nessun principio o ragionamento filosofico, prendano il sopravvento e siano incurabili. Allora il fine unico – la felicità – viene a mancare; e per sottrarsi al patimento, non altro rimane che la morte, la quale va presa in tal caso indifferentemente, come una medicina. Qui si fa manifesta una forte opposizione fra l'etica stoica e quelle altre sopra citate, le quali pongono a scopo della vita la virtù in se stessa, direttamente, anche fra le più penose sofferenze; né ammettono che per sottrarsi ai patimenti si dia termine alla vita – sebbene nessuna di loro abbia saputo esprimere il vero argomento contro il suicidio, e tutte invece siano venute accozzando faticosamente motivi illusori. Nel quarto libro quell'argomento risulterà in relazione col nostro sistema. Ma il contrasto su riferito palesa e conferma appunto il dissidio essenziale e fondamentale tra la Stoa, che in sostanza non è se non una particolar forma d'eudemonismo, e quelle dottrine citate; sebbene l'una e le altre s'accordino spesso nei risultati, ed abbiano un'apparente parentela. La surriferita contraddizione inerente all'etica stoica, perfino nel suo pensiero sostanziale, si mostra inoltre anche in questo: che il suo ideale, il Sapiente stoico, non potè neppur da lei medesima rappresentato, conseguir mai vita, o intima poetica verità; bensì rimane un legnoso, rigido fantoccio, del quale non si sa cosa fare, che non sa egli stesso dove voglia andare con la sua saggezza; e la cui calma perfetta, contentezza, felicità stanno in aperto contrasto con la natura umana, né possono darci di sé una rappresentazione intuitiva. Come differenti appaiono, accanto a questo fantoccio, i Superatori del mondo e volontari Penitenti, che la sapienza indiana ci presenta ed effettivamente ha prodotti; o anche il Salvatore cristiano – quella magnifica figura, piena di vita profonda, d'immensa verità poetica e di altissimo significato, la quale nondimeno, malgrado la sua perfetta virtù, santità ed elevatezza, viene davanti a noi in istato di altissimo dolore31.

LIBRO SECONDO


IL MONDO COME VOLONTÀ

PRIMA CONSIDERAZIONE


L'obiettivazione del volere.


Nos habitat, non tartara, sed nec sidera coeli:

Spìritus, in nobis qui viget, illa facit.


§ 17.

Nel primo libro abbiamo esaminato la rappresentazione solo come tale, ossia nella sua forma generica. Tuttavia, per ciò che riguarda la rappresentazione astratta – il concetto – questa ci fu nota anche nel suo contenuto, in quanto essa riceve ogni contenuto e significato solamente dalla sua relazione con la rappresentazione intuitiva; senza la quale sarebbe priva di valore e di contenuto. Dovendo quindi far capo esclusivamente alla rappresentazione intuitiva, cercheremo di conoscere anche il contenuto suo, le sue più precise determinazioni e gli atteggiamenti ch'essa ci presenta. Baderemo particolarmente a chiarire con precisione il suo vero significato: quel significato, che di solito è soltanto sentito, ed in grazia del quale le immagini della rappresentazione non sfilano davanti a noi, come altrimenti accadrebbe, del tutto straniere e mute; bensì ci parlano direttamente, vengono comprese ed acquistano un interesse, che avvolge tutto il nostro essere.

Dirizziamo lo sguardo alla matematica, alla scienza naturale ed alla filosofia; ciascuna delle quali ci fa sperare che ci darà una parte della luce desiderata. Ora, la filosofia ci appare a tutta prima come un mostro dalle molte teste, ognuna parlante una lingua diversa. È vero che non tutte sono discordi sul punto che qui si tocca, il significato della rappresentazione intuitiva: perché, eccezion fatta degli scettici e degli idealisti, tutte le altre, nella sostanza, parlano con sufficiente accordo di un oggetto, che sta a base della rappresentazione, e che, pur essendo dalla rappresentazione affatto distinto nell'essere e. nell'essenza, le somiglia d'altra parte tanto per ogni verso, quanto un uovo ad un altro uovo. Ma con ciò non siamo tratti d'impaccio: perché noi non sappiamo punto distinguere un tale oggetto dalla rappresentazione, anzi troviamo che questa e quello sono tutt'uno, poiché ogni oggetto sempre e perennemente presuppone un soggetto, e rimane quindi rappresentazione; così pure abbiamo conosciuto il fatto d'essere oggetto, come appartenente alla più general forma della rappresentazione, che è appunto la scissione in oggetto e soggetto. Inoltre il principio di ragione, al quale ci si riferisce in tale proposito, è per noi similmente la pura forma della rappresentazione, ossia il regolare collegamento di una rappresentazione con un'altra, e non collegamento dell'intera, finita o infinita serie delle rappresentazioni con qualcosa che non sia rappresentazione, né sia quindi rappresentabile. Degli scettici e degl'idealisti si è parlato più sopra, spiegando la contesa intorno alla realtà del mondo esteriore.

Se domandiamo ora alla matematica la desiderata, precisa conoscenza della rappresentazione intuitiva, che conosciamo solo in generale, nella sua pura forma; la matematica ci parlerà solo di codeste rappresentazioni in quanto riempiono tempo e spazio, ossia in quanto sono quantità. C'indicherà con perfetta esattezza il «quanto» e il «quanto grande»; ma poi che questo è sempre relativo, ossia è un confronto d'una rappresentazione con un'altra, e consiste solo in quell'unilaterale riguardo della quantità, non potrà darci la nozione a cui principalmente miriamo.

Se guardiamo infine all'ampio, in molti campi diviso, territorio della scienza naturale, possiamo subito distinguere due partizioni fondamentali. Essa è o descrizione di forme – ch'io chiamo morfologia – o spiegazione dei cambiamenti – ch'io chiamo etiologia. La prima considera le forme permanenti, la seconda considera la materia evolvente secondo le leggi del suo passaggio da una forma all'altra. La prima è ciò che vien chiamato, sia pure impropriamente, storia naturale, nel suo senso più ampio. Specialmente come botanica e zoologia c'insegna a conoscere le diverse forme organiche, permanenti, e quindi nettamente determinate, nell'incessante mutar degli individui, le quali costituiscono gran parte del contenuto della rappresentazione intuitiva. Esse vengono da lei classificate, isolate, riunite, ordinate in sistemi naturali ed artificiali, raccolte sotto concetti, che rendono possibile uno sguardo d'insieme e una conoscenza di tutte. Viene inoltre mostrata un'analogia, nel complesso o nelle parti, che fra tutte le forme passa con infinite sfumature (unité de plan), in grazia della quale esse rassomigliano a molteplici variazioni di un tema non formulato. Il passaggio della materia in quelle forme, ossia il sorgere degli individui, non è la parte principale da considerare, perché ogni individuo deriva da un suo simile per via di generazione; la quale, sempre egualmente misteriosa, si sottrae finora a una chiara nozione: ed il poco, che se ne sa, trova posto nella fisiologia, che già appartiene alla scienza etiologica della natura. Anche la mineralogia, che pure, nella sostanza, appartiene alla morfologia, tende verso l'etiologia, specie là dove diventa geologia. Vera e propria etiologia sono poi le branche della scienza naturale rivolte soprattutto alla causa e all'effetto: queste insegnano, come, secondo una legge infallibile, ad uno stato della materia necessariamente un altro determinato consegua; come un determinato cambiamento sia condizione e causa di un altro, egualmente determinato: la qual prova si chiama spiegazione. Qui troviamo in primo luogo meccanica, fisica, chimica, fisiologia.

Ma, se ci mettiamo alla lor scuola, non tardiamo ad accorgerci, che la cognizione a cui soprattutto miriamo non ci vien data dall'etiologia più che dalla morfologia. Quest'ultima ci mostra forme innumerevoli, – per noi, rappresentazioni – infinitamente varie, e pur affini per un'innegabile aria di famiglia; le quali per questa via ci rimangono eternamente estranee e, guardate in questo solo modo, ci stanno davanti come incomprensibili geroglifici. L'etiologia viceversa c'insegna che, secondo la legge di causa ed effetto, un certo stato della materia ne produce un altro; e con ciò ha spiegato, ed ha fatto il suo compito. Così, in sostanza, non fa altro che mostrare l'ordine regolare, col quale gli stati si presentano nello spazio e nel tempo, e per tutti i casi insegnare quale fenomeno debba necessariamente prodursi in un dato tempo, in un dato luogo. Assegna quindi ai fenomeni il loro posto nel tempo e nello spazio, secondo una legge, il cui contenuto preciso viene rivelato dall'esperienza, ma della cui generale forma e necessità siamo consapevoli indipendentemente da quella. Tuttavia, sull'intima essenza d'uno qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo con ciò la minima luce: tale essenza vien chiamata forza naturale, e sta fuor del dominio della spiegazione etiologica; la quale chiama legge naturale l'immutabile costanza nell'apparir della manifestazione di codesta forza, ogni qual volta si presentino le condizioni che l'etiologia ha riconosciute. Ma questa legge naturale, queste condizioni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, a tempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e potrà conoscere. La forza in sé, che si manifesta, l'intima essenza dei fenomeni, producentesi secondo quelle leggi, rimane per lei sempre un segreto, alcunché di straniero ed ignoto, tanto nei fenomeni più semplici, quanto nei più complicati. Imperocché, sebbene l'etiologia abbia finora meglio conseguito il suo fine nella meccanica, e meno compiutamente nella fisiologia; la forza, in virtù della quale una pietra cade a terra o un corpo ne urta un altro, non ci è meno estranea e misteriosa di quella che produce i movimenti e lo sviluppo di un animale. La meccanica presuppone come imperscrutibili materia, gravità, impenetrabilità, comunicabilità del moto mediante urto, rigidità, etc.; e tutto ciò chiama forze naturali; chiama leggi naturali il loro necessario e regolare prodursi in date condizioni. E da questo punto soltanto comincia la propria spiegazione, la quale consiste nell'indicar con fedele e matematica esattezza come, dove, quando ciascuna forza si estrinseca; e nel ricondurre ad una di codeste forze ogni fenomeno che a lei si presenti. Lo stesso fanno fisica, chimica, fisiologia nel loro territorio, con la sola differenza, che presuppongono ancor più, e spiegano ancor meno. Perciò anche la più completa spiegazione etiologica di tutta la natura non sarebbe propriamente altro, che un elenco delle forze inesplicabili, ed una sicura indicazione delle regole, secondo cui i fenomeni di quelle forze si producono, si succedono, si sostituiscono vicendevolmente nel tempo e nello spazio: ma l'intima essenza delle forze in tal modo manifestantisi verrebbe a rimaner sempre nell'ombra, perché la legge, che l'etiologia segue, non conduce a spiegar quell'essenza: essa deve fermarsi al fenomeno ed alla sua classificazione. La spiegazione etiologica si potrebbe quindi paragonare al taglio di un marmo, il quale mostra molte venature l'una accanto all'altra, ma non lascia seguire il loro corso dall'interno del blocco fino alla superficie. Oppure – se mi è consentito, perché calzante, un esempio scherzoso – davanti all'etiologia completa della natura intera, l'indagatore filosofo dovrebbe sentirsi sempre come qualcuno il quale capiti, senza saper come, in una società a lui del tutto sconosciuta, dove ciascuno degli astanti a turno gli presenti un altro come suo amico o cugino, senz'altra spiegazione: e frattanto quegli, mentre ogni volta si dichiara felice di farne la conoscenza, ha sempre sulla punta della lingua la domanda: «Ma come diavolo sono capitato in questa società?».

Dunque, nemmeno l'etiologia può darci su quei fenomeni che chiamiamo nostre rappresentazioni la luce desiderata, capace di farci avanzare oltre i fenomeni stessi. Anche dopo tutte le sue spiegazioni, essi seguitano a starci davanti, del tutto sconosciuti, come pure rappresentazioni, delle quali non comprendiamo il significato. Il nesso causale ci dà soltanto la regola e la relativa disposizione del loro prodursi nello spazio e nel tempo, ma non ci fa conoscere da vicino che cosa sia ciò che in tal modo si produce. Inoltre la stessa legge di causalità vige soltanto per rappresentazioni, per oggetti d'una determinata classe; ha significato solo con la presupposizione di quelli: è adunque sempre, come gli oggetti medesimi, esclusivamente in relazione col soggetto, ossia non si ha se non condizionatamente: per la qual cosa viene conosciuta egualmente, sia che si parta dal soggetto, ossia a priori, o dall'oggetto, ossia a posteriori, come Kant ci ha insegnato.

Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto questo: che non ci basta saper che abbiamo rappresentazioni, che le rappresentazioni sono così e così, e che si collegano secondo queste o quelle leggi, delle quali è sempre espressione generale il principio di ragione. Noi vogliamo sapere il significato della rappresentazione: noi domandiamo, se questo mondo non sia altro che rappresentazione; nel qual caso dovrebbe passare davanti ai nostri occhi come un sogno inconsistente, o uno fantastica visione, indegna della nostra attenzione; o se non sia qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che cosa sia. Si vede subito, che questo, a cui miriamo, è alcunché di sostanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che devono essergli del tutto estranee le forme e le leggi di questa: sì che, partendo dalla rappresentazione, non si può giungere ad esso seguendo il filo di quelle leggi, le quali collegano soltanto fra loro oggetti, rappresentazioni; leggi che sono poi le forme del principio di ragione.

Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cose non si potrà mai pervenire dal di fuori: per quanto s'indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che giri attorno ad un castello, cercando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate. Eppur questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima di me.

§ 18.

In verità, il senso tanto cercato di questo mondo, che mi sta davanti come mia rappresentazione – oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò – non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto il punto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi. Ma non comprenderebbe l'influsso dei motivi meglio di quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva. All'intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni ed operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro. Ma le cose non stanno così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli da la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare come movimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro, che l'atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione.

Nel seguito vedremo, che ciò vale per ogni movimento del corpo, non solo per quelli provocati da motivi, ma anche per quelli arbitrarii provocati da semplici stimoli; vedremo, anzi, che il corpo intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione – tutte cose che risulteranno e appariranno evidenti dalla successiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo, sotto questo punto di vista, l'obiettità della volontà; mentre nel libro precedente e nella memoria sopra il principio di ragione l'avevo chiamato – secondo il punto di vista colà assunto intenzionalmente (quello dell'intuizione) – l'oggetto immediato. In un certo senso si può quindi anche dire: la volontà è la conoscenza a priori del corpo, e il corpo la conoscenza a posteriori della volontà. Decisioni della volontà, riferentisi anche al futuro, sono semplici riflessioni della ragione su ciò che si vorrà che allora avvenga, e non veri e proprii atti volitivi: soltanto l'attuazione suggella la risoluzione, che, finché non sia attuata, è ancor sempre un proposito soggetto a variare, ed esiste soltanto nella ragione, in abstracto. Nella semplice riflessione, volere ed agire sono distinti: nella realtà sono tutt'uno. Ogni vero, genuino, immediato atto volitivo è subito e direttamente anche un visibile atto del corpo: e corrispondentemente, d'altra parte, ogni azione sul corpo, subito e direttamente, è anche azione sulla volontà; come tale si chiama dolore, se ripugna alla volontà; benessere, piacere, se è a questa conforme. Assai diverse sono le gradazioni del dolore e del piacere. Ma si ha pieno torto, se si dà il nome di rappresentazioni al dolore ed al piacere, che non sono punto tali, bensì affezioni dirette della volontà nella sua manifestazione fenomenica, ch'è il corpo: un forzato, istantaneo volere o non volere l'impressione, che questo subisce. Sono da considerar semplici rappresentazioni, e vanno quindi eccettuate da quanto or ora s'è detto, soltanto alcune poche impressioni corporee che non eccitano la volontà, e per le quali il corpo diventa immediato oggetto della conoscenza, mentre come intuizione è già oggetto mediato nell'intelletto, al pari di tutti gli altri oggetti. S'intendono con ciò le affezioni dei sensi puramente oggettivi: della vista, dell'udito e del tatto; e solo in quanto codesti organi sono impressionati nella maniera specialmente caratteristica, specifica, naturale di ciascuno. Codesta è un'impressione così estremamente debole della sensibilità aumentata e specificamente modificata di tali organi, da non toccare la volontà; e, non turbata da nessuna eccitazione di quest'ultima, non fa che fornire all'intelletto i dati dai quali nasce l'intuizione. Ma ogni affezione di questi organi più intensa o di altra natura è dolorosa, ossia contraria alla volontà, all'oggettità della quale anch'essi dunque appartengono. Debolezza di nervi si manifesta in quanto le impressioni, le quali dovrebbero aver solo il grado di forza, che basti a farne dati per l'intelletto, raggiungono il grado più elevato, in cui muovono la volontà, ossia producono dolore o piacere; più sovente, invero, dolore, il quale in parte è ottuso ed indistinto, quindi non solo singoli suoni e forte luce fa dolorosamente avvertire, bensì produce anche una generale disposizione di malessere ipocondrico, senza venir chiaramente conosciuto. Inoltre, l'identità del corpo e della volontà si mostra fra l'altro anche nel fatto, che ogni movimento vivace ed eccessivo della volontà, ossia ogni affetto, scuote direttamente il corpo ed il suo intimo meccanismo, disturbando l'andamento delle sue funzioni vitali. Ciò si trova in modo speciale spiegato nella Volontà nella natura, p. 27 della seconda edizione.

Finalmente la conoscenza che io ho della mia volontà è, sebbene immediata, tuttavia inseparabile da quella del mio corpo. Conosco la mia volontà non nel suo complesso, non come unità, non appieno nella sua essenza; ma la conosco soltanto nei suoi singoli atti, e quindi nel tempo, ch'è forma del fenomeno del mio corpo, come d'ogni oggetto: sì che il corpo è condizione per la conoscenza della mia volontà. Questa volontà, senza il mio corpo, io non riesco invero a rappresentarmela. Nella memoria sul principio di ragione è bensì la volontà, o piuttosto il soggetto del volere, presentata come una speciale classe di rappresentazioni o oggetti: ma già quivi vedemmo codesto oggetto coincidere col soggetto, ossia cessar di essere oggetto. Noi chiamammo questa coincidenza il miracolo κατ’ εξοχην: in certo modo tutta l'opera presente è spiegazione di quello. In quanto conosco veramente la mia volontà come oggetto, la conosco come corpo: ma allora mi ritrovo daccapo nella prima classe di rappresentazioni stabilita in quello scritto, ossia fra gli oggetti reali. Verremo scorgendo sempre meglio, in seguito, che quella prima classe di rappresentazioni trova appunto la sua sola chiave e spiegazione nella quarta classe, anche colà stabilita, la quale non si contrappone più, propriamente, come oggetto al soggetto. E, in corrispondenza con ciò, dovremo arrivare a capire, attraverso la legge di motivazione che governa la quarta classe, l'intima essenza della legge di causalità, dominante nella prima, e di quanto accade in conformità della legge medesima.

L'identità, ora esposta in via provvisoria, della volontà e del corpo, può soltanto essere mostrata come qui per la prima volta s'è fatto e sempre più si farà in seguito; ossia dalla coscienza immediata, dalla conoscenza in concreto, venir elevata a nozione razionale, o trasportata nella conoscenza in abstracto. Viceversa non può, per la sua natura, venir provata, ossia esser dedotta come conoscenza mediata da un'immediata, appunto perché essa è la più immediata; e se non la prendiamo e teniamo per tale, attenderemo invano di riceverla in qualche modo mediatamente, come conoscenza derivata. Essa è una conoscenza di genere affatto speciale, la cui verità appunto perciò non può esser propriamente disposta sotto una delle quattro rubriche, in cui ho distinto ogni verità nello scritto sul principio di ragione, § 29 sgg.: ossia verità logica, empirica, metafisica e metalogica. Imperocché non è, come quelle, la relazione d'una rappresentazione astratta con un'altra rappresentazione, o con la forma necessaria della rappresentazione intuitiva od astratta: bensì è il rapporto di un giudizio con la relazione tra una rappresentazione intuitiva – il corpo – e ciò che non è punto rappresentazione, ma alcunché da questa toto genere diverso: volontà. Vorrei dunque distinguere questa verità da tutte le altre, e chiamarla verità filosofica κατ’ εξοχην. L'espressione di questa può esser formulata variamente, dicendo: il mio corpo e la mia volontà sono tutt'uno; oppure, ciò, che io chiamo mio corpo come rappresentazione intuitiva, chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto diversa, non paragonabile a nessun'altra; oppure, il mio corpo è l'oggettità della mia volontà; oppure, prescindendo dal fatto che il mio corpo è mia rappresentazione, esso non è altro che mia volontà; e così via32.

§ 19.

Se nel primo libro, con intima riluttanza, dichiaravamo il nostro proprio corpo esser pura intuizione del soggetto conoscente, come tutti gli altri oggetti di questo mondo intuitivo, ormai ci si è fatto chiaro ciò che nella coscienza di ciascuno distingue la rappresentazione del proprio corpo da ogni altra, pel resto simile a quella. Ossia, che il corpo si presenta alla coscienza anche in tutt'altra maniera, toto genere diversa, la quale viene indicata con la parola volontà, e che questa doppia conoscenza, che abbiamo del nostro corpo, ci dà sopra di esso, sopra il suo operare e muoversi in seguito a motivi, come anche sul suo risentirsi dell'azione esterna – in una parola, sopra ciò ch'esso è, non in quanto rappresentazione, ma in se stesso – quella luce, che non possiamo avere immediatamente sull'essenza, l'attività, l'impressionabilità di tutti gli altri oggetti reali.

Il soggetto conoscente è appunto un individuo per questa speciale relazione con un corpo, il quale, considerato fuori di tal relazione, non è che una rappresentazione eguale a tutte le altre. Ma la relazione, in virtù della quale il soggetto conoscente è individuo, appunto perciò sussiste unicamente fra lui e una sola di tutte le sue rappresentazioni. Di questa sola egli è quindi conscio non semplicemente come d'una rappresentazione, bensì in pari tempo anche in tutt'altro modo, ossia come d'una volontà. Ma, se si astrae da quella speciale relazione, da quella duplice ed eterogenea conoscenza di un tutto uno ed identico, – essendo quell'uno, il corpo, una rappresentazione eguale a tutte le altre – l'individuo conoscente, per orientarsi a questo proposito, deve ammettere che l'elemento distintivo di quell'unica rappresentazione stia esclusivamente nel fatto, che la conoscenza, ch'egli ne ha, si trovi in codesta duplice relazione con quella rappresentazione sola, e che solo di quest'unico oggetto intuitivo egli possa aver nozione in due modi; ma che ciò non va spiegato con la differenza di tale oggetto da tutti gli altri, bensì con una differenza della relazione esistente tra la sua conoscenza e quest'unico oggetto, da quella ch'essa ha con tutti gli altri. Oppure, deve ammettere che quest'unico oggetto sia essenzialmente diverso da tutti gli altri, solo fra tutti sia contemporaneamente volontà e rappresentazione; e gli altri, invece, semplice rappresentazione, ossia puri fantasmi; che il suo corpo adunque sia l'unico individuo reale nel mondo, ossia l'unico fenomeno di volontà e l'unico oggetto immediato del soggetto. Che gli altri oggetti, considerati come semplici rappresentazioni, siano eguali al nostro corpo, ossia come questo riempiano lo spazio (che anch'esso esiste solo in possibilità come rappresentazione), e come questo operino nello spazio, si può dimostrare con tutta certezza con la legge di causalità, che per le rappresentazioni è certa a priori. Questa non ammette effetto senza causa. Ma, prescindendo dal fatto che dall'effetto si può risalire solo ad una causa in genere, e non ad una causa eguale, qui si è sempre nel dominio della pura rappresentazione, sol per la quale vige la legge della causalità, né si può andare oltre. Se poi gli oggetti noti all'individuo come semplici rappresentazioni siano tuttavia, come il suo proprio corpo, fenomeni d'una volontà; questo è, come già fu detto nel libro precedente, il vero senso della quistione intorno alla realtà del mondo esterno. Negare ciò, è seguire il pensiero dell'egoismo teoretico, che appunto per questo ritiene fantasmi tutti i fenomeni, eccettuato il proprio individuo, precisamente come fa, sotto il rispetto pratico, l'egoismo pratico; il quale considera e tratta la persona propria come la sola persona reale, e tutte le altre come puri fantasmi. L'egoismo teorico non si potrà mai confutare con prove: tuttavia filosoficamente non è di certo altro che un sofisma scettico, ossia dedotto per pura apparenza. Come convinzione seria, lo si potrebbe trovare soltanto al manicomio; dove a combatterlo non occorrerebbe tanto una prova quanto una cura. Per questo non ci indugiamo ancora a trattarne, ma lo consideriamo unicamente come l'ultima fortezza dello scetticismo, che è sempre polemico. Ora adunque, se la nostra conoscenza, sempre legata all'individualità e perciò stesso limitata, reca con sé la necessità che ogni individuo sia bensì uno, ma possa tutto il resto conoscere (la qual limitazione appunto fa sorgere il bisogno della filosofia); noi, che appunto perciò ci sforziamo d'allargar mediante la filosofia i limiti della nostra conoscenza, considereremo l'argomento dell'egoismo scettico, che qui ci si oppone, come una piccola fortezza di confine, la quale è per sempre inespugnabile, ma il cui presidio non ha modo d'uscirne, sì che si può passarle davanti e senza pericolo lasciarsela alle spalle.

La doppia conoscenza, ormai assurta a chiarezza, e raggiunta in due modi affatto eterogenei, che noi abbiamo dell'essenza e dell'attività del nostro corpo, ci servirà d'ora innanzi come una chiave per aprirci l'essenza d'ogni fenomeno nella natura; e sull'analogia del nostro corpo giudicar tutti gli oggetti, che non come quel corpo, ossia non in duplice modo, ma soltanto come rappresentazioni sono dati alla nostra coscienza; e quindi ammettere, che com'essi da un lato, a mo' del corpo, sono rappresentazioni, e perciò della stessa sua natura, così d'altra parte quel che rimane, quando si metta in disparte il loro essere in quanto rappresentazioni del soggetto, sia nella sua intima essenza identico a ciò che in noi stessi chiamiamo volontà. Invero, quale altra specie d'esistenza o di realtà dovremmo attribuire al rimanente mondo corporeo? donde prender gli elementi, coi quali metterlo insieme? All'infuori di volontà e rappresentazione, nient'altro conosciamo, né possiamo pensare. Se al mondo reale, che esiste immediatamente sol nella nostra rappresentazione, vogliamo attribuire la massima realtà a noi nota, gli diamo la realtà, che per ciascuno di noi ha il suo proprio corpo: poiché questo è per ciascuno quanto v'è di più reale. Ma se poi analizziamo la realtà di questo corpo e delle sue azioni, all'infuori del fatto d'essere nostra rappresentazione, non altro vi troviamo che la volontà: e con ciò viene ad essere esaurita la sua realtà. Non possiamo quindi trovare in niun luogo una realtà differente per attribuirla al mondo corporeo. Se il mondo corporeo adunque dev'essere qualcosa di più che nostra semplice rappresentazione, dobbiamo dire ch'esso, oltre che rappresentazione, e quindi in se medesimo e nella sua più intima essenza, è ciò che troviamo direttamente in noi stessi come volontà. Io dico, nella sua più intima essenza: ma codesta essenza della volontà dobbiamo prima conoscerla meglio, per saper distinguere ciò che appartiene a lei da ciò che già spetta al suo fenomeno nei vari gradi di esso. Così, per esempio, l'essere in compagnia della conoscenza e il relativo agir per determinazione di motivi non appartiene, come vedremo in seguito, all'essenza della volontà, bensì semplicemente al suo fenomeno visibile in quanto uomo o animale. Se io quindi dirò: la forza, che fa cadere a terra la pietra, nella sua essenza, in sé, e fuori d'ogni rappresentazione, è volontà; non si attribuirà a quest'affermazione l'insano significato, che la pietra si muova secondo un motivo conosciuto, perché nell'uomo la volontà si manifesta in questo modo33. Ma oramai ci proponiamo di mostrare, fondare con più estensione e chiarezza, e sviluppare in tutta la sua ampiezza, quanto fin qui fu esposto in maniera provvisoria e generica34

§ 20.

Come essenza in sé del nostro corpo, come ciò che questo corpo è, oltre all'esser oggetto di intuizione o rappresentazione, si palesa la volontà primamente, secondo s'è detto, nei movimenti volontari del corpo medesimo, in quanto questi non sono altro che la visibilità dei singoli atti volitivi.

Con tali atti, i movimenti si producono in diretta e immediata concomitanza, formando un tutto unico; distinti da quelli solo nella forma di conoscibilità in cui sono passati, diventando rappresentazione. Codesti atti della volontà hanno sempre un principio fuori di se stessi, nei motivi. Questi tuttavia non determinano se non ciò che io voglio in un dato tempo, in un dato luogo, in date circostanze: non il fatto generico del mio volere, né ciò che io genericamente voglio, ossia la massima a cui s'impronta tutto il mio volere. Quindi il mio volere non si può spiegare in tutta la sua essenza coi motivi; ma questi determinano soltanto la sua manifestazione in un dato momento, sono la semplice occasione, in cui la mia volontà si manifesta. Essa rimane nondimeno fuor del dominio assegnato alla legge di motivazione: solo il suo rivelarsi in ciascun istante è determinato necessariamente da quest'ultima. Esclusivamente con la premessa del mio carattere empirico il motivo è una spiegazione sufficiente della mia condotta: ma s'io faccio astrazione dal mio carattere, e poi domando perché io voglio questa cosa e non quell'altra, nessuna risposta è possibile; appunto perché soltanto il fenomeno della volontà è sottomesso al principio di ragione, e non la volontà stessa, che sotto questo rispetto può dirsi non abbia ragione. Qui da una parte presuppongo nota la dottrina kantiana del carattere empirico ed intelligibile, come anche il chiarimento ch'io ne diedi nei miei Problemi fondamentali dell'etica, pp. 48-58, e p. 178 sgg. della prima edizione; per altra parte avremo a discorrere ampiamente di ciò nel quarto libro. Per ora ho solo richiamato l'attenzione sul fatto, che l'essere un fenomeno fondato sull'altro (in questo caso dunque l'azione sul motivo) non esclude punto che la sua essenza sia, in sé, volontà; la quale non ha alla sua volta nessun fondamento, perché il principio di ragione in tutte le sue applicazioni è semplice forma della conoscenza, ed estende la sua validità alla sola rappresentazione, ch'è il fenomeno, la visibilità del volere, ma non al volere medesimo, che diventa visibile.

Ora, se ogni azione del mio corpo è fenomeno di un atto volitivo, nel quale, in seguito a determinati motivi, si riflette la mia volontà genericamente ed in complesso, ossia il mio carattere; dev'esser anche condizione e premessa immancabile d'ogni azione un fenomeno della volontà. Imperocché il fenomeno della volontà non può dipendere da qualche cosa che non esista direttamente e per solo mezzo di lei, che sia rispetto a lei dovuto al solo caso, sì che diverrebbe semplicemente casuale anche il fenomeno stesso: ma quella condizione è il corpo intero. Il corpo deve dunque già essere fenomeno della volontà, e comportarsi di fronte alla mia volontà generica, – ossia al mio carattere intelligibile, del quale è fenomeno nel tempo il mio carattere empirico – come la singola azione del corpo si comporta di fronte al singolo atto della volontà. Dunque, non deve tutto il corpo essere altro che la mia volontà, diventata visibile; dev'essere la mia volontà stessa, in quanto questa è oggetto intuitivo, rappresentazione della prima classe. Come conferma di ciò, fu già osservato che ogni impressione ricevuta dal nostro corpo eccita istantaneamente e direttamente anche la nostra volontà, e sotto questo rispetto si chiama dolore o piacere; oppure, in un grado inferiore, sensazione piacevole o spiacevole. E fu anche osservato che, viceversa, ogni moto violento della volontà, affetto e passione, scuote il corpo e turba l'andamento delle sue funzioni. Si può, è vero, spiegare etiologicamente (sia pure in maniera assai incompleta) la nascita, e, un po' meglio, lo sviluppo e la conservazione del corpo; tale è il compito della fisiologia. Ma questa risolve il suo problema, così come i motivi spiegano la condotta. Quindi, come la spiegazione dei singoli atti mediante il motivo, e il necessario derivar di quelli da questo, non contrastano col fatto che l'azione in genere e nella sua essenza è fenomeno di una volontà, in se stessa priva di spiegazione; così la spiegazione fisiologica delle funzioni corporee non reca nocumento alla verità filosofica, per cui l'intera esistenza del corpo e la serie compiuta delle sue funzioni è soltanto l'obiettivazione di quella volontà appunto, che appare determinata da motivi nelle azioni esterne del corpo medesimo. La fisiologia si studia bensì di far risalire a cause proprie dell'organismo codeste azioni esterne, i moti direttamente volontari; – spiegar per esempio il movimento dei muscoli con un afflusso di succhi («come la contrazione d'una corda inumidita», dice Reil, nel suo Archivio di fisiologia, vol. VI, p. 153) – ma, pur concedendo che si venisse davvero a una radicale spiegazione di tal sorta, questa non escluderebbe mai la verità direttamente certa, che ogni moto volontario (functiones animales) è fenomeno di un atto volitivo. Nello stesso modo la spiegazione fisiologica della vita vegetativa (functiones naturales, vitales), per quanto si possa spingere avanti, non perverrà a cancellare la verità, che quest'intera vita animale, così come si svolge, è fenomeno della volontà. In genere, com'è spiegato più sopra, qualsiasi spiegazione etiologica non può darci altro che il punto, necessariamente determinato nel tempo e nello spazio, d'ogni singolo fenomeno, e il suo necessario prodursi in quel punto secondo una regola fissa: ma l'intima essenza d'ogni fenomeno rimane per questa via sempre imperscrutabile, venendo presupposta da ciascuna spiegazione etiologica, e semplicemente designata col nome di forza, o legge naturale, o, se si tratta d'azioni, carattere, volontà. Sebbene adunque ogni singola azione, essendo presupposto un determinato carattere, si svolga necessariamente secondo i motivi presentatisi, e sebbene lo sviluppo, il processo nutritivo, e tutte le modificazioni della vita animale avvengano secondo cause (stimoli) necessariamente operanti; nondimeno la serie compiuta delle azioni (quindi anche ogni azione singola, e così la condizione di queste, ossia tutto il corpo medesimo che le compie; e per conseguenza anche il processo, pel quale e nel quale il corpo sussiste) non è altro che il fenomeno della volontà, l'estrinsecazione visibile, l'obiettità della volontà. Su questo fatto poggia la piena concordanza del corpo umano ed animale con l'umana ed animale volontà; somigliante a quella – pur sopravanzandola di molto – che uno strumento costruito per un certo scopo ha con la volontà del costruttore; e perciò apparendoci come finalità, ossia spiegabilità ideologica del corpo. Le parti del corpo debbono quindi corrisponder perfettamente ai bisogni principali, in cui la volontà si manifesta, debbono essere la visibile espressione di quelli: denti, esofago e canale intestinale sono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto sessuale oggettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondono al già più mediato bisogno della volontà, che mani e piedi rappresentano. Come la general forma umana alla general volontà umana, così alla volontà individualmente modificata, al carattere dell'individuo singolo corrisponde la forma individuale del corpo; la quale è perciò nel suo complesso, come in ciascuna parte, caratteristica ed espressiva. È assai notevole che già Parmenide l'abbia detto, nei seguenti versi citati da Aristotele (Metaph. III, 5).

Ως γαρ ἑκαστος εχει κρασιν μελεων πολυκαμπτων,
Τως νοος ανθρωποισι παρεστηκεν ˙ το γαρ αυτο
Εστιν, ὁπερ φρονεει, μελεων φυσις ανθρψποισι,
Και πασιν και παντι ˙ το γαρ πλεον εστι νοημα.

(Ut enim cuique complexio membrorum flexibilium se habet, ita mens hominibus adest: idem namque est, quod sapit, membrorum natura hominibus, et omnibus et omni: quod enim plus est, intelligentia est.)35.

§ 21.

Attraverso tutte queste considerazioni, chi può aver raggiunto anche in abstracto – quindi con chiarezza e certezza – la conoscenza che ciascuno ha direttamente in concreto, ossia come sentimento: che cioè l'essenza in sé del nostro proprio fenomeno (il quale come rappresentazione ci si offre sia nelle nostre azioni, sia nel permanente loro substrato: il nostro corpo) è la nostra volontà; e che questa costituisce l'elemento immediato della nostra coscienza, ma come tale non è tutta passata nella forma della rappresentazione, in cui si contrappongono soggetto ed oggetto; bensì si manifesta in una maniera immediata, nella quale soggetto ed oggetto non sono distinti nettamente; e tuttavia non è conoscibile nel suo complesso dall'individuo, ma solo nei suoi singoli atti: chi, io dico, è arrivato con me a codesta persuasione, troverà che questa è per lui come la chiave per conoscere l'intima essenza della natura intera; applicandola anche a quei fenomeni che non gli son dati, come i suoi propri, in conoscenza immediata oltre che mediata, ma solo in quest'ultima, quindi solo unilateralmente, come semplice rappresentazione. Non soltanto in quei fenomeni che sono affatto simili al suo proprio – negli uomini e negli animali – egli dovrà riconoscere, come più intima essenza, quella medesima volontà; ma la riflessione prolungata lo condurrà a conoscer anche la forza che ferve e vegeta nella pianta, e quella per cui si forma il cristallo, e quella che volge la bussola al polo, e quella che scocca nel contatto di due metalli eterogenei, e quella che si rivela nelle affinità elettive della materia, come ripulsione ed attrazione, separazione e combinazione; e da ultimo perfino la gravità, che in ogni materia sì potentemente agisce e attrae la pietra alla terra, come la terra verso il sole – tutte queste forze in apparenza diverse conoscerà nell'intima essenza come un'unica forza, come quella forza a lui più profondamente e meglio nota d'ogni altra cosa, che là, dove più chiaramente si produce, prende nome di volontà. Solo quest'impiego della riflessione non ci fa più arrestare al fenomeno, bensì ci conduce fino alla cosa in sé. Fenomeno è rappresentazione, e non più: ogni rappresentazione, di qualsivoglia specie, ogni oggetto è fenomeno. Cosa in sé invece è solamente la volontà: ella, come tale, non è punto rappresentazione, bensì qualcosa toto genere differente da questa: ogni rappresentazione, ogni oggetto, è fenomeno, estrinsecazione visibile, obiettità di lei. Ella è l'intimo essere, il nocciolo di ogni singolo, ed egualmente del Tutto: ella si manifesta in ogni cieca forza naturale; ella anche si manifesta nella meditata condotta dell'uomo. La gran differenza, che separa la forza cieca dalla meditata condotta, tocca il grado della manifestazione, non l'essenza della volontà che si manifesta.

§ 22.

Questa cosa in sé (vogliamo mantener come formula fissa l'espressione di Kant), che in quanto tale non è mai oggetto, appunto perché ogni oggetto è invece semplice fenomeno di quella, e non è più lei medesima, doveva, per poter esser nondimeno pensata oggettivamente, prendere a prestito nome e concetto da un oggetto, da alcunché oggettivamente dato, quindi da uno dei suoi fenomeni. Ma questo, per servir di mezzo di comprensione, non poteva esser altro se non il più perfetto di tutti i fenomeni, ossia il più chiaro, il più sviluppato, dalla conoscenza direttamente illuminato: la volontà umana. Bisogna tuttavia osservare, che qui usiamo invero solo una denominatio a potiori, mediante la quale, appunto perciò, il concetto di volontà acquista una ampiezza maggiore di quella finora avuta. Conoscenza dell'identico in fenomeni diversi, e del diverso nell'identico è, come spesso nota Platone, condizione per far della filosofia. Non s'era finora conosciuta come identica con la volontà l'essenza di tutte le forze agitantisi e operanti nella natura; e si consideravan quindi come eterogenei gli svariati fenomeni, che sono invece specie differenti d'un medesimo genere. Perciò non poteva aversi alcuna parola, che indicasse il concetto di codesto genere. Io quindi indico il genere col nome della più nobile specie; la cui immediata conoscenza, la più facile per noi, ci è guida alla conoscenza mediata delle altre specie.

Si troverebbe quindi impigliato in un perenne equivoco chi non fosse capace di applicar la richiesta estensione del concetto, e con la parola volontà seguitasse ancora ad intendere soltanto la specie con essa comunemente indicata, ossia la volontà diretta dalla conoscenza e manifestantesi esclusivamente in seguito a motivi, anzi a soli motivi astratti, e quindi sotto la guida della ragione – volontà speciale, che, come s'è detto, non è se non il più evidente fenomeno della volontà intesa nel senso più vasto. Ma è appunto l'intima essenza di codesto fenomeno, che noi dobbiamo isolare col pensiero, e trasportarla poi in tutti i più deboli, meno chiari fenomeni dell'essenza medesima, venendo così a compiere la desiderata estensione del concetto di volontà. Cadrebbe nell'equivoco opposto, chi pensasse che sia alla fin fine indifferente chiamar quell'essenza in sé di tutti i fenomeni col nome di volontà, o con un altro nome qualsiasi. Sarebbe questo il caso, se quella cosa in sé fosse il semplice frutto d'una deduzione, e quindi conosciuta solo mediatamente, in abstracto. La si potrebbe allora chiamar con un nome purchessia; il nome sarebbe il semplice segno d'una entità incognita. Invece la parola volontà, che a noi, come una formula magica, deve svelar la più intima essenza d'ogni cosa nella natura, non indica punto una entità sconosciuta, un quid ottenuto per via di deduzioni, bensì alcunché direttamente conosciuto, e così ben noto, che noi sappiamo ciò che sia volontà, meglio di qualsivoglia altra cosa. Finora si assumeva il concetto di volontà sotto quello di forza: io faccio il contrario, e voglio che ogni forza della natura sia pensata come volontà. Non si creda che questa sia una logomachia, o una quistione indifferente; perché anzi è di altissima significazione ed importanza. Infatti, a base del concetto di forza, come di tutti gli altri concetti, sta la conoscenza intuitiva del mondo oggettivo, ossia il fenomeno, la rappresentazione: ed esso con quella si esaurisce. Tale concetto è ricavato dal territorio in cui imperano causa ed effetto, ossia dalla rappresentazione intuitiva; ed indica appunto il carattere causale della causa, nel punto in cui esso non è più oltre spiegabile etiologicamente, ma diventa proprio la necessaria premessa d'ogni spiegazione etiologica. Viceversa, il concetto di volontà è l'unico, fra tutti i concetti possibili, che non abbia la propria origine nel fenomeno, non nella semplice rappresentazione intuitiva; ma derivi dall'intimo, dalla coscienza immediata di ciascuno; nella qual coscienza ciascuno contemporaneamente conosce ed insieme è il suo proprio individuo, nella sua essenza, immediatamente, senz'alcuna forma, neppur quella di soggetto ed oggetto: perché qui il conoscente e il conosciuto coincidono. Se riportiamo quindi il concetto di forza a quello di volontà, abbiamo effettivamente ricondotto un'incognita ad un quid infinitamente più noto, anzi, all'unico che a noi sia davvero direttamente e compiutamente noto; e la nostra conoscenza ne viene grandemente, allargata. Se invece sussumiamo, come s'è fatto finora, il concetto di volontà sotto quello di forza, veniamo a rinunziare all'unica conoscenza immediata, che abbiamo dell'intima essenza del mondo, lasciandola perdere sotto un concetto ricavato dal mondo fenomenico, col quale non possiamo quindi superar la cerchia del fenomeno.

§ 23.

La volontà come cosa in sé è affatto diversa dal suo fenomeno, e pienamente libera da tutte le forme di questo, nelle quali appunto, ella passa all'atto del suo manifestarsi; sì che codeste forme riguardano la sua obiettità, ma le sono sostanzialmente estranee. La stessa forma più generale d'ogni rappresentazione – quella dell'oggetto per un soggetto – non la tocca; ed ancor meno le forme subordinate alla prima, le quali hanno collettivamente la loro espressione comune nel principio di ragione. Ad esse appartengono, com'è noto, anche tempo e spazio, e per conseguenza pur la pluralità, che solo mediante il tempo e lo spazio esiste e diventa possibile. Da quest'ultimo punto di vista chiamerò tempo e spazio – con espressione tolta all'antica scolastica propriamente detta – il principium individuationis: il che prego di notare una volta per sempre. Imperocché, per mezzo del tempo e dello spazio ciò che è tutt'uno nell'essenza e nel concetto apparisce invece diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi; tempo e spazio sono quindi il principium individuationis, l'oggetto di tante disquisizioni e contese degli scolastici, le quali si trovan raccolte presso Suarez (Disp. Metaph., disp. v, sect. 3). Per le ragioni sopraddette, la volontà come cosa in sé sta fuor del dominio del principio di ragione in tutte le sue forme, ed è quindi assolutamente senza ragione, sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori inoltre di ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli. Ella è una, ma non com'è uno un oggetto, la cui unità può esser conosciuta solo in contrasto con la possibile pluralità; e nemmeno com'è uno un concetto, che è sorto dalla pluralità mediante astrazione: bensì è una in quanto sta fuori del tempo e dello spazio, fuori del principium individuationis, ossia della possibile pluralità. Solo quando tutto ciò ci sarà diventato intelligibile appieno, attraverso la seguente considerazione dei fenomeni e delle varie manifestazioni della volontà, comprenderemo interamente il senso della dottrina kantiana, per cui tempo, spazio e causalità non appartengono alla cosa in sé, ma sono semplici forme della conoscenza.

La mancanza di ragione nella volontà si è effettivamente conosciuta là, dov'essa si manifesta in modo più palese, come volontà dell'uomo; e la volontà fu detta libera, indipendente. Ma nello stesso tempo, appunto per codesta mancanza di ragione, si trascurò la necessità, a cui è sempre sottomesso il suo fenomeno: e gli atti furon dichiarati liberi, mentre non sono tali; perché ogni singolo atto proviene con stretta necessità dall'azione del motivo sul carattere. Ogni necessità è, come s'è detto, relazione tra causa ed effetto, e non altro. Il principio di ragione è forma generale di ciascun fenomeno, e l'uomo nella sua attività, come ogni altro fenomeno, dev'essergli sottomesso. Ma poiché nella coscienza personale la volontà vien conosciuta direttamente ed in sé, in codesta coscienza v'è anche la consapevolezza della libertà. Nondimeno si dimentica che l'individuo, la persona, non è volontà come cosa in sé, bensì fenomeno della volontà; e come tale già determinato, già passato nella forma del fenomeno, nel principio di ragione. Di qui viene il fatto singolare, che ciascuno a priori si ritiene del tutto libero, anche nelle sue singole azioni; e ritiene di poter iniziare ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasi diventando un altro. Ma a posteriori, attraverso l'esperienza, s'accorge con suo stupore di non esser libero, bensì sottomesso alla necessità; che malgrado tutti i propositi e le riflessioni, non muta il suo modo d'agire, e dal principio alla fine di sua vita è costretto a trascinar quel carattere ch'egli medesimo disapprova, quasi recitasse fino all'ultimo una parte. Non posso qui sviluppare più a lungo questa considerazione, che per la sua natura etica spetta ad altro luogo della presente opera. Qui voglio intanto semplicemente ricordare, che il fenomeno della volontà in sé, priva di ragione, è tuttavia, in quanto fenomeno, sottomesso alla legge di necessità, ossia al principio di ragione. E voglio ricordarlo, perché la necessità, con cui avvengono i fenomeni della natura, non sia d'impedimento a vedere in questi le manifestazioni della volontà.

Finora furon considerati fenomeni della volontà solo quelle modificazioni, le quali non hanno altra causa che un motivo, ossia una rappresentazione. Perciò in tutta la natura si attribuiva una volontà soltanto all'uomo, e tutt'al più agli animali; perché il conoscere, il rappresentare, come ho già notato altrove, è la genuina ed esclusiva caratteristica dell'umanità. Ma che la volontà agisca anche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo subito dall'istinto e dalle tendenze meccaniche degli animali36. Che essi abbiano rappresentazioni e conoscenza, non è cosa che ora ci riguardi; imperocché lo scopo, al quale essi dirigono la loro azione quasi fosse un motivo conosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto. Perciò il loro agire avviene in quel caso senza motivo, non è guidato dalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente e chiarissimamente, che la volontà agisce anche senz'alcuna conoscenza. L'uccello di un anno non ha nessuna rappresentazione delle uova, per le quali costruisce un nido; un giovine ragno non ne ha della preda, per la quale tesse una rete; non il formicaleone della formica, a cui per la prima volta scava una fossa; la larva del cervo volante fora il legno, dove vuol compiere la sua metamorfosi; e quando essa vuol diventare un insetto mascolino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina, per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessuna rappresentazione. In tali atti di codesti animali è pur palesemente in gioco la volontà, come nelle altre loro azioni; ma essa agisce in un'attività cieca, la quale è bensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è guidata. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione, come motivo, non è punto necessaria ed essenziale condizione dell'attività del volere, conosceremo più facilmente l'effetto della volontà in casi dov'è meno appariscente. Per esempio, non attribuiremo il guscio della chiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, ma estranea alla chiocciola stessa, come non pensiamo che la casa da noi stessi costruita sorga per effetto d'una volontà che non sia la nostra; ma questa casa e la casa della chiocciola conosceremo quali opere della volontà, oggettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà, che opera in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente, come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche in noi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: in tutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna conoscenza guida, in tutti i suoi processi vitali e vegetativi, digestione, circolazione del sangue, secrezione, sviluppo, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma il corpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamo mostrato, fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta: tutto ciò, che in esso accade, deve quindi accadere per effetto di volontà; sebbene qui codesta volontà non sia diretta dalla conoscenza, né determinata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito a cause che in tal caso prendono il nome di stimoli.

Chiamo causa, nel senso più stretto della parola, quello stato della materia che, mentre ne produce necessariamente un altro, subisce a sua volta una modificazione grande come quella ch'esso produce; la qual cosa si esprime con la regola «azione e reazione si equivalgono». Inoltre, con una vera e propria causa l'azione cresce in proporzione della causa, e così anche la reazione; sì che, una volta conosciuto il modo d'agire, dal grado d'intensità della causa si può misurare e calcolare il grado dell'effetto, e viceversa. Tali cause propriamente dette agiscono in tutti i fenomeni del meccanismo, chimismo, e così via; insomma, in tutte le modificazioni dei corpi inorganici. Chiamo invece stimolo quella causa, la quale non subisce nessuna reazione proporzionata alla sua azione, e la cui intensità non procede punto parallela di grado con l'intensità dell'azione, la quale perciò non può esser misurata su quella: anzi una piccola diminuzione dello stimolo può produrne una grandissima nell'azione, o anche distruggere del tutto l'azione precedente, etc. Di tal maniera è ogni azione su corpi organici come tali: da stimoli dunque, non da semplici cause, procedono tutte le modificazioni veramente organiche e vegetative nel corpo animale. Ma lo stimolo, come del resto ogni causa, e com'anche il motivo, non determina mai altro che il punto, in cui prende a manifestarsi ciascuna forza nel tempo e nello spazio, non già l'intima essenza della forza manifestantesi, che noi, secondo la precedente deduzione, conosciamo per volontà; alla qual volontà riferiamo quindi tanto le consapevoli quanto le inconsapevoli modificazioni del corpo. Lo stimolo tiene la via di mezzo, fa da transizione tra il motivo, che è la causalità penetrata dalla conoscenza, e la causa in senso stretto. Nei singoli casi lo stimolo s'accosta ora al motivo, ora alla causa, ma si può tuttavia distinguer sempre da entrambi. Per esempio, il salire dei succhi nelle piante avviene per stimolo e non si può spiegar con pure cause, secondo le leggi dell'idraulica o della capillarità; tuttavia è da queste leggi aiutato, e sta già molto vicino alla pura modificazione causale. Invece, i movimenti dell'hedysarum gyrans e della mimosa pudica, per quanto prodotti da semplici stimoli, sono già molto prossimi a quelli prodotti da motivi, e sembrano quasi esser passaggio dagli uni agli altri. Il restringersi delle pupille all'aumentar della luce accade in virtù di stimolo, ma passa già fra i movimenti prodotti da motivi: esso accade perché la luce troppo forte impressionerebbe dolorosamente la retina, e noi, per impedirlo, restringiamo la pupilla. La spinta all'erezione è un motivo, essendo una rappresentazione; tuttavia essa agisce con la necessità di uno stimolo, ossia non vi si può resistere, e bisogna allontanarla per renderla inefficace. Lo stesso si dica degli oggetti disgustosi, che eccitano tendenza al vomito. Come un vero intermediario, di tutt'altro genere, tra il movimento prodotto da stimolo e l'agire in forza d'un motivo conosciuto, abbiamo or ora considerato l'istinto degli animali. Quale altro intermediario dello stesso tipo si potrebbe ancora esser tentati di ritener la respirazione: essendosi discusso se appartenga ai movimenti volontari o involontari, ossia precisamente se si produca per motivo o per eccitazione; sì che la si potrebbe forse porre nel mezzo fra questa e quello. Marshall Hall (On the diseases of the nervous system, § 293 sg.) dichiara che è una funzione mista, stando sotto l'influsso parte dei nervi cerebrali (volontari), parte degli spinali (involontari). Frattanto noi dobbiamo finir tuttavia per attribuirla alle manifestazioni della volontà prodotte da motivi: perché altri motivi, ossia semplici rappresentazioni, possono determinar la volontà a rallentare o accelerare la respirazione; e questa, come ogni altra azione volontaria, da l'impressione che la si possa del tutto interrompere, e volontariamente morire asfissiati. E questo si potrebbe veramente fare, qualora un altro motivo qualsiasi determinasse con tanta forza la volontà, da vincere l'imperioso bisogno dell'aria. Secondo alcuni, avrebbe Diogene effettivamente posto in tal guisa termine alla propria vita (Diog. Laert., vi, 76). Anche taluni negri pare l'abbiano fatto (F. B. Osiander, Sul suicidio [1813], pp. 170-80). Avremmo in ciò un forte esempio dell'influsso di motivi astratti, ossia della prevalenza del volere propriamente razionale, sul semplice volere animale. In favore della dipendenza, almeno in parte, della respirazione dall'attività cerebrale sta il fatto, che l'acido prussico uccide paralizzando il cervello, e così fermando indirettamente la respirazione; ma se questa vien prolungata artificialmente, finché sia passato quello stordimento del cervello, la morte viene evitata. In pari tempo la respirazione ci fornisce qui incidentalmente il più bell'esempio del fatto che i motivi agiscono con altrettanto grande necessità, quanto gli stimoli e le semplici cause in senso ristretto; e appunto sol da opposti motivi – come pressione da contropressione – possono esser privati della loro forza. Imperocché nella respirazione, la possibilità apparente di poterla interrompere è senza confronto minore che in altri movimenti prodotti da motivi; essendo il motivo di quella imperioso, presente, di facilissima soddisfazione, a causa dell'infaticabilità dei muscoli respiratorii; nulla in generale opponendovisi, ed essendo il tutto favorito dalla inveterata abitudine dell'individuo. Eppure tutti i motivi agiscono con la stessa necessità. Il conoscer che la necessità è comune tanto ai movimenti prodotti da motivi, quanto a quelli prodotti da stimoli, ci renderà più facile comprendere, che anche quanto avviene nel corpo organico per effetto di stimoli ed in modo affatto regolare è tuttavia, nella sua intima essenza, volontà. La quale, non già in sé, ma in tutti i suoi fenomeni è sottomessa al principio di ragione, ossia alla necessità37. Non ci fermeremo quindi a riconoscer che gli animali, come nel loro agire, così in tutto quanto il loro essere, nella forma del corpo, nell'organizzazione, sono fenomeni di volontà; ma questa conoscenza immediata, a noi soli concessa, dell'essenza in sé delle cose, noi trasporteremo anche alle piante, i cui movimenti avvengono tutti per effetto di stimoli: poiché la privazione di conoscenza, e del conseguente muoversi per impulso di motivi, costituisce il solo divario essenziale fra la pianta e l'animale. Ciò che alla nostra rappresentazione della pianta apparisce pura vegetazione, cieca forza, noi lo apprezzeremo nella sua essenza per volontà; e vi riconosceremo quella medesima forza, che costituisce la base del nostro proprio fenomeno, quale essa si palesa nella nostra attività, e primieramente in tutta l'esistenza del nostro corpo.

Un ultimo passo ci rimane da fare: l'estensione del nostro sistema anche a quelle forze, che agiscono nella natura secondo leggi generali ed immutabili, conformemente alle quali si producono i movimenti di tutti quei corpi che, affatto privi di organi, non sono sensibili allo stimolo e non possono conoscere motivi. La chiave per l'intendimento delle cose nella loro sostanza in sé – chiave che sola poteva darci l'immediata cognizione della nostra propria essenza – dobbiamo ora applicarla anche a questi fenomeni del mondo inorganico, che sono i più remoti da noi stessi. Ora, se noi li osserviamo con occhio indagatore; se vediamo il veemente, incessante impeto, con cui le acque precipitano verso il profondo; la costanza, con cui il magnete torna sempre a volgersi al polo; lo slancio, con cui il ferro corre alla calamita; la vivacità, con cui i poli elettrici tendono a congiungersi, vivacità che viene aumentata dagli ostacoli, proprio come accade ai desideri umani; se vediamo il cristallo formarsi quasi istantaneamente, con tanta regolarità di conformazione, la quale evidentemente è solo una risoluta e precisa tendenza verso differenti direzioni, irrigidita e fissata d'un tratto; se osserviamo la scelta, con cui i corpi sottratti ai vincoli della solidità, e fatti liberi dallo stato liquido, si cercano, si sfuggono, si congiungono, si separano; se infine sentiamo direttamente che un peso, la cui tendenza verso terra sia trattenuta dal nostro corpo, grava e preme incessantemente su di questo, seguendo la propria unica tendenza; – non ci costerà un grande sforzo di fantasia il riconoscere, anche a sì gran distanza, la nostra medesima essenza: quella stessa, che in noi opera secondo i suoi fini alla luce della conoscenza, mentre qui, nei più deboli de' suoi fenomeni, opera in modo cieco, sordo, unilaterale ed invariabile. Ella è sempre una e sempre la stessa in così diverse manifestazioni, e perciò – come il primo crepuscolo partecipa coi raggi del pieno meriggio del nome di luce solare – in queste ed in quelle deve prendere il nome di volontà: il quale contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosa nel mondo, ed unica sostanza di ogni fenomeno.

Tuttavia la distanza, o addirittura l'apparenza di un completo divario tra i fenomeni della natura inorganica, e la volontà, che noi percepiamo come l'intimo della nostra propria essenza, viene principalmente dal contrasto fra la regolarità ben determinata dell'una e l'apparente arbitrio sregolato dell'altra classe di fenomeni. Nell'uomo l'individualità si afferma poderosamente: ciascuno ha il suo proprio carattere. Quindi lo stesso motivo non ha su tutti lo stesso potere, e mille circostanze accessorie, che hanno posto nell'ampia sfera di conoscenza d'ogni individuo, ma rimangono ignote agli altri, modificano la sua azione per modo che dal solo motivo non si può determinare in precedenza l'azione; poiché manca l'altro fattore, la precisa cognizione del carattere individuale e della conoscenza che lo accompagna. Invece mostrano qui i fenomeni delle forze naturali l'altro estremo: queste operano secondo leggi generali, senza deviazione, senza individualità, in base a circostanze palesi sottomesse alla più esatta predeterminazione; e la stessa forza naturale si manifesta identicamente in milioni dei suoi fenomeni. Per chiarire questo punto, per mostrare l'identica natura dell'una e indivisibile volontà in tutti i suoi fenomeni tanto diversi – nei più deboli come nei più forti – dobbiamo in primo luogo considerare il rapporto, che la volontà come cosa in sé ha col proprio fenomeno, ossia il rapporto, che il mondo come volontà ha col mondo come rappresentazione. Ci si aprirà così la miglior via verso un'indagine profonda di tutta la materia trattata in questo secondo libro38.

§ 24.

Dal grande Kant abbiamo imparato, che tempo, spazio e causalità, in tutta la loro legittimità e nella possibilità di tutte le loro forme, esistono nella nostra conscienza affatto indipendenti dagli oggetti, che in essi appariscono e ne costituiscono il contenuto. Ossia, con altre parole, essi possono venir conosciuti sia che si parta dal soggetto o dall'oggetto: e' si posson quindi denominare, con egual diritto, modi d'intuizione del soggetto, o anche qualità dell'oggetto, in quanto è oggetto (per Kant: fenomeno), ossia rappresentazione. Quelle forme si possono anche considerare come l'indivisibile confine tra oggetto e soggetto: perciò è bensì vero che ogni oggetto deve mostrarsi in quelle, ma anche il soggetto – indipendente dall'oggetto rappresentato – le possiede e le domina appieno. Ora, se gli oggetti rappresentati in codeste forme non fossero vuoti fantasmi, ma avessero un significato, dovrebbero riferirsi a qualcosa, essere espressione di qualcosa, che alla sua volta non fosse egualmente oggetto, rappresentazione, esistente di un'esistenza solo relativa al soggetto: di qualcosa, che esistesse senza dipender da un elemento che le sta di fronte come condizione essenziale, e dalle forme di questo – ossia non fosse più rappresentazione, ma cosa in sé. Quindi si potrebbe almeno domandare: sono quelle rappresentazioni, quegli oggetti, qualche altra cosa di più, prescindendo dall'essere rappresentazioni, oggetti del soggetto? E che cosa sarebbero in questo senso? Che cos'è quell'altro loro aspetto, toto genere diverso dalla rappresentazione? Che è mai la cosa in sé? La volontà: è stata la nostra risposta, che tuttavia per ora metto in disparte.

Checché sia la cosa in sé, Kant ha giustamente stabilito che tempo, spazio e causalità (riconosciuti in seguito da noi come varietà del principio di ragione, il quale fu alla sua volta riconosciuto come espressione generale delle forme del fenomeno) non sono sue determinazioni, ma le vengono attribuiti solo e in quanto la cosa in sé è divenuta rappresentazione; ossia appartengono solo al suo fenomeno, e non a lei medesima. Invero, poiché il soggetto li conosce e costruisce da sé, indipendenti da ogni oggetto, debbono quelli essere inerenti all'atto di rappresentare in quanto è tale, e non a ciò che diventa rappresentazione. Debbono esser la forma della rappresentazione come tale, e non proprietà di ciò che ha assunto questa forma. Debbono già esser dati con la semplice contrapposizione di soggetto ed oggetto (non nel concetto, bensì nel fatto); debbono quindi esser soltanto la precisa determinazione della forma della conoscenza in genere; della quale codesta contrapposizione è appunto la determinazione più generale. Ora, ciò che nel fenomeno, nell'oggetto, è sotto condizione del tempo, dello spazio e della causalità, in quanto sol per loro mezzo può venir rappresentato – ossia pluralità, per mezzo di giustapposizione e successione; mutamento e durata, per mezzo della legge di causalità e della materia, la quale è rappresentabile unicamente sotto condizione della causalità; e infine quant'altro non si può rappresentare senza cotali forme – tutto ciò, in complesso, non è proprio essenzialmente di quello che apparisce, che è passato nella forma della rappresentazione: bensì è inerente solo a questa forma medesima. Viceversa, ciò che nel fenomeno non è sotto condizione di tempo, spazio e causalità, né si può a questi ricondurre, né con questi spiegare, sarà appunto l'elemento, nel quale si manifesta direttamente l'essenza del fenomeno, la cosa in sé. Per conseguenza la più perfetta conoscibilità, ossia la massima chiarezza, limpidità ed esauriente perscrutabilità debbono necessariamente toccare a ciò che è proprio della conoscenza in quanto tale, ossia alla forma della conoscenza: e non a ciò che, in sé non essendo rappresentazione, non oggetto, è diventato conoscibile (cioè è diventato rappresentazione, oggetto) soltanto col passare in tali forme. Adunque solo quel che dipende dal fatto come tale d'esser conosciuto, d'esser rappresentato (non da ciò che viene conosciuto ed è diventato rappresentazione); quel che quindi s'appartiene senza distinzione a quanto vien conosciuto; quel che per conseguenza può esser trovato sia muovendo dal soggetto sia dall'oggetto – quello solo può dar senza riserva una sufficiente e fino al fondo esauriente conoscenza. E non consiste in altro che nelle forme d'ogni fenomeno, delle quali siamo consci a priori, che si esprimono collettivamente nel principio di ragione: le varietà del quale, riferentisi alla conoscenza intuitiva (con la quale esclusivamente abbiamo qui da fare), sono tempo, spazio e causalità. Su questi ultimi soltanto poggia l'intera matematica pura e la pura scienza naturale a priori. Perciò la conoscenza non trova in queste discipline alcuna oscurità, non va a urtare contro l'imperscrutabile (l'infondato, ossia la volontà), contro ciò che non può esser più dedotto: e sotto questo rispetto anche Kant, come ho detto, voleva dare di preferenza, anzi esclusivamente a cotali discipline, oltre che alla logica, il nome di scienze. Ma d'altra parte, siffatte discipline non ci mostrano altro che semplici rapporti, relazioni d'una rappresentazione con l'altra, forma senza contenuto. Ciascun contenuto ch'esse ricevano, ciascun fenomeno che riempia quelle forme, comprende già qualcosa di non più conoscibile appieno in tutta la sua essenza, non più spiegabile in tutto mediante un'altra cosa: ossia alcunché privo di base, per cui la conoscenza immantinenti perde in evidenza, e si vede mancar la sua perfetta trasparenza. E questo elemento, che si sottrae all'indagine, è la cosa in sé; è ciò che essenzialmente non è rappresentazione, non oggetto di conoscenza, ma che è diventato conoscibile solo passando in quelle forme. La forma è ad esso dapprima estranea, né esso può mai diventar tutt'uno con lei, non alla semplice forma venir ricondotto; e – poiché la forma è il principio di ragione – non può dar piena ragione di sé. Quindi, se anche tutta la matematica ci dà compiuta conoscenza di ciò, che nei fenomeni è grandezza, posizione, numero – in breve, ogni relazione spaziale e temporale –; se tutta l'etiologia ci indica per intero le regolari condizioni, in cui si producono i fenomeni, con tutte le loro determinazioni, nel tempo e nello spazio (senza insegnarci altro con ciò, se non perché ogni volta ciascun determinato fenomeno debba mostrarsi appunto in un certo momento in un certo spazio, ed appunto in un certo spazio in un certo momento): col loro aiuto tuttavia non penetreremo mai nell'intima essenza delle cose. Rimane sempre alcunché d'inaccessibile ad ogni spiegazione, che anzi ogni spiegazione deve presupporre: ossia le forze della natura, il determinato modo d'agire delle cose, la qualità, il carattere di ciascun fenomeno, ciò che non ha perché, ciò che non dipende dalla forma del fenomeno, dal principio di ragione; ciò a cui questa forma in sé è estranea, ma che è entrato in lei e si manifesta secondo la sua legge. La quale legge determina nondimeno soltanto il fenomeno, e non l'essenza del fenomeno; la forma, e non il contenuto. Meccanica, fisica, chimica insegnano le regole e le leggi, secondo le quali agiscono le forze dell'impenetrabilità, gravità, solidità, fluidità, coesione, elasticità, calore, luce, affinità elettive, magnetismo, elettricità etc.: ossia quella legge, quella regola che codeste forze seguono, ogni qual volta si manifestano nel tempo e nello spazio. Ma le forze in se stesse rimangono, per quanto si faccia, qualitates occultae. Imperocché la cosa in sé, la quale nel manifestarsi presenta quei fenomeni, è per l'appunto da essi affatto diversa: in tutto soggetta bensì, nel suo manifestarsi, al principio di ragione come alla forma della rappresentazione, ma tale da non potervi esser ricondotta ella medesima, e quindi etiologicamente inesplicabile a fondo, né mai suscettibile d'essere spiegata appieno; comprensibilissima tuttavia in quanto è fenomeno, ossia in quanto ha assunto quella forma, ma per nulla spiegata da codesta comprensibilità. Per conseguenza, quanta più necessità trae seco una conoscenza, quanto più è in lei di ciò che non può esser pensato e rappresentato altrimenti – come per esempio le relazioni spaziali –, quanto più chiara e soddisfacente ella diviene: tanto meno contenuto oggettivo comprende, o tanto minore realtà è in lei data. O viceversa, quanto più in lei può essere giudicato del tutto contingente, quanto più ci viene offerto di puro dato empirico, tanto più di vero elemento oggettivo ed effettivamente reale è in codesta conoscenza: ma in pari tempo, tanto più d'inesplicabile, ossia non deducibile da altro.

In tutti i tempi, invero, un'etiologia ignara del proprio fine si è sforzata di far risalire ogni vita organica a chimismo, o elettricità; ogni chimismo, ossia qualità, a meccanismo (azione mediante la forma degli atomi); e quest'ultimo, in parte all'oggetto della foronomia (ossia al tempo e allo spazio congiunti per la possibilità del movimento), in parte alla geometria pura (ossia posizione nello spazio); – press'a poco come, a buon diritto, si costruisce in geometria pura il decrescere di un'azione in ragione del quadrato della distanza, e la teoria della leva. La geometria finalmente si risolve nell'aritmetica; la quale, a causa dell'unità di dimensione, è la forma del principio di ragione più facile a comprendere, a dominare. Prove del metodo qui indicato in generale sono: gli atomi di Democrito, il vortice di Cartesio, la fisica meccanica di Lesage, che sulla fine del secolo scorso tentò di spiegare meccanicamente, mediante l'urto e la pressione, tanto le affinità chimiche quanto la gravitazione, come si può più minutamente vedere nel Lucrèce Neutonien. A quella mira tende anche Reil con la dottrina della forma e del miscuglio, come causa della vita animale: della stessa natura è anche il rozzo materialismo appunto ora, a mezzo il secolo XIX, nuovamente ravvivato, e per ignoranza reputantesi originale. Il materialismo, con una stupida negazione della forza vitale, vorrebbe dapprima spiegare i fenomeni della vita con forze fisiche e chimiche, e queste alla lor volta far provenire dall'attività meccanica della materia, dalla situazione, dalla forma, e dal movimento di certi sognati atomi; e così tutte le forze della natura far risalire all'urto ed alla ripercussione, che sarebbero la «cosa in sé» del materialismo. Per conseguenza, dovrebbe perfino la luce esser la vibrazione meccanica, o addirittura l'ondulazione di un etere immaginario e postulato a tal fine: il quale, per così dire, suona il tamburo sulla retina, dove per esempio 483 bilioni di colpi di tamburo al secondo danno il color rosso, e 727 bilioni il violetto, e così via. I daltonici sarebbero dunque coloro, che non possono contare i colpi di tamburo: non è vero? Cotali crasse, meccaniche, democritee, pesanti e veramente informi teorie sono degne di gente che, cinquant'anni dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, crede ancora alle luci omogenee di Neuton e non si vergogna di dirlo. Costoro apprenderanno, come ciò che si perdona al fanciullo (a Democrito) non può essere scusato nell'uomo. Un giorno potrebbero perfino finire molto male: ma ognuno allora se la svigna, con l'aria di dire: io non c'ero! Dovremo presto riparlar di questo falso ricondur le forze naturali l'una all'altra: qui basti di ciò. Ammesso che le cose andassero così, sarebbe invero tutto spiegato a fondo, anzi ricondotto da ultimo ad un problema di calcolo, che verrebbe ad essere il Santissimo nel tempio della sapienza, cui arriveremmo guidati felicemente dal principio di ragione. Ma tutto il contenuto del fenomeno sarebbe svanito, rimanendo la semplice forma: il che cosa appare, sarebbe ridotto al come appare; e questo come sarebbe il conoscibile a priori, quindi in tutto dipendente dal soggetto, solo pel soggetto esistente; e per conseguenza, infine, un puro fantasma, rappresentazione e forma della rappresentazione in tutto e per tutto: non si potrebbe più andare in cerca di nessuna cosa in sé. Posto che così fosse, allora veramente sarebbe il mondo intero dedotto dal soggetto: e si farebbe effettivamente ciò che Fichte con le sue ciarle vuote voleva fingere di fare. Ma la cosa non sta così: a quel modo si costruivano fantasie, sofisticazioni, castelli in aria, ma non scienza. Si è riusciti – e fu, ogni volta, un vero progresso – a far risalire i molti e svariati fenomeni della natura a poche forze originarie; molte forze e qualità, prima ritenute diverse, sono state dedotte le une dalle altre (per esempio, il magnetismo dall'elettricità), diminuendone così il numero: l'etiologia avrà toccato la meta, quando avrà conosciuto e fissato come tali tutte le forze elementari della natura, e stabilito i loro modi d'agire; ossia la regola, con cui si producono nel tempo e nello spazio i loro fenomeni, seguendo il filo conduttore della causalità, determinandosi a vicenda il loro posto. Ma sempre avanzeranno forze prime; sempre avanzerà, come insolubile residuo, un contenuto dei fenomeni, che non si può ridurre alla loro forma, ossia spiegare con qualcos'altro secondo il principio di ragione. Imperocché in ogni cosa della natura è alcunché, la cui ragione non può mai essere indicata, di cui nessuna spiegazione è possibile, nessuna causa è da cercare più oltre: e ciò è il modo specifico della sua attività, ossia appunto il modo del suo essere, la sua essenza. Si può certamente d'ogni singola azione dell'oggetto mostrare una causa, dalla quale deriva ch'esso debba agire proprio in un dato momento, in un dato luogo: ma del fatto ch'esso in genere agisca, e agisca così, nessuna. Se anche non ha nessun'altra proprietà, se è un atomo di polvere nel sole, mostra tuttavia nel peso e nell'impenetrabilità quel quid imperscrutabile. Ora questo, io dico, è ad esso, quel che all'uomo è la volontà; e, come questa, non è nella sua intima essenza soggetto a spiegazione, anzi è in sé identico a lei. Certo, che per ogni manifestazione del volere, per ogni singolo atto di questo in un certo tempo e luogo, si può indicare un motivo a cui quell'atto, dato il carattere dell'uomo, doveva necessariamente seguire. Ma dell'aver l'uomo questo carattere, anzi della facoltà stessa di volere; e del fatto, che fra molti motivi per l'appunto questo e nessun altro, o addirittura che un qualunque motivo muova la sua volontà: di tutto ciò non si può dar ragione alcuna. Quel ch'è per l'uomo il suo proprio imperscrutabile carattere, presupposto indispensabile d'ogni spiegazione dei suoi atti condotti da motivi, è per ogni corpo organico la sua essenziale qualità, il modo della sua attività. Le manifestazioni di codesta attività sono provocate da un'influenza esterna; mentre il suo modo, ossia la qualità essenziale, non è da nulla determinato fuor che da se stesso, ed è quindi inesplicabile. I suoi singoli fenomeni – ne' quali soltanto ella diviene visibile – sono sottomessi al principio di ragione: ma ella non sottosta a ragione. Ciò avevano già gli scolastici esattamente riconosciuto, e chiamato forma substantialis (si veda Suarez, Disp. metaph., disp. XV, sect. 1).

È un errore tanto grosso quanto comune, il pensar che siano i più frequenti, più generali e più semplici fenomeni quelli, che noi meglio comprendiamo: mentre sono semplicemente quelli, a cui si sono meglio abituati il nostro sguardo e la nostra ignoranza. Che una pietra cada in terra, ci è tanto inesplicabile quanto il vedere muoversi un animale. Si è ritenuto, com'è detto più sopra, che partendo dalle più generali forze di natura (per esempio gravitazione, coesione, impenetrabilità) si potessero spiegare con esse le forze più rare ed operanti solo in circostanze combinate (per esempio qualità chimica, elettricità, magnetismo); poi finalmente con queste l'organismo e la vita degli animali, e perfino dell'uomo. Ci si accordò tacitamente nel proposito di partire da pure qualitates occultae, che si rinunziava a chiarire, avendo intenzione di costruirci sopra e non di scavarle da sotto. Impresa siffatta non può, come ho detto, riuscire. Ma, anche prescindendo da ciò, un simile edifizio sarebbe sempre campato in aria. A che giovano spiegazioni, che da ultimo conducono ad un termine altrettanto sconosciuto quanto il primo problema? Si arriva forse, alla fine, a capir dell'intima essenza di quelle universali forze della natura più che non si capisse dell'intima essenza d'un animale? Non è l'una cosa inesplicata quanto l'altra? Imperscrutabile, perché senza ragione, perché è il contenuto, la sostanza del fenomeno, la quale non può mai esser ridotta alla forma di esso, al come, al principio di ragione. Ma noi, che qui abbiamo di mira non l'etiologia, bensì la filosofia, ossia non la relativa ma l'assoluta cognizione dell'essenza del mondo, battiamo la via opposta, e muoviamo da quel che conosciamo direttamente, nel modo più pieno, e che ci è più famigliare; moviamo da quel che ci sta più vicino, per comprendere ciò che ci è noto solo da lontano, unilateralmente e mediatamente: e dal fenomeno più vivace, più significante, più chiaro vogliamo apprendere a capire il meno compiuto e più debole. Di tutte le cose – eccettuato il mio proprio corpo – è a me conosciuto un solo aspetto, quello della rappresentazione: la loro intima essenza mi rimane chiusa, ed è un profondo mistero, anche se io conosco tutte le cause, in seguito a cui si producono le loro modificazioni. Solo dal confronto con ciò che accade in me se, mentre un motivo mi scuote, compie il mio corpo un'azione – il che è l'intima essenza delle mie proprie modificazioni prodotte da fattori esterni – posso penetrare il modo con cui quei corpi inanimati si modificano sotto azione di cause, e comprendere così che cosa sia l'intima essenza loro; poiché il conoscer la causa, per cui quell'essenza si manifesta, mi dà semplicemente la regola del suo entrar nel tempo e nello spazio, ma non più. E questo confronto posso fare, perché il mio corpo è l'unico oggetto del quale io non un solo aspetto – quello della rappresentazione – conosca: bensì anche l'altro aspetto, che si chiama volontà. Invece adunque di credere, ch'io capirei la mia propria organizzazione, e quindi il mio conoscere e volere e muovermi in seguito a motivi, se io potessi tutto ridurre a movimento prodotto da cause quali elettricità, chimismo, meccanismo: io devo viceversa – in quanto cerco filosofia, e non etiologia – dai miei propri movimenti, effetto di motivi, imparare a capir dapprima, nella loro intima essenza, anche i più semplici e comuni movimenti del corpo inorganico, ch'io vedo provocati da cause; e le imperscrutabili forze, che in tutti i corpi della natura si manifestano, riconoscere identiche, nel modo, con ciò che in me è la volontà, e solo per grado diverse da questa. In altre parole: la quarta classe di rappresentazioni, stabilita nella memoria sul principio di ragione, deve fornirmi la chiave per la conoscenza della prima classe; e dalla legge di motivazione devo apprendere a capire la legge di causalità, nel suo intimo significato.

Dice Spinoza (Epist. 62) che la pietra lanciata nell'aria crederebbe, se avesse coscienza, di volare per sua propria volontà. Io aggiungo soltanto, che la pietra avrebbe ragione. Il lancio è per lei, quel che per me è il motivo; e ciò che nella pietra apparisce come coesione, peso, permanenza nello stato acquisito, è, nell'intima essenza, il medesimo, ch'io conosco in me come volontà, e che anch'essa come volontà conoscerebbe, se acquistasse conoscenza. Spinoza, in quel passo, aveva rivolta l'attenzione alla necessità, con cui la pietra vola; e cercò, con ragione, di ragguagliarla alla necessità dei singoli atti volontari d'una persona. Io ho di mira invece l'intima essenza, che è la sola a dar significato e valore ad ogni necessità reale (ossia effetto da causa) come suo presupposto; e chiamandosi nell'uomo carattere, nella pietra qualità, è nondimeno la stessa in entrambi. Là, dov'è immediatamente conosciuta, si chiama volontà; e ha nella pietra il più debole, nell'uomo il più alto grado di visibilità, di obiettità. Quest'essenza, identica nella nostra volontà e nell'attività di tutte le cose, già conobbe con giusto sentimento sant'Agostino, e non posso astenermi dal riportare qui la sua ingenua espressione del fatto: «Si pecora essemus, carnalem vitam et quod secundum sensum ejusdem est amaremus, idque esset sufficiens bonum nostrum, et secundum hoc si esset nobis bene, nihil aliud quaereremus. Item, si arbores essemus, nihil quidem sentientes motu amare possemus: verumtamen id quasi appetere videremur, quo feracius essemus, uberiusque fructuosae. Si essemus lapides, aut fluctus, aut ventus, aut fiamma, vel quid ejusmodi, sine ullo quidem sensu atque vita, non tamen nobis deesset quasi quidam nostrorum locorum atque ordinis appetitus. Nam velut amores corporum momenta sunt ponderum, sive deorsum gravitate, sive sursum levitate nitantur: ita enim corpus pendere, sicut animus amore fertur quocumque fertur» (De civ. Dei, xi, 28).

Merita ancora d'esser notato, che già Euler comprese dover l'essenza della gravitazione esser ricondotta ad una particolare «tendenza e brama» dei corpi – quindi volontà (nella 68a lettera alla Principessa). Questo lo allontana anzi dal concetto della gravitazione, quale è formulato da Neuton; ed egli è disposto a tentarne una modificazione secondo l'anterior teoria cartesiana: derivar cioè la gravitazione dall'urto di un etere sui corpi. Diventerebbe così «più razionale e più confacente a coloro che amano principi chiari ed afferabili». L'attrazione egli vuol vederla bandita, come qualitas occulta, dalla fisica. Il che è appunto conforme alla morta concezione della natura che dominava ai tempi di Euler, come correlato dell'anima immateriale; ma è nondimeno degna di nota, sotto il rispetto della verità fondamentale da me stabilita. La vedeva balenar da lungi, questo fine cervello: ma tosto s'affrettò a volgersi da un'altra parte e, nel suo timore di veder minacciate tutte le capitali concezioni d'allora, cercò perfino salvezza in vecchie e già smesse assurdità.

§ 25.

Sappiamo che la pluralità in genere è necessariamente determinata da tempo e spazio, e può esser pensata solo in questi, che noi per tal rispetto chiamiamo prindpium individuationis. Ma tempo e spazio abbiamo conosciuti come forme del principio di ragione, nel qual principio si esprime tutta la nostra conoscenza a priori. E questa, come abbiamo più sopra spiegato, appunto in quanto tale, si riferisce solo alla conoscibilità delle cose, non alle cose stesse; ossia è solamente la nostra forma di conoscenza, non proprietà della cosa in sé. La cosa in sé, in quanto tale, è libera da ogni forma della conoscenza, anche da quella più generale dell'essere oggetto per il soggetto; ossia è qualcosa d'affatto diverso dalla rappresentazione. Ora, se la cosa in sé, com'io credo d'aver sufficientemente provato e reso chiaro, è la volontà; questa, considerata in quanto tale e isolata dal suo fenomeno, sta dunque fuori del tempo e dello spazio, e non conosce quindi alcuna pluralità: essa è una. Non tuttavia, secondo ho già detto, com'è uno un individuo o un concetto: bensì come alcunché, a cui sia estranea la condizione della pluralità possibile, il principium individuationis. La pluralità delle cose nello spazio e nel tempo, che insieme formano la sua obiettità, non tocca perciò la volontà; e questa rimane, senza riguardo a quelli, indivisibile. Né per avventura è una minor parte di lei nella pietra, una maggiore nell'uomo: imperocché il rapporto di parte e di tutto appartiene esclusivamente allo spazio, e non ha più senso quando si prescinda da codesta forma d'intuizione. Il più e il meno è cosa che tocca solo il fenomeno, ossia la visibilità, la obiettivazione. Quest'ultima è in più alto grado nella pianta che nella pietra, nell'animale che nella pianta: la volontà resa visibile, la sua obiettivazione, ha tante infinite gradazioni, quante ne passano tra il più incerto crepuscolo e la più sfolgorante luce solare, tra il più forte suono e l'eco più impercettibile. Torneremo a considerare in seguito questi gradi della visibilità, che appartengono all'obiettivazione della volontà, al riflesso della sua essenza. Ma meno ancora di quanto i gradi della sua obiettivazione tocchino direttamente la volontà, la tocca la pluralità dei fenomeni in tali diversi gradi, ossia la massa degli individui d'ogni forma, o delle singole manifestazioni d'ogni forza; poiché codesta pluralità è immediatamente sottoposta alla condizione del tempo e dello spazio, che rimangono fuori della volontà. La volontà si palesa tutta e con egual forza in una quercia, come in milioni di querce. Il lor numero, la loro moltiplicazione nello spazio e nel tempo, non ha significato alcuno rispetto a lei, ma solo rispetto alla pluralità degli individui conoscenti nello spazio e nel tempo, ed appunto perciò moltiplicati e dispersi, ma la cui pluralità alla sua volta riguarda solo il fenomeno della volontà, non la volontà medesima. Perciò si potrebbe anche affermare che se, per impossibile, un unico essere – fosse pure l'infimo – venisse del tutto annientato, sarebbe con lui annientato il mondo intero. Col sentimento di questa verità dice il grande mistico Angelus Silesius:

Ich weiss, dass ohne mich Gott nicht cin Nu kann leben:
Werd'ich zunicht; er muss von Noth den Geist aufgeben.39

Si è tentato in vari modi di rendere accessibile alla comprensione di ciascuno la smisurata grandezza dell'universo, e toltone motivo a considerazioni edificanti, come per avventura quella intorno alla relativa piccolezza della terra, ed anche dell'uomo; poi d'altra parte – in contrasto con la prima – quella intorno alla grandezza dello spirito in quest'uomo così piccolo, che può avvertire e comprendere, anzi misurare, l'immenso mondo. Benissimo! Per me intanto, nel misurar l'incommensurabilità del mondo, è questo il principale: che l'essenza in sé, della quale il mondo è fenomeno – sia poi essa quel che le piace – non può di certo aver così spezzato e disperso il suo vero essere nello spazio infinito; questa infinita estensione appartiene unicamente al suo fenomeno, mentr'essa è presente in ciascun essere vivente, tutta intera e indivisa. Non si perde quindi nulla, quando ci si ferma ad un solo individuo; né la vera sapienza s'acquista col misurare a fondo lo sconfinato universo, o col trasvolar di persona – il che sarebbe ancor più atto al proposito – lo spazio infinito. Ma s'acquista bensì indagando bene addentro un qualsivoglia singolo, cercando di comprenderne appieno la vera e propria essenza.

Sarà perciò materia d'ampia trattazione nel libro seguente un argomento, che già dev'essersi qui affacciato con forza ad ogni scolaro di Platone: che cioè questi differenti gradi d'obiettivazione del volere – i quali, espressi in individui inumerevoli, stanno come gl'irraggiungibili modelli di questi, o come le forme eterne delle cose, senza rientrar nel tempo e nello spazio, che sono il medium degli individui: stanno fermi, a nessun mutamento soggetti, sempre esistenti, mai divenuti, mentre gl'individui nascono e periscono, sempre diventano e non mai sono – che, dicevo, questi gradi d'oggettivazione della volontà altro non siano, se non le idee di Platone. Vi accenno qui di sfuggita, per poter usare d'ora innanzi la parola idea in questo senso, la quale dunque, usata da me, è sempre da comprendere nel suo vero e originario significato, attribuitole da Platone, né va punto confusa con quegli astratti prodotti della ragione scolasticamente dogmatizzante, riferendosi ai quali Kant abusò in modo sì inopportuno come inesatto d'una parola, che Platone aveva fatta propria ed usata ottimamente a proposito. Per idea intendo adunque ogni determinato ed immobile grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé, e sta quindi fuor della pluralità. Codesti gradi stanno ai singoli oggetti, come le loro forme eterne, o i loro modelli. La più breve e precisa espressione di quel celebre dogma platonico ci è data da Diogene Laerzio (in, 12): ὁ Πλατων φησι, εν τη φυσει τας ιδεας ἑσταναι, καθαπερ παραδειγματα τα δ‛αλλα ταυταις εοικεναι, τουτων ὁ μοιωματα καθεστωτα. (Plato ideas in natura velut exemplaria dixit subsistere; cetera his esse similia, ad istarum similitudinem consistentia.) Sull'abuso kantiano non mi diffondo: il necessario in proposito è detto nell'Appendice.

§ 26.

Come infimo grado dell'obiettivazione della volontà, si presentano le forze più generali della natura; le quali per una parte appariscono in ogni materia senza eccezione (come peso, impenetrabilità), e per l'altra si sono ripartite alla rinfusa in tutta la materia esistente, sì che alcune dominano su questa, altre su quella materia, la quale appunto da ciò viene ad essere specificata. Queste ultime sono, per esempio, solidità, fluidità, elasticità, elettricità, magnetismo, proprietà chimiche e qualità d'ogni sorta. In sé, esse sono fenomeni immediati della volontà, altrettanto quanto l'attività umana; e come tali non hanno fondamento di ragione, a modo del carattere dell'uomo; solo i loro singoli fenomeni sono sottomessi al principio di ragione, come le azioni umane. Non possono adunque mai avere il nome di effetto o di causa, ma sono invece le antecedenti e presupposte condizioni di tutte le cause e di tutti gli effetti, per mezzo dei quali si svolge e palesa la loro intima essenza. È dunque cosa stolta domandar la causa del peso, dell'elettricità: sono codeste forze originarie, le cui manifestazioni si producono bensì per causa ed effetto, in modo che ogni loro singolo fenomeno ha una causa, la quale a sua volta è un consimile fenomeno singolo, e fa sì che quella forza debba manifestarsi producendosi nel tempo e nello spazio; ma non è mai la forza stessa effetto d'una causa, né causa d'un effetto. Quindi è anche falso il dire: «il peso è causa della caduta della pietra»; causa è piuttosto la vicinanza della terra, che attira la pietra. La forza in sé sta completamente fuori della catena delle cause e degli effetti, la quale presuppone il tempo, avendo significato soltanto in ordine a questo: mentre quella sta anche fuori del tempo. La singola modificazione ha per causa, ogni volta, un'altra singola modificazione; ma non così la forza, che in lei si palesa. Poiché ciò, che appunto fornisce l'attività ad una causa – agisca pure questa innumerevoli volte – è una forza naturale, priva come tale del fondamento di ragione; ossia sta del tutto fuor della catena delle cause, e in genere fuor del dominio del principio di ragione. E viene conosciuta filosoficamente come immediata obiettità del volere, che è l'in-sé di tutta la natura. Nell'etiologia – nel caso presente, nella fisica – è indicata come forza primitiva, ossia qualitas occulta.

Nei gradi superiori dell'obiettità della volontà, vediamo farsi efficacemente avanti l'individualità, in particolar modo nell'uomo, come gran distinzione di caratteri individuali, ossia compiuta personalità; espressa anche esteriormente da una fisonomia individuale nettamente segnata, la quale comprende l'intera conformazione del corpo. Un tal grado di personalità non hanno nemmeno alla lontana gli animali; soltanto gli animali superiori ne hanno una lieve impronta, sulla quale domina tuttavia ancora in tutto e per tutto il carattere della specie, sì che perciò appena si disegna la fisonomia individuale. Quanto più si discende, tanto più ogni traccia di carattere individuale si perde nel carattere generale della specie, la cui fisonomia finisce col regnare da sola. Si conosce il carattere psicologico della specie, e se ne deduce ciò che bisogna attendersi dall'individuo; mentre invece nella specie umana ogni individuo vuol essere studiato e scrutato per sé. E questo è difficilissimo, quando si voglia determinare in anticipazione con qualche sicurezza la condotta di un uomo; perché con la ragione è sottentrata la possibilità della finzione. Verosimilmente con questa differenza della specie umana da tutte le altre ha rapporto il fatto, che i solchi e le circonvoluzioni del cervello, i quali negli uccelli mancano del tutto e nei roditori sono ancora molto deboli, negli animali superiori sono dalle due parti molto più simmetrici e costanti che nell'uomo40. Inoltre è da considerar come un fenomeno di quello special carattere individuale, distinguente l'uomo da tutti gli animali, il fatto che presso gli animali l'istinto sessuale cerca di soddisfarsi senza una visibile scelta; mentre codesta scelta nell'uomo – e in modo istintivo, indipendente da ogni riflessione – è spinta tant'oltre, da salir fino alla possente passione. Così, mentre ciascun uomo va guardato come un fenomeno della volontà particolarmente determinato e caratterizzato, anzi in certo modo come un'idea a parte, negli animali questo carattere individuale manca del tutto, avendo la specie sola un significato caratteristico; e la sua traccia sempre più svanisce, man mano che gli animali si allontanano dall'uomo; le piante finalmente non hanno più alcuna particolarità individuale, se non quelle che si possono spiegare con i favorevoli o sfavorevoli influssi esterni del suolo e del clima, e con altre circostanze casuali. Così ogni individualità finisce con lo svanire del tutto nel regno inorganico della natura. Soltanto il cristallo è ancora in certo modo da considerarsi come individuo: esso è l'unità d'una tendenza verso determinate direzioni, irrigidita, che rende duratura l'orma di tale tendenza; esso è in pari tempo un aggregato risultante da una figura centrale, costituito a unità da un'idea, proprio come l'albero è un aggregato venuto dalla singola germogliante radice, che si riproduce e si ripete in ogni nervatura di foglia, in ogni foglia, in ogni ramo: ed in certo qual modo ciascuna di queste parti appare come un vegetale a sé, il quale da parassita si nutre del vegetale grande: sì che l'albero, come il cristallo, è un aggregato sistematico di piccole piante – sebbene il tutto sia la compiuta presentazione di un'idea indivisibile, ossia d'un certo determinato grado d'obiettivazione della volontà. Ma gl'individui della stessa specie di cristalli non possono aver fra loro altra distinzione, che quella prodotta da accidentalità esteriori: si può perfino far cristallizzare ogni specie, a piacere, in cristalli grandi o piccoli. L'individuo come tale, ossia con le impronte d'un carattere individuale, non si trova assolutamente più nella natura inorganica. Tutti i fenomeni di questa sono manifestazioni di forze naturali generali, ossia di quei gradi d'obiettivazione della volontà, i quali non si obiettivano punto (come nella natura organica) nelle varie individualità, che esprimono parzialmente la totalità dell'idea; bensì si manifestano soltanto nella specie, e tutte intere in ogni singolo fenomeno, senz'alcuna deviazione. Poiché tempo, spazio, pluralità e determinazione causale non appartengono alla volontà, né all'idea (al grado d'obiettivazione della volontà), ma soltanto ai singoli fenomeni di questa, deve in tutti i milioni di fenomeni di una tra cotali forze naturali (per esempio del peso o dell'elettricità) prodursi questa esattamente nello stesso modo, e solo le circostanze esterne possono modificare il fenomeno. Tale unità della sua essenza, in tutte le sue manifestazioni, tale incrollabile costanza della sua presenza, non appena, seguendo il filo conduttore della causalità, se ne trovino raccolte le condizioni, si chiama legge naturale. Conosciutane una sperimentalmente, si può con esattezza prevedere e calcolare la manifestazione della forza naturale, il cui carattere è in quella espresso e registrato. È appunto questa regolarità dei fenomeni nelle classi inferiori della obiettivazione della volontà, che dà loro un aspetto tanto diverso dalle manifestazioni della volontà medesima nei gradi più alti, ossia più distinti, della sua obiettivazione – negli animali, negli uomini e nella loro attività. Qui il maggiore o minor rilievo del carattere individuale, e l'impulso dei motivi (i quali, stando nella conoscenza, rimangono spesso celati allo spettatore), hanno fatto finora misconoscere del tutto l'identità dell'intima essenza nei due generi di fenomeni.

L'infallibilità delle leggi naturali ha – se si muove dalla conoscenza del singolo e non da quella dell'idea – alcunché di sorprendente, anzi, a volte, di quasi terrificante. C'è da stupire, che la natura non dimentichi neppure una volta le sue leggi: che, per esempio, se è conforme ad una legge naturale che nell'incontro di certe sostanze, in determinate condizioni, abbia luogo una combinazione chimica, uno sviluppo di gas, una combustione; ripetendosene le condizioni sia per nostra volontà, sia per caso (dove la regolarità è tanto più sorprendente quanto più inaspettata), oggi come mille anni fa si produca immediatamente e senza indugio il fenomeno determinato. Questa meraviglia proviamo più vivacemente per certi rari fenomeni producentisi solo in circostanze molto complicate, ma preannunziatici per quando codeste circostanze si offrano; come, per esempio, se certi metalli si toccano a vece alterna tra loro e con un liquido acido, e foglioline d'argento poste fra le estremità di questa concatenazione devono improvvisamente consumarsi in verdi fiamme; o come il duro diamante, che sotto certe condizioni si trasforma in acido carbonico. È la magica onnipresenza delle forze naturali, che allora ci sorprende; e qui osserviamo quel che non ci colpisce più nei fenomeni quotidiani, ossia come la relazione tra causa ed effetto sia in verità misteriosa quanto quella, di cui si favoleggia, tra una formula magica e lo spirito che da lei evocato deve necessariamente comparire. Se invece siano penetrati addentro nel comprendere filosoficamente, che una forza naturale è un determinato grado nell'obiettivazione della volontà, cioè di quella che noi stessi riconosciamo come nostra più intima essenza; e che codesta volontà in sé, e distinta dal suo fenomeno e dalle forme di questo, sta fuori del tempo e dello spazio, sì che la pluralità, da tempo e spazio determinata, non a lei, né direttamente al grado della sua obiettivazione (ossia all'idea) compete, bensì soltanto ai suoi fenomeni; mentre la legge di causalità invece ha significato soltanto in relazione col tempo e con lo spazio, assegnando in questi il posto dovuto ai molteplici fenomeni delle diverse idee in cui la volontà si manifesta, e determinando l'ordine in cui devono prodursi; – se a noi, io dico, si è così svelato l'intimo senso della grande teoria kantiana, che tempo, spazio e causalità non appartengano alle cose in sé, ma esclusivamente al fenomeno, e siano forme della nostra conoscenza, non qualità della cosa in sé: in tal caso ci renderemo conto, che quello stupirsi della regolarità e puntualità, con cui agisce una forza naturale, e della piena identità di tutti i suoi milioni di fenomeni, e del loro immancabile prodursi, è invero paragonabile allo stupore d'un bambino o d'un selvaggio, il quale, guardando per la prima volta un fiore attraverso un cristallo faccettato, si meravigli della perfetta identità degli innumerevoli fiori che vede, e conti ad uno ad uno i petali d'ogni fiore.

Ogni general forza primitiva della natura è adunque nella sua intima essenza nient'altro che l'obiettivazione della volontà in un grado inferiore: cotal grado chiamiamo idea eterna, nel senso platonico. Invece la legge naturale è la relazione dell'idea con la forma del suo fenomeno. Codesta forma è tempo, spazio e causalità – i quali hanno fra loro necessario, indissolubile nesso e rapporto. Mediante tempo e spazio si moltiplica l'idea in fenomeni innumerevoli; e l'ordine, con cui questi rientrano in quelle forme della molteplicità, è rigidamente determinato dalla legge causale. Questa è come la norma del limite tra quelle manifestazioni d'idee diverse; in base alla quale sono ripartiti tra' fenomeni il tempo, lo spazio e la causalità. Tale norma si riferisce quindi necessariamente all'identità di tutta una data materia, la quale è il sostrato comune di quei differenti fenomeni. Se questi non fossero tutti in rapporto ad una materia comune, nel cui possesso vanno distribuiti, non occorrerebbe più una tal legge per fissare i loro diritti: potrebbero tutti contemporaneamente, gli uni presso gli altri, riempire lo spazio infinito per un tempo infinito. Quindi solo per il fatto che tutti quei fenomeni delle eterne idee appartengono ad una stessa materia, doveva sorgere una regola del loro prodursi e del loro cessare; altrimenti nessuno farebbe posto all'altro. Pertanto la legge di causalità è collegata essenzialmente con quella della permanenza della sostanza: entrambe acquistano sol nel reciproco rapporto un significato; né diversamente si comportano rispetto ad esse tempo e spazio. Imperocché la pura possibilità di opposte determinazioni nella stessa materia è il tempo; la pura possibilità del permaner della stessa materia in tutte le opposte determinazioni è lo spazio. Perciò dichiarammo nel precedente libro esser la materia una combinazione di tempo e spazio; la qual combinazione si mostra come mutar d'accidenti nel permanere della sostanza, di cui è possibilità generale appunto la causalità, ossia il divenire. Pertanto dicemmo anche esser la materia in tutto e per tutto causalità. L'intelletto dichiarammo correlato soggettivo della causalità, e dicemmo esister la materia (quindi il mondo intero come rappresentazione) soltanto per l'intelletto, essendo questa la condizione, il suo sostegno, come suo necessario correlato. Tutto ciò non è che un rapido ricordo di quanto è esposto nel primo libro. Il por mente all'intimo accordo dei due libri è richiesto per la lor piena comprensione; imperocché, ciò che nel mondo reale è indissolubilmente congiunto, costituendone i due aspetti – volontà e rappresentazione – è in questi due libri con violenza separato, col fine di poter ciascuno aspetto più esattamente conoscere, quando sia isolato dall'altro.

Non sarebbe forse superfluo render più evidente con un esempio come la legge di causalità abbia significato solo in rapporto al tempo, allo spazio ed alla materia, che risulta dalla combinazione d'entrambi; questa essendo la legge che determina i confini, entro cui le manifestazioni delle forze naturali si dividono il possesso della materia; mentre le naturali forze originarie medesime, come immediate obiettivazioni della volontà, la quale in quanto cosa in sé non è sottomessa al principio di ragione, stanno fuor di quelle forme. Intanto solo in quelle forme ha valore e significato ogni spiegazione etiologica, ed appunto perciò l'etiologia non può mai condurre fino all'intima essenza della natura. Immaginiamoci, a tal fine, una macchina costruita secondo le leggi della meccanica. Pesi di ferro danno principio al movimento; ruote di rame resistono con la loro rigidità, si urtano e sollevano l'una con l'altra e muovono le leve, in grazia della propria impenetrabilità, e così via. Peso, rigidità, impenetrabilità sono qui forze primitive non dimostrate: la meccanica dà soltanto il modo, con cui tali forze si manifestano, entrano in campo, dominano una data materia, un dato tempo e luogo. Intanto, per avventura può una forte calamita agire sul ferro dei pesi, vincere la gravità; allora il moto della macchina s'arresta, e la materia è d'un tratto il campo d'una nuova forza affatto diversa, il magnetismo: ma anche questa volta la spiegazione etiologica non sa dirci altro, se non le condizioni in cui quella si presenta. Oppure, i dischi di rame di quella macchina vengono poggiati su lamine di zinco, introducendovisi frammezzo un liquido acido: immediatamente la materia della macchina cade in potere di un'altra forza primitiva, del galvanismo, che la domina ora secondo le proprie leggi, ed in lei si palesa mediante i propri fenomeni, dei quali egualmente l'etiologia altro non può dire, se non le circostanze in cui si mostrano e le leggi che li governano. Lasciamo ora crescere la temperatura, e prodursi del puro ossigeno: tutta la macchina arde; ossia ancora una diversa forza naturale, il chimismo, ha in questo istante, in questo luogo, l'incontrastata padronanza di quella materia, e in lei si manifesta come idea, come un determinato grado nell'obiettivazione della volontà. Ora, l'ossido metallico in tal guisa formatosi, lo combino con un acido: un sale si forma, si dispone in cristalli; questi sono il fenomeno di un'altra idea, a sua volta affatto imperscrutabile, mentre il comparir della sua manifestazione dipendeva da quelle condizioni che l'etiologia sa indicare. I cristalli si disgregano, si mischiano con altre sostanze, una vegetazione vi spunta: una nuova manifestazione di volontà; – e così la stessa permanente materia si potrebbe seguire all'infinito, e vedere come ora l'una, ora l'altra forza naturale acquisti un diritto su di lei e ineluttabilmente lo ghermisca, per entrare in campo e manifestare la propria essenza. La legge di causalità fa conoscere la determinazione di questo diritto, il punto del tempo e dello spazio in cui esso divien valido; ma la spiegazione fondata su di lei non va più oltre. La forza in se stessa è un fenomeno della volontà, e come tale non sottomessa al principio di ragione, ossia senza fondamento di ragione. Essa sta fuori di tutti i tempi, è onnipresente, e sembra attender costantemente il presentarsi delle circostanze, nelle quali può prodursi ed impadronirsi d'una data materia, respingendo la forza che fino a quel momento vi dominava. Il tempo tutto esiste solo per il suo fenomeno, ma non ha importanza per lei; le forze chimiche sonnecchiano per millenni in una materia, prima d'esser liberate dal contatto dei reagenti. Allora appariscono: ma il tempo esiste solo per questa manifestazione, non per le forze medesime. Per millenni sonnecchia il galvanismo nel rame e nello zinco, e questi giacciono quietamente accanto al ferro; il quale, non appena tutti e tre si toccano nelle condizioni volute, deve andare in fiamme. Perfino nel regno organico vediamo un seme disseccato conservare per tremila anni la forza addormentata, che, presentandosi finalmente le circostanze favorevoli, si sviluppa in pianta41.

Ora, se dopo codesta considerazione ci si è fatta chiara la differenza della forza naturale da tutti i suoi fenomeni; se abbiamo compreso, che quella forza è la volontà stessa in un dato grado della sua obiettivazione, ma che ai soli fenomeni, mediante tempo e spazio, appartiene la pluralità, e la legge di causalità non è altro che la determinazione dei singoli fenomeni in un punto del tempo e dello spazio: conosceremo allora anche la piena verità ed il senso profondo della dottrina di Malebranche intorno alle cause occasionali. Questa dottrina, com'egli la espone nelle Recherches de la vérité, particolarmente nel terzo capitolo della seconda parte del sesto libro e negli éclaircissements aggiunti al medesimo capitolo, vale la pena di confrontarla con la mia presente esposizione, notando il perfettissimo accordo delle due dottrine, malgrado tanta diversità nel procedimento del pensiero. Anzi, mi stupisce che Malebranche, tutto irretito nei dogmi positivi, che l'età sua irresistibilmente gl'imponeva, abbia tuttavia saputo, malgrado quei vincoli, sotto un tal peso, coglier con tanta giustezza il vero ed accordarlo con quei dogmi – o almeno con la lettera di essi.

Gli è che il potere della verità è incredibilmente grande e d'indicibile tenacia. Ne troviamo le tracce frequenti in tutti, anche nei più bizzarri o addirittura più assurdi dogmi di età e paesi diversi: spesso, è vero, in singolare compagnia, in mescolanze stupefacenti – ma tuttavia riconoscibili. La verità rassomiglia a una pianta, che germogli sotto un mucchio di grosse pietre, e tuttavia s'inerpichi verso la luce, affannandosi, con mille rigiri e contorcimenti, deformata, impallidita – ma pur verso la luce.

Malebranche ha senza dubbio ragione: ogni causa naturale è solo causa occasionale, dà solo occasione, spinta, alla manifestazione di quell'una e indivisibile volontà, che è l'in sé di tutte le cose; e la cui graduale obiettivazione costituisce tutto questo mondo visibile. Il solo prodursi, farsi visibile in un dato luogo, in un dato tempo, è provocato dalla causa, e da questa per tal rispetto dipendente; ma non l'insieme del fenomeno, non la sua intima essenza. Questa è la volontà medesima, su cui non ha potere il principio di ragione, ed è quindi senza fondamento di ragione. Nessuna cosa al mondo ha un'assoluta e generica causa della sua esistenza: bensì soltanto una causa per cui essa appare per l'appunto in un dato luogo e in un dato tempo. Che una pietra or mostri peso, ora solidità, ora elettricità, ora proprietà chimiche, dipende da cause, da influenze esterne, e con queste si spiega; ma quelle qualità medesime, ossia la sua essenza, che di tali qualità risulta, e si manifesta per conseguenza in tutti quei modi indicati: e il fatto d'esser la pietra quale è, anzi il fatto d'esistere in genere, non ha ragione alcuna, bensì è la manifestazione della incausata volontà. Ogni causa è quindi causa occasionale. Così abbiamo veduto stare le cose nella natura incosciente: ma non diversamente stanno anche là, dove non più cause e stimoli, ma motivi sono, che determinano il prodursi dei fenomeni: ossia nella condotta degli animali e degli uomini. Imperocché qui come colà è una medesima volontà, che si palesa, diversissima nei gradi della sua manifestazione, moltiplicata nei fenomeni di questa, e per rispetto a questa sottomessa al principio di ragione, ma in sé del tutto libera. I motivi non determinano il carattere dell'uomo, ma soltanto la manifestazione di codesto carattere, ossia gli atti; la configurazione esteriore del suo cammino vitale, non l'intimo significato e contenuto di esso: i quali provengono dal carattere, che è immediato fenomeno della volontà, ossia non fondato su ragione. Che un uomo sia cattivo, un altro buono, non dipende da motivi e da influenza esterna, né da dottrine e prediche; ed è in questo senso assolutamente inesplicabile. Ma se un cattivo mostra la sua cattiveria in meschine ingiustizie, in vili macchinazioni, in basse furfanterie, esercitate nella ristretta cerchia che lo circonda, o se da conquistatore opprime i popoli, e tutto un mondo precipita nella disperazione, e versa il sangue di milioni d'uomini: questa è la forma esteriore, con cui la volontà si manifesta, la sua parte non essenziale, dipendente dalle circostanze in cui il destino ha posto quell'uomo, dall'ambiente, dagl'influssi esteriori, dai motivi. Sempre inesplicabile rimarrà invece il fatto di obbedire a tali motivi: esso risulta dalla volontà, di cui quell'uomo è manifestazione. Di ciò si tratterà nel quarto libro. Il modo onde il carattere dispiega le sue qualità si può esattamente paragonare a quello, onde ogni corpo della natura incosciente mostra le proprie. Con tutte le sue insite qualità, l'acqua rimane acqua, sia che essendo lago tranquillo rifletta le proprie rive, sia che spumeggiando precipiti sulle rocce, o per forza d'artificio sprizzi con alto zampillo verso il cielo. Queste varie disposizioni dipendono dalle circostanze esterne, l'una le è naturale come l'altra; e l'acqua mostra o l'una o l'altra secondo le circostanze, egualmente disposta a tutto, ma in ogni caso fedele al proprio carattere e sempre questo solo carattere manifestando. Non altrimenti si manifesterà in qualsivoglia circostanza ciascun carattere umano: ma saranno diverse le sue manifestazioni, come diverse saranno le circostanze.

§ 27.

Se da tutte le precedenti considerazioni sopra le forze della natura e le lor manifestazioni ci si è reso chiaro fin dove possa giungere la spiegazione fondata sulle cause, e dove bisogna che s'arresti, se non vuol precipitar nell'insensato sforzo di ridurre tutti i fenomeni alla loro semplice forma, sì che alla fine nulla rimanga se non la forma; potremo ora fissare in generale ciò che si può pretendere da ogni etiologia. L'etiologia deve per tutti i fenomeni della natura indagare le cause, ossia le circostanze in cui costantemente i fenomeni si producono: ma poi deve ricondurre i fenomeni, diversamente atteggiati da multiformi circostanze, a ciò che in ogni fenomeno agisce e dalla causa viene presupposto, alle elementari forze della natura; nettamente distinguendo, se una differenza del fenomeno proviene da una differenza della forza, o soltanto da una differenza delle circostanze in cui la forza si manifesta; e guardandosi bene sì dal creder fenomeno di forze diverse ciò, che è manifestazione di una forza unica in circostanze diverse, sì viceversa dal creder manifestazioni di un'unica forza ciò, che in origine appartiene a forze differenti. Ora, a questo occorre immediato giudizio; perciò così pochi uomini sono capaci di allargare le cognizioni nella fisica, mentre tutti sono capaci di allargare l'esperienza. Pigrizia ed ignoranza dispongono a richiamarsi troppo presto alle forze originarie: come si vede, in un'esagerazione che sembra ironia, nelle entità e quiddità degli scolastici. Niente è più lontano dal mio intendimento, che il favorire un ritorno di queste. Non è lecito riferirsi all'obiettivazione della volontà, invece di dare una spiegazione fisica, più che non sia lecito riferirsi alla forza creatrice di Dio. Imperocché la fisica esige cause, e la volontà non è mai causa. Il suo rapporto col fenomeno non è mai conforme al principio di ragione. Ma ciò che è in sé volontà, per un altro verso esiste come rappresentazione, ossia è fenomeno: come tale segue le leggi, che costituiscono la forma del fenomeno: perciò deve ad esempio ogni movimento, sebbene sia ognora fenomeno di volontà, aver tuttavia una causa, in base alla quale esso è da spiegare in relazione ad un determinato tempo e luogo, ossia non in generale nella sua intima essenza, ma come fenomeno singolo. Questa causa è meccanica nella pietra, è un motivo nel movimento dell'uomo: ma mancare non può mai. Invece, l'universale, la comune essenza di tutti i fenomeni d'una data specie, ciò senza la cui premessa non avrebbe senso né significato alcuna spiegazione causale – questo è la general forza naturale, che nella fisica deve rimaner come qualitas occulta, appunto perché qui la spiegazione etiologica s'arresta e la metafisica incomincia. Ma la catena delle cause e degli effetti non viene mai spezzata da una forza primitiva, a cui ci si debba riferire, né risalire a questa come a suo primo anello; bensì tanto il più prossimo quanto il più lontano anello della catena già presuppone la forza originaria, senza la quale non potrebbe nulla spiegare. Una serie di cause ed effetti può esser la manifestazione delle forze più differenti, il cui successivo prodursi nella visibilità è guidato da quella serie, come ho sopra spiegato con l'esempio d'una macchina metallica; ma la varietà di queste forze primitive, non deducibili l'una dall'altra, non interrompe in nessun modo l'unità di quella catena di cause e la connessione fra tutti i suoi anelli. L'etiologia della natura e la filosofia della natura non si pregiudicano vicendevolmente mai, ma procedono parallele, il medesimo oggetto guardando da differenti punti di vista. L'etiologia dà conto delle cause, che hanno prodotto necessariamente il singolo fenomeno da spiegarsi, e mostra a fondamento di ogni sua spiegazione le forze generali attive in tutte codeste cause ed effetti, determina tali cause con precisione, il loro numero, le lor differenze, e quindi tutti gli effetti, in cui ciascuna forza, secondo la diversità delle circostanze, si produce diversamente ma sempre in conformità del suo speciale carattere dispiegato secondo una regola infallibile, che si chiama legge naturale. Quando la fisica ha compiutamente sotto ogni rispetto esaurito questo compito, è giunta alla mèta: poiché nessuna forza nella natura organica rimane ignota e nessuna azione sussiste, che non sia dimostrata fenomeno d'una di quelle forze, sotto certe determinate condizioni. Per conseguenza una legge naturale non è se non la semplice regola, osservata nella natura, secondo cui questa si comporta ogni volta in determinate circostanze, tosto che si mostrino; quindi si può invero definire la legge naturale come un fatto formulato in forma generale, un fait généralisé, sì che una completa esposizione di tutte leggi naturali non sarebbe che un completo registro di fatti. L'esame di tutta la natura viene dunque compiuto mediante la morfologia, la quale enumera, paragona ed ordina tutte le forme costanti della natura organica; sulla causa dell'apparirvi dei diversi esseri ha poco da dire, essendo questa per tutti la generazione (la cui teoria sta a sé) e in rari casi la generatio (equivoca. A quest'ultima, in senso stretto, appartiene anche la maniera, con cui si manifestano nel caso singolo tutti i gradi inferiori dell'obiettità della volontà, ossia i fenomeni fisici e chimici; e l'indicar le condizioni di codesto manifestarsi è appunto compito dell'etiologia. La filosofia invece considera dovunque – e quindi anche nella natura – soltanto l'universale: qui sono suo argomento le forze primitive stesse, ed in queste ella conosce i diversi gradi d'obiettivazione della volontà che è l'intima sostanza, l'in-sè del mondo; il quale mondo è dalla filosofia dichiarato – se prescinde dalla volontà – semplice rappresentazione del soggetto. Ora se l'etiologia, invece di aprire il cammino alla filosofia e fornire le prove applicate delle sue dottrine, tiene per propria mèta il negar tutte le forze primitive meno forse una sola, la più generale, per esempio l'impenetrabilità, immaginandosi di comprenderla a fondo ed a lei riconducendo con violenza tutte le altre; viene con ciò a sottrarre a se stessa la propria base, e può soltanto fornire errore in luogo di verità. Il contenuto della natura viene allora cacciato, per mettere al suo posto la forma; tutto viene attribuito alle circostanze agenti, nulla all'intima essenza delle cose. Se veramente si venisse a questo, il problema del mondo finirebbe con l'esser risolto, come ho detto, a modo d'un problema d'aritmetica. E tal via si percorre, quando, come fu già osservato, ogni azione fisiologica dev'essere ricondotta a forma e combinazione, quindi per avventura ad elettricità; questa poi a chimismo, e questo ancora a meccanismo. Tale fu l'errore per esempio di Cartesio e di tutti gli atomisti, che riducono il movimento dei corpi celesti all'urto di un fluido, e la qualità alla connessione ed alla forma degli atomi; ed in tal caso lavorano a spiegare tutte le manifestazioni della natura come semplici fenomeni di impenetrabilità e coesione. Per quanto ci si sia ricreduti di questo errore, fanno tuttavia lo stesso anche ai nostri giorni i fisiologi elettrici, chimici e meccanici, che ostinatamente vogliono spiegare tutte le funzioni dell'organismo con la «forma e combinazione» dei suoi elementi costitutivi. Che fine della spiegazione fisiologica sia il ridur la vita organica alle forze generali studiate dalla fisica, si trova ancor detto nell'Archivio di fisiologia del Meckel, 1820, vol. 5, p. 185. Anche Lamarck nella sua Philosophte zoologique, vol. 2, cap. 3 definisce la vita quale un semplice effetto del calore e dell'elettricità: «le calorique et la matière électrique suffisent parfaitement pour composer ensemble cette cause essentielle de la vie» (p. 16). Calore ed elettricità sarebbero quindi propriamente la cosa in sé, e fenomeno di questa il mondo animale e vegetale. L'assurdità di quest'opinione salta crudamente fuori a p. 306 della stessa opera. È universalmente noto che ai nostri giorni tutte quelle concezioni così spesso balzate fuori, sono tornate in campo con nuova audacia. A guardar bene, hanno per supremo presupposto, che l'organismo sia solamente un aggregato di fenomeni di forze fisiche, chimiche e meccaniche, le quali riunitesi per caso avrebbero prodotto l'organismo, come un giuoco di natura, senz'altro significato. L'organismo di un animale o dell'uomo non sarebbe quindi, filosoficamente considerato, rappresentazione di una idea a sé, ossia non sarebbe obiettità immediata della volontà, in un dato grado superiore; bensì apparirebbero in esso unicamente quelle idee, che obiettivano la volontà nell'elettricità, nel chimismo, nel meccanismo. E l'organismo sarebbe quindi a caso accozzato dall'incontro di queste forze, come le figure d'uomini e d'animali formate dalle nuvole o dalle stalattiti, né più interessanti di queste. Vedremo subito fino a qual segno le spiegazioni fisiche e chimiche applicate all'organismo entro certi limiti possano esser lecite ed utili, man mano ch'io verrò esponendo, come la forza vitale si valga bensì e faccia uso delle forze della natura inorganica, ma non sia costituita da esse, più che il fabbro non sia costituito dall'incudine e dal martello. Perciò nemmeno la semplicissima vita vegetale può essere spiegata con quelle forze, come per esempio con la capillarità e l'endosmosi, e tanto meno la vita animale. La considerazione che segue ci apre la via a questa difficile trattazione.

È veramente – in virtù di quanto s'è detto – una aberrazione della scienza naturale, il voler ridurre i più alti gradi dell'obiettità della volontà ai più bassi; poiché il misconoscere e negare forze naturali primitive e di per sé esistenti è altrettanto errato, quanto l'ammetter senza fondamento forze speciali, quando si ha semplicemente una special manifestazione di forze già note. Kant dice adunque con ragione essere assurdo lo sperare in un Neuton del filo d'erba, ossia in colui, che saprà ridurre il filo d'erba a fenomeno di forze fisiche e chimiche, delle quali esso sarebbe una concreazione casuale, come un semplice giuoco di natura, in cui non apparisse alcuna idea speciale, ossia nessuna volontà si manifestasse immediatamente in grado elevato e particolare; ma soltanto come nei fenomeni della natura organica, e fissato per caso in quella forma. Gli scolastici, i quali non avrebbero in nessun modo concesso alcunché di simile, avrebbero detto con piena ragione, che questo sarebbe un negar del tutto la forma substantialis, e un abbassarla a forma accidentalis. Imperocché la forma substantialis d'Aristotele designa appunto ciò ch'io chiamo grado dell'obiettivazione della volontà in un oggetto. D'altra parte, non va dimenticato che in tutte le idee, ossia in tutte le sfere della natura inorganica ed in tutti gli aspetti dell'organica, è una volontà unica che si manifesta, ossia passa nella forma della rappresentazione, nell'obiettità. La sua unità deve quindi darsi a conoscere anche a traverso un'intima parentela fra tutte le sue manifestazioni. Ora, questa parentela si palesa nei gradi più alti della sua obiettità, dove tutta la manifestazione è più chiara, ossia nel regno vegetale ed animale, con analogia ovunque diffusa di tutte le forme, col tipo fondamentale, che si ritrova in tutti i fenomeni: questo è perciò diventato il principio direttivo dell'eccellente sistema zoologico iniziato in questo secolo dai francesi, e vien dimostrato nel modo più perfetto nell'anatomia comparata, come l'unite du pian, l'uniformité de l'élément anatomique. L'andarne in cerca è stata anche la principale impresa o almeno il più lodevole sforzo dei filosofi naturali della scuola di Schelling, che hanno vari meriti in questo proposito, pur se in molti casi la loro caccia alle analogie nella natura degeneri in pura sottigliezza forzata. Con ragione hanno mostrata quella general parentela ed aria di famiglia anche nelle idee della natura inorganica, per esempio fra elettricità e magnetismo (la cui identità fu più tardi constatata), fra attrazione chimica e peso, e così via. In particolar modo hanno richiamata l'attenzione sul fatto che la polarità, ossia lo sdoppiarsi di una forza in due attività qualitativamente diverse, opposte, e tendenti a ricongiungersi (il che si rivela il più delle volte anche nello spazio mediante una scissione verso direzioni opposte) è tipo fondamentale di quasi tutti i fenomeni della natura, dal magnete e dal cristallo fino all'uomo. Questa conoscenza è dai più remoti tempi corrente in Cina, nella dottrina del contrasto del Yin e del Yang. Anzi, appunto perché tutte le cose del mondo sono obiettità di un'unica identica volontà, identiche quindi nell'intima essenza, non solo deve trovarsi fra loro quell'innegabile analogia, e deve in ogni fenomeno meno perfetto apparir la traccia, l'accenno, la preparazione del più prossimo fenomeno d'ordine superiore; ma ancora, poiché tutte quelle forme insomma non appartengono al mondo se non come rappresentazioni, si può perfino ammettere, che già nelle più generali forme della rappresentazione, in questa vera e propria armatura di sostegno del mondo visibile, ossia nello spazio e nel tempo, sia da cercare e mostrare il tipo fondamentale, l'accenno, la preparazione di tutto ciò che quelle forme riempie. Sembra che un oscuro presentimento di questa verità abbia dato origine alla Cabbala ed a tutta la filosofia matematica dei Pitagorici, nonché dei cinesi nel Y-king: ed anche nella ricordata scuola di Schelling troviamo, fra gli svariati sforzi per mettere in luce l'analogia di tutti i fenomeni della natura, anche qualche tentativo, sia pure infelice, di derivar leggi di natura dalle semplici leggi dello spazio e del tempo. Intanto non si può sapere fino a che punto un intelletto geniale potrà un giorno attuare queste tendenze.

Ora, sebbene non si debba mai perder di vista la differenza tra fenomeno e cosa in sé, né quindi possa mai l'identità della volontà obiettivata in tutte le idee esser volta falsamente a identità delle singole idee in cui si manifesta (perché ha gradi determinati della propria obiettità), sì che per esempio l'attrazione chimica o elettrica non possa esser ricondotta all'attrazione della gravità – quand'anche se ne riconosca l'intima analogia, e le prime possano quasi esser considerate come più alte potenze di quest'ultima – più di quanto l'intima analogia della struttura animale consenta di confondere e identificare le specie, considerando le più perfette come varietà delle meno perfette; se dunque infine anche le funzioni fisiologiche non son mai da ricondurre a processi chimici o fisici, è lecito nondimeno, a giustificazione di codesto metodo entro dati limiti, ammettere con molta verisimiglianza quanto segue.

Se fra i fenomeni della volontà, nei gradi più bassi della sua obiettivazione, ossia nel regno inorganico, vengono a conflitto fra loro alcuni di quei fenomeni, volendo ciascuno impadronirsi d'una data materia secondo la legge di causalità, balza fuor d'una tal contesa la manifestazione di un'idea più elevata, la quale domina tutte le meno perfette idee precedenti; ma tuttavia sì da lasciarne sussistere l'essenza in maniera subordinata, accogliendone in sé un riflesso analogo; il qual procedimento è comprensibile solo in ragione dell'identità della volontà manifestantesi in tutte le idee, e della tendenza, che ha la volontà, verso un'obiettivazione sempre più alta. Vediamo per esempio nell'indurirsi delle ossa un'innegabile analogia con la cristallizzazione, quale dominava fin dall'origine della calce – sebbene l'ossificazione non possa esser ricondotta alla cristallizzazione. Più debole appare l'analogia nel solidificarsi della carne. Così la miscela dei succhi nel corpo animale e la secrezione sono analoghi alla combinazione e separazione chimica; anzi le leggi di queste vigono ancora in quelle, sebbene subordinate, assai modificate, signoreggiate da un'idea più alta, per modo che semplici forze chimiche, fuori dell'organismo, non produrrebbero mai quei succhi; ma

Encheiresin naturae nennt es die Chemie,
Spottet ihrer selbst und weiss nicht vie42.

L'idea od oggettivazione della volontà di grado superiore, balzata da questa vittoria su più idee di grado inferiore, acquista – appunto perché accoglie in sé da quelle idee vinte alcunché d'analogo elevato a più alta potenza – un carattere del tutto nuovo: la volontà si obiettiva in un nuovo modo più netto: sorge, dapprima per generatio aequivoca, poi per assimilazione a un dato germe, il succo organico, la pianta, l'animale, l'uomo. Adunque dalla contesa di fenomeni inferiori proviene il fenomeno più elevato, che tutti li divora, ma nondimeno attua in sé in grado più alto la tendenza di tutti. Domina quindi già qui la legge: serpens, nisi serpentem comederit, non fit draco.

Vorrei che mi fosse riuscito di vincer con la chiarezza dell'esposizione l'oscurità di questi pensieri, inerente all'argomento: ma vedo benissimo, che deve venirmi largamente in aiuto la meditazione personale del lettore, se non voglio rimanere incompreso o mal compreso. In conformità del punto di vista accennato, si potranno bensì mostrar nell'organismo le tracce di azioni chimiche e fisiche, ma non mai spiegare quello con queste; non essendo esso punto un fenomeno prodotto dall'azione combinata di tali forze, ossia venuto su per caso, ma un'idea più alta, la quale ha sottomesso a sé le idee inferiori mediante una vittoriosa assimilazione. Poiché l'unica volontà, obiettivantesi in tutte le idee, nel mentre tende ad un'obiettivazione la più alta possibile, depone qui i gradi più bassi del proprio fenomeno, dopo un loro conflitto, per apparir di tanto più forte in un grado più elevato. Nessuna vittoria senza lotta: l'idea superiore, o superiore obiettivazione della volontà, pur, potendo venire soltanto dalla sconfitta delle inferiori, deve subir la resistenza di queste; le quali, sebbene ridotte a servitù, tendono ancora sempre a pervenire alla libera e compiuta manifestazione della loro essenza. Come la calamita, che ha sollevato un pezzo di ferro, sostiene una lotta continuata contro la gravità – la quale, essendo la più bassa obiettivazione della volontà, ha un diritto originario sulla materia di quel ferro –; ed in questa permanente battaglia la calamita si rafforza, quasi eccitata dalla resistenza ad uno sforzo maggiore: così ogni fenomeno di volontà – anche quello che si presenta nell'organismo umano – sostiene una diuturna lotta contro le molte forze fisiche e chimiche, le quali, essendo idee inferiori, hanno un precedente diritto su quella materia. Cade perciò il braccio, che per un po' s'è tenuto sollevato facendo violenza alla gravità; e quindi il piacevole senso di salute, esprimente la vittoria che l'idea dell'organismo conscio di sé riporta sulle leggi fisiche e chimiche, le quali in origine dominavano gli umori vitali, è così spesso interrotto, anzi a dir vero sempre accompagnato da un certo maggiore o minore malessere, che nasce dalla resistenza di quelle forze. Così anche la parte vegetativa della nostra vita è legata perennemente ad una leggera sofferenza. Anche la digestione deprime tutte le funzioni animali, assorbendo tutta la forza vitale per domare con l'assimilazione le forze naturali chimiche. Da ciò proviene in genere il peso della vita fisica, la necessità del sonno e poi della morte, quando finalmente, col favore delle circostanze, quelle forze naturali soggiogate riprendono all'organismo, stanco per la stessa sua continuata vittoria, la materia già loro strappata, e pervengono alla libera esplicazione della loro essenza. Si può pertanto dire che ogni organismo rappresenti l'idea di cui è immagine, solo facendo la tara delle parti di sua forza, impiegate a vincere le idee inferiori che gli contendono la materia. Questo sembra esser balenato a Jacob Bohm, quand'egli dice essere in verità mezzo morti tutti i corpi degli uomini e degli animali, ed anche tutte le piante. Secondo che all'organismo riesca più o meno di vincer quelle forze naturali, esprimenti i gradi inferiori dell'obiettità della volontà, esso diventa espressione più o meno perfetta della propria idea, ossia sta più vicino o più lontano dall'ideale, che nella specie di codesto organismo rappresenta la bellezza.

Così vediamo dappertutto nella natura contesa, battaglia, e alternanze di vittorie; ed in ciò appunto conosceremo più chiaramente d'ora innanzi l'essenziale dissidio della volontà da se medesima. Ogni grado nell'obiettivazione della materia contende all'altro la materia, lo spazio, il tempo. Senza tregua deve la permanente materia mutar di forma, mentre, seguendo il filo conduttore della causalità, fenomeni meccanici, fisici, chimici, organici, facendo avidamente ressa per venire alla luce, si strappano l'un l'altro la materia stessa – poiché ciascuno vuol rendere manifesta la propria idea. Nella natura intera si continua questa lotta; anzi, solo per essa la natura sussiste: ει γαρ μη ην το νεικος εν τοις πραγμασιν, ἑν αν ην ἁπαντα, ὡς φησιν Εμπεδοκλης. (nam si non inesset in rebus contentio, unum omnia essent, ut ait Empedocles. Arist., Metaph., B, 5): essendo appunto questa lotta la rivelazione del dissidio essenziale tra la volontà e se stessa. Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; ed in cui inoltre ogni animale diventa preda e nutrimento d'un altro; ossia deve cedere la materia, in cui si rappresentava la sua idea, per la rappresentazione d'una idea diversa, potendo ogni animale conservar la propria esistenza solo col sopprimerne costantemente un'altra. In tal modo la volontà di vivere divora perennemente se stessa, ed in diversi aspetti si nutre di sé, finché da ultimo la specie umana, avendo trionfato di tutte le altre, ritiene la natura creata per proprio uso. E nondimeno questa stessa specie umana, come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa homo homini lupus. Intanto riconosceremo la stessa lotta, la stessa violenza egualmente nei gradi inferiori dell'obiettità della volontà. Molti insetti (particolarmente gl'icneumonidi) depongono le loro uova sulla pelle o addirittura nel corpo delle larve d'altri insetti, la cui lenta distruzione è il primo compito del vermiciattolo uscito dall'uovo. Il giovine polipo tentacolato, che si sviluppa come un ramo dal vecchio e poi se ne separa, contende già con esso, quando ancora vi aderisce, l'offertasi preda, sì che l'uno deve strapparla di bocca all'altro (Trembley, Polypod., II, p. 110 e III, p. 165). Ma il più singolare esempio del genere ci è dato dalla formica (bulldog ant) in Australia: quando la si taglia, comincia una lotta fra la parte del corpo e quella della coda; quella ghermisce questa col morso, questa si difende validamente col pungere quella. La battaglia dura di solito una mezz'ora, finché le due parti muoiono, o vengono trascinate via da altre formiche. Il fatto si ripete ogni volta. (Da una lettera di Howitt, nel «W. Journal», riportata nel «Messenger» di Galignani del 17 novembre 1855). Sulle rive del Missouri si vede talvolta una poderosa quercia avvolta, legata e stretta nel tronco e nei rami da una gigantesca vite selvatica, sì che deve inaridirsi come soffocata. Lo stesso si osserva perfino negl'infimi gradi, per esempio dove per assimilazione organica acqua e carbone si trasformano in succo vegetale, oppure vegetali e pane si trasformano in sangue, e così dovunque si abbia una secrezione animale con limitazione delle forze fisiche ad un subordinato modo d'attività. Similmente anche nella natura inorganica, là dove per esempio i cristalli nel formarsi s'incontrano, s'incrociano e si ostacolano a vicenda, sì che non possono pervenire alla pura loro forma (quasi tutte le druse sono immagine d'una tal battaglia della volontà in quel grado sì basso della sua oggettivazione); oppure quando una calamita impone al ferro la sua forza magnetica per rappresentare anche là la propria idea; o quando il galvanismo fa violenza alle affinità elettive, le più salde combinazioni dissolve, e le leggi chimiche annulla, sì che l'acido d'un sale, disgregatosi al polo negativo, deve passare al positivo senza combinarsi con gli alcali che attraversa per via, né poter fare arrossire il girasole con cui s'incontra. Ciò appare in grande nel rapporto tra corpo celeste centrale e pianeta: questo, sebbene in aperta dipendenza, resiste pur sempre, come le forze chimiche nell'organismo: dal che proviene la permanente tensione tra forza centripeta e forza centrifuga, la quale tiene in moto l'universo, ed è già di per se stessa un'espressione di quell'universal battaglia essenziale al fenomeno della volontà, della quale discorrevamo. Invero, poiché ciascun corpo dev'essere considerato come fenomeno d'una volontà, e volontà si presenta necessariamente come lotta, non può essere il riposo lo stato originario d'ogni corpo celeste conglobato in una sfera; bensì il movimento, la spinta a proceder oltre nello spazio infinito, senza posa e senza mèta. Né a ciò si oppone la legge d'inerzia o quella di causalità. Infatti, poiché secondo quella la materia come tale è indifferente rispetto al riposo ed al moto, può il moto come il riposo essere il suo stato originario; quindi, se la troviamo in moto, non ci è lecito presupporre un anteriore stato di riposo, né viceversa, se la troviamo in riposo, presupporre un movimento anteriore a quel riposo, e chieder perché quello sia cessato. Non bisogna perciò cercare nessun primo impulso alla forza centrifuga: questa è nei pianeti – secondo l'ipotesi di Kant e di Laplace – residuo dell'ordinaria rotazione del corpo centrale, da cui si sono quelli distaccati nel suo concentrarsi. Ma il corpo celeste centrale è mobile per essenza: esso ruota pur sempre ed insieme trasvola nello spazio infinito, o meglio gira intorno ad un altro maggior corpo centrale a noi invisibile. Questa concezione s'accorda pienamente con la congettura che gli astronomi fanno d'un sole centrale, come anche con l'avvertito spostarsi di tutto il nostro sistema solare, e forse dell'intero gruppo stellare cui il nostro sole appartiene; dal che si può da ultimo dedurre un generale spostamento di tutte le stelle fisse, insieme col sole centrale. Tale spostamento perde, a dir vero, ogni significato nello spazio infinito (perché nello spazio assoluto non si distingue moto da riposo); e così appunto diventa – com'era già direttamente per il suo agitarsi e correre senza mèta – l'espressione di quel nulla, di quella mancanza d'un fine ultimo, che noi dovremo riconoscere alla volontà, in tutte le sue manifestazioni, nel concludere quest'opera. Dovevano quindi essere appunto spazio infinito e tempo infinito le più generali ed essenziali forme del complessivo manifestarsi della volontà, come quelle che ne esprimono l'essenza intera. La lotta, da noi presa a considerare, di tutti i fenomeni fra loro, si può riconoscer perfino nella semplice materia in quanto tale, nei limiti in cui la sua essenza fu giustamente formulata da Kant come forza di repulsione e di attrazione; sì che anch'essa ha esistenza soltanto in una lotta di forze contrastanti. Se facciamo astrazione da ogni varietà chimica della materia, o risaliamo tanto lungi la catena delle cause e degli effetti da non trovar più alcuna differenza chimica, ci rimane la pura materia, il mondo conglobato in una sfera; la cui vita, ossia obiettivazione della volontà, è costituita da quella battaglia tra forza d'attrazione e di repulsione: la prima come gravità, da tutte le parti spingendo verso il centro, l'altra resistendo alla prima come impenetrabilità, sia mediante solidità sia mediante elasticità. Codesto perenne premere e resistere può esser considerato come l'obiettità della volontà nel suo infimo grado, e pur già esprimere il carattere di questa.

Così vediamo dunque qui, nell'infimo grado, la volontà presentarsi come un cieco impulso, un'oscura, sorda agitazione, lungi da ogni immediata percettibilità. È il più semplice e più debole modo della sua obiettivazione. Ed ancor come cieco impulso ed inconscia aspirazione appare in tutta la natura inorganica, in tutte le forze elementari, che fisica e chimica s'occupano a conoscere, fissandone le regole, e ciascuna delle quali si presenta in milioni di fenomeni affatto simili e regolari, che non rivelano alcuna traccia di carattere individuale, ma sono semplicemente moltiplicati per mezzo del tempo e dello spazio, ossia del principium individuationis, come un'immagine viene moltiplicata dalle faccette d'un cristallo.

Sempre più chiaramente obiettivandosi di grado in grado, la volontà agisce tuttavia ancor del tutto incosciente, come oscura forza impulsiva, nel regno vegetale, dove non più vere e proprie cause, ma stimoli sono il legame dei suoi fenomeni, e così anche, finalmente, nella parte vegetativa del fenomeno animale, nella produzione e nello sviluppo d'ogni animale e nella conservazione della sua interna economia, dove il fenomeno di esso viene necessariamente determinato da semplici eccitazioni. I gradi di mano in mano più alti dell'obiettità della volontà conducono da ultimo al punto, in cui l'individuo che rappresenta l'idea non può più ricevere in seguito a semplici movimenti provocati da stimoli il nutrimento che deve assimilarsi: perché lo stimolo bisogna attenderlo, mentre qui il nutrimento è determinato in modo speciale, e nella varietà sempre crescente dei fenomeni si è fatta così grande la ressa e la confusione, che quelli s'intralciano a vicenda; ed il caso, da cui deve attendersi il proprio nutrimento l'individuo mosso da semplici stimoli, sarebbe troppo sfavorevole. Il nutrimento deve quindi esser cercato, scelto, a partire dall'istante in cui l'animale s'è disciolto dall'uovo o dal corpo materno, in cui vegetava inconsciamente. Perciò diventa qui necessario il movimento regolato da motivi, e per esso la conoscenza; la quale adunque interviene come un aiuto – μηχανή – fattosi necessario a questo grado di obiettivazione della volontà, per la conservazione dell'individuo e la propagazione della specie. Ella entra in iscena, rappresentata dal cervello o da un grosso ganglio, appunto come ogni altra aspirazione o determinazione dell'obiettivantesi volontà è rappresentata da un'organo; ossia si offre alla rappresentazione come un organo43. Ma con questo aiuto, con questa (μηχανή), ecco balzar fuori, d'un tratto, il mondo come rappresentazione, con tutte le sue forme, oggetto e soggetto, tempo, spazio, pluralità e causalità. Il mondo mostra ora il Suo secondo aspetto. Era finora semplice volontà: adesso è, insieme, rappresentazione, oggetto del soggetto conoscente. La volontà, che finora seguiva il suo impulso nelle tenebre, sicuramente ed infallibilmente, ha in questo grado acceso a se stessa una fiaccola, come un mezzo resosi necessario per impedire lo svantaggio, che sarebbe venuto crescendo dalla ressa e dalla complicata natura dei suoi fenomeni, e soprattutto dei più perfetti. La sicurezza e regolarità fino allora infallibile, con cui la volontà operava nella natura inorganica e puramente vegetativa, derivava dal suo operar nella propria essenza primitiva, come cieco impulso, volontà; senz'aiuto, ma anche senza l'intralcio di un altro mondo del tutto diverso, del mondo come rappresentazione; il quale è bensì soltanto l'immagine dell'essenza di quella, ma pur tuttavia è di ben altra natura, e viene ora a introdursi nella connessione dei suoi fenomeni. Cessa ora perciò la sua infallibile sicurezza. Gli animali sono già esposti all'illusione, all'errore. Ed essi frattanto non hanno se non rappresentazioni intuitive: nessun concetto, nessuna riflessione. Sono legati al presente, non possono tener conto del futuro. Sembra che questa conoscenza irrazionale non sia stata in tutti i casi sufficiente al proprio scopo, ed abbia talvolta provato quasi il bisogno di un soccorso. Imperocché ci si offre il notevolissimo fatto, che la cieca attività della volontà e l'attività illuminata della conoscenza, in due classi di fenomeni, invadono l'una il dominio dell'altra. Da un lato troviamo nell'attività degli animali, guidata dalla conoscenza intuitiva e dai suoi motivi, un'attività compientesi senza di quella, e cioè compiuta con necessità della ciecamente operante volontà: la troviamo in quegli istinti meccanici che, pur non essendo guidati da alcun motivo né da conoscenza, hanno l'apparenza di compier le loro operazioni in virtù di motivi astratti, razionali. Il caso opposto è quando, viceversa, il lume della conoscenza penetra nell'officina della ciecamente operante volontà ed illumina le funzioni vegetative dell'organismo umano: nella chiaroveggenza magnetica. Finalmente, là dove la volontà è giunta al sommo grado della sua obiettivazione, non basta più agli animali la conoscenza razionale, cui offrono i sensi i loro dati, generando semplici rappresentazioni vincolate al presente: l'essere complicato, multilaterale, plasmabile, pieno di bisogni ed esposto ad innumerevoli danni, doveva, per poter resistere, essere illuminato da una doppia conoscenza, e quasi una potenza più elevata della conoscenza intuitiva doveva aggiungersi a quest'ultima, come un suo riverberamento: dico la ragione, come patrimonio di concetti astratti. Con la ragione incomincia la riflessione, che abbraccia il futuro ed il passato; ed in seguito vengono la meditazione, la preoccupazione, la capacità d'una condotta premeditata, indipendente dal presente; e infine una coscienza in tutto chiara delle proprie decisioni volontarie, in quanto tali. Ora, se già con la semplice conoscenza intuitiva s'era avuta la possibilità dell'illusione e dell'errore – dal che era distrutta l'anteriore infallibilità nell'inconsapevole agire della volontà; sì che istinto ed abito meccanico, quali manifestazioni incoscienti della volontà in mezzo alle manifestazioni guidate dalla conoscenza, dovettero alla volontà stessa venire in aiuto – con l'apparire della ragione va quasi del tutto perduta quella sicurezza e infallibilità con cui la volontà veniva a manifestarsi (la quale sicurezza all'estremo opposto, nella natura inorganica, apparisce addirittura come regola assoluta). L'istinto si ritrae completamente; la riflessione, che ora deve sostituire tutto il resto, genera (com'è spiegato nel primo libro) esitazione ed incertezza; diventa possibile l'errore, il quale in molti casi impedisce l'adeguata obiettivazione della volontà in atti. Perché, sebbene la volontà abbia già preso nel carattere la sua determinata ed immutabile direzione, in rispondenza con la quale il volere medesimo opera infallibilmente dietro la spinta dei motivi, può tuttavia l'errore falsarne le manifestazioni, allorché motivi illusori somiglianti ai reali s'introducono e prendono il luogo di questi44: così, per esempio, quando la superstizione insinua motivi immaginari, dai quali l'uomo è spinto a tenere una condotta proprio opposta a quella che altrimenti la sua volontà seguirebbe in quelle circostanze. Agamennone uccide sua figlia; un avaro largisce elemosine, per puro egoismo, nella speranza di un centuplicato compenso futuro, e così via.

Adunque la conoscenza in genere, sia razionale o sia puramente intuitiva, nasce originariamente dalla volontà, appartiene all'essenza dei più alti gradi della sua obiettivazione, come una semplice (μηχανή), un mezzo per la conservazione dell'individuo e della specie, a modo d'ogni altro organo del corpo. In origine destinata quindi al servizio della volontà, pel raggiungimento dei suoi fini, rimane a questa pressocché costantemente schiava: così in tutti gli animali ed in quasi tutti gli uomini. Vedremo tuttavia nel terzo libro, come in alcuni uomini la conoscenza si sottragga a questa servitù, ne spezzi il giogo, e, libera da tutti i fini della volontà, stia a sé come un semplice, chiaro specchio del mondo. Così nasce l'arte. E vedremo finalmente nel quarto libro, come per mezzo di questa maniera di conoscenza, quand'ella agisce di riflesso sulla volontà, possa aversi la soppressione della volontà stessa; ossia la rassegnazione, che è lo scopo supremo, o anzi la più intima essenza d'ogni virtù e santità, ed è la redenzione del mondo.

§ 28.

Abbiamo considerato la grande molteplicità e varietà dei fenomeni, nei quali viene ad obiettivarsi la volontà; anzi, abbiamo veduta l'irreconciliabile lotta senza fine che fra loro si combatte. Ma la volontà stessa, come cosa in sé – secondo appare da tutta la nostra esposizione – non è punto compresa in quella molteplicità ed in quella varietà. La diversità delle idee (platoniche), ossia i gradi dell'oggettivazione, la folla degli individui, in cui ciascuno di questi si presenta, la battaglia delle forme per la materia: tutto ciò non riguarda la volontà, ma solo il modo della sua obiettivazione; e solo mediante questa ultima ha con la volontà una relazione mediata, in grazia della quale diventa espressione della sua essenza per la rappresentazione. Come una lanterna magica fa apparire molte e diverse immagini, ma una sola è la fiamma, che quelle immagini rende visibili, così in tutti i molteplici fenomeni, che o l'uno accanto all'altro riempiono il mondo, o l'un dopo l'altro s'incalzano in forma d'avvenimenti, è nondimeno la volontà unica, che si disvela; il tutto non è se non visibilità e oggettità di lei, ed ella immota rimane in ogni mutamento, ella sola è la cosa in sé: mentre ogni oggetto è apparizione, o fenomeno, per parlare nel linguaggio di Kant. Per quanto la volontà, come idea (platonica), abbia la sua più chiara e perfetta obiettivazione nell'uomo, non potrebbe tuttavia questa da sola esprimere l'essenza di esso. L'idea dell'uomo doveva, per apparir nel significato che le si conviene, non presentarsi sola ed isolata, bensì essere accompagnata da tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le forme animali ed il regno vegetale, fino al regno inorganico. In tutti questi gradi si ha la compiuta obiettivazione della volontà: essi vengono presupposti dall'idea dell'uomo, come i fiori dell'albero presuppongono foglie, rami, tronco e radici. Essi formano una piramide, della quale è vertice l'uomo. Se si amano i paragoni, si può anche dire: la loro manifestazione accompagna quella dell'uomo con la stessa necessità, con cui la piena luce è accompagnata da tutte le gradazioni della penombra, attraverso le quali va a perdersi nell'oscurità. O anche si possono definire l'eco dell'uomo, e dire: animali e piante sono la quinta e terza minore dell'uomo, il regno inorganico è l'ottava inferiore. Ma l'intera verità di quest'ultimo paragone ci sarà evidente sol quando nel libro seguente cercheremo di approfondire l'alta significazione della musica. Vedremo come la melodia, procedente ben connessa di alti, agili toni, sia in un certo senso da considerare quale un'immagine della vita e dell'agitazione umana, che procede col nesso della riflessione; mentre invece il grave e lento basso, dal quale si ha l'armonia necessaria alla compiutezza della musica, dà immagine della rimanente natura animale o inconsapevole. Ma di ciò a suo tempo, quando non avrà più un aspetto così paradossale. Quella interna necessità della serie dei fenomeni, inseparabile dall'adeguata obiettità della volontà, la troviamo anche espressa nell'insieme dei fenomeni stessi, mediante una necessità esterna: in virtù della quale l'uomo per la propria conservazione ha bisogno degli animali, questi di grado in grado l'uno dell'all'altro, e finalmente delle piante; che, alla lor volta, hanno bisogno del suolo, dell'acqua, degli elementi chimici e delle loro combinazioni, del pianeta, del sole, della rotazione e della rivoluzione intorno a quello, dell'inclinazione dell'eclittica e così via. In fondo, questo stato di cose proviene dal fatto che la volontà deve divorare se stessa, perché nulla esiste fuori di lei, ed ella è una volontà affamata. Di qui la caccia, l'ansia e la sofferenza.

Come il conoscer che la volontà è una, in quanto cosa in sé, nell'infinita varietà e molteplicità dei fenomeni, può da solo dirci il vero perché di quella stupefacente, innegabile analogia di tutte le produzioni della natura, di quell'aria di famiglia, che ci ricorda le variazioni d'uno stesso tema non formulato: così in certo modo mediante la chiara e profonda conoscenza di quell'armonia, di quell'intimo nesso, che lega tutte le parti del mondo, di quella necessaria loro gradazione, che or ora abbiamo esaminata, ci si rivelerà in modo sincero e sufficiente l'intima essenza dell'innegabile finalità di tutti i prodotti organici della natura; la quale finalità noi addirittura presupponiamo a priori nell'esame e nel giudizio di quei prodotti.

Codesta finalità è duplice. Da un lato è interna, ossia è una così ordinata armonia di tutte le parti d'un singolo organismo, che la conservazione di questo e della sua specie ne deriva, presentandosi quindi come scopo di quell'armonia medesima. Dall'altro lato è esterna: ossia è una relazione della natura inorganica con l'organica in genere, o anche di singole parti della natura organica fra loro; relazione che rende possibile la conservazione di tutta quanta la natura organica, o anche di singole specie animali, e quindi appare al nostro giudizio come un mezzo per la conservazione stessa.

La finalità interna si connette col nostro ragionamento nel modo che segue. Se, conformemente a quanto abbiam detto finora, tutti i differenti aspetti della natura e tutta la pluralità degli individui non appartengono alla volontà, ma alla sua obiettità ed alle forme di questa, ne segue necessariamente, che la volontà è indivisibile, e tutta intera presente in ogni fenomeno; sebbene siano molto diversi i gradi della sua obiettivazione, ossia le idee (platoniche). Per maggior chiarezza, possiamo considerare queste diverse idee come singoli, ed in sé semplici atti di volontà, nei quali più o meno si manifesta l'essenza della volontà medesima: ma gli individui sono alla lor volta manifestazioni delle idee, cioè di quegli atti, nel tempo, nello spazio e nella pluralità. Ora un tale atto (o idea) nei gradi inferiori dell'obiettità conserva la sua unità, anche diventando fenomeno; mentre nei gradi superiori per manifestarsi ha bisogno di tutta una serie di stati e di sviluppi nel tempo, i quali soltanto se presi nel loro insieme compiono l'espressione della sua essenza. Così, per esempio, l'idea che si palesa in qualsivoglia forza generale di natura ha sempre una sola e semplice manifestazione, sebbene questa si presenti variamente a seconda delle relazioni esteriori: altrimenti non si potrebbe dimostrar la sua identità, ciò che appunto si fa rimuovendo la varietà prodotta unicamente dalle relazioni esterne. Così il cristallo ha una sola manifestazione vitale: il cristallizzarsi; e questo ha poi nella forma irrigidita, nel cadavere di quella vita momentanea, la sua compiuta ed esauriente espressione. Ma già la pianta esprime l'idea, di cui è fenomeno, non più in un sol tratto e mediante una manifestazione semplice, bensì in una successione di sviluppi dei propri organi, nel tempo. L'animale non soltanto sviluppa nello stesso modo, in una successione di forme spesso differenti (metamorfosi), il suo organismo; bensì questa forma medesima, sebbene già sia obbiettità della volontà in un dato grado, non basta tuttavia alla compiuta manifestazione della sua idea. L'idea viene invece integrata mediante le azioni dell'animale, nelle quali viene ad esprimersi il suo carattere empirico, che è il medesimo in tutta la specie, e compie la manifestazione dell'idea; nel qual compimento questa presuppone un determinato organismo, come condizione fondamentale. Presso l'uomo, il carattere empirico ha già in ogni individuo una speciale natura (anzi, come vedremo nel quarto libro, questo arriva fino a sostituir del tutto il carattere della specie, sopprimendo spontaneamente la volontà intera). Ciò che dal suo necessario sviluppo nel tempo e dal conseguente frangersi in singole azioni vien conosciuto come carattere empirico, è – fatta astrazione da questa forma temporale del fenomeno – il carattere intelligibile (secondo l'espressione di Kant, il quale nel dimostrare questo divario e nell'esporre il rapporto tra libertà e necessità, ossia propriamente tra la volontà come cosa in sé e il suo fenomeno nel tempo, da a conoscere in modo particolarmente felice il proprio merito immortale)45. Il carattere intelligibile coincide quindi con l'idea, o più precisamente con l'originario atto di volontà, che in lei si manifesta: sotto questo rispetto, adunque, non solo il carattere empirico dell'uomo, ma anche quello d'ogni specie animale, anzi d'ogni specie vegetale e perfino d'ogni forza originaria della natura inorganica, è da considerar come fenomeno d'un carattere intelligibile, ossia d'un atto di volontà indivisibile, che sta fuori del tempo. Vorrei qui di sfuggita richiamar l'attenzione sull'ingenuità, con cui ciascuna pianta esprime e rivela intero tutto il proprio carattere mediante la semplice forma, e tutto il proprio essere e volere fa manifesto; la qual cosa rende tanto interessanti le fisonomie delle piante. L'animale invece, per esser conosciuto nella sua idea, ha già bisogno d'essere osservato in tutte le sue azioni, e l'uomo, infine, va studiato bene addentro e sperimentato: imperocché la ragione lo fa in alto grado capace di fingere. L'animale è tanto più ingenuo dell'uomo, quanto la pianta è più ingenua dell'animale. Nell'animale vediamo la volontà di vivere come se fosse più nuda che nell'uomo, dov'è rivestita di tanta conoscenza, e per di più avvolta nella capacità della finzione; sì che la sua vera essenza non si palesa se non per caso e frammentariamente. Affatto nuda, ma anche più debole si mostra la volontà di vivere nella pianta, come semplice, cieca tendenza ad esistere, senza scopo e senza mèta. Infatti la pianta disvela tutta la sua essenza al primo sguardo e con perfetta innocenza; né si perita di estendere al proprio vertice gli organi della generazione, che in tutti gli altri animali si trovano invece nel luogo più nascosto. Questa innocenza della pianta è fondata sulla sua incoscienza: non nel volere, bensì nel volere cosciente risiede la colpa. Ogni pianta ci narra, a tutta prima, della propria patria, del clima di questa, della natura del suolo da cui è uscita. Perciò anche l'inesperto conosce facilmente se una pianta esotica appartenga alla zona tropicale, o temperata, e se ella cresca nell'acqua, nella palude, sui monti, o nella landa. Inoltre, ogni pianta esprime ancora la volontà speciale della sua specie, e dice qualcosa, che non si può esprimere in nessuna altra lingua. Ma passiamo ora ad applicar ciò che s'è detto alla considerazione ideologica degli organismi, in quanto questa tocca la loro finalità interiore. Se nella natura inorganica l'idea – la quale va considerata ovunque come un unico atto di volontà – si manifesta anche in un'unica e sempre eguale espressione, e si può quindi dire, che in ciò il carattere empirico partecipa direttamente dell'unità del carattere intelligibile, e quasi coincide con esso, sì che non può qui mostrarsi alcuna finalità interna; se invece tutti gli organismi estrinsecano la loro idea mediante una successione di sviluppi, condizionata da una molteplicità di parti differenti l'una accanto all'altra, ossia la somma delle manifestazioni del loro carattere empirico non è espressione del carattere intelligibile se non nel complesso: questo necessario giustapporsi delle parti o succedersi dello sviluppo non sopprime punto l'unità dell'idea manifestantesi, dell'esprimentesi atto di volontà. Piuttosto, codesta unità trova ora la sua espressione nella necessaria relazione e concatenazione di quelle parti e di quegli sviluppi fra loro, secondo la legge di causalità. Essendo l'unica e indivisibile volontà, ed appunto perciò sempre concorde con se stessa, quella che si manifesta in tutta quanta l'idea come in un atto, deve il suo fenomeno, pure dividendosi in una varietà di parti e di stati, continuar tuttavia a mostrare la propria unità in una costante armonia di quelle parti e di quegli stati: e ciò accade mediante una necessaria relazione e dipendenza rispettiva, sì che anche nel fenomeno viene ricostituita l'unità dell'idea. Per conseguenza, noi conosciamo le diverse parti e funzioni dell'organismo, reciprocamente, come mezzo e scopo le une delle altre, e l'organismo stesso come il supremo scopo di tutte. Quindi tanto il suddividersi della idea – in sé semplice – nella pluralità delle parti e degli stati dell'organismo, da un lato, quanto dall'altro la ricostituzione della sua unità mediante il necessario collegamento di quelle parti e funzioni, che per esso divengono causa ed effetto, ossia mezzo e scopo reciprocamente; sono caratteristici ed essenziali non della volontà pura, della cosa in sé, ma solamente del suo manifestarsi nello spazio, nel tempo e nella causalità (tutte varietà del principio di ragione, della forma del fenomeno). Appartengono al mondo come rappresentazione, non al mondo come volontà; si riferiscono alla maniera, con cui la volontà diventa oggetto, ossia rappresentazione, in un dato grado della sua obiettità. Chi ha colto il senso di questa esposizione forse alquanto difficile, potrà ora comprendere esattamente la dottrina kantiana, la quale tende a mostrar che tanto la finalità del mondo organico quanto la finalità del mondo inorganico è introdotta nella natura dal nostro intelletto; motivo per cui si riferiscono entrambe al solo fenomeno, e non alla cosa in sé. Lo stupore, di cui s'è detto più sopra, di fronte all'infallibile costanza della regolarità della natura inorganica, è sostanzialmente identico a quello che si prova davanti alla finalità della natura organica: perché in ambo i casi quel che ci sorprende è il veder l'originaria unità dell'idea, la quale, diventando fenomeno, ha preso la forma della pluralità e della diversità46.

Per ciò che riguarda poi la seconda specie di finalità, secondo la partizione fatta più sopra, – ossia la finalità, esteriore, la quale si mostra non già nell'intera economia degli organismi, bensì nell'appoggio e nell'aiuto, che questi ricevono dal di fuori, tanto dalla natura inorganica, quanto gli uni dagli altri – anch'essa viene genericamente spiegata dall'esposizione fatta or ora; essendo il mondo intero, con tutti i suoi fenomeni, obiettità della volontà una ed indivisibile – l'idea – la quale sta a tutte le altre idee come l'armonia sta alle singole voci, sì che quella unità della volontà deve anche mostrarsi nell'accordo di tutti i suoi fenomeni. Ma possiamo elevar questa cognizione a molto maggior chiarezza, se ci facciamo a guardare un po' più da vicino i fenomeni di quella finalità esterna e di quell'armonia delle diverse parti della natura: il quale esame rifletterà contemporaneamente nuova luce su ciò che precede. Vi perverremo nel miglior modo con l'esaminare l'analogia seguente.

Il carattere d'ogni singolo uomo può, in quanto è affatto individuale e non tutto compreso nel carattere della specie, esser considerato come un'idea particolare, corrispondente ad uno speciale atto d'obiettivazione della volontà. Questo atto medesimo sarebbe quindi il suo carattere intelligibile; e il suo carattere empirico sarebbe la manifestazione di quello. Il carattere empirico è in tutto e per tutto determinato dall'intelligibile, il quale è volontà priva del fondamento di ragione, ossia come cosa in sé non è sottomesso al principio di ragione (forma del fenomeno). Il carattere empirico deve render nel corso d'una vita l'immagine del carattere intelligibile, e non può riuscir diverso da come richiede l'essenza di quest'ultimo. Ma questa determinazione si estende solo all'essenziale, non a ciò che non è essenziale, nel corso della vita così determinata. Non essenziale è la determinazione precisa degli eventi e delle azioni, che sono il campo in cui si esplica il carattere empirico. Eventi ed azioni sono determinati da circostanze esteriori, che producono i motivi su cui reagisce il carattere, conformemente alla propria natura; e potendo essere diversissimi, si dirigerà sotto la loro influenza l'esterno atteggiamento del carattere empirico nel suo fenomeno, ossia il determinato atteggiamento effettivo o storico del corso vitale. Questo potrà riuscir molto diverso, sebbene rimanga identico il nucleo essenziale, il contenuto di tal fenomeno: così, per esempio, non è essenziale il giuocare a noci od a soldi; ma essenziale bensì il barare al giuoco, o l'agire onesto; l'essenziale viene determinato dal carattere intelligibile, l'inessenziale dall'influenza esterna. Come il medesimo tema si può presentare in cento variazioni, così il medesimo carattere in cento diversissime vie di vita. Ma, per quanto svariata possa essere l'influenza esterna, il carattere empirico manifestantesi nel corso della vita, comunque riesca, deve pur tuttavia obiettivare esattamente il carattere intelligibile, adattando la sua obiettivazione alle circostanze reali che gli si offrono. Dobbiamo ammettere alcunché di analogo a quell'influsso di circostanze esterne sulla vita, pur determinata essenzialmente dal carattere, se vogliamo pensare al modo, con cui la volontà, nell'atto originario della sua obiettivazione, determina le diverse idee nelle quali si obiettiva; ossia le diverse forme d'esseri naturali d'ogni specie, fra cui ripartisce la sua obiettivazione, e che devono quindi aver necessariamente una reciproca relazione nel fenomeno. Dobbiamo ammettere, che fra tutti quei fenomeni dell'unica volontà abbia luogo un generale e reciproco adattarsi e accomodarsi – escludendo tuttavia, come presto vedremo più chiaramente, ogni determinazione di tempo; perché l'idea sta fuori del tempo. Ogni fenomeno ha dovuto perciò adattarsi alle circostanze in cui s'era trovato, e queste adattarsi a quello, sebbene molto più recente nel tempo; e dappertutto noi vediamo cotal consensus naturae. Quindi è ogni pianta adatta al suo terreno ed al suo cielo, ogni animale al suo elemento ed alla preda che deve nutrirlo, oltre ad essere in certo modo protetto contro i suoi naturali persecutori; adatto è l'occhio alla luce ed alla sua frangibilità, il polmone ed il sangue all'aria, la vescica natatoria all'acqua, l'occhio della foca al mutar dell'ambiente, le cellule acquifere nello stomaco del cammello all'aridità dei deserti africani, la vela del nautilo al vento che deve spinger la sua barchetta – e così giù giù fino alle più particolari e sorprendenti finalità esteriori47. In tutto ciò bisogna astrarre da ogni relazione temporale, perché questa può riferirsi soltanto al fenomeno dell'idea, e non all'idea medesima. Conseguentemente, quel modo di spiegazione può anche valere in senso inverso, facendoci ammettere, che se ogni specie si conformò alle circostanze, queste circostanze presentatesi in antecedenza ebbero altrettanto riguardo agli esseri che dovevano venire più tardi. Imperocché è pur sempre la volontà una ed identica, che si obiettiva nel mondo intero: ella non conosce tempo, poiché questa forma del principio di ragione non a lei appartiene né alle idee, sua obiettità originaria: bensì solamente al modo, con cui le idee vengono conosciute dagli effimeri individui, ossia al fenomeno delle idee. Quindi nel nostro presente esame del modo, con cui si ripartisce fra le idee l'obiettivazione della volontà, è affatto priva di significato la successione del tempo. Quelle idee, le cui manifestazioni – conformemente alla legge di causalità cui sono, in quanto fenomeni, sottomesse – entrarono dapprima nella successione del tempo, non hanno alcun diritto di precedenza sulle altre, il cui fenomeno v'entrò più tardi; anzi queste ultime sono appunto le più perfette obiettivazioni della volontà, e le prime vi si dovettero adattare, così come le ultime alle prime. Quindi il corso dei pianeti, la inclinazione dell'eclittica, la rotazione della terra, la separazione della terraferma e del mare, l'atmosfera, la luce, il calore e tutti i consimili fenomeni, i quali nella natura sono ciò che il basso fondamentale è nell'armonia, si adattarono presaghi alle future specie d'esseri viventi, ch'essi erano destinati a sostenere e conservare. Similmente si adattò il terreno alla nutrizione delle piante, queste alla nutrizione degli animali, questi ancora alla nutrizione d'altri animali, così come pur questi a quelli. Tutte le parti della natura si fanno incontro, perché una è la volontà che in tutte si manifesta; ma la successione temporale è del tutto estranea alle idee, che della volontà sono l'originaria ed esclusivamente adeguata obiettità (il libro seguente chiarisce quest'espressione). Ancora adesso, quando le specie non hanno più che da conservarsi, e non da iniziarsi, vediamo qua e là estendersi al futuro, quasi astraendo dalla successione temporale, una cotal provvidenza di natura, un adattarsi di ciò che esiste a ciò che verrà. Così costruisce l'uccello il nido per i piccoli, che non conosce ancora; alza il castoro una casa, della quale gli è ignoto il perché; la formica, la marmotta, l'ape raccolgono provviste per lo sconosciuto inverno; il ragno, il formicaleone rizzano, quasi con meditata astuzia, trappole per una preda futura, che non sanno; gl'insetti depongono le loro uova là, dove la futura larva troverà futuro alimento. Quando, alla stagione della, fioritura, il fiore femminile della Valisneria distende le curve spire del suo stelo, dalle quali era stata fino allora trattenuta in fondo all'acqua, e sale in tal modo alla superficie; allora il fiore maschile, cresciuto in fondo all'acqua sopra un breve stelo, si strappa da questo per venir così, col sacrifizio della propria vita, a galla, dove nuotando intorno va in cerca del fiore femminile. E questo, fecondato, si ritrae di nuovo, contraendo le sue spire, nel fondo, dove il frutto si matura48. Anche qui devo ricordare un'altra volta la larva del cervo volante maschio, la quale scava rodendo, per la sua metamorfosi, un buco nel legno, due volte più grosso del buco scavato dalla femmina, perché v'abbiano spazio le sue future corna. In generale, adunque, l'istinto degli animali ci dà il migliore avviamento a capir tutta la teleologia della natura. Imperocché come l'istinto è un agire simile a quello provocato da un concetto di finalità, pur non avendone alcuno, così ogni cosa formata dalla natura rassomiglia a quelle guidate da un concetto di finalità, anche quando ne è priva. Nell'esteriore come nell'interior teleologia della natura ciò che noi dobbiamo pensare come mezzo e come scopo è sempre unicamente la manifestazione – venuta a scindersi per la nostra maniera di conoscenza nel tempo e nello spazio – dell'unità dell'unica volontà, per questo rispetto concorde con se stessa.

Frattanto il reciproco adattarsi e accomodarsi dei fenomeni, derivato da questa unità, non può cancellare l'intimo dissidio sopra esposto, rivelantesi nell'universale lotta della natura, ed alla volontà inerente. Quell'armonia perviene solamente a render possibile l'esistenza del mondo e degli esseri viventi, che senza di lei sarebbero da tempo periti. Quindi ella si estende solo all'esistenza della specie ed alle generali condizioni di vita, ma non agli individui. Quindi, se in grazia di quell'armonia ed adattamento le specie nel mondo organico e le generali forze di natura nel mondo inorganico sussistono le une presso le altre, sorreggendosi anzi a vicenda, l'intimo dissidio della volontà obiettivato in tutte quelle idee si rivela invece nell'incessante guerra sterminatrice degli individui appartenenti alle varie specie, e nel perenne lottare delle forze naturali fra loro, com'è sopra esposto. Campo ed oggetto di questa guerra è la materia, che gli avversari cercano di strapparsi a vicenda; o anche il tempo e lo spazio, la cui combinazione sotto la forma della causalità costituisce propriamente la materia, com'è spiegato nel primo libro49.

§ 29.

Chiudo qui la seconda parte della mia trattazione, con la speranza che – per quanto è possibile nel comunicar per la prima volta un pensiero nuovissimo, al quale non riesce quindi di liberarsi del tutto dalla personalità che l'ha prodotto – mi sia riuscito di mostrar con chiara certezza come questo mondo, nel quale viviamo ed esistiamo, sia nella sua intera essenza in tutto e per tutto volontà, e contemporaneamente in tutto e per tutto rappresentazione; inoltre, come questa rappresentazione, in quanto tale, presupponga una forma – ossia oggetto e soggetto – e sia quindi relativa. E se ci domandiamo che cosa rimanga, sopprimendo questa forma e tutte le altre a lei subordinate, espresse dal principio di ragione, quest'avanzo, come alcunché toto genere diverso dalla rappresentazione, non può essere altro che la volontà, che è perciò la vera cosa in sé. Ognuno sente di essere codesta volontà, così come sente d'altra parte di essere soggetto conoscente, di cui è rappresentazione il mondo intero; il quale esiste solo in rapporto alla sua coscienza, che n'è il necessario sostegno. Ognuno è adunque, per questo duplice rispetto, tutto quanto il mondo: è il microcosmo; ed i due aspetti del modo trova interi, compiuti in se stesso. E ciò ch'egli conosce in tal modo come sua propria essenza, costituisce pur l'essenza del mondo intero, del macrocosmo: anche questo è, come lui, in tutto e per tutto volontà, in tutto e per tutto rappresentazione; e niente di più. Così vediamo qui coincidere la filosofia di Talete, che considerava il macrocosmo, e quella di Socrate, che considerava il microcosmo, poiché unico si rivela l'oggetto d'entrambe. Ma tutta la cognizione rivelata nei due primi libri guadagnerà in compiutezza ed evidenza nei due libri che seguiranno; nei quali, spero, talune quistioni, sollevate fin qui nettamente od oscuramente, troveranno piena risposta.

Frattanto, una di codeste quistioni va discussa a parte, potendo esser posta solo in quanto non s'è ancor penetrato del tutto il senso della trattazione fatta finora, e appunto perciò potendo servire a chiarirla. Essa è la seguente. Ogni volontà è volontà di qualche cosa, ha un oggetto, una mèta del suo volere: che cosa vuol dunque alla fin fine quella volontà, che noi abbiamo rappresentata come essenza in sé del mondo? Questa domanda si fonda, come tante altre, sulla confusione della cosa in sé col fenomeno. Al fenomeno, non alla cosa in sé si estende il principio di ragione; una forma del quale è anche la legge di motivazione. Si può dare una ragione dei fenomeni in quanto tali, dei singoli oggetti, ma non mai della volontà medesima, né dell'idea, in cui questa adeguatamente si obiettiva: Nello stesso modo, d'ogni singolo movimento, o in genere d'ogni modificazione nella natura si deve cercar la causa, ossia uno stato, che l'abbia necessariamente prodotta: ma non mai della forza naturale, che si manifesta in quel fenomeno, come in altri innumerevoli fenomeni eguali. Ed è una vera dissennatezza, proveniente da mancanza di riflessione, il voler conoscere una causa della gravità, della elettricità e così via. Per avventura, sol quando si fosse dimostrato che gravità, elettricità non sono vere e proprie forze naturali originarie, bensì soltanto aspetti fenomenici di una forza di natura più generale e già nota, allora si potrebbe voler conoscere la causa, per cui codesta forza producesse qui il fenomeno della gravità e dell'elettricità. Tutto ciò è ampiamente spiegato più sopra. Nello stesso modo, ogni singolo atto di volontà di un individuo conoscente (il quale è anch'esso semplice fenomeno della cosa in sé) ha necessariamente un motivo, senza il quale quell'atto non si sarebbe mai prodotto: ma come la causa materiale contiene soltanto la determinazione per cui in un dato tempo, in un dato luogo, in una data materia deve prodursi una manifestazione di questa o quella forza naturale, così anche il motivo determina soltanto l'atto di volontà di un individuo conoscente in un dato tempo, in un dato luogo, in date circostanze, come fatto singolo; né mai determina genericamente che quell'essere voglia, e che voglia in tal modo. Codesta è invece manifestazione del suo carattere intelligibile, il quale come la volontà stessa – la cosa in sé – è senza fondamento di ragione, stando appunto fuor del dominio del principio di ragione. Quindi ciascun uomo ha sempre finalità e motivi, in base ai quali dirige la propria condotta, e sa ognora render conto delle proprie azioni: ma, se gli si domandasse perché egli in genere voglia, o perché in genere egli abbia volontà di esistere, non avrebbe da dar risposta alcuna; piuttosto la domanda gli parrebbe stolta. Ed in ciò appunto verrebbe ad esprimersi la coscienza dell'essere egli medesimo niente altro se non volontà; volontà, che si comprende da se stessa, e soltanto nei suoi singoli atti, nei singoli momenti abbisogna di una più precisa determinazione.

Infatti la mancanza d'ogni finalità e d'ogni confine s'appartiene all'essenza della volontà in sé, che è una tendenza infinita. Questo punto fu già toccato più sopra, quando s'accennò alla forza centrifuga: e nel modo più semplice si rivela nell'infimo grado dell'obiettità della volontà, ossia nella gravità; il cui perenne tendere, malgrado la palese impossibilità di una mèta ultima, è evidente. Foss'anche, per sua volontà, tutta la materia esistente riunita in un'unica massa compatta, la gravità seguiterebbe tuttavia nel suo interno a lottare pur sempre, tendendo verso il centro, contro l'impenetrabilità, palesantesi sia come rigidità, sia come elasticità. Questa tendenza della materia può essere quindi appena frenata, ma non mai appagata. E lo stesso accade ad ogni tendenza di tutti i fenomeni della volontà. Ogni mèta raggiunta è alla sua volta principio di un nuovo percorso, e così all'infinito. La pianta solleva la propria manifestazione dal germe, attraverso tronco e foglie, fino al fiore ed al frutto, che alla sua volta non è che il principio di un nuovo germe, di un nuovo individuo, il quale un'altra volta segue l'antico cammino, e così per un tempo infinito. Non diversa è la vita dell'animale: suo vertice è la generazione, e dopo averlo raggiunto, la vita del primo individuo decade presto o tardi, mentre un nuovo individuo garantisce alla natura la conservazione della specie, e ripete lo stesso fenomeno. Anzi, qual semplice fenomeno di codesta perenne aspirazione e mutazione è pur da considerare il continuo rinnovarsi della materia in ciascun individuo, che i fisiologi hanno ora cessato di tener per necessaria compensazione della materia consumatasi nel movimento; imperocché il possibile logorio della macchina non può esser punto equivalente al continuo afflusso proveniente dalla nutrizione: eterno divenire, infinito fluire appartengono al manifestarsi dell'essenza della volontà. Lo stesso si può anche vedere, finalmente, nelle aspirazioni e voglie umane, che sempre c'illudono mostrandoci il lor compimento come supremo fine del volere; ma, non appena raggiunte, non sembrano più le stesse, e quindi tosto dimenticate, invecchiate, vengono sempre – anche se non vogliamo subito convenirne – messe da parte come miraggi dileguati. Felici ancora, se qualche cosa rimane al nostro desiderio ed alla nostra aspirazione, per alimentare il giuoco del perenne passaggio dal desiderio all'appagamento, e da questo ad un novello desiderio – passaggio, che si chiama felicità quand'è rapido, dolore quand'è lento –; invece di cadere in quella paralisi, che si rivela come orribile, stagnante noia, confusa aspirazione senza oggetto preciso, mortale languore. Da tutto ciò appare che la volontà, illuminata dalla conoscenza, sempre sa ciò che vuole in un dato momento, in un dato luogo; ma non sa ciò che vuole in genere. Ogni singolo atto ha un fine: la volontà nel suo insieme non ne ha alcuno. Appunto come ogni singolo fenomeno della natura viene determinato, nel suo prodursi in un dato luogo, in un dato tempo, da una causa sufficiente; mentre la forza, che in esso si manifesta genericamente, non ha una causa, poiché codesta causa è un grado nella manifestazione della cosa in sé, della volontà senza fondamento di ragione. L'unica conoscenza di sé, che abbia la volontà in genere, è la rappresentazione nel suo complesso, la totalità del mondo intuitivo. Questo mondo è la sua obiettità, la sua rivelazione, il suo specchio. Che cosa significhi il mondo in questa sua qualità, sarà oggetto della nostra seguente considerazione50.