INTRODUZIONE A ROUSSEAU

1.

Nonostante un’imponente bibliografia, che da sola occupa un volume, non è facile affrontare criticamente il “problema” Rousseau, vale a dire l'attualità e i limiti di una delle menti più lucide, geniali e intellettualmente inquiete che siano mai esistite, il cui pensiero, però, è contrassegnato da tante contraddizioni e ambiguità che, ancora oggi, i giudizi registrano oscillazioni e divergenze di singolare ampiezza.

Dopo oltre due secoli, le passioni - il culto per un verso, l'idiosincrasia per un altro - accese dall'opera di Rousseau non si sono placate, se è vero che, in occasione del bicentenario della sua morte, nel 1998, sono comparsi libri e articoli pro e contro di lui. Segno, questo, indubbiamente, della vitalità di un pensiero che resiste al logorio del tempo, non meno che di un destino controverso che continua ad incombere su di esso.

Come prova dell’ampiezza delle divergenze basta citare due studiosi del Novecento.

Nella sua Storia della filosofia occidentale (TEA, Milano 1991), B. Russell esprime, quasi senza ritegno, un giudizio su Rousseau che oscilla tra il disprezzo e la demonizzazione. Dal punto di vista della personalità e della coerenza morale (a cui il ginevrino tanto teneva), egli sarebbe stato il “mostro” di cui parlava Voltaire, un essere “privo di tutte le comuni virtù” (p. 658). Come pensatore, poi, sarebbe l’ispiratore di tutte le dittature moderne:

“Il contratto sociale divenne la Bibbia di moltissimi capi della Rivo­luzione francese, ma senza dubbio, com'è destino delle bibbie, non fu letto attentamente e fu ancor meno capito da molti dei suoi seguaci. Introdusse nuovamente, in tal modo, l'abitudine alle astrazioni meta­fisiche tra i teorici della democrazia, e con la sua dottrina della vo­lontà generale rese possibile l'identificazione mistica d'un capo col suo popolo, identificazione che non ha bisogno d'alcuna conferma attra­verso un aggeggio così frivolo come è un'urna. Molta della sua filosofia potè esser fatta propria da Hegel nella sua difesa dell'autocrazia prus­siana. Il suo primo frutto, in pratica, fu il dominio di Robespierre; le dittature russa e tedesca (specialmente la seconda) sono in parte il risultato dell'insegnamento di Rousseau. Quali ulteriori “trionfi" futuro riservi al suo spettro non mi avventuro a predire.” (p. 672)

In Razza e storia e altri studi di antropologia (Einaudi, Torino 1967), Lévi-Strauss, invece, elegge Rousseau a fondatore delle scienze dell’uomo: “Rousseau non si è limitato a prevedere l'etnologia: l'ha fondata. Anzitutto sul piano pratico, scrivendo quel Dis­cours sur l'origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes che pone il problema dei rapporti fra la na­tura e la cultura, e che si può considerare il primo tratta­to di etnologia generale; e inoltre, sul piano teorico, distin­guendo, con una chiarezza e una concisione meravigliose, l'oggetto proprio dell'etnologo da quello del moralista e dello storico: "Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé; ma per studiare l'uomo, bi­sogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto os­servare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà" (Essai sur l'origine des langues, cap. VIII)” (p. 86); e gli attribuisce la scoperta la scoperta della facoltà che ha prodotto il passaggio dalla natura alla cultura, dal sentimento alla conoscenza, dall’animalità all’umanità: “la pietà, derivante dall'identificazione a un altro che non è solo un parente, un vicino, un compatriota, ma un uo­mo qualsiasi, dal momento che è un uomo, anzi, un es­sere vivente qualsiasi, dal momento che è vivente” (p. 89); la pietà che “obbliga a vedere un simile in ogni es­sere esposto alla sofferenza, e quindi provvisto di un di­ritto imprescrittibile alla commiserazione” (p. 94), sulla quale riposa  “l’unica  speranza, per ognuno di noi, di non essere trattato da bestia dai suoi simili” (id) e che  “nello stato di natura, tiene luogo "di legge, di co­stumi, e di virtù", e senza il cui esercizio cominciamo a capire che, nello stato di società, non possono esserci ne legge, né costumi, né virtù.” (id)

E' facile evidenziare, nelle opere di Rousseau, infinite contraddizioni. Egli è un genio squilibrato, ma squilibrato in virtù della sua stessa genialità. Quando un intellettuale è spinto dalla passione della conoscenza ad esplorare molteplici terreni di ricerca, non ci si può aspettare la misura e la coerenza. Al di là di questo, occorre tenere conto che l’opera di Rousseau, quante altre mai, è fortemente influenzata dalla biografia interiore e da una personalità ricca ma francamente disturbata (cfr l’articolo a riguardo). Il giudizio dei grandi contemporanei che hanno conosciuto il pensatore ginevrino è, a riguardo, inequivocabile: quello di Voltaire si può ritenere influenzato da una personale idiosincrasia, quello di Diderot fa seguito ad un inaspettato tradimento, quello di Hume, la cui ammirazione e bonomia lo indussero a fornire ospitalità ad un essere perseguitato, è inconfutabile. 

Tra i pensatori moderni,  Rousseau appartiene alla schiera ristretta di coloro (Marx, Nietzsche, Darwin e Freud) che sembrano evocare, nei lettori e nei critici, solo reazioni emotive e giudizi estremi, dall’esaltazione alla demonizzazione. Rispetto a questa schiera, accomunata, nella sua diversità, dall’intento implicito o esplicito di affrancare definitivamente la cultura umana dalla “sovrastruttura” religiosa, vale a dire da un orizzonte trascendente la natura e il mondo, Rousseau si differenzia perché, per quanto corrosivo, il suo pensiero rimane agganciato al riferimento ad un Essere supremo (deisticamente inteso) da cui discende un ordine naturale che si pone come il metro di misura critico dell’esistente.

Natura e Cultura - l’una prodotta da Dio, l’altra dall’uomo – rappresentano le coordinate su cui si svolge il pensiero rousseauiano. Pensatore a tutto campo, che si è interessato di filosofia, di politica, di religione, di sociologia, di psicologia, di pedagogia, ecc., Rousseau ha un potere critico straordinario: egli legge i mali del suo mondo, che, per alcuni aspetti, sono ancora del nostro, con una vivacità che anticipa la Rivoluzione francese e Marx. Nello stesso tempo, è un conservatore viscerale, che legge nel progresso e nell'allontanamento dalle leggi della natura un processo d'irreversibile decadenza. E', insomma, nel contempo, "rivoluzionario" e "conservatore": rivoluzionario in quanto, definendo come intollerabile lo stato di cose esistente, egli avverte la necessità di un cambiamento radicale; conservatore perché il rimedio proposto è il recupero, che egli stesso ritiene improbabile, di una virtù che si perde nelle nebbie di un passato remoto e sembra quasi coincidere con l’essere dell’uomo allo stato nascente, con il suo statuto di creatura.

Quest'ambivalenza è presente in tutte le sue opere e talora si esprime sorprendentemente in una stessa pagina. Interpretarla non è difficile. Misurando il mondo alla luce di un modello ideale e costatando uno scarto drammatico tra questo e quello, Rousseau è portato a pensare che sia stato il progresso a produrlo. Di conseguenza, egli ritiene necessario, per ridurlo se non per azzerarlo, tornare dietro, vale a dire ridurre l'impatto della cultura sulla natura. L'utopia di un mondo ideale è il polo rivoluzionario del suo pensiero, la nostalgia di un ipotetico stato di natura il polo conservatore

Su quest’ultimo aspetto occorre soffermarsi in particolare, perché esso contiene la chiave della genialità di Rousseau e dell’ambivalenza che la contraddistingue.

2.

Rousseau, come ha intuito Lévi-Strauss, anticipa i tempi pensando che sia possibile ricostruire la storia dell’uomo partendo dalle origini, dal suo definirsi come ente naturale dotato di caratteristiche specifiche che lo differenziano rispetto a tutti gli altri animali. Il suo intento è di definire ciò che si dà di essenziale nella natura umana. Che significa quest’intento se non che  egli, nel periodo stesso in cui l’avvento dell’Illuminismo identifica nella ragione l’attributo primario dell’uomo, contesta tale attribuzione?

La sua esperienza e la sua intuizione lo hanno portato, infatti, ad identificare, nella natura umana, due aspetti precognitivi e preriflessivi irriducibili alla ragione. Egli scrive:

"Lasciando tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a vedere gli uomini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell'anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci interessa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l'altro c'ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e principalmente i nostri simili." Da ciò discende che l'uomo "fin che non resisterà all'impulso interno della compassione, non farà mai del male ad un altro uomo" e che "se io sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, ciò sia non tanto perché egli è un essere ragionevole, quanto perché è un essere sensibile." (Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Rousseau, Opere, Sansoni 1972, p. 40)

Poco oltre aggiunge:

“E’ dunque ben certo che la pietà è un sentimento naturale, che, moderando in ogni individuo l’attività dell’amor di se stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie. Essa ci porta impulsivamente in aiuto di quelli che vediam soffrire; essa, nello stato di natura, tien luogo di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio, che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce; […] essa, in nome di quella sublime norma di giustizia ragionata :”Fa agli altri quello che vuoi fatto a te stesso”, ispira a tutti gli uomini quell’altra massima di bontà naturale assai meno perfetta, ma più utile forse della precedente: “Fa il tuo bene col minor male altrui possibile”. In questo sentimento naturale, in una parola, più che negli argomenti sottili, bisogna cercare la causa della ripugnanza che ogni uomo proverebbe a far del male, anche indipendentemente dalle norme dell’educazione.” (op. cit. p. 56)

Si tratta di un’intuizione formidabile, che attribuisce all’uomo per un verso un bisogno che va al di là dell’istinto di conservazione, implicando il benessere soggettivo, vale a dire l’amor di sé, e per un altro una sensibilità sociale che comporta un’identificazione immediata con l’altro in quanto essere senziente, e dunque capace di soffrire. La compassione o pietas, che Rousseau attribuisce alla natura umana, rientra nell’ambito della capacità che gli psicologi definiscono empatia,  ma ne rappresenta una delle sue possibili modalità. L’empatia, infatti, in quanto consente di ricostruire dentro di sé quello che l’altro pensa, sente, desidera, se comporta l’identificazione dell’altro come simile, in nome di una comune esperienza mentale, non determina univocamente un comportamento morale. Una dotazione empatica, al limite, può essere utilizzata anche per manipolare e strumentalizzare l’altro.

La compassione o pietas rousseauiana definisce l’identificazione con l’altro che soffre o può soffrire, inibisce qualsivoglia comportamento che può arrecare danno o far male e promuove una disponibilità all’aiuto.

Una dotazione naturale incentrata sull’amor di sé e sulla pietas sembra implicare una propensione naturale al legame sociale, alla cooperazione e alla solidarietà. Così la interpreta Lévi-Strauss in nome della sua esperienza di antropologo sul campo, che lo ha posto a contatto con comunità primitive che vivono in gruppo e si attengono al principio morale dell’uno per tutti e tutti per uno.

Il problema è che, nonostante abbia intuito una chiave che spiega l’antropogenesi meglio delle ipotesi che privilegiano la nascita del legame sociale sulla base della necessità di porre termine ad una terribile aggressività intraspecifica (Hobbes) o sulla base di una conveneinza razionale (Locke), non l’intende così Rousseau.

Occorre valorizzare oggi la scoperta rousseauiana, prima di chiedersi perché l’autore non abbia ricavato da essa la naturale socialità dell’uomo.

3.

Sia pure lentamente, la concezione antropologica secondo la quale la nascita della specie umana avviene all’insegna dell’acquisizione della capacità cognitiva comincia ad essere superata in nome di un’altra più integrata che dà spazio al ruolo delle emozioni.

L’ominazione, infatti, è oggi ricondotta a tre diversi aspetti correlati tra loro: la struttura carenziale dell’essere umano sotto il profilo fisico e istintuale, il ritardo nello sviluppo, e l’aumento del volume del cervello.

I primi due aspetti, d’acchito, appaiono disfunzionali. Privato dei naturali strumenti di difesa (zanne, artigli, peli, ecc.), invalidato nella capacità di arrampicarsi sugli alberi e di volteggiare, posto su due piedi che lo rendono sostanzialmente lento nella corsa, dotato di pochi moduli di adattamento istintuale all’ambiente, l’uomo alle sue origini appare come un animale debole e indifeso (in un mondo, tra l’altro, densamente popolato da predatori). Il ritardo nello sviluppo accentua tale debolezza. Il piccolo dell’uomo impiega un tempo lunghissimo ad acquisire la maturità, rimane vulnerabile e bisognoso di protezione, è di peso negli spostamenti.

Se a queste condizioni si aggiunge un’orizzonte mentale dilatato emotivamente e cognitivamente per cui l’uomo sente la sua vulnerabilità e prevede la sua morte, è evidente che la nascita della specie umana avviene sulla base dell’angoscia dell’estinzione. E’ su quest’angoscia, che ogni uomo prova e che sa  provata da ogni altro, che si innesta la pietas, la cui funzione è di indurre la solidarietà del gruppo.

Dato poi che la condizione umana è rappresentata in maniera drammatica dal neonato e dal bambino, è evidente che l’organizzazione del gruppo si incentra sulla cura, la protezione e l’allevamento dei piccoli. La tenerezza che essi evocano è infatti imprescindibile dalla pietas, dalla paura di vederli soffrire inermi e indifesi.

All’organizzazione del gruppo all’interno, corrisponde poi quella sul registro del rapporto con l’ambiente esterno. Anche su questo registro è solo la solidarietà indotta dalla pietas a permettere all’uomo di sopravvivere.

Su questo impianto interviene poi l’uso delle funzioni cognitive che servono, attraverso la produzione del linguaggio, a consentire una migliore comunicazione ai membri del gruppo e, attraverso la conoscenza del mondo e lo sviluppo di tecniche, ad avviare la simbolizzazione e la trasformazione dell’ambiente.

E’ evidente che Rousseau, non disponendo di dati paleontologici e tanto meno neurobiologici, non è in grado di ricostruire la nascita della specie umana in questi termini. Essa è però implicita nell’intuizione che lo porta ad identificare nella pietas un aspetto specifico della natura umana.

Certo, un'infinità di dati tratti dalla storia e dall'attualità contestano quest'attribuzione, e sembrano piuttosto deporre a favore di un'aggressività innata. Il problema è che la pietas, come ogni altra qualità naturale, passa attraverso il filtro della cultura. Essa, anzi più di altre, sembra sensibile alla repressione e alla rimozione culturale, che promuovono l'estraneazione dell'altro. Ciò che Rousseau non ha considerato è proprio questa possibilità: che la pietas, per effetto della cultura, si restringa, come avviene costantemente, a Noi in opposizione a Loro.

Su questo aspetto non ci si soffermerà mai abbastanza. Potenzialmente, la pietas investe tutti gli esseri senzienti, e dunque tutti gli esseri umani. Di fatto, nella misura in cui si realizza all’interno di un gruppo di appartenenza, originariamente tribale, essa comporta la possibilità che la diversificazione delle culture, dei linguaggi, dei costumi, delle tradizioni, pongano i soggetti di fronte ad una diversità apparente che la pietas non riesce a sormontare e che dà luogo immediatamente ad una percezione minacciosa e persecutoria dell’Altro.

Si dà anche un’altra possibilità. Via via che si allarga il gruppo, i legami tra i membri si allentano. Ciò può ridurre l’incidenza della pietas e dare luogo all’affiorare di fenomeni di differenziazione sociale che avviano, sulla base di una certa insensibilizzazione, le disugsuaglianze sociali.

Rousseau ha perfettamente ragione nell’attribuire alla cultura, che non può prescindere dall’assolutizzare le tradizioni proprie di un gruppo, un potere di estraneazione dell’uomo dall’uomo. Ha anche ragione nel pensare che solo un ritorno alla natura, vale a dire la riabilitazione della pietas, possa portare a ristabilire un legame sociale incentrato sull’attribuzione all’altro degli stessi diritti e bisogni propri. Sbaglia, forse, nel non capire che tale ritorno non può avvenire se non occasionalmente in virtù di un tragitto interiore: che esso, insomma, implica una rivoluzione culturale.

La cultura, insomma, è una medaglia a due facce: essa può alienare l’uomo da se stesso e rispetto all’altro, come pure ricondurlo alle ragioni depositate nelle viscere della sua mente, nel “cuore”.

Se egli, nel suo tempo, nonostante l’avvento dell’Illuminismo, non vede che una faccia di questa medaglia, quella alienante, ciò accade non in conseguenza di un conservatorismo nostalgico, ma di un’acuta percezione di uno stato di cose realmente esistente.

Gran parte delle denunce rousseauiane vertono sugli effetti nocivi di un progresso che, nell'intento di fare star meglio l'uomo, produce la disuguaglianza, l'ingiustizia, la sopraffazione dei pochi sui più. Egli ha vissuto sulla pelle, dolorosamente, la conseguenza di essere nato plebeo in un mondo diviso rigidamente in classi e dominato dall'aristocrazia e dal clero. Egli ha intuito, prima di Marx, che la cultura può naturalizzare ideologicamente differenze tra gli esseri umani che sono contro natura e violano la pari dignità ch'essi hanno.

Ridurre però la polemica anticulturale di Rousseau all'encien régime è improprio. Il radicalismo di Rousseau va molto al di là dell'epoca. Egli denuncia, com'effetto del progresso, l'urbanesimo, che isola gli esseri umani dal contatto con la natura e, ammassandoli, li abbrutisce, il progressivo inasprirsi dei rapporti interpersonali, sempre più ispirati al principio dell'interesse privato, la corruzione dei valori e dei costumi, la superficialità alienante delle mode, il primato della comunicazione verbale (il chiacchericcio) sulla riflessione, l'adesione crescente ai pregiudizi e ai luoghi comuni che, in una società avviata a diventare di massa, si diffondono rapidamente, ecc. Insomma, se la sua critica avviene nel contesto dell'encien régime, essa sembra già in qualche modo riferita al nuovo mondo che si sta delineando, quello borghese.

I tratti essenziali di questo nuovo mondo – il culto dell’interesse particolare, la razionalità, la disuguaglianza, il perbenismo, il cinismo, ecc. – sono colti da Rousseau con una lucidità tale che non è sorprendente che la sua analisi sia stata assunta come precorritrice di Marx.

4.

Stabilita la grandezza di Rousseau come antropologo e critico della società borghese, ci si deve interrogare su uno dei nodi più contraddittori del suo pensiero. Posto che la natura umana riconosce come suo attributo intrinseco la pietas, quale altra funzione potrebbe svolgere tale facoltà se non quella di promuovere un legame sociale di solidarietà reciprocamente necessario? Come accennato, questa conclusione logica, alla quale fa riferimento Lévi-Strauss e alla quale io stesso mi sono ricondotto attribuendo allla natura umana un bisogno intrinseco di appartenenza/integrazione sociale, è smentita dalla lettura delle opere di Rousseau, e in particolare dal Discorso sulla disuguaglianza e da Il contratto sociale.

Parlando di un ipotetico stato di natura, Rousseau intende fare riferimento ad una condizione precedente l’organizzazione di qualsivoglia società. Il “buon selvaggio” è tale perché è un essere libero da ogni vincolo, indipendente, se non addirittura autosufficiente: una sorta di Robinson Crusoe che non deve spogliarsi e rinunciare ai suoi attributi civili perché non li ha acquisiti.

E’ sorprendente che Rousseau dia credito ad un “mito” del genere sia tenendo conto dell’attribuzione alla natura umana della pietas sia considerando il fatto che egli sembra prescindere del tutto dall’esigenza riproduttiva, che impone agli esseri umani che mettono al mondo un figlio di dedicare molti anni della loro vita alla cura e all’allevamento.

E’ difficile attribuire una forzatura del genere alla necessità di differenziare il suo modo di vedere rispetto al giusnaturalismo sia hobbesiano che lockiano. A tal fine, infatti, sarebbe bastato che egli opponesse alla concezione di Hobbes la pietas e a quella di Locke il primato del sentire sulla ragione.

Il problema è che, in Rousseau, l’opposizione tra natura umana e società è radicale. L’avvio dell’organizzazione sociale, che egli identifica nell’avvento della pratica della caccia e della pesca e, successivamente, dell’agricoltura segna l’inizio della decadenza dell’essere umano, della degenerazione della natura, che ha raggiunto l’acme con l’avvento della borghesia e il delinearsi dell’individuo il cui unico interesse è quello privato, particolare.

La società, insomma, in Rousseau è un male in sé e per sé: un male irreversibile, solo in parte rimediabile (attraverso un contratto sociale che vincoli la volontà individuale ad una volontà generale), ma che contrassegna la fuoriuscita dal Paradiso terrestre, la caduta dell’uomo, la fine dell’età dell’innocenza e dell’oro.

La contraddizione clamorosa tra l’attribuzione alla natura umana della pietas e la negazione della sociabilità, vale a dire di una motivazione positiva che promuove lo stabilirsi di legami sociali, è a tal punto clamorosa che non può essere risolta in alcun modo sul piano filosofico. Essa può essere solo negata, come hanno fatto tutti i pensatori che hanno identificato in Rousseau un precursore di Marx, o assunta come indizio di un modo di argomentare troppo squilibrato per essere preso sul serio.

Io ritengo, invece, che tale contraddizione possa essere spiegata tenendo conto della biografia interiore di Rousseau, della sua sensibilità estrema che lo ha mantenuto nel corso dell’infanzia in una situazione quasi ipnotica di armonia con se stesso e con il mondo, e del trauma intervenuto nel periodo in cui, affidato in adolescenza a persone estranee, egli è stato costretto ad aprire gli occhi scoprendo la brutalità dei legami sociali, la tendenza all’arbitrio e alla sopraffazione dell’uomo sull’uomo.

Lo stato di natura di cui parla Rousseau è, insomma, riconducibile alla sua estrema introversione, e alla sperimentazione, testimonita più volte ne Le confessioni di una pietas nei confronti dell’umano che si manteneva quando egli si ritirava dal mondo e si trasformava regolarmente, nonostante le migliori intenzioni, in una turbolenza emozionale, nel sentirsi costretto, oppresso e arrabbiato quando egli aveva commercio con gli uomini.

In pochi pensatori come in Rousseau si realizza la singolare circostanza per cui l’opera esprime una genialità oggettiva che va analizzata in sé e per sé, ma contiene contraddizioni che possono essere spiegate solo facendo riferimento all’organizzazione del mondo interiore dell’autore. Il valore dell’opera non è diminuita dal fatto che in essa si oggettivano dinamiche psicologiche; nella misura in cui le universalizza simbolicamente, è geniale; nella misura in cui le generalizza, è semplicemente umana, troppo umana.