La funzione superegoica


Introduzione alla lettura

La riflessione sulla struttura dell'apparato mentale, che Freud ha avuto il merito di porre in luce per primo, è stato un filo continuo della mia ricerca. Leggendo, studiando, approfondendo Freud all'epoca della mia formazione e, successivamente, elaborando i dati tratti dall'esperienza terapeutica, ho colto il paradosso centrale del sistema freudiano: la negazione di un bisogno sociale intrinseco alla natura umana nonostante la scoperta del Super-Io, il cui radicamento e la cui attività nella struttura psichica profonda di ogni soggetto non può essere spiegata prescindendo da esso.

Il paradosso viene solitamente ricondotto, e io stesso ho ceduto a questa tradizione, all'antropologia pessimistica di Freud la cui matrice borghese è indubbia. Ora, senza escludere l'influenza di Hobbes, sarei portato piuttosto a valorizzare una confusione tra legalità e moralità, tra leggi coercitive e principi o valori che non potrebbero essere recepiti se non in nome di una sensibilità sociale e della percezione dell'altro come socius o simile.

Rimane il fatto che la riflessione teorica sul Super-Io ha assunto un rilievo centrale nella costruzione del modello struttural-dialettico, inducendomi, tra l'altro, lentamente ad ipotizzare l'esistenza di un'altra funzione psichica, complementare e in tensione dialettica con il Super-Io: l'Io antitetico.

Il ritardo con cui è avvenuta questa scoperta, che per ora rimane vincolata alla mia teoria psicopatologica, non essendo stata riconosciuta da nessun altro studioso, spiega le vicissitudini delle riflessioni sul Super-Io di cui questa area tematica dà conto.

Assumendo questa funzione come il prodotto dell'interiorizzazione della cultura e del controllo sociale esercitato dalla società sull'individuo, la psicopatologia struttural-dialettica si è configurata originariamente come un universo univocamente caratterizzato dal fatto che le istanze di individuazione e di libertà personale, nella misura in cui entrano in conflitto con i valori superegoici interiorizzati, attivano una rappresaglia che, in conseguenza dei sintomi psicopatologici, condannano il soggetto a soffrire, ad espiare e a sperimentare limitazioni di vario genere della libertà.

In questa ottica, che ha dominato la mia ricerca sino alla metà degli anni '90, la psicopatologia è l'espressione univoca di un conflitto tra diritti individuali e doveri sociali, rappresentati a livello soggettivo dal Super-Io, che volge costantemente a favore di quest'ultimo, poiché tra i molti e l'uno, a livello sociale come soggettivo, sono i primi a prevalere.

L'originario modello struttural-dialettico è, dunque, caratterizzato dal primato dinamico del Super-io, che assume una valenza di controllo sulla libertà individuale che, in alcuni casi, diventa persecutoria.

Dal '95 in poi si è avviata una riflessione, legata soprattutto ad esperienze psicopatologiche giovanili, esitata in una ristrutturazione teorica non radicale ma abbastanza profonda.

Ancora oggi non ho alcun motivo di mettere in discussione il primato dinamico del Super-io nell'assetto inconscio della personalità umana. Ritengo, infatti, che questo sia un aspetto universale, maturato nel corso della filogenesi, il cui significato funzionale è di consentire la replicazione della cultura è non può essere minimizzato.

Esso, peraltro, è attestato dall'automatismo per cui si generano a livello inconscio sensi di colpa allorché si definisce un conflitto strutturale tra l'Io e la società (reale o interiorizzata).

Tale automatismo però è infinitamente più attivo in soggetti dotati di una ricca sensibilità sociale. Se così non fosse, la mente umana disporrebbe di una sorta di servo-meccanismo deputato a far pagare ogni "colpa": circostanza smentita dalla presenza nel mondo di sopraffazioni, arbitri e violenze di ogni genere dell'uomo sull'uomo.

A livello psicopatologico, ciò che sorprende è l'entità dei sensi di colpa che intervengono in soggetti che, sul piano reale, non fanno male a nessuno o ne fanno molto meno rispetto ad altri che non ne sono affetti.

E' evidente che ciò porta a riflettere sul terreno su cui il Super-Io si impianta e si edifica.

Già nell'analisi critica della teoria freudiana ero giunto alla conclusione che il Super-Io riconosce come sua matrice il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e non la necessità di contenere e reprimere le spinte pulsionali.

Dal '95 in poi, mi è risultato chiaro che il terreno d'impianto non è una variabile secondaria. Tanto più, infatti, il bisogno di appartenenza è rappresentato nel corredo genetico, tanto più l'impianto del Super-Io può porre un limite al dispiegamento del bisogno di individuazione.

Tale limite, però, è tanto più repressivo quanto più il bisogno d'individuazione assume un carattere alienato, vale a dire si configura in termini tali da potersi realizzare solo anestetizzando la sensibilità sociale.

In casi del genere, è evidente che il Super-Io svolge una funzione protettiva in rapporto alla possibilità che il soggetto mortifichi o violenti la sua sensibilità sociale. Certo, si tratta di una protezione quasi sempre associata a sintomi che attestano anche una componente punitiva.

Lo spettro funzionale che viene fuori da questa concezione del Super-io, che tiene conto delle sua matrici psicobiologiche e degli aspetti culturali che lo strutturano, sembra molto fedele ad una realtà clinica che va dall'estremo di un soggetto che sviluppa una grave depressione in conseguenza di fantasie di rabbie che non potrebbero mai tradursi in comportamenti dannosi per gli altri all'estremo opposto di un soggetto che cade in depressione per impedirsi di fare qualcosa di dannoso per sé o per gli altri.

L'evoluzione della teoria struttural-dialettica del Super-Io, da un modello originario univoco ad un modello molto più articolato e suggestivo (penso definitivo), rende pienamente conto di un tragitto di ricerca che, anziché tentare di far rientrare i sintomi e i vissuti psicopatologici entro uno schema, si è sempre sforzato di approfondire la teoria per renderla più comprensiva ed esplicativa.

Tale tragitto viene ricostruito nell'intero suo corso, dal 1982 al 2007.

Dall'Archivio

Colpa, follia, liberazione (1982)

 

1. Così è se vi pare

2. Delirio privato, delirio culturale

3. L'universo della condanna

4. La crisi come rivoluzione privata

5. Le 'forme' della colpa

6. Soggettività, istituzioni, mentalità


1. Così è se vi pare

Quando l'ho conosciuta, la signora V. era un 'amabile e candida vecchina settantenne, quasi cieca, che viveva con estrema dignità in un silenzio quasi perpetuo. Profittando di un controllo farmacologico reso labile dalle precarie condizioni di salute, con una regolarità sconcertante, una volta l'anno, la signora V. faceva un breve viaggio delirante che esitava in un parto notturno perfettamente mimato. Un asciugamano annodato bastava a fingere il bambino, che veniva stretto al petto e cullato per qualche ora. Con le luci dell'alba il delirio si dissolveva e la signora V. tornava alla quieta vita di sempre.

Vedova di un uomo che non aveva potuto darle figli, con il delirio la signora V. rievocava un amore colpevole, forse tessuto solo di fantasia, che aveva sconvolto la sua vita mezzo secolo prima, destinandola al manicomio. Di lì, nonostante fosse stata dichiarata guarita, essa non aveva inteso più muoversi, per pagare la 'colpa'. La signora V. è volata in cielo col suo mistero - nessuno scoprirà mai se l'adulterio sia stato consumato - nel 1980, dodici anni dopo che la corte Costituzionale aveva invalidato la norma del codice penale che lo definiva un reato, e sanciva come pena - per le donne - la reclusione. Forse a lei non interessava molto del tribunale degli uomini: la sua fede, peraltro, così rigorosa, non le impedì comunque di partorire ancora una volta pochi mesi prima di morire. La signora V. ha scontato, dunque, per cinquanta anni, con una segregazione volontaria, una colpa, forse neppure commessa, senza per altro rinunciare, inconsciamente, a 'peccare'.

La storia, un po' retro', pone una serie di quesiti. L'adulterio è stato consumato o no? Cosa desiderava la signora V.: tradire il marito, o non piuttosto realizzare una maternità che quegli non poteva soddisfare? La sterilità del marito era a lui nota prima del matrimonio? E infine: è lecito moralmente ad un uomo tenere a sé vincolata una donna che desidera un bambino, che egli non può darle?

Ho scelto volutamente un 'caso' pirandelliano per avviare il discorso sulla colpa nella malattia mentale. Ciò che è certo è che, commesso o solo fantasticato l'adulterio, la signora V. si è punita con un rigore estremo in riferimento sia alla lettera della legge che allo spirito del Vangelo, e che, per quanto esemplare, questa punizione non l'ha posta al riparo da immaginarie 'ricadute', sicché la sua vita si è svolta nel duplice registro della colpa e dell'emendazione, in una sorta di circuito chiuso, insensibile al buon senso, all'assoluzione del confessore, alla riforma giuridica e al decadimento senile.

Cinquant'anni fa, allorché, forse, fu commessa la 'colpa' della signora V. configurava un reato per la giustizia, un peccato per la religione, un'ignominia per l'opinione pubblica. Occultandola con il delirio, e rendendola indecifrabile, la signora V. senza saperlo, si consegnava alla scienza, che si riteneva in grado di operare una sintesi di quelle diverse istanze. E' noto, infatti, che, per secoli, religione, diritto e moralità pubblica hanno funzionato come strumenti di controllo dei comportamenti devianti, ma, spesso, in competizione tra loro.

La religione, infatti, concedeva il perdono a patto di un sincero pentimento; il diritto, la reintegrazione sociale, scontata che fosse la pena; la moralità pubblica, più inerte e rigida rispetto alle disquisizioni teologiche e giuridiche, spesso solo l'accettazione del ruolo di emarginato.

Con il manicomio, la psichiatria scopre l'uovo di Colombo: un deviante, posto che manifesti disturbi psicopatologici, può essere segregato come se fosse un criminale; tutelato per la sua 'pericolosità', resa innocua rispetto al corpo sociale; assoggettato ad un vero e proprio terrorismo psicofisico 'morale' con un obiettivo terapeutico, quello di indurlo a prendere 'coscienza di malattia', a riconoscere, cioè, di aver errato, di essersi abbandonato a fantasie, sentimenti, e comportamenti trasgressivi e colpevoli. Strutture mediche, carcerarie e correttive al tempo stesso, i manicomi hanno svolto ciecamente la loro funzione storica, di occultare, sotto il flatus vocis della malattia, la 'colpa' morale, giuridica e sociale.

La lotta antistituzionale ha avuto il merito di rimescolare le carte. Che i folli non siano malati, nel senso proprio, medico, del termine, né potenzialmente dei criminali, né, infine, moralmente degenerati, è ormai largamente condiviso. Si sa, dunque, che cosa essi non sono: ma - è inutile negarlo - nelle maglie della coscienza sociale si è aperto un vuoto che postula di essere colmato da un nuovo sapere. Cosa è la follia? Cosa essa esprime? Cosa significa nell'universo dei fatti umani?

C'è chi sostiene che i folli sono comunque - e ciò nonostante gli orrori della psichiatria tradizionali- 'malati': ma, come affermava il primo Laing, la psichiatria organista non può pretendere che si accetti come verità di ragione una verità che continua ad essere di fede.

C'è chi sostiene che essi sono solo il prodotto di una società alienante ed emarginante: questo postulato ideologico ha significato molto nella fase calda della lotta anticostituzionale, ma risulta povero quando si applica ad istituzioni non manicomiali - la famiglia, la scuola, l'ambiente di lavoro, ecc - perché esso postula mediazioni tra psicologico e sociale, individuale e collettivo, eventi e strutture che non sono affatto chiari.

C'è infine chi sostiene che la malattia mentale è l'espressione di disordini emotivi originari: questa ipotesi - psicologista - ha il difetto opposto rispetto a quella sociogenetica. Essa, infatti, che intende spiegare dei fatti psicologici con fatti dello stesso livello, rifiutando l'ancoraggio al reale e all'immaginario sociostorico, finisce nel gorgo di una spirale la cui origine affonda nelle buie viscere del ventre materno.

A mio avviso, c'è un'ulteriore ipotesi, sinora trascurata, che ha il vantaggio, fra l'altro, di essere verificabile. L'ipotesi è che la follia sia comprensibile strutturalmente a livello psicologico- soggettivo e intersoggettivo - ma spiegabile, nella sua genesi, solo in virtù dell'inserimento dei tempi brevi delle esperienze individuali e familiari nei tempi lunghi della storia e, in particolare, dei fenomeni mentali collettivi inconsci che gli storici usano oggi definire col termine 'mentalità'.

Prima di verificare questa ipotesi su di un materiale tratto da un esperienza comunitaria, tenterò di illustrarne la portata teorica, sottoponendo al suo vaglio uno dei lavori più famosi di Freud, il caso Schreber.

2. Delirio privato, delirio culturale

Il delirio di Schreber., come è noto, si inaugura sotto la forma di delirio di colpa e di punizione: egli ritiene di essere destinato a morire (tenta anche il suicidio), anzi di essere già morto e putrefatto. Ciò nondimeno, si sente anche perseguitato, e rivolge accuse a varie persone, tra cui lo psichiatra, che appella 'assassino di anime'.

A partire da questo vissuto, che Freud riconduce nella sua genesi ad una colpa soggettiva, individuata in una fantasia omosessuale passiva rivolta alla figura del medico, sostitutiva di quella paterna, si edifica il delirio mistico in virtù del quale Schreber "ritiene di essere chiamato a redimere il mondo e a restituire ad esso la perduta beatitudine, a condizione però di trasformarsi da uomo in donna".

Accettando la castrazione come punizione, Schreber realizza la fantasia di una conjunctio col padre, pagandone però il giusto prezzo. L'interpretazione freudiana è, come sempre, persuasiva ma riduttiva: per elaborarla Freud ha utilizzato solo un materiale soggettivo e intersoggettivo inadeguato e fuorviante. Egli dà per scontato che il padre di Schreber, oltre che illustre, fosse un uomo adorabile, degno pertanto quant'altri di amore e di invidia, tanto da giustificare la fantasia omosessuale, che esprimerebbe il desiderio inconscio di Schreber di prendere dentro di sé e di far propria la sua potenza.

La verità ricostruita dai biografi è tutt'altra. Il padre di Schreber era un medico pedagogista, i cui trattati di educazione fisica per giovani, letti oggi, risultano, tra le righe, impregnati di asprezza e sadismo nei confronti di qualsiasi debolezza, ritenuta caratteristica intrinseca della natura infantile e di quella femminile. La logica che sottende gli esercizi del prof. Schreber è che solo con la mortificazione e le torture si può cavare dalla fragile 'materia prima' umana un uomo vero, secondo un modello schiettamente militarista. Il padre di Schreber, insomma, era affetto da un delirio di redenzione (che, en passant, ha intossicato la cultura tedesca sino all'esito, tragico, del nazismo). L'oggetto del delirio era la natura umana, intesa come la lega inquinata da elementi di debolezza, che, a qualunque costo, doveva essere purificata e forgiata fino a ricavarne un carattere d'acciaio.

In rapporto a questo 'delirio culturale', ampiamente approvato dall'opinione pubblica e facente leva sull'orgoglio nazionalista, il delirio privato di Schreber assume un significato nuovo: riconoscendo infatti di aver 'peccato' nell'identificarsi con un modello antropologico atrocemente maschilista, Schreber intuisce che la salvezza del mondo postula una castrazione, e cioè il recupero di quelle parti infantili e femminili perseguitate e sadizzate da quel modello.

Ciò non di meno, si tratta di un delirio, e dunque di una 'rivoluzione privata' destinata a ripiegare su una soluzione fittizia: idealizzando quel modello e trasformandolo da persecutore in adorabile, Schreber si assoggetta ad esso, godendo della sua debolezza. Il delirio di affrancarsi da una virilità distruttiva, dunque, anche per il contesto culturale in cui vive, non può realizzarsi in Schreber che sotto forma di colpa ed esitare, anziché in una liberazione, in un ulteriore umiliazione, apparentemente temperata dalla beatitudine mistica. Il paradosso per cui un'istanza di libertà si esaurisce nel mutare solo la forma della schiavitù è un accidente singolare o non piuttosto la struttura della stessa follia?

3. L'universo della condanna

In una comunità di ex degenti dell'O.P. residenti, come 'ospiti', in un padiglione aperto, si ha la prova che la follia, in sé e per sé, è una struttura dinamica chiusa: una condizione di radicale dipendenza paradossalmente rinforzata dalle istanze di liberazione che la sottendono, come se queste configurassero, per sempre, delle colpe soggettive, e quelle la condanna.

Claudia, ha trascorso gran parte della sua vita a fuggire da situazioni costrittive. E' fuggita dalla famiglia originaria, sposandosi precocemente; dal vincolo matrimoniale, separandosi; dal ruolo di figlia separata che vive con i genitori, legandosi con un uomo sposato; dal ruolo di madre, abbandonando un figlio da questi avuto. Approdata al manicomio, la fuga si è perpetuata in un inarrestabile andirivieni; ricoverata, Claudia fugge dall'ospedale; stando fuori e sentendosi in colpa per le relazioni che intrattiene, rifugiandosi in manicomio. La comunità aperta non offre più alibi alle fughe e l'età matura rende improbabili nuove avventure. La smania di libertà, ancora urgente, ma oramai non più agibile, se non al prezzo di un'infinita solitudine, si confina negli arti inferiori sotto forma d'una patetica sindrome: la sindrome delle gambe ansiose. Claudia la smaltisce percorrendo, per ore, avanti e indietro, il breve spazio della camera come una leonessa in gabbia.

Luisella, insegue da sempre il sogno dell'autonomia. Anch'essa si è sposata precocemente, e precocemente si è separata. Ha tentato più volte in passato di affrancarsi dalla famiglia, andando a vivere in pensione; dopo un periodo più o meno lungo, repentine crisi d'astenia e di depressione l'allettavano riconducendola, bisognosa, alle cure dei genitori, delle cliniche, dell'ospedale psichiatrico. Nella comunità, Luisella conduce una vita apparentemente autonoma, ma soffre di violente vertigini, che insorgono ogni qualvolta tenta di uscire da sola. In virtù di ciò accetta, facendo finta di subirla, la compagnia di un ricoverato più anziano che la segue ovunque, spesso a distanza, come un fedele cagnolino, pronto, al minimo cenno di sbandamento, ad offrirle il sostegno del braccio.

Giovane, colto, benestante, Duilio ha molteplici interessi: dipinge, legge, scrive. Non gli manca nulla, apparentemente, per vivere fuori dall'ospedale. Ma la libertà di Duilio è condizionata, perché, quando egli si avventura nella città, è preda di intensi vissuti persecutori: gli 'altri' gli appaiono come giganti minacciosi, ed egli si sente inerme ed in loro balia. Tremante, torna al padiglione, e, non appena ne varca la soglia, l'angoscia si attenua fin quasi a scomparire.

Vito, un giovane studente di pedagogia, che rifiuta di riconoscersi malato e manifesta un'avversione radicale nei confronti di psicofarmaci, psichiatri, psicologi, vive da alcuni mesi letteralmente murato vivo nella sua camera. Ne esce solo per consumare pasti fuori orario, quando è certo di non incontrare quasi nessuno. Si vergogna della sua immagine e teme che tutti gli rinfaccino una debolezza e una viltà contro le quali lotta, con tutte le sue energie, quotidianamente.

Chi non ricorda l'angelo sterminatore di Bunuel? Nel vivo dell'esperienza comunitaria la metafora bunueliana si incarna, e impone di decifrare il problema di una maledizione sospesa su di una porta aperta. Si tratta - è ovvio - di un varco simbolico, che divide, con un taglio netto, l'aldiquà di una frustrante dipendenza dall'aldilà di una libertà paurosa. Per taluni, il confine fisico è invalicabile anche realmente, per altri è invalicabile psicologicamente. E' dunque un confine interiore: chi tenta di forzarlo, in virtù di un acting-out o di una crisi, ricade nel dominio della sanzione punitiva.

4. La crisi come rivoluzione privata

Nella comunità, l'intuizione dell'antipsichiatria inglese èsecondo la quale ogni 'crisi' è un tentativo di uscire fuori da una situazione invivibile, e, dunque, un tentativo di guarigione - assume un'evidenza clamorosa e si conferma. Ma se ne conferma anche la parzialità: lasciare che una crisi segua il suo corso significa assistere ad una lotta di liberazione il cui esito è scontato, perché, nonostante la fenomenologia ribelle trasgressiva ed anarchica della crisi, l'istanza paradossale, che prima o poi affiora, è quella di una repressione, di un contenimento esterno atto a restaurare l'equilibrio precedente, l'ipercontrollo interno, e, se possibile, a rafforzarlo. All'apparenza, insomma, sembra che il folle, quando si ribella alla schiavitù della dipendenza, infrange le catene che gli impediscono di sentirsi libero per denunciare, a se stesso e agli altri, il pericolo della sua libertà.

Pina, vive nel perenne tormento di ossessioni religiose che la inducono a punirsi di colpe reali ed immaginarie. Si innamora di Duilio ma oppone un'accanita resistenza a tutti i tentativi di approccio erotico che questi esercita. Vinta, infine, dalla paura di perderlo, cede. Ma ciò avviene nel giorno meno propizio: di Venerdì Santo. Pina ne prende coscienza solo dopo, ma ormai il 'sacrilegio' è consumato e incomberà per mesi, come una nuvola minacciosa, sulla sua anima, imponendole pratiche di purificazione che comportano l'astensione da ogni tipo di piacere, compreso il più banale: il fumo di una sigaretta

Caterina, una donna di quarant'anni, separata dal marito, madre di due figli, vive trincerata in un suo ruolo dignitoso e severo, nobilitato da elevati interessi intellettuali. Quando viene a sapere, casualmente, che il marito 'se la spassa' con un amante, ha una reazione violenta di gelosia e, per vendicarsi, si concede ad un giovane.

Cade, dapprima, in un delirio di colpa, poi, repentinamente, reagisce con un eccitamento lucido e rabbioso che ratifica e razionalizza le trasgressioni comportamentali che essa pone in atto per mesi. Al culmine dell'eccitamento provoca un ricoverato e riesce a farsi picchiare selvaggiamente. In virtù di quest'episodio è possibile concludere un assiduo lavoro di analisi e restituirle la sua rabbia come un tentativo anarchico, e colpevolizzato, di affrancarsi dalla feroce dittatura interiore su cui si fonda la sua normalità. Caterina comprende, accetta le cure farmacologiche che ha reiteratamente rifiutate e recupera un equilibrio da cui essa sa, ormai, che dovrà liberarsi per altre vie.

Giuseppe, che da sempre ha ricoperto nella comunità e nella vita il ruolo di perenne bambino, da qualche mese minaccia di andare in crisi. Da remissivo che era diventa arrogante, provocatore, prepotente. Dice di voler diventare un vero uomo, ma le sue minacce verbali, che fantasmatizzano teste spaccate e corpi smembrati, testimoniano la sua identificazione con un modello adulto, violento e soprafattore. Il desiderio di crescere di Giuseppe, insomma, si proietta nel vicolo cieco di un comportamento colpevole che egli non riesce ad agire perché teme l'esclusione dalla comunità. Cionondimeno, continua a minacciare, scongiurandoci, qualora si dovesse realmente comportare 'male', di non cacciarlo.

In tutte e tre le esperienze, la contraddizione tra istanze di liberazione e istanze di controllo, è clamorosa e ci affranca, se ancora ce ne fosse bisogno, dall'attribuire alla 'crisi' un significato ingenuamente rivoluzionario. Si tratta, formalmente, di rivoluzioni, di tentativi, cioè, di sovvertire un ordine soggettivo mortificante, ma di rivoluzioni private che contrappongono bisogni individuali e istanze di controllo sociali interiorizzate, col solo risultato di mettere in luce la forza formidabile di queste. Per quanto significative, infatti, le istanze di liberazione, che denunciano un arresto dello sviluppo soggettivo, non possono essere vissute intrapsichicamente che sul registro della colpa. E' questa che impedisce loro di esprimersi in termini di crescita e le forza a tradursi in comportamenti soggettivamente e/o oggettivamente sanzionabili. Sicché, in ultima analisi, la follia sembra configurare una condizione drammatica a circuito chiuso, tale che l'ipercontrollo interno, che assicura un apparente normalità, alimenta il desiderio di liberazione, e questo, che può esprimersi solo sotto forma di ribellione colpevole, mira a restaurare l'equilibrio perduto.

Perciò, qualunque prassi teorica terapeutica deve confrontarsi col problema della liberazione e della colpa, e, per dare ordine al discorso, specificherò: di una liberazione mancata, e di una colpa che la ratifica, attribuendone la responsabilità al soggetto.

5. Le forme della colpa

Cogliere nella follia il dramma di una vicenda umana che può svolgersi, spontaneamente, solo sui registri - intrapsichici e/o comportamentali - di una normalità coatta o di una trasgressione colpevole significa definire una struttura non dialettica, e cioè capace, nonostante la conflittualità che la sottende, di mantenersi indefinitamente in equilibrio, senza evolvere, parassitando la vita del soggetto. Questa struttura, singolare per la sua inerzia, pone due problemi.

Il primo concerne, appunto, la non evolutività spontanea della struttura: quale è il fattore che cristallizza il conflitto e chiude la polarità in un circuito che si autoalimenta? Sappiamo già che questo fattore è la colpa soggettiva, che incombe sulle istanze di liberazione, contenendole e, quando queste si esprimono, punendole. Non è improprio definire questo regime intrapsichico una feroce dittatura interiore. Ma, in ultima analisi, è l'anarchia dei desideri incontrollabili a postularla, o non piuttosto essa, con la sua rigidità, a scatenare la ribellione? La psicoanalisi, che si è edificata su questo problema, ne fornisce una soluzione apparentemente neutrale, individuando nel senso di colpa e cioè nella criminalizzazione dei desideri vissuti come realizzati, il fattore che sblocca l'integrazione da parte dell'Io delle istanze pulsionali e di quelle etico-sociali. E' superfluo sottolineare che, a questo riguardo, la psicoanalisi svela la sua matrice ideologica riconducibile ad una concezione sostanzialmente pessimistica della natura umana. La 'materia prima' psichica non è di certo una tabula rasa, la sua struttura biopsicologica originaria è complessa e disordinata: ma, da un punto di vista scientifico, si tratta pur sempre di un prodotto dell'evoluzione, e quindi di un prodotto che ha un significato funzionale. La demonizzazione freudiana dell'Es, che viene descritto come un caotico serbatoio di impulsi feroci e passionali, sempre incombente, quali che siano gli effetti della civilizzazione, sui destini umani, è null'altro che mediocre filosofia. Da un punto di vista scientifico, il disordine originario della 'materia prima' psichica non può avere altro significato che quello di costringere, in virtù di una necessità naturale, la cultura ad edificarsi e, in particolare, ad impegnarsi, a partire dalle istituzioni pedagogiche, in un lungo e paziente lavoro di liberazione dai 'pericoli' interni non meno che dalla dipendenza che questi impongono. Con ciò giungiamo al cuore dell'altro problema, che affronta la genesi della struttura: lo scacco dalla liberazione individuale, che è l'essenza della follia, è causa o effetto della colpa? In altri termini: il folle diventa tale perché si ribella colpevolmente, o si ribella perché si sente condannato a dipendere indefinitamente?

Rousseau affermava che l'uomo nasce libero, e la società lo riduce in catene. Oggi noi sappiamo che la premessa è erronea: l'uomo nasce infinitamente dipendente, letteralmente in catene, vittima innocente e indifesa - come dice Szaz - delle passioni interne e delle costrizioni esterne, ed è la società, con tutte le sue istituzioni, a partire naturalmente da quelle pedagogiche, a doverlo aiutare a liberarsi. Se ciò non avviene, egli rimane incastrato in una condizione di dipendenza non evolutiva, e, prima o poi, manifesta un disagio psichico. E' un arresto dello sviluppo, o, in termini analitici, una fissazione, la causa ultima del disagio. Riguardo a questo problema, Freud ha colto precocemente una verità dalla quale si è progressivamente allontanato: la teoria della seduzione infantile attribuiva la fissazione a traumi ambientali, ma, successivamente, Freud ha valorizzato dinamiche intrapsichiche (per es. la paura del nuovo) ed è giunto infine ad ipotizzare fattori costituzionali (una presunta 'viscosità' lipidica).

La mia opinione è che l'arresto dello sviluppo possa essere sempre ricondotto ad una colpa soggettiva, drammaticamente elaborata, che l'individuo è costretto a commettere da circostanze intersoggettive e ambientali che oppongono alle sue esigenze di crescita ostacoli insormontabili. Più precisamente, si può dire che la colpa soggettiva assume sempre la forma di una vendetta, sia essa una rivendicazione, un'esigenza di giustizia secondo la legge del taglione, una minaccia anarchica. La rivendicazione si realizza quando il bambino si ribella ad una situazione carenziale o deprivativa sotto il profilo affettivo; la vendetta secondo la legge del taglione quando egli è indotto a troncare precocemente i legami affettivi perché si sente tradito; la minaccia anarchica quando subisce, senza accettare, l'imposizione di un modello di crescita che risulta frustrante rispetto ai suoi bisogni.

In tutti e tre i casi, il bambino, vivendo la vendetta come una colpa soggettiva, si condanna a non crescere e si cristallizza in una sorta di manierismo psicologico che lo obbliga ad una interminabile dipendenza, cioè alla schiavitù.

Esemplificherò le tre situazioni con materiale ricavato dall'esperienza comunitaria e dal set terapeutico privato.

A nove anni, in seguito alla morte del padre, Luigi, che è il terzo di sei figli, viene internato in collegio, a 500 km da casa. La scelta, effettuata da uno zio sacerdote, ricade su di lui per meriti scolastici: è il più dotato intellettualmente, il più studioso, e, pertanto su di lui si puntano le speranze di 'buona riuscita' sociale, che riscatti la famiglia dalla miseria. Al momento della separazione, Luigi prova un violento 'strappo' nelle viscere, e, per alcune settimane, accusa difficoltà a digerire. Poi si adatta alla nuova situazione. Le aspettative familiari vanno però deluse: la carriera scolastica di Luigi è mediocre e stentata. Uscito dal collegio, va a vivere in una grande città e si adatta ad un modesto lavoro di pulizie. A venticinque anni, comincia a soffrire di violente coliche addominali sine materia, nell'intervallo tra le quali vive nel terrore che esse possano ripetersi: la paura lo costringe ad organizzare la sua vita in maniera tale da non allontanarsi mai più di due o tre km da un ospedale; e da non trovarsi mai in situazioni che gli impediscano di raggiungere il pronto soccorso in pochi minuti. Nonostante l'apparente autonomia - riesce infatti a vivere da solo - Luigi è schiavo di una parte di sé che rivendica 'cure' e si oppone con l'angoscia ad ogni situazione di separazione da chi può erogarle.

A sette anni Duilio è internato in collegio. I suoi, nonostante la modesta condizione sociale, desiderano che divenga un 'signorino'; sono convinti di non essere in grado di educarlo adeguatamente e, vivendo in un paese, temono che egli, continuando a frequentare i 'ragazzacci' - i bambini del paese sono dediti al gioco all'aria aperta, alle bande, alle monellerie - possa fuorviarsi. Duilio non è in grado di comprendere queste preoccupazioni e attribuisce l'internamento al disamore dei suoi. Fin dal primo giorno di collegio giura in cuor suo che si vendicherà di loro e li farà soffrire. Dopo trent'anni, Duilio, la cui cultura, la cui personalità e il cui comportamento risultano pienamente rispondenti al modello del 'signorino borghese', vive in una comunità dalla quale non può separarsi se non al prezzo di terrificanti angosce persecutorie. Egli è dunque schiavo di una fantasia vendicativa che la dipendenza da un istituzione, cui attribuisce significati parafamiliari, serve a punire. Punendosi, Duilio consegue anche l'effetto di far soffrire i suoi, i quali sono sconvolti per il fatto che un figlio educato, colto, intelligente e pieno di capacità debba finire la sua vita in 'manicomio'.

Mario nasce in una famiglia di intellettuali, tutti preda del mito di un'astratta autonomia, con un carattere molto dipendente - un mammone - e al tempo stesso esuberante fisicamente, irrequieto e ribelle. Viene assoggettato ad un'educazione apparentemente molto tollerante, ma di fatto severa e stigmatizzante, che mira a frustrare i suoi bisogni di dipendenza - ridicolizzandoli - e a contenere la sua esuberanza fisica, per piegarlo alla cultura e alle tradizioni familiari. Per paura, Mario, subisce, ma, nella fantasia aspetta di diventare grande e di sentirsi affrancato dalla dipendenza per 'scatenarsi'. Questa fantasia di scatenamento, associata alla crescita, si traduce nella duplice paura di diventare un criminale e di impazzire. Non appena diventa adolescente, Mario inizia a soffrire di terrificanti angosce di morte che lo paralizzano in casa, inducono una regressione infantile e vanificano il desiderio di vivere senza freno.

Sul piano intrapsichico, dunque, la vendetta, qualunque forma essa assuma, è vissuta come una colpa soggettiva e determina un arresto dello sviluppo. Ma gli esempi provano, con evidenza, che l'individuo è indotto a vendicarsi da circostanze che comportano responsabilità oggettive. Adottando un linguaggio giuridico si direbbe che il 'reato', psicologico è commesso su istigazione. Il problema delle responsabilità oggettive investe la famiglia, ma è ingenuo ritenere che il sistema familiare sia un sistema chiuso, necessario e sufficiente a spiegare il disagio che esso produce. Nei casi riportati - esemplari, non eccezionali - le responsabilità vanno ricondotte a 'quadri mentali' che le famiglie veicolano. Nel primo caso, c'è la concezione del figlio come 'capitale' da sfruttare per il bene supremo della condizione socio-economica della famiglia; nel secondo, il desiderio di dare al figlio un educazione superiore, di farlo diventare un 'signorino'; nel terzo, la paura di un traviamento rispetto ad una tradizione intellettuale che oserei definire illuministica.

Il discorso può essere ulteriormente elaborato: si può ammettere, infatti, che nei rapporti interpersonali familiari, così come in ogni gruppo, quei 'quadri' funzionino come alibi ideologici atti a coprire e razionalizzare vissuti soggettivi inconfessabili. Ma ciò che è certo è che essi non sono prodotti dalle famiglie che li adottato: preesistono tra le pieghe inconsce della cultura e configurano quei 'recinti mentali' di cui parla Braudel , all'interno dei quali, per periodi la cui durata è definita dalla dialettica tra istanze di conservazione e istanze di cambiamento, si elaborano, come variazioni su tema, le esperienze soggettive, intersoggettive e di gruppo. Lo studio di questi 'recinti' che, nel loro complesso, integrano quella che gli storici francesi definiscono una 'mentalità', e cioè un sistema di valori trasmessi inconsapevolmente da una generazione ad un'altra, è destinato a radicare la scienza della soggettività nel terreno delle scienze storiche.

6. Soggettività, istituzioni, mentalità

Se la 'mentalità', intesa come inconscio sociale storico, può e deve divenire oggetto di studio privilegiato per una scienza del disagio psichico, occorre mettere a punto una metodologia di ricerca, e, anzitutto, definire gli agenti che la veicolano. Non si va lontano dal vero asserendo che tali agenti sono identificabili nelle istituzioni pedagogiche.

Per esemplificare l'importanza di integrare lo studio delle vicissitudini soggettive con l'analisi delle 'mentalità' che sottendono tali istituzioni, mi avvarrò di un materiale ricavato da una ricerca svolta nella comunità degli ospiti, che concerne il gruppo di coloro che hanno avuto esperienze di internamento in collegio.

La ricerca si articola su quattro punti:

1. individuazione delle cause di internamento

2. ricostruzione delle carriere istituzionali dei soggetti

3. analisi della 'mentalità' che sottende l'istituzione-collegio,

4. formalizzazione delle conseguenze psicologiche dell'internamento.

I risultati della ricerca sono sintetizzati nelle tavole allegate.

(Le tavole in questione sono andate perdute. Ciononostante, il discorso che segue appare comprensibile)

Il rilievo storico della ricerca sta nel suo oggetto: affidando un materiale umano ancora poco strutturato, eppure già profondamente segnato da esperienze negative, ad una istituzione il cui fine è di sostituire la famiglia nei compiti educativi, si realizza una convergenza, quasi sperimentale, tra individuale e collettivo. Il vantaggio, rispetto alla situazione normale familiare, è dato dal fatto che il collettivo qui si esprime in virtù di tradizioni culturali che trascendono gli agenti educativi - gli istitutori -, e dell'impegno a qualunque prezzo, e quindi anche a prezzo di una mortificazione affettiva del rapporto educativo, nel raggiungimento degli scopi istituzionali. Naturalmente, questi scopi non coincidono con quelli espliciti -assistenza ed educazione dell'infanzia - ma vanno ricostruiti sulla base di indizi forniti dall'organizzazione interna e dal funzionamento dell'istituzione. Tali indizi permettono di definire una 'mentalità' caratterizzata da una concezione sostanzialmente negativa della 'natura umana', tale, che l'educatore non può mirare che ad una normalizzazione forzata la cui severità che giunge, talora, al sadismo, viene ad essere giustificata dalla irriducibile resistenza, che, per l'appunto, oppone una natura in se e per se selvaggia e anarchica alla civilizzazione. Prima ancora di aver commesso una qualunque colpa, il bambino, per essere tale, è colpevole: e da questa condizione di colpa 'naturale' può riscattarsi nella misura in cui accetta mortificazioni e costrizioni sociali.

Individuata questa 'mentalità' che permette di comprendere, non di giustificare la crudeltà del collegio, si pone il problema di ricostruirne la genesi, ma questo problema è di stretta competenza dello storico. A me interessa piuttosto soffermarmi sul rapporto tra la 'mentalità' del collegio e le conseguenze psicologiche dell'internameto. E' fuori dubbio che se la separazione dalla famiglia e l'inserimento in un ambiente estraneo esasperano nei bambini i vissuti persecutori, anziché farsi carico di questi problemi, il collegio, colpevolizzando e punendo, li usa, orientandoli verso l'interiorizzazione. Ciò non significa, ovviamente, che l'internamento in collegio produce fatalmente dei disagiati; è certo però che la 'mentalità' che ne sottende il funzionamento, fondata sulla concezione della natura umana come una malapianta da raddrizzare al fine di produrre i frutti della normalità, borghese o cattolica, oppone allo sviluppo individuale degli ostacoli spesso insormontabili.

In maniera molto più manifesta rispetto alle altre istituzioni pedagogiche, e anzitutto alla famiglia, nell'ambito della quale i rapporti interpersonali ed affettivi spesso mascherano i valori sociali che si trasmettono, il collegio risulta una vera e propria 'fabbrica' antropologica. Per quanto questa definizione possa suonare un po' fastidiosa, essa serve a mettere a fuoco un dato di fatto costantemente rimosso dall'ideologia delle istituzioni pedagogiche: la psiche è una 'materia prima' che, quale che sia la struttura biopsicologica originaria, va 'elaborata' per ricavarne un prodotto, la normalità, assunta come indice di buona salute mentale. Come ogni prodotto, la salute mentale è un bene che serve a soddisfare bisogni individuali e collettivi, ma questi bisogni, non riconoscendo una corrispondenza univoca, possono congiungersi o disgiungersi, secondo una gamma di possibilità che, secondo una terminologia di Fromm , spazia dalla salute antropologica, intesa come benessere degli individui, alla salute sociale intesa come normalità e cioè conservazione dello status quo.

Perciò il discorso sul disagio psichico si articola necessariamente con l'analisi del modo di produzione antropologica propria di ogni sistema e postula che la coscienza sociale si interroghi su di esso, su ciò che antropologicamente produce e su come lo produce. Fatta eccezione, infatti, per la materia prima psichica il cui corredo è affidato al gioco genetico, e per la condizione naturale di assoluta dipendenza del bambino che non potrà mai essere riscattato da nessun momento di liberazione, tutto il resto -organizzazione e funzionamento delle istituzioni pedagogiche, tecniche di 'lavorazione', obiettivi e fini a cui tende la produzione antropologica - è storicamente determinato. Ciò non significa ch'esso sia riducibile all'ambito della sovrastruttura. Una nuova scienza del disagio psichico postula, ed è destinata a confortare, una concezione dell'organizzazione sociale biunivoca, articolata, cioè, da due strutture perpetuamente interagenti tra di loro: le strutture socioeconomiche e le strutture mentali. Ancorato sterilmente al concetto dell'ideologia come sovrastruttura, il discorso su quest'ultima si è ravviato, rinnovandosi, da alcuni decenni, dacché esse sono divenute oggetto privilegiato delle scienze storiche. La difficoltà insormontabile di spiegare le dinamiche storiche - le inerzie, le rotture - tenendo conto solo delle strutture materiali ha prodotto un interesse vivace per i fenomeni mentali collettivi inconsci, per quei 'quadri', o 'schemi', o 'recinti' mentali caratteristici di un epoca che, ormai, vanno sotto il nome di 'mentalità'. Collocandosi sul punto di congiunzione dell'individuale e del collettivo, dello strutturale e del congiunturale, del tempo lungo e del quotidiano, del centrale e del marginale, lo studio della mentalità offre oggi agli storici, che lavorano con i documenti, e agli studiosi del disagio psichico, che lavorano con testimonianze incarnate, la possibilità di colmare lo scarto che tuttora esiste tra scienze storiche e scienze psicologiche.

E' lecito chiedersi se quest'approccio metodologico, che fa di ogni esperienza psicopatologica un oggetto di indagine microstorica, e pertanto preziosa, possa evitare di tradursi in un ennesimo esercizio di raffinata cultura della follia. Il discorso articolato in questo saggio mira a scongiurare questo pericolo.

Se la struttura della follia è chiusa e resa non dialettica dalla colpa soggettiva, la sua genesi ultima è da ricondurre ad un codice morale introiettato in maniera mortificante. Ciò non sorprende, dato che l'intervento delle istituzioni pedagogiche sulla 'materia prima' psichiatrica è volto, essenzialmente, ad improntare in essa un sistema di valori che accordi i desideri del soggetto con le istanze della convivenza sociale. Quando questa impresa fallisce si genera il disagio psichico.

Se si assume, come fa la psicoanalisi, il codice morale come legge universale che subordina l'accesso al sociale al controllo delle pulsioni e alla rinuncia alla loro soddisfazione, non può discenderne che una sorta di refrattarietà - biologica o psicologica - dei folli all'educazione. Se, invece, si assume il codice morale come oggetto storico, facente parte della 'mentalità', il discorso sulla follia può divenire scientifico: ché si tratta, di esperienza in esperienza, di contesto in contesto, di ricostruire la struttura, i contenuti, ciò che esso, di fatto, vieta o autorizza, prescrive o proscrive, impone o incentiva, stigmatizza o valorizza. Da questo punto di vista , la forma del codice, il cui fine è la civilizzazione, può risultare ideologica rispetto ai contenuti, la cui funzione normativa o normalizzante può avere significati politici piuttosto che etici: l'indizio di questa strumentalizzazione, peraltro formidabilmente potente, del codice morale sarebbe rappresentato dal danno che i folli ricavano dalla sua introiezione.

Altre considerazioni impongono di valutare attentamente questa ipotesi. Un codice morale è un sistema di valori condiviso socialmente: è, dunque, una struttura mentale collettiva. Ma come si produce, dove è depositato, chi lo custodisce, come esso cambia? La natura inconscia è attestata inconfutabilmente dalle difficoltà di rispondere a questi quesiti. Nessuno sembra produrlo, eppure esso sottende ogni organizzazione sociale. Fatta eccezione per le società ierocratiche, non è mai scritto, bensì depositato nella tradizione e veicolato di generazione in generazione sotto forma di cultura orale. Nessun individuo potrebbe definirlo in maniera coerente: pure esso funziona all'interno di ogni esperienza soggettiva. A differenza del codice legale, che regola e sanziona i comportamenti, esso è totalizzante, poiché controlla questi non meno che i pensieri, le emozioni, le fantasie. Non è immutabile, come attestano i cambiamenti dei costumi, ma nessuno apparentemente decide come e quando esso debba mutare. Oltre ad essere inconscio, dunque, il codice morale rappresenta, nel campo della 'mentalità' una struttura misteriosa. Pure, esso è la trama su cui si giocano le esperienze soggettive, talora perdendovisi.

In uno dei momenti in cui ha sfiorato la verità, senza approfondirla, Freud ha scritto che la causa di ogni disagio psichico è da individuare nel sadismo e nella crudeltà del Super-Io e che la cura ha come fine di allentare questa morsa feroce che schiavizza l'individuo. Questa intuizione va ripresa, storicizzata e resa operativa. Sadismo e crudeltà sono termini moralistici: sotto un profilo storico, essi denunciano la sopraffazione che un sistema di valori tradizionali attua nei confronti di una soggettività che li subisce senza farli propri. Questa violenza, che si esercita a livello intrapsichico, ed è veicolata dalle istituzioni pedagogiche, va ricondotta alla sua matrice: il codice morale, e i significati politici cui esso viene piegato all'interno di un sistema sociale.

Lavorare per allentare la severità con cui esso schiavizza i folli è un compito imprescindibile. Ma ciò significa anche assumerlo costantemente come oggetto di ricerca di psicologia storica: decifrarlo pertanto,e denunciarlo.

Per questa via, la psichiatria può continuare ad essere una prassi impegnata sull'hic et nunc degli eventi psicopatologici senza rinunciare a porsi come scienza: scienza microstorica, che, in virtù delle prove inconfutabili che produce, alimenta la necessità di un cambiamento del modo di produzione antropologica. Una scienza politica, infine: altro da qualsivoglia tecnica.


Dai Seminari 1982-1983

Estratto da ìIl discorso sulla natura umana in Pinel e in Freudî


Freud vive in un contesto storico conservatore, che oppone una resistenza accanita alla penetrazione di istanze liberali, in un impero eterogeneo, dominato fino alla grande guerra dall'aristocrazia agraria, dal clero e dai militari, che assoggetta e frustra le legittime aspirazioni nazionalistiche di disparati gruppi etnici. E' ebreo, e appartiene dunque ad una minoranza tradizionalmente invisa. Per di più, è di condizione non agiata, e ciò, nonostante le doti di ingegno, lo costringe a rinunciare ad un'ambita carriera accademica. Vive a Vienna, città inquieta culturalmente quanto sonnolenta politicamente. Ha una vasta e profonda cultura umanistica, ma ignora sia la storia che la politica. La sua formazione scientifica è tributaria di un volgare positivismo materialista. Vive dei proventi di un'attività privata che lo pone in rapporto con la sofferenza di una classe sociale, quella medio-alta borghese, nella quale egli, come molti ebrei aspira ardentemente ad integrarsi. Questo desiderio di integrazione, nel contempo, non estingue un desiderio di riscatto vendicativo dovuto alla condizione originaria di emarginazione: la consapevolezza della portata delle scoperte psicanalitiche e le resistenze opposte dall'autorità scientifica e dall'opinione pubblica al riconoscimento della sua grandezza amplificheranno il conflitto. La rivoluzionarietà della teoria, pertanto, non sarà mai insensibile al bisogno di risultare funzionale ad una conferma della civiltà occidentale, piuttosto che ad una sua messa in questione radicale.

E' lecito affermare che la psicoanalisi introduce, in psicopatologia, la dimensione della storicità La psichiatria nosografica tradizionale esalta il valore della biografia, ma solo in funzione del reperimento nel periodo premorboso di indizi attestanti il lento, impercettibile affiorare della malattia. Per Freud, non è il presente, la malattia, ad illuminare il passato, bensì questo a determinare il presente. Dall'ipnosi Freud ricava la nozione di memorie latenti ma attive, al di sotto della coscienza, nella dinamica dell'esperienza soggettiva: il suo merito consiste nell'aver totalizzato questo concetto, nell'aver intuito che l'esistenza, sia in senso diacronico che sincronico, è tutta tessuta di memorie, e che la coscienza funziona, anzitutto, come sistema rivolto ad attualizzare ciò che deve essere dimenticato.

Questa intuizione fonda la tecnica analitica come ricostruzione minuziosa di un passato rimosso, e la terapia come restituzione di questo passato ad una coscienza che, senza saperlo, ne è determinata. Ma, ancorché storico, il passato personale non si può ricostruire con documenti: esso è depositato nelle falde profonde di quei registri viventi che sono gli individui, e - limite metodologico ancor più serio - esso è codificato in un linguaggio simbolico, che affiora nei sintomi, nei sogni, nei lapsus, nelle fantasie ad occhi aperti, la cui essenzialità misteriosa impone una decriptazione. Ciò che Freud intuisce d'emblée, prima ancora di disporre della chiave interpretativa, è che l'inconscio ridonda di torbide passioni, di fantasie licenziose, di feroci pulsioni, di desideri anarchici. Il problema della traduzione e della comprensione genetica si pone come inquietante: quale è il senso di questo barbaro mondo passionale che persiste sotto le apparenze della civilizzazione? Sono note a riguardo - e meriterebbero un'indagine accurata - le esitazioni di Freud.

Affascinato dalle doti intellettuali e morali dei pazienti, che egli non cessa di elogiare, è portato dapprima a dar credito all'inconscio come testimone di indicibili violenze subìte dai soggetti, ma intuisce immediatamente il vicolo cieco nel quale andrebbe a cacciarsi avallando questo punto di vista: la psicoanalisi diventerebbe una critica radicale dell'organizzazione familiare e dell'educazione come strumenti di terrorismo psicologico. A Freud non manca forse il coraggio di giungere a tanto, gli difetta soprattutto un'attrezzatura mentale atta a comprendere ciò che sembra incredibile.

Non disponendo infatti di una teoria della struttura sociale, dei suoi livelli coscienti ed inconsci, e tanto meno dei rapporti di reciprocità tra micro e macrocontesto, Freud non può verificare e/o falsificare la testimonianza dell'inconscio in relazione alle famiglie incriminate. Ora, ai suoi occhi, le famiglie dei pazienti non sono affatto disgregate, violente o perverse: sono, nella maggioranza, famiglie normali ed amorevoli, che hanno a cuore l'educazione dei figli e che di fronte ai loro disagi sollecitano le cure. Ad alcuni di essi Freud riconosce addirittura delle doti - sia umane che professionali che affettive - fuori dal comune.

Da questa verifica, l'attendibilità dell'inconscio risulta invalidata. Non rimane pertanto che un'alternativa: le pulsioni - erotiche e distruttive - che sottendono e strutturano i conflitti psichici non possono essere che il residuo di una natura umana originariamente amorale e asociale, la cui civilizzazione si è arrestata su un ostacolo rifiutato: l'assoggettamento dei desideri anarchici al principio di realtà.

E' dunque il fantasma di una libertà totale, affrancata dai vincoli sociali, che affiora paurosamente, in virtù della fissazione, con il linguaggio inconscio: fantasma, che persistendo nelle falde profonde dell'esperienza soggettiva disagiata, attesta inequivocabilmente l'esistenza di una natura umana recalcitrante alla civilizzazione e pronta a sfruttare particolari circostanze ambientali e intersoggettive per tentare di affermare i suoi diritti ciecamente egoistici e, dunque, disgregatori di ogni ordine morale e sociale.

Ma, stando così le cose, quale è la forza che si oppone alla traduzione in atto dei desideri anarchici e, per scongiurare ogni pericolo, giunge a limitare gravemente la libertà personale dei soggetti, fancedoli ammalare?

Nonostante sia limitata ideologicamente, l'onestà intellettuale di Freud è profonda, e lo induce a riconoscere, che, pur sottesa da fantasie mostruose, la sofferenza psichica è prodotta da una condanna morale formulata intrapsichicamente in virtù di un codice morale la cui severità è ricavabile dall'equazione di identità che esso pone tra intenzione e azione.

La struttura del disagio psichico è dunque configurata dalla persistenza di desideri anarchici assoggettati al controllo del senso di colpa e della autopuninizione. Amorale per un verso, il malato è, dunque, ipermorale per un altro. Questa contraddizione, ancor oggi inquietante, viene risolta da Freud con un autentico escamotage: sarebbe l'onnipotenza del pensiero infantile, che comporta l'identificazione del desiderio con l'azione, a fornire al tribunale della mente capi d'imputazione tali da meritare una inesorabile condanna.

L'argomentazione è debole: la rigidità del Super-Io non implica, infatti, un'originaria sensibilità morale e, dunque, una educabilità mal utilizzata? Non è capzioso ipotizzare che lo stesso individuo sia stato dotato dalla natura di un corredo pulsionale eccessivo e di una spiccata sensibilità morale?

Incapace di lasciare in sospeso un nodo teorico decisivo per tutto l'edificio teorico psicanalitico, Freud non riesce ad andare al di là di una spiegazione naturalistica, evocando una mitica viscosità libidica. La colpa soggettiva della fissazione come pure le responsabilità dell'ambiente educativo vengono ad essere ulteriormente sfumate, ma al prezzo di far balenare nuovamente, sul piano ideologico, il fantasma di una natura riottosa alla civilizzazione.

E' vero che si tratta di un pessimismo dell'intelligenza riscattato dall'ottimismo della volontà: nonché rinunciarvi, la psicoanalisi fonda la possibilità di introdurre nella natura l'ordine della cultura, laddove questo non sia avvenuto spontaneamente, in virtù di una cura che permetta al passato pulsionale di trasferirsi su un presente relazionale. Ma a qual fine se non di aiutare il soggetto a riconoscere, al di sotto della sua sofferenza e del senso di colpa, la persistenza e la pressione, allo stato naturale, di un Es inteso come caotico serbatoio di impulsi asociali o amorali?

Con l'impresa freudiana il confine dell'irrazionale si sposta.

In Pinel, la concezione rousseauniana della natura umana regge allo scacco della rieducazione morale dei folli: distorta e incattivita da condizioni socio-ambientali disumane, essa risulta, in quanto malata, snaturata e insensibile ad ogni intervento correttivo. Ma nulla, se non l'ideologia della restaurazione, induce a pensare che essa lo sia originariamente, in sé per sé.

Con Freud, l'irrazionalità si pone al confine tra psichico e biologico, ove si traducono in rappresentanze psichiche - le pulsioni - istanze naturali ciecamente soggette al principio della scarica.


Da La Politica del Super-Io (1986)

Capitolo primo. La scoperta del Super-Io e il problema della doppia identità

 

Il termine Super-Io è introdotto da Freud nel 1923. L'intuizione dell'esistenza di questa istanza risale però al 1914. Nella Introduzione al narcisismo, Freud scrive:

´I moti pulsionali libidici incorrono nel destino di una rimozione patogena quando vengono in conflitto con le rappresentazioni della civiltà e dell'etica proprie del soggetto. Con ciò non abbiamo mai inteso che l'individuo abbia una nozione meramente intellettuale di queste rappresentazioni, ma sempre piuttosto che egli le riconosca come normative e si sottometta alle sollecitazioni che da esse gli pervengono. Abbiamo detto che la rimozione procede dall'Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l'Io ha di sé... Possiamo dire che un individuo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale... La formazione di un ideale sarebbe da parte dell'Io la condizione della rimozione'1.

Poco più oltre nel testo Freud aggiunge:

´Non ci sarebbe niente di strano se riuscissimo ad identificare una speciale istanza psichica che assolva il compito di vigilare affinché a mezzo dell'ideale dell'Io sia assicurato il soddisfacimento narcisistico, e a tal fine osserva costantemente l'Io attuale commisurandolo a questo ideale. Se tale istanza esiste, non è possibile che ci accada di scoprirla: possiamo solo riconoscerla come tale e ci è lecito dichiarare che ciò che chiamiamo la nostra "coscienza morale" ha questa prerogativa. Riconoscere l'esistenza di tale istanza ci rende intellegibile il cosidetto "delirio di essere notati" o, più precisamente, di essere "osservati", delirio che si manifesta con tanta evidenza nella sintomatologia delle affezioni paranoidi... I malati di questo tipo si lamentano del fatto che tutti i loro pensieri sono conosciuti, e le loro azioni sono osservate e inquisite... Tale lamentela è giustificata poiché corrisponde al vero. Una forza di questo genere che osserva, scopre e critica tutte le nostre intenzioni esiste davvero, e precisamente nella vita normale di ciascuno di noi'.

La genesi di questa istanza che, nei deliri di osservazione, sembra parlare in nome del mondo, appare ovvia:

´L'esigenza di formare un ideale dell'Io, su cui la coscienza morale è incaricata di vigilare, è scaturita nell'individuo per opera delle critiche che i suoi genitori gli hanno rivolto a voce, alle quali, nel corso del tempo, si sono associati gli educatori, i maestri e l'incalcolabile e indefinita schiera di tutte le altre persone del suo ambiente (il suo prossimo e la pubblica opinione)'.

Ovvia è anche l'interpretazione del carattere persecutorio che quell'istanza assume in quanto rappresentante della norma sociale:

´Sia le voci, sia la moltitudine di persone la cui identità è lasciata nel vago sono... riportate in primo piano dalla malattia; e con ciò viene riprodotta regressivamente la storia evolutiva della coscienza morale.

Ma la ribellione contro questa "istanza censoria" dipende dall'intenzione del soggetto... di liberarsi da tutti gli influssi che sono seguiti a quelli dei genitori...

... La sua coscienza morale gli si fa dunque contro in forma repressiva, assumendo le sembianze di qualcosa di ostile che agisce all'esterno'.

Già in questa fase, la linearità dell'ipotesi occulta un nodo di problemi su cui Freud non riuscirà mai a far luce. Nel Compendio di psicoanalisi, redatto nel 1938, egli ribadisce che la genesi del Super-Io concerne ´effettivamente non solo la personalità degli stessi genitori ma anche le tradizioni razziali, nazionali e familiari trasmesse ai figli per loro tramite come pure le esperienze dell'ambiente sociale immediatamente circostante che essi rappresentano', e che essa ´raccoglie ogni sorta di contributo da parte di eventuali successori o sostituti dei genitori come i maestri, di primo piano nella vita pubblica e certi nobili ideali sociali'.

Nonostante questa funzione di rappresentanza sociale del Super-Io rimanga sempre evidente nel pensiero freudiano, Freud non ne ricava mai l'ovvia ipotesi che essa attesti la predisposizione sociale della natura umana.

In nome della moltitudine che rappresenta ó sterminata, in quanto comprende i vivi e i morti ó il Super-io, secondo Freud, rimane deputato a piegare la natura umana, in sé e per sé ribelle alle norme e ai valori sociali, alle esigenze della vita collettiva in virtù non degli affetti che legano il soggetto al gruppo di appartenenza bensì del principio del più forte: i molti contrapposti all'uno. Il superamento del pensiero kantiano sulla coscienza morale, assunta come forma innata della psiche umana, rivendicato esplicitamente da Freud in nome della possibilità di spiegare la filogenesi e l'ontogenesi della funzione superegoica in termini di una socializzazione forzata, atta a promuovere il primato della cultura sulla natura umana, avviene pertanto a partire dall'ipotesi ideologica di un conflitto irriducibile tra di esse. Avallata, secondo Freud, dai dati tratti dalla pratica psicoanalitica, quest'ipotesi, che rappresenta un basso continuo del pensiero freudiano, incorre in una crisi. A produrla, però, non sono i dubbi epistemologici bensì le circostanze storiche. Pochi mesi dopo l'Introduzione al narcisismo, la Grande Guerra avvia, nel cuore dell'Europa civilizzata, un massacro al quale i popoli non possono sottrarsi, ciascuno in nome di ragioni che sembrano coincidere con le radici stesse della civiltà.

Dopo un iniziale e fervido entusiasmo patriottico, Freud cade in una profonda e lunga crisi. Ciò che gli risulta chiaro è che il potere costituito, che dovrebbe garantire i valori della civiltà, può essere esercitato anche contro l'interesse dei popoli e degli individui.

Egli scrive, in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte:

´Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: e cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l'uso dell'ingiustizia, non perché intende sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla... Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l'individuo singolo... Lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrificio di sé, ma li tratta poi da minorenni... Lo Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con gli altri stati e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza'.

Il mito di Totem e Tabù, nel quale Freud vedeva due anni prima il coronamento della teoria libidica atta a spiegare tutto della civiltà, della storia collettiva ed individuale, è dissacrato. Al posto del Padre primitivo, le cui ingiustizie e la cui prepotenza venivano assolte dal suo essere soggetto a leggi di natura, Freud ha assunto il diritto dei molti sull'individuo, frutto di un contratto sociale, come fondamento della civiltà. Garante del diritto è lo Stato. Ma è proprio il potere statale che, con l'ipnotica fascinazione dei valori di cui si ammanta ó la fedeltà alla Patria, la necessità di lottare per una Causa giusta ó, mantiene i cittadini in una condizione di totale assoggettamento, ad avere promosso un figlicidio e un fratricidio universale. Come il Padre primitivo, lo Stato, deputato, a differenza di quegli, a difendere il bene collettivo dalle pulsioni individuali, ha manifestato, in occasione della guerra, la sua "immoralità", affrancandosi da ogni vincolo giuridico e esibendosenza alcun freno una distruttiva volontà di potenza.

La riflessione sulla guerra mette in crisi l'ingenuo positivismo di Freud, che opponeva alle cieche pulsioni naturali le esigenze collettive della civiltà, e assegnava al Super-io la funzione di frustrare quelle in nome di queste.

Gli ideali dell'Io che veicolano, nel cuore della soggettività, spesso confondendosi con le aspirazioni dell'individuo, i codici normativi del gruppo ó familiare o etnico ó di appartenenza, assumono repentinamente un significato inquietante.

Se essi, infatti, come si desume dalla teoria edipica, si fondano filogeneticamente su di un patto sociale che, proscrivendo il parricidio e la legge del taglione, ha consentito alla società di istituirsi e perpetuarsi, tenendo a freno l'aggressività intraspecifica, come è possibile che, in nome loro, lo Stato, che dovrebbe esserne garante, imponga, come espressione di virtù civica, l'uccisione del simile? Nonché di nobili ideali, la funzione superegoica che promuove il senso del dovere, non potrebbe veicolare e rendere soggettivamente costrittivi, in nome dell'appartenenza sociale, anche valori oggettivamente immorali? Non potrebbe essa semplicemente piegare la coscienza individuale ad obbedire alla volontà del gruppo di appartenenza e di chi lo rappresenta soffocando, per effetto dell'angoscia sociale, ogni valutazione critica in merito al dovere cui si è chiamati? In concreto, un soggetto sollecitato a uccidere i simili per la patria che si ribella a tale dovere, è un traditore, un incivile, un asociale o non piuttosto il testimone di una moralità in conflitto con la volontà del gruppo o del potere che lo rappresenta identificata arbitrariamente con il bene comune? Posto, dunque, che il Super-Io veicola, all'interno della soggettività, i doveri legati all'appartenenza sociale, la sua funzione socializzante, intesa come costrizione a piegare la volontà individuale a quella collettiva, è indubbia, ma, se si prescinde dall'identificare questa con la moralità, potendo essa esprimere solo un'ideologia dominante, la sua funzione moralizzatrice riesce almeno incerta.

Ciò che Freud, dunque, ha scoperto nella struttura della soggettività è una istanza capace di indurre angoscia sociale laddove si instaura un conflitto tra volontà collettiva e volontà personale. Ma, identificando arbitrariamente i valori sociali con i valori morali, egli è sollecitato a leggere in quel conflitto sempre e solo l'anarchia della natura umana. Ciò, nonostante i dubbi indotti dagli eventi bellici.

Freud dà voce a questo dramma personale, non meno che culturale in Lutto e melanconia, scritto quasi contemporaneamente alle Considerazioni sulla guerra e sulla morte. L'accostamento tra lutto e melanconia è giustificato dalle cause occasionali ambientali, entrambe le condizioni rappresentando ´la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale e così via. A differenza del lutto, la melanconia è uno stato patologico caratterizzato da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie, che culmina nell'attesa delirante di una punizione'. L'analogia con il lutto porta a pensare che il malinconico ha subìto una perdita che riguarda l'oggetto; ma, sul piano psicologico, egli attacca e denigra se stesso, giudicandosi indegno di vivere, fino al punto di essere spinto ad attentare alla propria vita. Ecco, dunque, ancora una volta prendere corpo l'istanza superegoica persecutoria:

´Nel malinconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono validi motivi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita istanza morale'.

Rimane da capire come possa un'istanza morale incrudelire a tal punto da indurre un'autocondanna a morte. La risposta di Freud è di una straordinaria pregnanza:

´Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del malinconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente ad un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare... Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti ad un oggetto d'amore ó e da questo poi distolti o riversati sull'Io ó abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia'.

A onor del vero, la chiave è più efficace. Se infatti al posto dell'oggetto d'amore poniamo non solo una persona ma un sistema di valori ó Dio, la patria, la famiglia, ecc. ó, e se ipotizziamo che la melanconia muove dall'essersi rivelato questo sistema indegno dell'amore che esso aveva promosso, la conclusione è che l'istanza superegoica ha la funzione di rivolgere contro l'Io una condanna che andrebbe rivolta contro l'oggetto, di trasformare una presa di coscienza critica in ciò che si cela dietro ingannevoli apparenze in una radicale autocondanna, di sanzionare come colpa imperdonabile ogni umana ribellione, sia pure essa giusta. Nonché di coscienza morale, sembrerebbe opportuno parlare di una perversione sociale della coscienza morale, nel senso che essa impone il sacrificio della coscienza personale critica in nome di valori che vanno comunque rispettati, anche se essi, spogliati delle apparenze, risultano alienati.

Freud ha, dunque, scoperto nella struttura della personalità, un'istanza che sembra funzionare come una seconda identità rispetto all'Io, essendo dotata di un codice di valori, che può risultare del tutto estraneo alla coscienza personale, e di un potere ipnotico che, nei casi in cui viene attaccato criticamente, si trasforma in potere repressivo e punitivo, terrificante addirittura poiché può indurre l'individuo a pagare con la morte la sua ribellione. Non è per caso che in questo periodo Freud abbandona ogni riserva e comincia ad utilizzare, per definire tale istanza, termini antropomorfici, parlando di Censore e di Giudice. L'antropomorfismo superegoico rappresenterà, per Freud stesso e per il movimento psicoanalitico, come vedremo, un nodo gordiano di insolubile difficoltà. Di fatto, l'ipotesi di una doppia identità psichica è perturbante, tanto più se si tiene conto che l'istanza superegoica, in quanto espressione della tradizione culturale, veicolata dai genitori, dagli educatori e dalla società nel suo complesso, dovrebbe avere l'effetto di integrare socialmente la personalità, di "familiarizzarla" con il mondo rendendo ad essa "familiare" il mondo.

Ciò che invece risulta chiaro a Freud è che quell'istanza rende familiare il mondo ó interno ed esterno ó solo se ad essa l'individuo si assoggetta, accettandone passivamente gli ideali che veicola; se l'individuo si ribella, l'istanza superegoica da protettiva diventa persecutoria e mortificante. L'antropomorfismo superegoico è confermato da Freud in un saggio, Il perturbante, del 1920, a torto ritenuto minore. Esso è percorso da un'inquietudine che sarebbe ingenuo attribuire all'argomento, che, in apparenza, concerne l'estetica. Freud intende dimostrare che una delle forme più inquietanti di angoscia, quella significata dal termine tedesco unheimlich è dovuta al riaffiorare, dopo una lunga rimozione, ´di ciò che un giorno fu heimlich (patrio), familiare', e che, in seguito alla rimozione, diventa perturbante, lugubre, sinistro. Uno dei temi sui quali Freud sofferma l'attenzione è ´il motivo del sosia in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall'una all'altra di queste persone... così che l'una è compartecipe delle conoscenze, dei sentimenti e dell'esperienza dell'altra; l'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io e lo sostituisce con quello delle persone estranee; un raddoppiamento dell'Io, quindi una suddivisione dell'Io, una permuta dell'Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose, e persino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono'.

Questo motivo suggerisce a Freud la definizione dell'istanza superegoica:

´La rappresentazione del sosia... può acquisire un nuovo contenuto traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell'Io. Nell'Io prende forma lentamente un'istanza particolare, capace di opporsi al resto dell'Io, un'istanza che serve all'autosservazione e all'autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista un'istanza del genere, che può trattare il resto dell'Io come un oggetto, il fatto cioè che l'uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alle vecchie rappresentazioni del sosia...'.

In nota, Freud aggiunge: ´Io credo che quando i poeti lamentano che il petto dell'uomo ospita due anime, e quando gli psicologi popolari parlano della scissione dell'Io nell'uomo, essi intravvedono questo dissidio che fa parte della psicologia dell'Io, tra l'istanza critica e il resto dell'Io'.

Alla luce di questi testi è insensato sostenere che l'antropomorfismo superegoico rappresenti una svista freudiana o un cedimento della riflessione scientifica a residui animistici. Si tratta, invece, di un'intuizione prodigiosa: e non tanto perché omologa ogni struttura di personalità ad un sosia, attribuendo ad essa normalmente una doppia identità che la psicopatologia rivela, consentendone dunque l'oggettivazione. Portata alle estreme conseguenze, quell'intuizione promuove una teoria della mente bi-modale, che postula un corredo binario di forme affettive innate.

Ma quell'intuizione è a tal punto perturbante che Freud tenta di scongiurarne l'impatto epistemologico sul modello pulsionale che va elaborando, con l'attribuire al Super-Io funzione di autosservazione e di autocritica, ponendo cioè i presupposti di una riduzione della scoperta entro i confini della psicologia dell'Io. Ma come si può parlare di autosservazione e di autocritica se il Super-Io, funzionando il più spesso inconsapevolmente, appare in grado di assumere l'Io come oggetto, di giudicarlo, dal livello delle fantasie a quello dei comportamenti, alla luce di sistemi di valore non di rado ad esso estranee, e, soprattutto, di indurre attraverso i sensi di colpa, un regime di vita orientato a mantenere un'omeostasi riparativa e/o punitiva dolorosa e frustrante che contraddice, nonché il principio del piacere, ogni umano bisogno di felicità?

Come tenteremo di dimostrare, il carattere perturbante della scoperta freudiana può risolversi solo ipotizzando che la funzione superegoica riconosca le sue matrici in una forma affettiva a priori sistemica, che sacralizza il legame sociale e, in conseguenza di ciò, assume l'individuo come funzione del gruppo cui appartiene.

Nel corso di ogni esperienza, quella forma integra e rinforza i valori culturali acquisti per mezzo delle interazioni interpersonali e elaborati cognitivamente. Il grado di compatibilità di tali valori con il corredo di bisogni individuali, del tutto indifferente dal punto di vista della forma affettiva superegoica, che ne impone la condivisione in nome del mito dell'armonia sistemica e del debito di appartenenza, è decisivo per il prodursi o meno di conflitti psicopatologici.

L'intento di questo saggio è di dimostrare che la scoperta del Super-Io può permettere un approccio radicalmente nuovo ai problemi psicopatologici e può indurre a formulare, in termini critici, una serie di questioni, inerenti il rapporto tra natura umana e cultura, che attraversano tutto l'ambito delle scienze umane e sociali, coinvolgendo anche le scienze neurobiologiche. Il paradigma psicopatologico che proponiamo, strutturale e dialettico, porta alle estreme conseguenze epistemologiche ciò che è implicito in quella scoperta: la struttura bimodale della personalità, che si fonda su un corredo naturale di bisogni binario il quale, in rapporto alle interazioni ambientali, può essere mortificato, scisso o integrato dialetticamente, ma mai estinto nelle sue potenzialità intrinsecamente conflittuali. Se tale paradigma dovesse risultare capace di spiegare i fenomeni psicopatologici, c'è da chiedersi perché esso non sia già stato formulato.

Quanto a Freud è agevole fornire una risposta.

La difficoltà insormontabile in cui egli si imbatte concerne la pratica psicoanalitica, nel corso della quale l'assoggettamento dell'Io al Super-Io punitivo appare frequentemente irreversibile. Nonché preda di un bisogno anarchico di piacere, le persone disagiate sembrano non di rado affette da un perverso bisogno di soffrire e di espiare, al punto tale che ogni tentativo di indurre un allentamento dei sensi di colpa dà luogo a dei peggioramenti. In termini dinamici, sembra che l'Io, benché acquisisca, in virtù dell'analisi, la capacità di connotare le sue colpe come meramente immaginarie, non possa sfuggire comunque alla necessità di scontarle, rimanendo in una condizione di patetica, e talora drammatica, subordinazione all'istanza superegoica. Messo di fronte all'evidenza dei dati clinici, Freud non ricusa di riconoscere che il disagio psicopatologico è sempre alimentato e mantenuto dagli eccessi superegoici. Tale riconoscimento, dovuto ad una radicata onestà intellettuale, avrebbe potuto produrre una teoria della natura umana incentrata su una drammatica predisposizione sociale che, per effetto di interazioni conflittuali con l'ambiente, si rivolge contro l'individuo stesso. Ma, a tal fine, sarebbe occorsa una capacità di critica storico-sociale ben maggiore di quella di cui Freud disponeva. Non potendo porre in gioco la sua ideologia conservatrice, che assume come matrice della civiltà la repressione pulsionale, Freud non può accettare l'idea che la cultura possa essere in contrasto con i bisogni della natura umana, vale a dire che essa possa essere aleinata e alienante.

Egli è convinto, come scriverà in L'avvenire di un'illusione, che la civiltà rappresenti ´qualcosa che fu imposta ad una maggioranza recalcitrante da una minoranza che aveva capito come impossessarsi del potere e dei mezzi di comunicazione', e che tale condizione deve perpetuarsi, dato che ´non è possibile evitare che la massa sia dominata da una minoranza, così come non si può fare a meno di imporre il lavoro nella vita civile; le masse sono infatti svogliate e prive di senno, non amano la rinuncia pulsionale, non possono con argomento alcuno essere convinte dell'inevitabilità di quest'ultima, e gli individui che le compongono si offrono vicendevolmente appoggio nel dare libero corso alla propria sfrenatezza. Soltanto l'influenza di individui esemplari, da esse riconosciuti come loro capi, può indurle alle fatiche e alle rinunce da cui dipende il permanere della civiltà'.

Non ci soffermeremo, per ora, sul paradosso per cui, nell'opera rivolta a dissacrare la religione come mito infantilizzante, Freud ribadisca la necessità di una struttura sociale gerarchica atta a controllare le tendenze incivili proprie delle masse. L'ideologia freudiana rimane abbarbicata alla nostalgia dell'Impero e si rivela incapace di dare senso ai fermenti socialisti che seguono al suo crollo. Purtroppo, questa visione del mondo influenza potentemente il sistema teorico psicoanalitico, inducendo Freud ad ipotizzare che il Super-Io, rappresentante soggettivo della cultura, dell'autorità e della tradizione, per quanto crudele possa apparire, deve avere una sua ragione d'essere.

» dunque un'esigenza logica che fa capo ad un presupposto ideologico, che impone a Freud di rimestare in "basso", nella natura umana e nella storia, alla ricerca del disordine pulsionale che giustifica la perversione superegoica. L'esito della "ricerca" è noto.

Paradossalmente, nel corso degli ultimi anni, più si accentua la consapevolezza clinica di Freud del carattere persecutorio dell'istanza superegoica, più egli vede in essa l'estremo rimedio contro una natura umana animata dall'istinto di morte, e cioè da una primaria e ´cieca ostilità contro tutti e contro tutto', che, se non fosse duramente repressa, voterebbe la civiltà alla catastrofe. La teoria dell'istinto di morte è assunta da Freud come una verità di assoluta evidenza: "Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopoÖ In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente, e rivela nell'uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie".

Il radicale pessimismo freudiano non è risolto dal riferimento all'Eros. Nonostante la tradizione psicoanalitica abbia voluto attribuire alla contrapposizione tra Eros e Thanatos un significato dialettico, tale significato è assente nel pensiero freudiano. Il conflitto irriducibile, che solo un'auspicata mutazione culturale potrà risolvere, si pone tra una natura umana in sé e per sé meramente distruttiva e un bisogno di conservazione della vita individuale e sociale che, nell'ultimo Freud, non si pone come pulsione bensì come derivato dell'istinto di morte e cioè come riparazione all'insorgere di un senso di colpa primario.

Se, dunque, la scoperta del Super-Io come istanza potenzialmente civilizzante, che fa capo alla predisposizione sociale della natura umana, e nel contempo alienante, poiché mantiene l'Io in una condizione di perenne minorità rispetto ai valori socio-storicamente determinati che essa veicola, si può ritenere scientifica e rivoluzionaria, l'interpretazione che Freud ne fornisce per giustificare la funzione persecutoria che essa assolve nelle esperienze psicopatologiche appare tributaria di un'ideologia radicalmente pregiudiziale nei confronti della natura umana. » ovvio, dunque, porsi il problema se quella scoperta non possa essere restaurata nella sua scientificità, e portare ad esiti diametralmente opposti a quelli cui è pervenuto Freud.

Il radicalismo dell'ipotesi dell'istinto di morte non poteva non produrre contraccolpi nel movimento psicoanalitico. Di fatto, come è stato dettagliatamente documentato da Greenberg e Mitchell, esso ha prodotto una scissione sia sul piano della teoria che sul piano della pratica terapeutica. Al modello pulsionale, che nega alla natura umana una qualunque predisposizione sociale, e insiste ad individuare nell'angoscia primaria prodotta dalla pulsione aggressiva la motivazione dinamica dello sviluppo sociale della personalità (cfr. J. Goldberg), si è contrapposto, per merito di Sullivan, Hartmann, Fairbain, Bolbwy, Winnicott, M. Mahler, Kohut, Stern, Emde, un modello che, pur nella sua eterogeneità, riconosce come denominatore comune l'attribuzione alla natura umana di una spiccata predisposizione alla relazione sociale sia sul registro affettivo che su quello cognitivo.

L'irriducibilità ideologica di questi due modelli, che fanno capo a concezioni antropologiche antitetiche, è stata lucidamente analizzata da Greenberg e Mitchell.

Ciò che a noi preme sottolineare è che il modello relazionale, affettivo, cognitivo, nonostante l'insistente riferimento al processo di socializzazione come processo di interiorizzazione e di elaborazione costruttiva di relazioni interpersonali e di valori culturali, ha sortito l'effetto paradossale di porre tra parentesi, con l'antropologia freudiana, tutta l'ampia problematica inerente il rapporto tra natura umana e cultura, e, per quanto riguarda questa, tra locale e globale che Freud è stato costretto ad affrontare da una personale vocazione filosofica non meno che dalla necessità di spiegare la funzione superegoica, in particolare per quanto concerne il ruolo che essa assolve nelle esperienze psicopatologiche. » difficile valutare in quale misura questa messa tra parentesi, una vera e propria rimozione, dipenda, per dirla con Rapaport, dagli sconcertanti problemi legati alla concezione del Super-Io, che impongono alla psicoanalisi un cambiamento paradigmatico radicale, e in quale misura essa sia la conseguenza di un progressivo restringimento delle ricerche e delle teorizzazioni nell'ambito della infant research. Appare chiaro, però, che la psicologia del Sé, nel suo sforzo di sormontare il punto di vista strutturale freudiano, nonostante i suggestivi richiami al processo di costruzione della personalità come processo che evolve attraverso fasi di integrazione e di conflitto con l'ambiente interpersonale, appare del tutto incapace, in conseguenza di una eccessiva valorizzazione dei momenti affettivi che ineriscono quel processo, di ricondurlo e spiegarlo, nei suoi successi e nei fallimenti, sul registro delle matrici entro cui esso si realizza: il rapporto dialettico tra natura umana e cultura, e tra locale e globale. Il rifiuto della metapsicologia, promosso dall'insofferenza per le pretese filosofiche del sistema freudiano, diventa, di conseguenza, una nuova ideologia che restringe l'ottica della ricerca e della teoria in un'attenzione un po' miope per l'individuo, la cui irripetibile unicità viene ricondotta e resa complementare alla unicità dell'ambiente interpersonale entro il quale si costruisce il Sé.

Per questa via, pur fertile per alcuni aspetti, di cui si renderà conto successivamente, si accantona non solo la problematica freudiana, incentrata sulla ricerca di una legge universale atta a spiegare, filogeneticamente e ontogeneticamente, il passaggio dalla natura alla cultura e, quindi, almeno in senso formale, la causa dei conflitti psicopatologici; si accantona anche in nome di una pretesa fedeltà alle persone e ai fatti clinici colti nella loro singolarità, la problematica specifica che autorizza la definizione della psicopatologia come disciplina autonoma nell'ambito delle scienze neurobiologiche, umane e sociali: l'invarianza delle strutture psicopatologiche, le cui forme elementari sembrano dotate della misteriosa tendenza a replicarsi a partire da insiemi di variabili ó costituzionali, familiari, socioeconomiche e culturali ó i più eterogenei.

L'intento di questo saggio consiste nel dimostrare che l'approccio multidimensionale, orientato a valutare quelle variabili con attenzione molto maggiore rispetto alla tradizione psichiatrica, per non rischiare di tradursi in una sterile collezione di singolarità, postula l'integrazione con un approccio strutturale; questo, a sua volta, richiede, per non esaurirsi sul piano della fenomenologia descrittiva e/o comprensiva, di rivalutare la scoperta freudiana del Super-Io e di iscriverla in una nuova cornice di riferimento. Portata alle estreme conseguenze epistemologiche, questa scoperta, che illumina il rapporto dialettico tra natura umana e cultura, trascende infatti il piano della psicopatologia e diventa una chiave dell'esperienza umana nel mondo.

Note

1. Tutte le citazioni sono tratte da S. Freud, Opere, Boringhieri, Firenze 1977.


Dai Seminari 1988-1989


Sulla funzione superegoica

1. L'ipotesi della doppia identità

2. L'antropomorfismo superegoico

3. Genesi della funzione superegoica

4. La funzione superegoica nello sviluppo della persona

5. Funzione superegoica, sistemi di significazione e coscienza morale critica

6. Funzione superegoica e psicopatologia


1. L'ipotesi della doppia identità

L'ipotesi di una doppia identità costitutiva della struttura esperienziale umana rappresenta il nucleo 'forte' intorno a cui abbiamo edificato la teoria struttural-dialettica. In termini sintetici, l'ipotesi afferma che l'esperienza soggettiva si costruisce a partire da una programmazione emotiva cognitiva culturale, dovuta all'interazione con l'ambiente, che forma una parte della mente, analiticamente definita Super-io. Funzionando tale programmazione come modello di riferimento, l'identità egoica, che coincide con la soggettività cosciente, si definisce in virtù di un rapporto più o meno dialettico con quella programmazione secondo una gamma indefinita di possibilità combinatorie, le cui espressioni estreme - in una certa misura meramente teoriche - sono l'assimilazione superegoica dell'io e la produzione egoica di una coscienza morale critica.

La prima espressione coincide con un modo di essere - di sentire, di pensare e di agire - totalmente conforme ai sistemi di valore ereditati culturalmente e/o dominanti; la seconda, con un modo di essere caratterizzato da un atteggiamento selettivo ~ di consenso per alcuni aspetti, di rifiuto per altri - nei confronti di quei sistemi di valore, che possono pertanto essere integrati e/o significati entro una diversa cornice di riferimento. Le esperienze reali si organizzano tra questi due estremi, e riconoscono, di necessità, sia pure in misura diversa, un certo grado di contraddizione tra identità superegoica e identità egoica. Nei casi in cui questo scarto si configura nei termini di un conflitto irriducibile, si genera un disagio psicopatologico.

Per quanto l'ipotesi di una doppia identità appaia dotata, in rapporto ai fenomeni psicopatologici, di una capacità euristica sorprendente, non si può ignorare che essa si configura, sotto il profilo teorico, come molto problematica.

Che l'io si definisca in virtù di un'eredità culturale, mediata da relazioni interpersonali di significato affettivo, è fuor di dubbio. Che quell'eredità, e le interazioni che ne consentono l'introiezione, possano configurarsi, all'interno della personalità, come un'identità impersonale, incorre, invece, nell'obiezione antropomorfica. Che l'identità superegoica, infine, possa rivolgersi contro l'io, come appare fenomenologicamente nelle esperienze psicopatologiche, risulta del tutto misterioso.

Cercheremo di approfondire questi nodi teorici, al fine di corroborare, e in parte revisionare, le considerazioni svolte ne 'La politica del Super-io'.

2. L'antropomorfismo superegoico

Il problema discende, come noto, dalla scoperta stessa della funzione superegoica, per caratterizzare la quale Freud ha utilizzato termini come Giudice, Censore che, per quanto metaforici, sembrano alludere ad un homunculus istallato nella mente umana. La critica di antropomorfismo rivolta alla teoria freudiana del Super-io appare, di fatto, infondata ad un'attenta lettura dei testi.

Elaborando la scoperta del Super-io sotto il profilo strutturale e definendola come una istanza della personalità, vale a dire come una parte della personalità da cui l'io dipende per quanto concerne la sua stessa definizione e l'immagine che ha di sé,

Freud ne ha sottolineato a pÌÙ riprese il carattere eminentemente sociale, transpersonale o impersonale. In un passo egli scrive:

"Il super-io del bambino non si forma a immagine dei genitori ma del loro Super-io: esso si empie dello stesso contenuto, diventa il rappresentante della tradizione, di tutti i giudizi di valore, che cosÌ persistono attraverso le generazioni".

E' chiaro che Freud concepisce il Super-io come una parte della personalità distinguibile e distinta dalla identità personale cosciente, la cui funzione è di trasmettere sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, di replicarli con meccanismi - l'identificazione, l'imitazione, la paura del conflitto - che ne assicurino la riproduzione la più fedele possibile e ne mantengano l'invarianza. In un certo qual modo, le modalità di trasmissione e di replicazione del Super-io attraverso le generazioni, mirando ad assicurare l'invarianza dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, sembrano omologabili, almeno formalmente, alle leggi dell'eredità biologica. Il Super-io svolgerebbe, pertanto, a livello culturale, una funzione omologabile a quella del patrimonio genetico a livello biologico. Ciò non sorprende se si tiene conto del fatto che la cultura è lo strumento con cui l'evoluzione della specie umana, arrestatasi sul piano biologico alla fine dell'ominazione, è proseguita. Il problema consiste nel capire come si realizza, a livello psicologico, la funzione superegoica, e cioè, in pratica, cosa si intende nel definire il Super io come 'rappresentante' mentale della società, delle sue tradizioni e dei suoi sistemi di valore.

Rappresentare, etimologicamente significa 'essere presente' e 'stare al posto di', 'essere l'altro di un altro'. Presente nella struttura della personalità, il Super-io sta al posto della società, e cioè realizza una funzione di controllo culturale e morale. Ma come si effettua tale controllo?

Le risposte a riguardo sono scarse e insoddisfacenti. La psicoanalisi si è scissa, su questo, in due correnti.

L'una, di derivazione kleiniana, che, in nome di una presunta strutturazione precocissima del Super-io, lo assume come una sorta di barriera difensiva psicobiologica contro la pressione pulsionale; l'altra, di derivazione hartmaniana, lo riduce a mera funzione cognitiva, espressione massima dell'autonomia dell'io.

Al di fuori dell'ambito psicoanalitico, il problema del Super io come parte della personalità è negato; le funzioni di autocontrollo sono ricondotte o ad un condizionamento o ad una retroazione sistemica.

Tutte queste spiegazioni sono insoddisfacenti poiché trascurano il dato problematico più inquietante, restituito in maniera evidente dalle esperienze psicopatologiche più gravi - per esempio, dai deliri strutturati - ma ricavabile da tutte le esperienze di disagio psichico: il Super-io ha le caratteristiche proprie di un'identità psicologica. Esso, attraverso la coscienza, parla, esprime giudizi, critica, ammonisce e minaccia; produce emozioni, i sensi di colpa, che affiorano sotto forma di rimorsi, angosce, malesseri; determina infine comportamenti autopunitivi, autoinvalidanti, autodistruttivi o interagisce potentemente sui comportamenti egoici. Questi dati, almeno a livello psicopatologico, sono di evidenza immediata, La difficoltà sta nell'accordare gli attributi propri di un'identità con un carattere impersonale. Questa difficoltà può essere avviata a soluzione se si analizzano esperienze nel corso delle quali il Super-io parla per bocca delle persone, per esempio caratteristicamente nelle gravi depressioni. Una persona depressa si giudica coscientemente inadeguata, indegna, immeritevole e priva di valore, un nodo di fallimenti e di colpe. Essa è convinta di fornire una valutazione realistica della propria persona, e, di conseguenza, ritiene che il suo punto di vista sia oggettivo e inconfutabile. Se le si fa rilevare che essere inadeguati, immeritevoli, indegni e colpevoli sono giudizi di valore che implicano un metro di misura, un modello di riferimento e un canone di normalità, essa di solito si sorprende. Costretta a definire i criteri da cui muove il giudizio su di sé, fa riferimento costante ad un modello astratto o irrealizzabile in assoluto o realizzabile solo in circostanze che non coincidono con quelle nelle quali il soggetto ha vissuto o vive.

Yana, una madre che ha ormai i figli grandi,vive una tormentosa depressione incentrata su un vissuto di grave e imperdonabile inadeguatezza che ha sempre sotteso l'esercizio del ruolo materno. Un genitore adeguato é per lei una persona capace di rappresentare per i figli un punto di riferimento, di sostegno e di sicurezza costante, capace, cioè, di offrire di sé un'immagine di forza, di equilibrio, di carattere. Non deve avere, in rapporto al suo ruolo e alla vita, né dubbi né incertezze, e ~ elemento d'estrema importanza - non deve mai apparire triste o depresso.

Yana, invece, ha sempre alternato nel rapporto con i figli atteggiamenti rigidamente direttivi e atteggiamenti deboli e permissivi. Questi ultimi sono intervenuti nel corso delle crisi depressive di cui ha sofferto periodicamente, e che, nonostante una rigida autodisciplina, non è mai stata in grado di dominare e di nascondere. Perciò essa ritiene di avere, anziché aiutato, danneggiato i figli. Si sente indegna di loro, che manifestano tutti nei suoi confronti un affetto immeritato, e dei suoi genitori che, invece, sono stati perfetti: severi e intransigenti con sé e con i figli, repressivi sino alla crudeltà in nome di principi morali e religiosi elevatissimi, capaci di incutere sino alla fine timore in virtù di una forza di carattere straordinaria.

Gabriella, una ragazza di 22 anni, si sente in colpa nei confronti dei genitori che hanno duramente lavorato per assicurarle un avvenire, e che lei vuol ripagare separandosi da essi. Oltre che indegna, Gabriella - figlia unica - si vive addirittura come insensibile e malvagia, poiché, prevedendo il loro invecchiamento, presagisce che non sarà disponibile ad assisterli. Credente e praticante,Gabriella non può significare questi vissuti che in termini di colpa grave e irreparabile. Talora, dentro di sé, Gabriella, oppressa dalla depressione, tenta timidamente di darsi delle attenuanti. Per assicurarle I'avvenire, i genitori si sono inurbati quando aveva pochi mesi, e l'hanno affidata, per sei anni, a parenti che l'hanno ma1trattata in ogni modo. La madre le ha confessato che la lunga separazione si era resa necessaria non solo per motivi di lavoro, bensì anche perché essa, stando sola con la figIia piccola, era terrorizzata dall'idea si poterle far del male. Entrambi i genitori, poi, nonostante abbiano accumulato un discreto patrimonio, continuano a lavorare come bestie da soma, senza concedersi respiro; perennemente esauriti, affetti da disturbi psicosomatici di ogni genere, irascibili, non mancano occasione di aggredire quotidianamente Gabriella, assumendola come responsabile della loro infelicità.

Vanamente la ragazza si difende facendo presente che li ha ripagati con una eccellente carriera scolastica e con una dedizione sacrificale ai doveri domestici. Essa, nel suo intimo,sa di essere venuta meno e di venire meno al comandamento che l'impone di onorare i genitori quali che siano i loro comportamenti-. Anziché una buona figlia, è un'ingrata e una malvagia.

Non si tratta di esperienze straordinarie, ma, proprio per ciò, esse possono risultare probanti. In ambedue i casi, la coscienza funziona veicolando contenuti cognitivi - i giudizi negativi su di sé - ed emozioni - i sensi di colpa, di indegnità, di malvagità - che appaiono determinati da presupposti espliciti

Yana definisce, lucidamente. il modello della madre perfetta, Gabriella quello della buona figlia. Ma ricondurre i vissuti depressivi allo scarto tra io reale e ideale dell'io è estremamente meccanicistico. Nonostante la connivenza cosciente, in entrambi i casi i modelli di riferimento funzionano in virtù di una minacciosa costrizione interiore, che si potrebbe esplicitare come segue: guai a te se non sei così come si deve essere.

La connivenza cosciente, piuttosto che un consenso, sembra attestare una difesa mirante a scongiurare la rappresaglia dei sensi di colpa. Tant'e vero che essa urta contro una resistenza viscerale irriducibile: la rabbia, che Yana ricorda d'aver nutrito per anni nei confronti dell'implacabile severità dei genitori, e che Gabriella nutre quotidianamente. In entrambi i casi, il Super-lo si è strutturato criminalizzando questa rabbia, e imponendo o di pagarla con i vissuti di colpa o di ripararla invalidandola, riconoscendo solo le virtù dei genitori: e cioè imitandoli nel caso di Yana, o sottomettendosi a essi nel caso di Gabriella. Sembra impossibile interpretare queste esperienze senza far riferimento ad una parte della mente che funziona secondo una propria 'logica'.

Definire il Super-io come un'identità sembra reso lecito dal fatto che esso funziona in maniera organizzata, coerente e, invariante nel tempo. Il carattere impersonale lo si ricava dal fatto che i sistemi di valore cui fa riferimento si configurano come postulati, e cioè come principi assoluti e indiscutibili. Ciascuno di essi può essere ricondotto ad una qualche tradizione culturale, e, dunque, ha una sua storia e una sua ragione d'essere. Ma, a livello psicologico, il Super-io rappresenta la tradizione solo nei termini di prescrizioni (si deve), proscrizioni (è proibito), e autorizzazioni (si può). Per denominare l'identità superegoica occorrerebbe far ricorso al pronome indefinito francese on. Ciò che accade nelle esperienze psicopatologiche, particolarmente nelle più drammatiche, che, giusta l'intuizione di Freud, funzionano riguardo alla struttura di personalità come un prisma, è che quella identità assume una configurazione personale, nei termini minacciosi di un lo o di un Noi che si rivolgono al soggetto espropriandolo del suo potere e riducendolo al rango di un tu. Per spiegare questo fenomeno, non occorre però far ricorso ad un homunculus o a un genio (benefico o malvagio): basta pensare che una parte della mente funzioni in maniera tale che, ogniqualvolta si instauri un conflitto tra l'individuo e la società la società, sia pure essa rappresentata da un solo membro investito istituzionalmente di un ruolo autoritario, essa tenda automaticamente ad attribuire all'individuo la colpa del conflitto.

Nonché di antropomorfismo o di animismo, dunque, in riferimento all'identità superegoica, occorrerebbe parlare di una mente sociale deputata a mantenere un rigido ordinamento gerarchico tra il tutto ~ la società - e la parte - l'individuo. Se, per questa via, il problema dell'antropomorfismo può ritenersi risolto, altri e più inquietanti problemi sembrano delinearsi. Anzitutto, occorre interrogarsi sull'automatismo superegoico, e cioè sul carattere inesorabilmente pregiudiziale nei confronti dell'io dell'identità superegoica. Se si rifiuta l'ipotesi freudiana, secondo la quale la severità del Super-io è una prova inconfutabile della asocialità della natura umana, quale altra ipotesi si può formulare?

3. Genesi della funzione superegoica

L'ipotesi diametralmente opposta. L'angoscia sociale che è tipica della funzione superegoica, e si traduce in un minaccia di esclusione radicale, attesta che l'appartenenza ad un gruppo è, nonché una costrizione, un bisogno proprio della natura umana. Ciò non sorprende se si tiene conto che l'antropogenesi, durata migliaia e migliaia di anni, è avvenuta a livello di piccoli gruppi comunitari di poche decine di membri che, vivendo di caccia e di raccolta, praticarono la cooperazione e la spartizione come regole elementari ed essenziali di sopravvivenza. La cooperazione, necessaria a soddisfare i bisogni primari - la nutrizione, la tessitura degli abiti, la costruzione e l'arredamento della dimora ~ comportava un sapere tecnico elementare ma prezioso, e in continua evoluzione, per es. per quanto concerneva la costruzione di nuovi utensili.In questo sterminato periodo di tempo, caratterizzato dalla diffusione planetaria della specie umana e, quindi, dalla necessitò di adattarsi ad ambienti ecologici i più diversi, l'umanità sondò tutte le possibili tecniche di sopravvivenza in accordo con gli equilibri naturali. Il regime economico di scarsità e di mera sussistenza, come impedì la stratificazione sociale all'interno dei gruppi cosÌ rese, se non in sporadiche occasioni di contese per il territorio, peraltro smisurato in rapporto alla densità di popolazione, inconcepibile la guerra. Pur in assenza di stratificazioni sociali, ogni gruppo riconobbe una sua gerarchia fondata sulla competenza. I piccoli, ovviamente, dipendevano dai grandi che trasmettevano ad essi le tradizioni tecniche e culturali accumulate dalle generazioni precedenti. Tra gli adulti, un membro, di solito, veniva investito del ruolo di capo per le sue qualità unanimemente riconosciute. Il culto dei morti non attestava tanto uno sgomento di fronte alla morte (questa interpretazione, abbastanza frequente, proietta nel passato le angosce del presente), quanto il rispetto devozionale nei confronti di membri del gruppo che, in qualche oscuro modo, sopravvivono. Non per caso, nelle tombe si provvedeva a porre gli alimenti, i vestiari e glÌ oggetti di cui si riteneva che i morti continuassero ad avere bisogno. Il carattere non stratificato delle comunità preistoriche è attestato inequivocabilmente dalle tombe, che sono press'a poco tutte uguali.

Nonostante la solidarietà, la cooperazione e il sostanziale egualitarismo dell'epoca preneolitica, non è lecito pensare ad una mitica età dell'oro. La rigidità delle tradizioni, per altro unanimemente condivise, e l'angoscia di una perpetua precarietà, dovuta ad un'economia di sussistenza incapace di assoggettare la natura ai bisogni umani, determinarono una sostanziale inerzia delle potenzialità individuali. Il gruppo, con le sue tradizioni, i suoi bisogni, le sue superstizioni, è tutto, e l'individuo nulla se non in quanto parte del tutto. Un individuo isolato, di fatto, è un individuo morto. E' probabile, dunque, che, in questo lungo periodo, la funzione superegoica si sia strutturata sotto forma di coscienza sociale deputata a richiamare di continuo l'individuo al rispetto della tradizione e degli obblighi sociali inerenti il suo ruolo.Ma - non è inopportuno sottolinearlo - in questo periodo il sacrificio dell'individualità, intesa come tendenza alla differenziazione, appare funzionale alla sopravvivenza di una comunità, da cui l'esistenza individuale dipende inesorabilmente. E' in breve, un sacrificio che torna a vantaggio e non a danno dell'individuo.

La nascita dell'agricoltura, avvenuta in età neolitica, segna una radicale inversione di tendenza e introduce, con i suoi enormi vantaggi, squilibri sociostrutturali di enorme portata.Di questi, quattro assumono un rilievo particolare: la tendenza delle comunità a fondersi, per motivi organizzativi, in unità sempre più vaste e anonime; la scoperta di potenzialità della natura enormi, la cui utilizzazione produttiva richiede una quantità di lavoro umano crescente, e, di conseguenza, l'affiorare della duplice tendenza a sfruttare la natura sfruttando gli uomini; il definirsi del surplus, e cioè, di un prodotto eccedente i bisogni di consumo della popolazione e atto pertanto ad essere accumulato e conservato sotto forma patrimoniale di ricchezza; la liberazione dal lavoro agricolo, infinitamente più redditizio rispetto alla caccia e alla raccolta, di una quota di popolazione che si inurba dedicandosi all'artigianato, al commercio, alla cultura e all'amministrazione. E' in conseguenza di tali circostanze che lo Stato sorge dalla società, erigendosi il di sopra di essa e separandosene. Non è giusto pensare che questa separazione che stratifica la società in classi, sia avvenuta con la violenza. Probabilmente, i primi uomini che si affrancarono dai lavori manuali, erano dotati di particolari capacità socialmente riconosciute, e, indubbiamente, la loro attività di programmazione, organizzazione e amministrazione delle risorse collettive fu importante nell'avviare lo sviluppo della civiltà storica.Senza il modellamento psicobiologico delle età precedenti, incentrato sulla esaltazione del tutto - della comunità nel suo complesso e del bene comune - sulle parti - i singoli individui - questo salto, forse, non sarebbe avvenuto

Ma la pericolosità potenziale di quel modellamento, atto a promuovere la sottomissione a chi rappresenta il bene comune, si è definita successivamente, allorché le classi dirigenti, utilizzando il privilegio della scrittura, hanno cominciato a produrre una cultura ideologica mirante ad accreditare il loro potere e le loro facoltà come espressioni di un'investitura divina, a sacralizzare, insomma, il loro ruolo, erigendosi sul sociale e ratificando la propria inattaccabilità. La funzione superegoica, modellata da sempre sul primato del sociale, è giunta così ad arricchirsi di un nuovo contenuto: il rispetto sacro del potere rappresentato dai re, dai sacerdoti, dai funzionari e dai guerrieri. Questo nuovo contenuto ha finito con il terrorizzare le masse, infantilizzandole e inducendole a credere dì essere protette da coloro che, proteggendole, ne approfittavano. La funzione superegoica, in precedenza attiva nel legare i membri in un corpo sociale, e quindi in un'entità simbolica non meno che reale, si è strutturata religiosamente: re-legando gran parte dei membri in un rapporto di dipendenza e di assoggettamento rispetto non già a persone ma a ruoli investiti di un significato sacro. Per ciò, appare lecito affermare che essa e' divenuta, con la nascita della storia, funzionaria del mito gerarchico. All' angoscia di esclusione radicale dal gruppo di appartenenza, si è sommato il terrore del conflitto con persone investite di autorità sacra. E' possibile, anche se non dimostrabile ~ nonostante i dati della psicopatologia siano espliciti a riguardo - che tale programmazione culturale si sia, nel corso del tempo automatizzata.Il Super-io funzionerebbe, pertanto, come un computer che, in caso di conflitto tra l'individuo e il sociale, rappresentato da figure investite di autorità sacra, emette inesorabilmente un verdetto di colpevolezza e di condanna a carico dell'individuo, del tutto indipendentemente dalle sue ragioni e dalle circostanze oggettive e relazionali che hanno indotto il conflitto.

Rimane, ovviamente, il dubbio che l'interpretazione che abbiamo fornito della genesi della funzione superegoica possa essere sostenuta e confermata da un punto di vista neurobiologico. Mentre l'angoscia sociale dell'esclusione dal gruppo può ritenersi espressione propria della natura umana, e del bisogno di integrazione sociale in particolare, l'angoscia del conflitto con l'autorità sacra si deve ritenere un prodotto culturale sotteso da un sistema di significazione rigido, univocamente orientato a criminalizzare l'individuo che entra in conflitto. E' lecito pensare che tale sistema di significazione abbia in qualche modo modellato la struttura biologica?

Per ora non è possibile fornire risposta alcuna. E' più importante, forse, tener conto del fatto che la funzione superegoica, con la sua capacità di produrre angoscia sociale e morale, può essere utilizzata dalla cultura, e dal potere, per impedire la nascita della coscienza morale critica in modi molteplici. Se è vero, infatti, che la funzione superegoica tende a imporre il rispetto di valori sacri, nel senso che da essi si fa discendere il bene comune, non é detto che tali valori debbano coincidere necessariamente con Dio, lo Stato, l'Autorità o il Padre. Essi possono coincidere, infatti, con una qualunque Causa che, ideologicamente, si faccia passare come funzionale all'equilibrio del Sistema. Di conseguenza, come è già avvenuto in passato e come sta accadendo nuovamente a partire dalla metà degli anni '70, anche l'individualismo competitivo che, in sé e per sé, comporterebbe una minaccia all'armonia sociale, può diventare una sistema di significazione superegoico, nel momento in cui ideologicamente esso viene assunto come strumento di una stratificazione sociale meritocratica, e quindi giusta.

Dacché il principio di autorità è stato posto in crisi - per quanto esso sopravviva negli strati profondi della mentalità e in numerosi sottosistemi sociali (compresi quelli familiari) - è il consenso maggioritario a rappresentare l'arma vincente del mito gerarchico. Ma il consenso maggioritario non è, in sé e per sé, l'espressione di una coscienza morale critica. 0, per essere più precisi, esso lo diventa solo in virtù del significato che assegna e del rapporto che intrattiene con il dissenso e l'opposizione.

4. La funzione superegoica nello sviluppo della personalità

Ancora oggi, in ambito psicanalitico, il Super-io viene assunto come una parte della personalità che può funzionare in modo normale - veicolando e facendo vigere i valori, le norme e le regole della società - o in modo patologico. La patologia superegoica consisterebbe in un eccesso di difesa dalle pulsioni libidiche e aggressive, che ritorcerebbe contro l'individuo la violenza di quelle pulsioni. Tale eccesso sarebbe dovuto alla confusione, propria di falde infantili della mente, tra fantasie, desideri, intenzioni e azioni.

Ne 'La politica del Super-io' si e' definito il Super-io stesso una perversione della coscienza morale. Appare opportuno, dato il carattere radicale di questa affermazione, argomentarla in maniera più dettagliata. E' fuor di dubbio che l'introiezione e l'assimilazione di valori, norme e regole di comportamento sia un momento fondamentale dello sviluppo della personalità. Ciò che rende possibile l'acquisizione di un'identità culturale è una predisposizione naturale: la sensibilità sociale, che si esprime precocemente sotto forma di identificazione con i grandi, di imitazione, di tendenza a conformarsi alle loro aspettative e al loro volere, e di paura di entrare in conflitto con loro. Se si tiene conto di queste caratteristiche, occorre riconoscere che lo sviluppo della personalità si realizza a partire da una condizione che giustamente, da Laing, è stata definita ipnotica, essendo caratterizzata da una influenzabilità totale e da un sentimento di cieca fiducia nei grandi. Da ciò discende che lo strutturarsi della funzione superegoica, intesa come rappresentante mentale dei valori, norme e regole proprie del gruppo di appartenenza, si può ritenere come una fase normale dello sviluppo della personalità. Se, a questo livello, si vuole parlare - ed e' lecito - di coscienza morale, occorre tener conto che essa funziona come una programmazione direttiva dell'io, non ancora ben integrata con esso, e, soprattutto, acritica. Ciò dipende in parte dalla debolezza dell'io, il cui bisogno di opposizione, non disponendo di un'adeguata attrezzatura culturale, non può esprimersi che in forme viscerali, inadeguate; in parte dall'ambiente che circonda il bambino e dalle relazioni interpersonali che egli intrattiene; in parte, infine, dal carattere replicativo e tendenzialmente inerte delle tradizioni culturali e dei sistemi di valore che strutturano la personalità adulta a livello superegoico. Quest'ultimo fattore, giustamente rilevato da Freud, ha un'importanza che non e' stata apprezzata a sufficienza.

Cosa significa, in termini concreti, la presenza e la persistenza del Super-io nelle persone adulte? Che esse vivono, in quanto persone reali, entro forme sociali e mentali prescrittive, proscrittive e propositive ereditate e conservate, con un grado maggiore o minore di consapevolezza, come se queste, nonché prodotti culturali, siano valori sacri. In quanto espressione di una presunta volontà comune che li rinforza, e coincide con la società in toto, quelle forme sono assunte come canali entro cui necessariamente, deve fluire l'esperienza soggettiva per non esporsi alla sanzione dei giudizio sociale o alle rappresaglie dell'autorità. Il carattere sacro, o, comunque, imprescindibile dell'identità superegoica, ne rivela, nonché le origini, le finalità che, apparentemente, coincidono con il mantenere coesa la società, imponendo all'individuo di riconoscersi erede di una tradizione, parte di un tutto, ma, di fatto, promuovono il conformismo, assoggettano l'individuo a valori che, in quanto sacri o dominanti, e non già prodotti da altri uomini, non possono essere attaccati, criticati, elaborati o, se necessario, cambiati.

Se la coscienza morale ha la funzione di ereditare valori prodotti dalla storia e di vagliarli criticamente per giudicarne il grado di congruenza con i bisogni umani, è chiaro che il Super-io, opponendosi alla nascita della coscienza morale critica, non solo non può identificarsi con essa, ma funziona cercando di pervertirla, e cioè di ingannarla illudendola di una libertà?smentita dalla necessità di eseguire una programmazione determinata. L'inganno si traduce nel consenso sociale in virtù del quale i membri della società, conformandosi alle proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoÌche, vivono la propria normalità, rinforzata dal giudizio sociale, come una libera scelta e, per di più, una scelta comune. E' una sorta di gioco speculare e reciproco, che impedisce alla coscienza di oggettivare la programmazione delle forme sociali e mentali entro cui sono costrette a vivere, e di coglierne le matrici storiche, vale a dire gli agenti di quella programmazione che, dalle origini della civiltà storica, sono le classi dominanti.

Se la funzione superegoica si può ritenere, dunque, una fase necessaria dello sviluppo della personalità, in quanto rappresentante mentale del mito gerarchico, e dunque dell'alienazione dei grandi, non è lecito identificarla con la coscienza morale, che si può costruire solo in virtù di un atteggiamento critico dialettico nei confronti della programmazione superegoica.

Ma la funzione superegoica, in nome del feticcio di una società ordinata, integrata e coesa, mira ad impedire la nascita della coscienza morale critica o, per dirla in termini gramsciani, l'evoluzione dell'individuo in una persona.

Normale in un certo periodo dell'evoluzione della personalità, la funzione superegoica si può ritenere dunque patologica in riferimento al bisogno d'individuazione, se e nella misura in cui essa persista al di là della fase evolutiva. Ciò non significa che essa debba sempre dar luogo ad una fenomenologia psicopatologica. In ogni società, una quota rilevante della popolazione appare sufficientemente confermata nella sua normalità dall'avere la coscienza tranquilla, dal vivere, anche dignitosamente, cosi come 'si deve' vivere e come vivono i più. Ma la persistenza della funzione superegoica, se si configura comunque come un fattore di rischio psicopatologico a livello sociale, rappresenta una valenza deterministica in coloro la cui sensibilità mira a mantenere l'integrazione sociale nell'ottica della tradizione superegoica e il cui bisogno di opposizione/individuazione appare incompatibile con il rispetto di forme sociali e mentali alienate.

5 Funzione superegoica, sistemi di significazione e coscienza morale critica

All'epoca della scoperta del Super-io, Freud si augurò che della coscienza morale, argomento da sempre al centro della riflessione filosofica, si potesse finalmente parlare in termini scientifici, cioè in termini psicanalitici. Egli cadde, però, clamorosamente, in contraddizione con se stesso. Affermando, infatti,che il Super-io individuale si struttura introiettando il Super-io parentale e viene rinforzato dalle interazioni sociali, egli giunse ad ammettere che esso 'si empie' dei contenuti della tradizione culturale e dei valori veicolati dal gruppo di appartenenza e dall'opinione pubblica. La funzione superegoica non può, dunque, essere valutata sotto il profilo psicologico, poiché essa può essere oggettivata, e dunque assunta come oggetto di scienza, solo in rapporto ai 'contenuti', e cioè ai sistemi di significazione storicamente determinati che veicola e ai quali fa riferimento. E' noto come Freud tentò di risolvere questo problema della coscienza morale come forma psicologica determinata storicamente. Muovendo dal presupposto che la natura umana sia in se' e per se' radicalmente asociale e gravata da un 'istinto' mirante ciecamente a scindere tutti i vincoli e i legami sociali, egli pose l'Edipo, e cioè il rispetto del primato deI Padre, come il principio di frustrazione che subordina la natura umana alla cultura e la rende sottomessa alla socialità. Da questo punto di vista la storia passerebbe tutta, di generazione in generazione, attraverso il collo di bottiglia di un meccanismo psicologico, selezionerebbe gli essere socializzati da quelli asociali. Si tratta di un punto di vista arbitrario, che non si accorda con i dati dell'antropologia ne' con quelli della storia.

Non esiste alcuna prova della asocialità della natura umana, se si fa eccezione per la scissione noi/loro che, in nome dell'identificazione con un gruppo, un'etnia, una cultura, un sistema di valori, impedisce l'identificazione con l'altro, l'estraneo, come socius o simile. Ma tale scissione, che ancora incombe sulla storia umana, e' un'espressione di socialità alienata non dì asocialità. Un tifoso romanista che, il giorno del derby, si colloca nella curva laziale, è un estraneo, un nemico, un altro da espellere: ma se egli si trasferisce in quella curva per conversione, cambiando fede ed esibendo i consueti segni di riconoscimento di gruppo, egli diventa d'emblée un socius, un alleato, la parte di un tutto. Il problema, dunque, è che, nel corso della storia, la socialità di gruppo sembra, almeno a partire da una certa epoca, aver ottuso la coscienza di specie. Analogo ragionamento si può e si deve fare per le differenziazioni che sono intervenute all'interno del corpo sociale, e che hanno reso, secondo la metafora di Menenio Agrippa, che va rovesciata, ricorrentemente insensibile la testa - i ceti dominanti e dirigenti - ai bisogni delle membra e delle viscere - i ceti subalterni.

La contestazione alla teoria della natura umana e della storia freudiana può essere radicalizzata.Chi oserebbe identificare Socrate con un nevrotico afflitto dal complesso di Edipo, nonostante egli, di fronte ai giudici che lo accusano di offendere la tradizione dei padri e di gettare fango su di essa, pur riconoscendo le loro ragioni, protesta di non potersi piegare ad esse, rivendicando il diritto dÌ serbar fede al suo daimon privato, e cioè di doversi sottomettere alle ragioni del suo cuore e della sua ragione?

E' chiara dunque la confusione in cui è caduto Freud, e in cui cadono, anche oggi, coloro che, assumendo la funzione superegoica come espressione di partecipazione e di condivisione dei valori culturali e sociali, possono tutt'al più pensare che essa funzioni in maniera rigida e eccessiva ma non in maniera perversa.Tale confusione induce a non distinguere la predisposizione alla socialità della natura umana, che comporta l'acquisizione e la condivisione dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, e i valori stessi che, se sono sempre e necessariamente culturali, non sono di conseguenza morali, cioè socializzanti e umanizzanti.

In altri termini occorre distinguere la coscienza morale, intesa come funzione deputata a mediare dialetticamente il bisogno di integrazione sociale e il bisogno di individuazione, dal modo concreto con cui essa si realizza e funziona all'interno delle singole esperienze che, essendo dovuto ai sistemi di valere storicamente determinati che le informano e alla possibilità concessa al soggetto di assumere, riguardo ad essi, un atteggiamento critico, può configurarsi come superegoico, e cioè replicativo, costrittivo e acritico. Per spiegare questa perversione della predisposizione alla socialità e alla moralità, non occorre far riferimento ad un sistema sociale manifestamente oppressivo, mortificante e persecutorio, per quanto un sistema del genere spieghi immediatamente lo strutturarsi di una funzione superegoica estremamente rigida.

La predisposizione sociale e morale della natura umana, in quanto espressione della sensibilità, e della identificazione con l'altro, ripropone, in ogni membro della specie, nostalgicamente per un verso, utopisticamente per un altro, il tema di un'armonia sociale che, in virtù della cooperazione e della condivisione, dia luogo alla produzione e alla distribuzione equa di una ricchezza sociale (intesa in senso lato). Ma la funzione superegoica, in nome di un rispetto sacro dello status quo, sia esso espressione di una tradizione o di un'ideologia attuale dominante, impone, a tutti i livelli della struttura sociale [e, dunque, anche al livello di un qualunque microsistema familiare), di condividere tutto: i valori e i disvalori, la ricchezza e la miseria, la coerenza, le contraddizioni, la ragionevolezza e l'irrazionalità; e fa incombere, su ogni moto di ribellione viscerale nei confronti di questo ricatto, la minaccia dell'imputazione di asocialità, insensibilità, malvagità.

Si può parlare, dunque, di una coscienza morale potenziale e in atto: la prima, come si e' detto, coincide con la predisposizione della natura umana all'integrazione sociale, e quindi alla condivisione di valori collettivi; la seconda si realizza in forma critica allorché l'individuo opera in rapporto a quei valori, delle scelte libere, che possono esprimersi sotto forma di consenso partecipe o di dissenso. Il passaggiodella coscienza morale dalla potenza all'atto è interferito dai sistemi di significazione superegoici storicamente determinati, i quali tendono a pervertire quella predisposizione, forzandola, in nome dell'integrazione sociale e del bene comune al gruppo di appartenenza, nella direzione dei consenso passivo e cieco (e, quindi, al limite, anche entusiastico].

La potenza dei sistemi di significazione superegoici, oltre che dalle modalità di trasmissione, che avvengono all'interno di relazioni interpersonali ad alto significato affettivo, e' dovuta al fatto che essi propongono dei valori la cui realizzazione e' sempre, ideologicamente, riferita al bene comune, ad un tutto che va dai sistemi familiari allo stato.

Alla luce di quanto detto, il discorso elaborato sinteticamente ne la prima parte de 'La politica del Super-io' può risultare più chiaro. Anzitutto, non ha senso parlare di un homo psicologicus in astratto o considerato solo come parte di un microsistema comunicativo. Dacché l'umanità ha prodotto la cultura, ogni uomo vive in una condizione di determinazione storica, poiché egli non può definire la propria identità se non per mezzo dei sistemi di significazione culturale da cui viene investito. Tale determinazione non è assoluta, poiché, per effetto del bisogno di opposizione, essa può essere trascesa: ogni uomo ha la capacita potenziale di dotarsi di una coscienza morale critica. Ma ciò non e' mai un processo indolore, poiché postula l'entrare in conflitto dell'individuo con l'eredità culturale, il gruppo di appartenenza che l'ha veicolata, i legami affettivi e di gratitudine che lo vincolano a questo gruppo

La cultura, sinora, non solo non ha favorito questo processo, ma ha tentato sistematicamente di invalidarlo. Il mito gerarchico, che sottende la storia umana, si fonda infatti su una drammatica scissione dei patrimonio di sensibilità proprio della natura e della specie umana. Tale scissione postula l'attenuazione, sino alla estinzione, della sensibilità in coloro che appartengono ai ceti dominanti, necessaria al fine di convalidare i propri privilegi in rapporto alla società nel suo complesso; e, viceversa, l'esaltazione della sensibilità, fino al limite estremo del sacrificio di sé, in coloro che appartengono ai ceti subordinati, che sono costantemente ricondotti a privilegiare sui propri gli interessi degli altri assunti come bene comune.

Non ha senso, di conseguenza, demonizzare il mito gerarchico e la funzione superegoica in virtù della quale esso si è trasmesso ed è' persistito lungo le catene generazionali. Basta pensare che esso, una volta prodottosi, abbia coinvolto, sia pure a prezzi infinitamente diversi, dominanti e subjecti nello psicodramma della disuguaglianza naturale. Si può sostenere, a ragione, che la tendenza a sacralizzare, idealizzare e attribuire onnipotenza ai 'grandi' e la tendenza a colpevolizzarsi entrando in conflitto con loro sia un'espressione propria della psicologia infantile. Se ciò è vero, la funzione superegoica, e la cultura che la alimenta, ha come obiettivo di mantenere l'umanità in una condizione di infantilizzazione permanente.

Anche da questo punto di vista, non si vede alcuna possibilità di identificare la funzione superegoica con la coscienza morale critica. Parafrasando Freud, diremo dunque che l'obiettivo della prassi terapeutica dialettica è di mettere la coscienza morale critica laddove era il Super-io.

6. Funzione superegoica e psicopatologia

Alla luce di quanto si è detto, è, forse, più facile capire in che senso si può parlare di universo e di strutture psicopatologiche. In nome del bisogno di integrazione sociale, che si esprime originariamente sotto forma di identificazione (fusionale) con l'altro, la funzione superegoica, che si struttura a partire da tale identificazione, svolge essenzialmente un ruolo di assimilazione, cognitiva e culturale dell'io. L'assimilazione non e', propriamente parlando, una robotizzazione: essa si configura come una programmazione culturale, definita da un insieme di prescrizioni, proscrizioni e proposizioni, all'interno della quale l'io deve integrarsi, differenziandosi secondo una gamma di possibilità finite. Tale programmazione esprime l'eredità culturale dei gruppo di appartenenza, e cioè di una società storicamente determinata, mediata dai sottosistemi - famiglia, scuola, ecc. - con cui un individuo interagisce. La funzione superegoica, in quanto rappresentante mentale della società, mira a promuovere l'introiezione, l'assimilazione e il rispetto sacro dell'eredità culturale, nel nome della sacralità di coloro che la trasmettono e del tutto che essi rappresentano. Essa stessa, come si è detto, è riconducibile ad una predisposizione psicobiologica maturata nel corso della filogenesi e modellata dalla cultura nelle fasi preistoriche e storiche; rappresenta, in breve, una forma ereditata che in nome del primato del tutto - la società - sulla parte -l'individuo -, e della identificazione con l'altro - espressione primaria e fondamentale della vocazione sociale della natura umana - produce automaticamente angoscia sociale - la paura dell'esclusione - e angoscia morale - i sensi di colpa - in tutti i casi in cui si anima un conflitto tra individuo e gruppo di appartenenza. Nel suo aspetto formale, la funzione superegoica sembra recepire un bisogno - nostalgico o utopistico - radicalmente umano: il bisogno di armonia sociale, e cioè dì un'organizzazione sociale a basso tasso di conflittualità, caratterizzata dalla cooperazione, dalla condivisione e da un'equa distribuzione della ricchezza sociale, necessariamente limitata e dunque tale da comportare anche la condivisione e la distribuzione della 'miseria'.Ma, nel concreto della esperienza storica e di ogni singola esperienza soggettiva, tale forma, come ha intuito Freud, si empie di contenuti macro- e microstorici, della tradizione e dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, e cioè di una società storicamente determinata e dei sottosistemi di cui l'individuo viene a far parte o con cui interagisce.

Se si tiene conto della complessa articolazione, sostanzialmente stratificata, cui e' andata incontro la società dal periodo in cui si e' inaugurata la storia e dell'articolazione sempre più complessa - economicamente, socialmente e culturalmente - che si e' definita nel corso della storia, non si stenta a capire i danni potenziali (e reali) della funzione superegoica che e' rimasta psicobiologicamente ancorata ad un mito - quello dell'armonia - perennemente, sia pure in forme diverse, alimentato e rinforzato dal potere e dalla cultura dominante. Data la complessità della struttura sociale, fondata, dalla nascita della storia in poi, sul mito gerarchico, e cioè sulla ineguaglianza incommensurabile (e dunque Ìnnaturale) tra gli esseri umani che giustifica la stratificazione sociale, ciò che scorre nelle falde profonde di quella struttura, sotto forma di quadri mentali, e si rifrange, animandosi,negli infiniti microcontesti interpersonali che ad essa partecipano, è indubbiamente una tradizione -non importa se remota o di recente produzione - e cioè un sistema di valori emozionali, cognitivi e culturali. Ma, se ci si concede la metafora, la tradizione scorre attraverso le generazioni come un fiume inquinato, nel quale valori autentici e valori alienati, valori che permettono all'individuo di integrarsi socialmente in virtù della piena realizzazione delle sue potenzialità e valori che glielo impediscono, confluiscono e si mescolano in un flusso nel quale ogni individuo deve immergersi per acquisire la propria identità.

La funzione superegoica, promuovendo l'introiezione e l'assimilazione acritica di quei valori, in nome del primato della società e di coloro che, a livello interpersonale, la rappresentano, tende ad inattivare il bisogno di opposizione e a criminalizzarlo, ritorcendo1o contro l'individuo come, se esso, nonché un bisogno autentico, sia espressione solo di una predisposizione asociale e amorale. La tendenza, connaturata alla predisposizione psicologica della natura umana, a produrre angoscia sociale e morale in caso di conflitto tra individuo e gruppo di appartenenza, è resa più drammatica e in un certo senso univoca dal fatto che la trasmissione dei sistemi di valore - autentici e alienati - avviene utilizzando come canali legami interpersonali di significato affettivo, che, data l'attrezzatura mentale propria della personalità in fase evolutiva, rendono praticamente impossibile discriminare criticamente le valenze egoiche da quelle superegoiche degli adulti.Non è per caso che i microcontesti familiari ed educativi che si possono definire a rischio sono caratterizzati da una fusione di quelle valenze, che porta gli adulti ad occultare e subordinare le loro qualità personali all'adempimento dei doveri propri dei loro ruoli istituzionali,e quindi a funzionare come rigidi custodi di valori superegoici, o, viceversa, una perpetua alternanza, nella singola personalità adulta o nel sistema educativo, di quelle valenze, che comporta la trasmissione di valori antitetici e inconciliabili.

Parlare di microsistemi familiari patologici è, però, criticabile, anche quando uno di essi produce più esperienze di disagio psichico.Il definirsi di una struttura psicopatologica è, infatti, sempre un fenomeno congiunturale, le cui cause prime sono ambientali ma la cui causa ultima è un corredo costituzionale ricco di bisogni, che, in rapporto alle contraddizioni ambientali, si scinde determinando per un verso una fedeltà sacrificale al gruppo di appartenenza e ai valori superegoici da esso trasmessi e per un altro un'irrinunciabile spinta verso l'individuazione, l'attacco ai legami alienanti e la ricerca di modi di essere - di sentire, di pensare e di agire - visceralmente intuiti come più adeguati alla 'vocazione' personale. Criminalizzando questa spinta, e ritorcendola contro il soggetto come espressione della sua 'ingratitudine', negativita' e distruttività la funzione superegoica determina lo strutturarsi di un'esperienza psicopatologica, la cui dinamica è sempre e solo punitiva, mirando essa ad assoggettare l'io al gruppo di appartenenza e/o alla programmazione culturale che gli e' stata impartita.

Nulla si capirà mai del complesso universo psicopatologico se non si tiene conto che esso e' un universo di dissenso chiuso dentro i labirinti di un bisogno alienato e pietrificato, il bisogno di integrazione sociale, e destinato, per effetto della funzione superegoica, ad un'inesorabile disfatta. Le persone che circolano in questo labirinto senza sbocco spontaneo pagano, per quanto ciò sia lungi dall'essere riconosciuto, il prezzo di una vocazione alla socialità il cui limite, costitutivo del loro corredo naturale, è di non potersi arrendere all'uso alienato che il mondo, o una parte comunque rappresentativa di esso, ne fa.


Da Abracadabra (2002)


Cap. XX VOLONTA' ALTRUI, VOLONTA' PROPRIA

Negli animali non umani tutto o quasi fila liscio: l'istinto, le emozioni e il comportamento; nell'uomo, che è dotato di autoconsapevolezza, ragione, libertà e cultura, poco fila liscio. Il motivo ci deve essere. E infatti c'è. Singolare per tanti aspetti, l'esperienza umana lo è in assoluto perchè l'uomo è programmato in maniera tale che, nella migliore delle ipotesi, ha due teste. Per capire quest'aspetto, occorre partire ab ovo.

L'essere umano viene al mondo col suo bel cervello plastico pronto ad essere modellato e ad apprendere attraverso l'esperienza. Viene al mondo anche coi suoi bisogni di aggrappamento affettivo, visto che, a differenza degli altri animali, ci mette un bel pezzetto a svezzarsi dalla dipendenza. E per giunta - per compiacere gli educatori - la natura gli gioca anche un tiro mancino: lo porta, per qualche anno, ad affidarsi ciecamente a loro e a vederli come padreterni. L'acquisizione della cultura, con gli annessi e connessi, è favorita da questa condizione illusionale, quasi ipnotica del bambino che gratifica gli educatori di un'onnipotenza che non hanno di fatto, come persone. Ma ritrovandosi ad averlo (e a molti non sembra vero di sentirsi onnipotenti agli occhi dei piccoli), agli educatori questo potere viene da usarlo senza misura alcuna, per modellare la cera finchè è molle. La conseguenza è che il tu devi, tu non devi, questo è bene questo è male, questo è vero questo è falso ci si stampa nella zucca precocemente, associato a una condizione di inganno, sicchè quando uno si risveglia dall'ipnosi (è un risveglio lento, da sette anni in sù: c'è chi muore e ancora non s'è ripreso del tutto) può darsi che parecchie di quelle cose non gli risultino. Ma intanto ce l'ha dentro, e se non gli vanno a genio deve lavorare parecchio per liberarsene. E, mentre lavora per chiarirsi le idee sui valori culturali che gli hanno trasmesso, deve fare attenzione a non farsi contagiare da altri che sono nell'aria.

Veniamo acculturati, e cioè ricondotti a prendere per buono quello che è il prodotto di coloro che ci hanno preceduto, prima di poter pensare con la nostra testa. Alcuni psicologi, sempre quelli del self-made man, dicono che questo non è vero. Il bambino non è una tabula rasa, ha un suo modo di essere, di sentire e di interagire precoce. Giusto, a tavolino. Ma in che mondo vivono, gli specialisti? Le variazioni sul tema, fino ad una certa età almeno, non incidono sul tema stesso, che è quello di riconoscere il primato della volontà altrui su quella propria. E anche dopo non sempre le cose vanno diversamente. E qui veniamo al nodo.

La vita, a livello cosciente e ancora più a livello inconscio, si svolge tutta sul registro, più o meno conflittuale, dell'interazione tra volontà altrui e volontà propria. La volontà altrui in questione non è solo quella delle persone con cui si interagisce. Tutte le norme, le regole, i valori culturali, le istituzioni, le leggi, i costumi, le usanze, le tradizioni, le mode, le tendenze - sia esplicite che implicite - rappresentano simbolicamente la volontà altrui. In tanto esistono in quanto esprimono una convenzione intervenuta ad un certo punto tra più persone - talvolta una minoranza, talatra una maggioranza - che, per effetto del potere o del tempo, ha assunto un carattere impersonale, astratto. Tutte hanno un senso e un non-senso, poichè sono prodotti storici. Anche le più futili. Prendiamo - per dirne una - il taglio dei capelli. Una cultura assume il capello lungo come simbolo di vitalità, di forza, di potenza; un'altra, come simbolo di mollezza, di disordine, di scarsa igiene; un'altra ancora, come la nostra, il capello lungo, ch'è anarchico, lo fa diventare di sinistra, quello corto, alla militare, di destra. Andando semplicemente dal barbiere, uno deve prendere posizione e risolvere un bel po' di problemi ideologici. Di solito non ci si rende conto che tutta la vita si svolge sulla base di valutazioni che portano a consentire o a dissentire rispetto alla cultura, vale a dire alla volontà altrui. Nè che per consentire e dissentire liberamente occorre avere una qualche consapevolezza di ciò che è in gioco. L'uomo, insomma, - non pare ma è così - è un animale politico.

Il problema viene da lontano. Stando ai teologi, il la pare che l'abbia dato il Padreterno stesso. Prima di avere la bella idea dell'uomo, crea un essere angelico, vicino alla perfezione: non un automa, ma una persona dotata di volontà personale. Poi gli dice: visto che t'ho creato, e tu mi devi riconoscenza, sottometti la tua volontà alla mia in segno d'amore, e siamo pari. Lucifero, che non ci sta, rivendica di volerla usare liberamente la sua volontà e precipita dalle stelle alle stalle. Deluso, il Padreterno ci riprova con l'uomo, gli va male una seconda volta, e lo precipita nella valle di lacrime. E qui accade il peggio. La storia si può leggere in tanti modi, ma, ovunque ci si gira - dal neolitico in poi - si trova qualcuno che vuole sottomettere un altro con le buone o con le cattive. Le catene sono l'attrezzo più importante della storia. Quelle fisiche, che ne hanno segnato il corso sino a poco più di un secolo fa, e quelle mentali, che spesso la gente non si accorge neppure di avere. Uno storico58 ha scritto che ogni cultura è un recinto mentale. Nel recinto ci si può stare anche bene. Importante è sapere che ci si sta, e come è fatto.

C'è chi giustifica il Padreterno e, implicitamente, tutte le controfigure che ne hanno proseguito l'opera. La volontà umana - si dice - è naturalmente pigra e ribelle, e va piegata alle leggi, alle norme e alle convenzioni sociali. Occorrerebbe però dimostrarlo. Gli uomini più liberi sono quelli che, senza nessuno glielo chieda, si dedicano ad imprese apparentemente senza senso è per esempio scalare montagne o scrivere libri -, e si impongono una disciplina che nessuno schiavo rispetterebbe; quelli che, per una causa che va molto al di là del loro interesse, sono disposti a dare la vita; quelli insomma che agiscono in nome di un bisogno che sentono nelle viscere e di valori culturali che sono sangue del loro sangue. Ai pigri e ai ribelli i valori culturali gli sono rimasti sullo stomaco. E non sarà allora che questa storia della volontà che va piegata corrisponde alla fissa di quelli che, non essendo padroni di sé, devono fingere di esserlo dominando qualcun'altro?

Oggi - si dice - le cose sono cambiate. L'autorità repressiva, eccezion fatta per la giustizia penale, non esiste più, almeno dalle nostre parti. Ormai tutto si fonda sul consenso, dalla famiglia allo Stato. Una formuletta che può riuscire utile nel corso della vita a misurare la propria libertà è questa: uno che consente può essere sicuro di essere libero solo se riesce a dissentire. Se ci riesce, bene: può continuare a consentire; se non ci riesce, deve continuare ma senza l'illusione di essere libero. E poi, è vero che non si usa più il bastone. Ma questo che significa? Che la gente è diventata più libera o che la volontà altrui è diventata più impersonale, più simbolica, più insidiosa? Il Gran Capo - che non ha testa - oggi impone di non sentirsi inferiore a nessuno. Nel garage del condominio, uno si fa una macchina nuova, più potente. Nel giro di un anno, la cambiano quasi tutti i condomini. Chi è il Gran Capo? La vergogna sociale, che impone a tutti di far l'impossibile (tipo sessanta cambiali e la cessione del quinto sullo stipendio) per non sentirsi inferiori agli altri.

Ma questa schiavitù dalla volontà altrui da dove viene se l'educazione ormai è liberale? se tra famiglia e a scuola, è tutt'un riempirsi la bocca di luoghi comuni sul bambino che va lasciato libero di sviluppare la sua personalità? Chi può mettere in dubbio la buona fede degli educatori? E già. Il problema è che gli educatori non spuntano come funghi, e, se spuntano, perchè non se ne sono mai dati tanti come oggi, mettono radici laddove non sanno neppure di averle, nella storia sociale che gli passa attraverso.

Cap.XXI L'INCONSCIO SOCIALE

Non ci si può fidare di quello che un uomo pensa o dice di sé, meno ancora di quello che dice o pensa di sé una società. E d'accordo, anche la società come la natura non ha una testa, ma non è neppure vero che quello che si pensa in una società è la somma di quello che pensano gli individui che la compongono. Dalle nostre parti, la libertà di pensiero è un diritto inalienabile dell'individuo. Sulla carta. Di fatto, pochi si danno la briga di capire come sia possibile per uno che viene al mondo senza arte nè parte ed è predisposto ad assorbire tutto quello che gli viene dall'ambiente come una spugna (compreso quello che l'ambiente trasmette senza neppure saperlo) giungere a pensare liberamente. I più - educatori, gente di chiesa, giornalisti, intellettuali, politici - sembrano impegnati, riconosciuto quel diritto, a vedere che uso se ne può fare, come cioè l'individuo possa continuare a ritenersi libero pur pensando quello che deve pensare. Altrove, come in Giappone, laddove l'educazione si fonda sul rispetto delle tradizioni, e l'individuo è sociale nella misura in cui si conforma ad esse, il nostro culto della liberta di pensiero individuale è ritenuto una mania, un'illusione. Non vanno mica lontano dal vero, anche se la sacralizzazione delle tradizioni che vige presso di loro, e che gratifica gli antenati di un'improbabile saggezza, non realizza effetti molto diversi dalla nostra illusione.

La libertà umana non è una balla in sé e per sé, come potenzialità del congegno, ma intanto è sempre e comunque relativa in rapporto all'ambiente in cui la personalità si sviluppa, e, in secondo luogo, è resa certa solo dalla consapevolezza che l'individuo assume - se l'assume - del grado della propria schiavitù dalle tradizioni e dai valori culturali dominanti nella società. Questa consapevolezza è imprescindibile dall'altra per cui chi glieli trasmette non ha necessariamente le idee chiare riguardo a quello che trasmette. Un bel tema da dare alla maturità, di perenne attualità, sarebbe questo: parlami delle tue schiavitù mentali e di come pensi, occhio e croce, di potertene liberare. Il Ministro che azzardasse una bravata del genere sarebbe messo al rogo. Ci vuole una riforma radicale della cultura perchè gli uomini giungano a capire che il non avere le catene ai polsi è importante, il poter dire quello che si pensa anche, ma ricavare da questo che si è liberi è un'amenità.

Sia chiaro (e già dovrebbe esserlo per alcuni accenni fatti): l'illusione della libertà, ch'è la droga pesante che scorre a fiumi nel nostro mondo, non è un complotto. Non c'è nessuno (nè uno nè più messi insieme) che manipola quella degli altri. Anzi, si può esser certi che i manipolatori (e ce ne sono), in quanto a libertà, stanno in media peggio degli altri. Quell'illusione ha radici nella storia, e attesta quanto poco ancora gli uomini capiscano com'è fatto il congegno e l'uso che ne hanno fatto, finora.

Il congegno, infatti, per un aspetto è plastico - e su questo si fonda la possibilità di giungere a pensare e a vivere con una relativa libertà - ma, per un altro è rigido, anzi rigidamente conservatore, avverso o quasi alle novità. Per capire questo aspetto, dobbiamo tornare alla logica della natura. Dunque siamo animali sociali dotati di individualità e di soggettività. Per la natura, però, l'individuo esiste solo come un ente differenziato attraverso il quale le potenzialità della specie vengono messe alla prova per vedere se esse hanno o no valore adattivo. E' la sopravvivenza della specie, e non dell'individuo, importante, e neppure più di tanto, se le specie a un certo punto (com'è accaduto ai dinosauri e a tante altre) scompaiono dalla faccia della terra. Per questo, pensare che, nella progettazione del nostro congegno, possa esserci stata una preoccupazione per l'individuo, ch'esso possa essere stato prodotto per l'individuo (come a noi viene da pensare), è un non senso. E' stato prodotto per una specie particolare, capace di produrre attraverso la cooperazione sociale cultura, e quindi congegnato in maniera tale da poterla trasmettere e da conservare. Produrla è l'effetto della creatività, dell'ingegno umano, apprenderla della plasticità, conservarla attraverso le generazioni della rigidità.

Anche gli animali producono cultura in senso proprio, e cioè modi di rapportarsi all'ambiente e di usarlo che non sono naturali. Un etologo ha fatto una singolare scoperta. Un gruppo di scimmie che viveva vicino al mare si cibava spesso di patate, sporche così come la terra le produce. Com'è come non è, uno del gruppo a un certo punto si fa venire la fregola di immergere una patata nell'acqua e di strofinarla ben bene. Sente che alle papille la cosa sta meglio, e, non essendo egoista, comunica la scoperta agli altri. Nelle generazioni successive, tutte le scimmie di quel gruppo lavavano (e salavano) le patate.

La cultura non avrebbe senso se non potesse essere trasmessa, ricevuta, acquisita e conservata. Prodotta in società (anche se qualcuno può avere delle idee più brillanti degli altri), nel momento in cui si rivela funzionale ai bisogni del gruppo e quindi della specie, diventa un patrimonio sociale, una tradizione. Dacchè esistono, gli uomini non fanno altro che produrre cultura. Ma come si organizza e si trasmette questo patrimonio? Concediamoci un esempio immaginario. Le scimmie di cui sopra acquistano la parola, e, dopo varie generazioni dalla scoperta della patata lavata, si mettono d'accordo sul fatto che mangiare patate lavate è un obbligo perchè nascono dalla terra in cui si seppelliscono i morti. Questa interpretazione dà un significato diverso alla scoperta originaria, che, in sé e per sé, dal punto di vista del gusto, continua a funzionare. Solo che, a differenza di prima, se a uno del gruppo, pigro o contestatore, venisse da mangiarsi una patata raccolta dalla terra, violerebbe un tabù e sarebbe perseguito. Le cose per quanto riguarda la cultura umana non sono andate in maniera diversa da questo esempio ipotetico. Gli uomini, di cultura, ne hanno prodotta tale e tanta che trasmetterla col marchio di fabbrica, con le istruzioni sulle origini, è diventata una fatica immane. Viene più semplice interpretarla, anche alla bell'e meglio, e la più semplice delle interpetazioni verte sul fatto che le cose stanno così e basta. Quando questo accade, e accade quasi sempre, la cultura si naturalizza, si pone non più come un prodotto dell'uomo ma come una legge di natura. Si trasforma, insomma, in tradizione, e diventa qualcosa che è come è e non c'è bisogno di spiegare perchè.

Quando ci insegnano le buone maniere di stare a tavola - composti, senza appoggiare i gomiti nè accostare la testa al piatto, usando le posate (quando si è in un posto chic anche per mangiare il pollo e pelare le pere Williams che schizzano dappertutto), masticando senza aprire la bocca, astenendosi dall'arraffare la roba nei piatti degli altri e (tassativamente) senza scorreggiare nè ruttare - gli educatori non ci dicono perchè si usa così, qual'è l'origine di quelle regole. Non potrebbero farlo, perchè, quasi solo per capire questo, uno studioso59 , che è morto a più di novant'anni, ci ha impiegato la vita. Non dico che non siano giuste, quelle regole. Certo, se ci si attenesse ad esse in un diverso contesto culturale - neppure tanto diverso, primitivo o barbarico: basta pensare al nostro Rinascimento -, si rischierebbe di essere sbattuti fuori della porta come degli zoticoni che non assolvono i doveri dell'ospite di manifestare il piacere del cibo che gli viene offerto ruttando e scorreggiando. Ma, presumibilmente, non ci si ritroverà mai (neppure quando inventeranno la macchina del tempo) catapulati fuori dal nostro mondo, e così - tranne, diciamo, qualche momento di relax - ci comporteremo a tavola sempre come si deve. Ma non sapremo mai le origini storiche del come si deve. E, nei pranzi di etichetta, ci verrà naturale tenere i gomiti lontano dal tavolo, anche se non rischiamo come i nobili di un tempo di inzuppare di sugo le trine, non accostare la testa al piatto, per non simulare la voracità del volgo che ne rivela l'imparentamento con le bestie, e non allungare la forchetta nel piatto di un altro nel rispetto della proprietà privata. A tavola, insomma, quando ci comportiamo a modo, siamo un concentrato di storia sociale. Senza saperlo e senza che lo sappiano coloro che ci hanno educati.

Esiste, altro se esiste l' inconscio sociale. E' il serbatoio delle tradizioni culturali, e cioè delle cose buone che sono riusciti a metter su gli antenati come pure delle loro fisse, dei loro pregiudizi e delle loro contraddizioni. Così, per fare un esempio, il culto delle buone maniere a tavola, vanto della nobiltà terriera, ereditato dalla borghesia, non impediva ai nobili, che ci tenevano tanto a differenziarsi dai contadini, di succhiargli il sangue e di pretendere, anche in caso di carestie, gran parte del raccolto, impedendogli di fatto di esercitarsi in quelle buone maniere. E' vero: il peso di tutte le generazioni passate pesa come un incubo sul nostro cervello. Per fortuna, non ce ne rendiamo conto (anche se, per alcuni aspetti, ci tornerebbe utile). Uno storico60 ha chiarito ancora meglio il problema, dicendo che ogni società, inserita nel corso storico, è come un fiume che raccoglie tutto ciò che è confluito nel suo alveo dalla sorgente in poi. In un fiume, le acque di superficie scorrono rapidamente, le acque al di sotto della superficie hanno una velocità media, quelle che scorrono sul fondo sono, per via dell'attrito con il letto, le più lente. I valori culturali, che, nel loro insieme costituiscono la "mentalità" propria di una società, scorrono appunto sul fondo, al di sotto della coscienza che la società ha di se stessa e delle coscienze degli individui. E, per chiarire meglio il senso della metafora, ha scritto pure che, per ogni società, la mentalità rappresenta un recinto mentale, nel senso che agli uomini viene naturale pensare entro quel recinto, e sentirsi liberi.

Afferrata questa chiave, ci si può divertire (per dire) a pensare che una parte della nostra mente è e non può essere che schiava di tradizioni, di modi di vedere, di sentire e di pensare che non conosciamo, il cui significato e le cui origini non sono chiare, e che non conoscono neppure quelli che ce le hanno trasmesse. Se uno arriva a rendersi conto di questa schiavitù, ch'è universale, rischia di non dormirci la notte. E, se è dotato di genialità, come il filosofo pazzo che è stato citato più volte, rischia di mettere tutto in discussione col pericolo di arrivare a sentirsi lui un dio. La chiave serve ad avviare la liberazione dalle tradizioni (e dalle mode, che, se non muoiono, diventano poi tradizioni), ma va usata con prudenza. Il congegno è conservatore - s'è detto. Fa il suo mestiere. Si tratta di capire come e perchè.

Cap. XXII LA REPLICAZIONE CULTURALE

Questa storia delle tradizioni che si replicano di generazione in generazione, e che ci rende tutti, per qualche aspetto, dei replicanti, non si accetta volentieri. Oggi meno che mai. La smania di essere diversi, di avere una propria personalità, di essere unici la si vede in azione già nei bambini, che appena arrivano a dire io (e ci arrivano presto) se ne riempiono la bocca. Gli adolescenti in genere s'arrabbiano se qualcuno gli fa presente che, nel gestire, nel parlare o nel pensare, somigliano a mamma o a papà. Poi, com'è come non è, si diventa adulti e, col lavoro e la famiglia, cominciano a venir fuori dei tic, delle abitudini, dei comportamenti che ci mettono di fronte alla verità, di esseri simili a quelli che ci hanno educato più di quanto, in media, ci vada a genio. Ed è già una fortuna, se, con l'andare dell'età, non finiamo col somigliare ad essi - nel bene e nel male - come gocce d'acqua. Tempo fa era un luogo comune, non privo di fondamento, dire che a vent'anni si è rivoluzionari e a quaranta conservatori. Non vale più. C'è una galassia di ventenni, oggi, che, in quanto ad essere conservatori (anche senza saperlo) danno punti ai padri e e ai nonni.

Ogni tanto capita che una generazione intera cade nell'illusione di potersi liberare dalle tradizioni con un colpo di spugna. E' accaduto anche di recente (relativamente), intorno al '68. Dalla scuola alla fabbrica, dalla famiglia alle istituzioni, di cose insopportabili da cambiare ce n'erano tante e tali da giustificare una bella esplosione. Ma quando nelle assemblee si sentiva gente di quindici anni che parlava di cambiare radicalmente le cose come se il mondo fosse un meccano, venivano i brividi, perchè non si capiva da dove fossero spuntati questi esseri così sicuri di sé e della loro diversità rispetto ai padri. Le idee erano in gran parte belle, ma ci voleva poca intuizione a capire che la scarsa conoscenza del congegno avrebbe finito col giocargli un tiro mancino. E infatti è avvenuta una catastrofe: i più duri sono arrivati alle estreme conseguenze con la droga prima e la lotta armata poi, i meno duri hanno tirato un po' la corda e poi sono refluiti a ranghi sparsi verso le famiglie e le odiate istituzioni per farsi aiutare a campare e a lavorare (se ne trovano parecchi nelle aziende familiari o nei ministeri: ai beni culturali o all'ambiente, casomai). Quelli capitati per caso poi si sono pentiti, convertiti e si sono integrati più dei padri.

Con le tradizioni bisogna andarci piano, perchè non le si può estirpare. E non per il fatto che, rappresentando il condensato dell'esperienza delle persone del passato, e di tante generazioni, in esse ci debba essere per forza del vero o del giusto (come pensano i conservatori). Ci può essere, ma più spesso si tratta di giochi di potere. Prendiamo la storia dei re, che, dall'impero egiziano sino a non molto tempo fa, sono riusciti a far credere alla gente di essere stati investiti direttamente da Dio, sicchè la loro testa - bene o male che funzionasse - era sacra e intoccabile. A ripensarci sembra incredibile. Passi per il Faraone, che i sudditi vedevano col binocolo, e da lontano, abbigliato com'era, poteva essere scambiato per un extraterrestre. Ma che dire del fatto che, fino ai primi del Settecento, i francesi accorrevano a frotte per partecipare a un rito nel corso del quale il re imponeva le sue sacre mani ai malati (in gran parte di disturbi dovuti alla fame) che speravano con ciò di guarire? La balla della legittimità è andata avanti finchè una testa incoronata non è stata messa sotto la ghigliottina rotolando giù come le altre, senza che l'Investitore intervenisse. Evento tragico, perchè un uomo ha diritto alla sua testa comunque la usi, ma salutare, perchè la storia dell'investitura divina è andata a farsi fottere, e s'è sgombrato il campo da una tradizione fasulla. Anche se, come tutte le tradizioni, non prive di senso. Se non si fossero spacciati come eletti da Dio, come potevano pretendere i re che il loro potere fosse trasmesso al primogenito anche citrullo?

Le tradizioni vanno trattate con le pinze per un motivo che riguarda più il congegno - e il modo in cui è stato programmato dalla natura - che non il loro grado di verità. La plasticità e la rigidità di cui s'è parlato sono già aspetti generici di questa programmazione. Ce ne sono di più specifici. La trasmissione - conscia e inconscia - dei valori culturali da una generazione all'altra avviene entro un contesto di rapporti che hanno una forte connotazione affettiva. Se il bambino è recettivo, lo si deve alla plasticità cerebrale, se è ciecamente fiducioso, lo si deve al legame affettivo che lo vincola a coloro cui la sorte lo ha affidato (e all'ipnosi per cui li vive come padreterni). Gli affetti rappresentano i canali attraverso cui scorrono i contenuti educativi, i valori, che vengono ingurgitati mentalmente, introiettati dal bambino. Indipendentemente dal loro grado di verità e di corrispondenza ai bisogni dell'individuo, quei valori rimangono associati a livello inconscio all'affettività che ne ha determinato l'introiezione. Rimanere fedeli ad essi si pone, pertanto, come un obbligo che fa capo al debito di gratitudine contratto nei confronti di chi li ha trasmessi. Se questo debito è riconosciuto coscientemente dall'individuo, non gli rimane altro che essere un conservatore. Se non è riconosciuto, fa lo stesso: a livello inconscio i valori si conservano. Lo stratagemma è potente. Se la natura voleva trovare un mezzo per assicurare alla replicazione dei valori culturali un'efficacia non molto diversa da quella che assicura la replicazione dei geni, di meglio non poteva fare. Non è un caso infatti che la specie umana, dalla sua comparsa, evolve ormai solo culturalmente e non geneticamente.

Replicazione è un termine un po' imbarazzante, perchè fa pensare ad un processo automatico, macchinoso, poco compatibile col grado di capacità autocostruttiva del soggetto che, senza farne un mito, occorre ammettere. Un biologo evoluzionista61 ha tirato fuori a riguardo una ipotesi affascinante secondo la quale ogni cultura ha dei micro-tratti, definiti memi, che la specificano e la differenziano rispetto a tutte le altre. Un meme proprio della nostra cultura potrebbe, per esempio, essere identificato con il dovere, considerato come un valore astratto e una qualità morale piuttosto che come un debito contratto inconsapevolmente (come il debito pubblico) e il cui tasso di interesse è spesso fissato arbitrariamente. Alla stregua dei geni, i memi sono dotati di un potere informazionale straordinario che viene decodificato a seconda della ricettività individuale, vale a dire della capacità emozionale e cognitiva proprio del soggetto. L'ipotesi affascinante risolve il problema del meccanicismo replicativo. Lo stesso meme si rifrangerebbe nei diversi soggetti in valori culturali diversi, per quanto riconducibili al potenziale informazionale. Basta aggiungere che i memi si trasmettono in larga misura a livello inconscio.

C'è anche un altro particolare di non poco conto. Una volta mandati giù col cibo, con l'affetto e con l'aria che si respira, che fine fanno i valori culturali? Alcuni rimangono a livello cosciente e concorrono a formare la coscienza morale (che lo è più o meno a seconda dei valori). Ma la maggior parte saltano la coscienza e si depositano a livello inconscio, dove concorrono a strutturare una funzione un po' particolare. Una funzione che, nel cuore stesso della soggettività individuale, rappresenta la società, che è la matrice di quei valori, e li utilizza come metri di misura delle fantasie, delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri e dei comportamenti. Una specie, dunque, di occhio giudicante interno a cui nulla sfugge. Capita perciò a chiunque, almeno una volta nella vita, di sentirsi osservato anche quando sta da solo, o di vergognarsi di qualcosa che ha fatto anche se è certo che nessuno potrà mai venirlo a sapere. Da bambini ci dicevano ch'è l'occhio di Dio. E chi lo sa se Dio ci tiene poi tanto a ficcare il naso nel nostro privato. A scanso di equivoci, comunque, il Padre fondatore della psicoanalisi quella funzione l'ha definita Super-io. Il termine è orribile, ma rende l'idea di un potere che ci sovrasta, e che è in fondo la società (dei vivi e dei morti) o, meglio, la volontà altrui rappresentata dentro di noi. Il Grande Vecchio insomma esiste, come espressione del culto che una parte della mente umana tributa alle tradizioni.

Le idee chiare riguardo a quanto ci si può affidare alla saggezza di quelli venuti prima di noi, e di quanto ci si può fidare della propria testa (date tutte le bazzecole di cui s'è parlato), non ce l'ha nessuno. E se uno per non sbagliarsi, aderisce ai valori nuovi della modernità, a quelli praticati dalla maggioranza dei contemporanei, rischia di cadere dalla padella nella brace. Perchè i valori nuovi, tranne nei casi in cui interviene una rivoluzione culturale - che dipende da tanti fattori, e solo da ultimo dalle coscienze -, sono spesso un remake, spesso peggiorato, di valori già in atto da tempo. Prendiamo ad esempio l'affermazione della personalità, che è il verbo di oggi. Suona bene, perchè fa riferimento al raggiungere coi propri mezzi uno status di sicurezza e di prestigio sociale. Ma, sotto sotto, significa nè più nè meno che la vita è una lotta per sopravvivere e, per sopravvivere e se possibile vivere di più e meglio degli altri, non bisogna farsi troppi scrupoli. Affermarsi è imprescindibile, oggi, da un certo grado di indurimento caratteriale e di anestesia emozionale. Lo dicono anche gli psicologi ormai che un po' di sano egoismo e di sana aggressività ci vuole nella vita. Il problema è negli aggettivi. Perchè, dato che chi perde, chi si fa mettere sotto, chi si lascia fregare, è un inetto, la fobia della debolezza rende lecita qualunque carognata. E si diventa paranoici al punto che anche i rapporti d'amore diventano un estenuante battaglia per mantenere un potere maggiore dell'altro, essendo ormai scontato che, chi si lascia andare, viene abbandonato per via del fatto che i deboli non meritano rispetto. Un filosofo62 , anni fa, ha intuito che la logica della Borsa, per cui chi perde quota viene fatto fuori, avrebbe finito con l'invadere il privato, e che alla fine le persone si sarebbero intossicate del potere al punto da non capire più niente della vita. Detto fatto. I nuovi valori sono vecchi come il cucco. Sono i valori in virtù dei quali la borghesia è ascesa storicamente, si è affermata differenziandosi rispetto alle classi meno abbienti, e si è chiusa nel culto di se stessa e del privato: nell'egoismo, insomma, che è la sua virtù prediletta. Questi valori però hanno un prezzo: via via che vengono adottati collettivamente, l'identificazione con l'altro va a farsi fottere, perchè l'altro diventa un nemico, anche se ci dorme accanto.

In breve: per via della replicazione culturale, ciascuno si porta dentro un bel po' di valori tradizionali, per via dell'aria che tira in società ciascuno poi acquisisce quelli dominanti. E' incredibile quanta gente schizzata, c'è in giro che alberga gli uni e gli altri, anche se fanno a botte, come nulla fosse. Su che si fonda il potere dei valori culturali? Sul fatto che essi rappresentano la società, sia quella passata sia quella attuale. Ed è una parte della mente individuale che svolge questa funzione di rappresentanza.

Questa scoperta si deve (onore al merito) al Padre fondatore della psicoanalisi che vi ha impiantato su una storia che non sta nè in cielo nè in terra. Sarebbe bastato riconoscere che il Super-io è una funzione programmata per favorire la replicazione dei valori culturali e per tentare di conservarli il più possibile, riconducendo i comportamenti individuali verso la media del gruppo cui appartiene. Sarebbe bastato, per evitare l'equivoco di scambiare il Super-io per un computerino, aggiungere che i valori vengono interiorizzati in misura direttamente proprozionale alla sensibilità individuale e in rapporto al modo in cui il soggetto li interpreta. Circostanza questa che spiega perchè, nello stesso contesto familiare in cui circola il dovere di non perdere tempo (che è frutto della catena di montaggio), un figlio, che lo interpreta come una coercizione, è costretto a sprecarlo, e un altro a diventare schiavo di un implacabile perfezionismo. Sarebbe bastato, infine, ammettere che la replicazione dei valori culturali e il potere che essi conservano vita natural durante non può essere attribuito nè solo al fatto che l'uomo è un animale sociale nè alla soggezione del bambino nei confronti dei grandi. Se una parte della mente umana svolge una funzione di rappresentanza sociale, ciò dimostra che la natura umana contiene, sotto forma di bisogno, una predisposizione alla socialità. E no, troppo semplice per essere credibile.. Il Padre fondatore aveva una concezione della natura umana così dannatamente pessimistica che l'idea che gran parte dei mali potesse venire dalla cultura non lo sfiorava nè meno. E via, dunque, con l'elogio del Super-io, che, in nome della società e della paura che l'individuo ha di essere isolato e perseguito, ci costringe a civilizzarci e ci protegge dal rimanere quello che, secondo lui, saremmo per natura: degli esseri asociali, animati solo da istinti egoistici e distruttivi. Questa bislaccata - un remake dell'homo homini lupus - ha avuto un tale successo che ancora oggi va in giro e sembra quotidianamente confermata dal la nostra civiltà, che, nonostante si fondi sui diritti universali dell'uomo e del cittadino (ahimè borghese), fomenta l'asocialità e l'egoismo.

Il problema vero è che lo stratagemma che la natura ha trovato per favorire la replicazione dei valori culturali è del tutto neutrale per quanto concerne i valori stessi. E che doveva fare la natura: dirci anche quello che è giusto e quello che non lo è? Dio Padre - si dice - lo ha fatto, e non gli è andata egualmente male? Dunque i valori si replicano così come vengono trasmessi e - finchè l'individuo non riesce a prendere le distanze e a valutarli criticamente - agiscono coercitivamente dall'interno della personalità. Ma quali valori? Quelli propri di un contesto culturale, indipendentemente dalla loro qualità morale (che può esserci o non esserci). La moralità naturale esiste, e trova il suo fondamento nell'identificazione con l'altro. La moralità culturale è null'altro che costume, consuetudine, tradizione, convenzione. Il Super-io nazista, che ha contagiato un popolo tra i più dotati e ricchi di cultura della terra, ha fatto semplicemente il suo dovere: programmato dal nazionalismo, dal patriottismo, dal culto della razza e dell'etnia, ha impedito ai più di diventare dei traditori

Ma allora, siamo o non siamo liberi? E certo che lo siamo: la cultura, proprio per il fatto che può portarci anche fuori della natura, lo attesta. In rapporto alla cultura, ogni individuo, per il fatto che ha il suo bel Super-io impiantato nella testa (e radicato a livello inconscio), lo è molto meno. Può diventarlo casomai, relativamente, se riesce a oggettivare i valori che si porta dentro.


Da Nilalienum

Aggiornamenti di Psicopatologia teorica

Il Super-Io e la patologia giovanile

1.

Centrale nell'ottica della teoria struttural-dialettica, il concetto di super-io, anche se ormai il termine appartiene al linguaggio corrente (almeno delle persone colte), sembra obsoleto. Anche gli psicoanalisti, nella loro pretesa di aggiornarsi, tendono ad abbandonarlo. Le nuove patologie giovanili, caratterizzate sempre più spesso da una depressione incentrata sullo svuotamento di senso dell'esperienza personale, su forti valenze narcisistiche o su di uno scarso controllo pulsionale, attesterebbero, secondo loro, una sempre più debole strutturazione superegoica. Questa sarebbe una conseguenza delle trasformazioni sociali cui è andata incontro la società, che non ha più un assetto patriarcale e gerarchico, fondato sul principio dell'autorità. Il rapporto tra genitori e figli si giocherebbe ormai prevalentemente sul registro dell'affettività (ambivalente) e dell'interazione comunicativa. L'evoluzione della personalità delle giovani generazioni sarebbe, peraltro, sempre più influenzata dal rapporto con i coetanei e con i nuovi valori (o disvalori) da essi prodotti nell'interazione di gruppo o in conseguenza delle informazioni mass-mediatiche.

Ferma restando l'importanza dei primi periodi dello sviluppo della personalità e dell'interazione con le figure genitoriali, e il rilievo dell'inconscio, le nuove patologie giovanili sarebbero dunque prevalentemente patologie dell'io, dell'identità personale, e in esse giocherebbero un ruolo rilevante le dinamiche pulsionali.

C'è qualcosa di singolare nell'evoluzione del pensiero psicoanalitico: in particolare, la fretta di recuperare teoricamente un rapporto con la realtà storica misconosciuto da Freud. Questa fretta però, funzionale ad arginare la crescente diffusione del cognitivismo, non ha alcuno spessore critico. E' vero che Freud, preda dell'ambizione di mettere a punto un modello di personalità universale, ha trascurato di considerare l'influenza della storia e della realtà sociale. Nondimeno, quest'influenza, esercitatasi inconsciamente, è assolutamente evidente nella sua stessa teoria. Le pulsioni freudiane sono null'altro che una trasposizione ideologica degli spiriti animali promossi dalla rivoluzione borghese. Il super-io freudiano, inteso come istanza di controllo sociale interiorizzato, distorto peraltro dall'impasto con le pulsioni, con le sue connotazioni prevalentemente repressive e moralistiche, è l'espressione di una società e di una cultura incentrata sul principio dell'autorità, sulla pruderie sessuale, sul conformismo e sul perbenismo.

Nella misura in cui Freud ha misconosciuto le valenze ideologiche della sua teoria, era pressoché inevitabile che i cambiamenti socioculturali, come di fatto è avvenuto, la ponessero in crisi. Il problema di una revisione della teoria freudiana si è posto da tempo, ed è stato affrontato con coraggio in particolare dalle correnti culturaliste. Oggi il rischio è di buttare l'acqua sporca con il bambino, vale a dire di ritenere obsolete intuizioni di grande portata, come quella del super-io, solo perché la Freud, per i suoi limiti ideologici, non è stato in grado di dare ad esse uno sviluppo adeguato.

2.

Il tema del controllo sociale sul comportamento individuale è un tema classico dell'antropologia culturale e della sociologia. Ogni società umana è ordinata da norme, legali, morali o di costume, che vengono apprese e che definiscono, con un limitato margine di discrezionalità individuale, come ci si debba comportare e viceversa come non sia lecito agire nelle varie circostanze. L'apprendimento di tali norme è favorito da un insieme di strumenti di controllo sociale che agiscono su ogni individuo perché si conformi ai precetti del gruppo. La maggior parte di queste norme non è codificata ed è talmente connaturata ai costumi e alla cultura da passare del tutto inosservata, o dal farla ritenere non tanto la conseguenza dello sviluppo della cultura, quanto addirittura "naturale", cioè legata alla stessa struttura biologica dell'uomo.

La teoria del super-io freudiana è stata la prima teoria che ha tentato di chiarire in quale modo il controllo sociale viene interiorizzato psicologicamente e giunge a far parte della struttura della personalità

. Essa ha influenzato potentemente le scienze umane e sociali, in particolare la sociologia e l'antropologia culturale. Purtroppo, la sua elaborazione è stata improvvidamente determinata da presupposti ideologici inerenti la natura umana i quali permettono di comprendere perché essa abbia progressivamente perduto di significato.-

Posto che, per Freud, la natura umana in sè e per sé è animata solo da pulsioni libidiche e aggressive (depositate e attive nell'Es, lo strato più profondo e inconscio della mente), l'interiorizzazione avviene nel corso delle fasi evolutive in virtù del legame affettivo e di soggezione che lega l'infante alle figure significative adulte con cui interagisce (genitori, parenti, insegnanti, ecc.). L'affettività, che comporta l'identificazione e l'imitazione, rende il bambino permeabile alle influenze dell'ambiente e facilita la trasmissione dei valori culturali. L'impianto di questi, e dunque la strutturazione del super-io, urta però contro la resistenza delle pulsioni la cui tensione tende univocamente verso la scarica e la soddisfazione. Il controllo e l'inibizione delle pulsioni, in ciò che esse hanno di incompatibile con le esigenze della vita associativa, avviene solo sulla base della paura della rappresaglia sociale, cioè della riprovazione, del rimprovero e della punizione associata all'esercizio anarchico delle pulsioni stesse.

Il super-io freudiano rappresenta la società all'interno della personalità, ma la rappresenta solo sulla base del potere che i molti hanno rispetto all'individuo di sanzionare e eventualmente punire l'esercizio illecito, legalmente o moralmente, della sua libertà. Per questo motivo la sua rappresentazione antropomorfica si riconduce, nell'ottica freudiana, a quella di un Giudice o di un Censore.

Freud esclude pertanto che la natura umana abbia una predisposizione sociale, e interpreta, in conseguenza di questo, i conflitti psicodinamici come dovuti alla resistenza accanita e incoercibile delle pulsioni in rapporto alle norme sociali, alle quali l'io cosciente tende ad attenersi per conformismo e per influenza del super-io che fa valere il potere della collettività. Si tratta dunque di una teoria che riconosce come suo fondamento un'ideologia della natura umana che Freud ritiene confermata da tanti indizi tratti dall'esperienza psicoanalitica e dalla storia dell'uomo.

3.

Ho analizzato la concezione del super-io freudiana ne La politica del super-io, giungendo ad una conclusione che ho poi approfondito successivamente. Tale conclusione porta ad identificare il super-io come una funzione psichica prevalentemente inconscia nella quale si danno due componenti: una, innata, fa riferimento al bisogno di appartenenza/integrazione sociale, la cui logica inconscia assume l'individuo come membro di un gruppo e gli impone il rispetto dei suoi doveri di ruolo; l'altra, appresa, fa capo ai valori culturali interiorizzati che prescrivono quali comportamenti il soggetto deve agire per assolvere quei doveri. Distinguere queste due componenti è estremamente importante: la componente innata, infatti, è universale, e comporta una programmazione incentrata sul primato del sociale sull'individuo a livello inconscio, mentre la seconda dipende dal contesto socio-storico.

Ciò significa due cose. La prima è che il primato del sociale sull'individuo è, a livello inconscio, un dato di realtà primario che nessuna evoluzione culturale può estirpare. La seconda è che, utilizzando questo primato, qualunque cultura, quali che siano i suoi valori, dal momento in cui diventa egemone all'interno di un gruppo sociale, si trasmette e si replica.

Le cose insomma stanno in termini rovesciati rispetto alla teoria freudiana. Nel suo strato più profondo, la mente umana è predisposta alle influenze sociali di ogni genere. I valori culturali che vengono, di conseguenza interiorizzati, sono quelli propri del contesto socio-storico: che essi siano civili o incivili, umanizzanti o alienanti, positivi o negativi è del tutto insignificante per la maggioranza delle persone che appartengono a tale contesto. L'avere assunto il Super-io come difensore repressivo dei valori più elevati della civiltà (occidentale, tra l'altro) contro una natura umana tendenzialmente riottosa e anarchica rappresenta dunque, in Freud, un errore teorico fatale e fuorviante. Questo permette di comprendere l'abbandono della teoria del Super-io anche da parte degli analisti via via che la civiltà è divenuta meno repressiva, l'educazione più permissiva, il controllo sociale più labile.

Sembra che nessuno si renda conto che l'evoluzione della personalità umana postula l'interiorizzazione dei valori culturali come un momento indispensabile, e che tale interiorizzazione, che si fonda sull'apprendimento conscio e inconscio, implica una programmazione costante della mente umana.

Se ci si riconduce a questo principio, i cambiamenti della psicologia e della psicopatologia giovanile possono essere interpretati senza grandi difficoltà. E' solo un'impressione superficiale, infatti, che i giovani oggi vivono un difetto di valori o aderiscono a valori prodotti dal gruppo dei coetanei. La realtà è che essi risentono di una terribile confusione la cui causa è che i valori trasmessi dalle generazioni precedenti sono contraddittori.

All'epoca di Freud la civiltà europea, nonostante le sue tensioni, legate al contrasto tra democrazie liberali e Stati assoluti, era piuttosto integrata culturalmente. L'integrazione era dovuta al fatto che la borghesia, il cui peso sociale e politico era ovunque elevato, aveva sostanzialmente accettato il primato dei valori cristiani. Le sue pretese egemoniche, che già avevano fatto affiorare la formula del libero Stato e della libera Chiesa, non contrastavano con il riconoscimento delle matrici cristiane della civiltà europea. Tale riconoscimento persiste ancora oggi, ma è meramente formale. Lo sviluppo della civiltà capitalistica ha assunto, negli ultimi decenni, un ritmo vieppiù elevato, giungendo a configurare un capitalismo selvaggio il cui quadro di valori è radicalmente laico e anticristiano, nella misura in cui enfatizza la realizzazione egoistica dell'individuo e l'assunzione dell'altro come rivale.

La realtà dunque è che la nostra civiltà è ormai culturalmente dissociata. Due ideologie - quella cristiana e quella capitalistica - incompatibili tra loro convivono, anche se il processo della secolarizzazione è crescente. Questo significa né più né meno che, nel rapporto tra le generazioni, vengono trasmesse, sia pure im misura diversa, entrambe le ideologie. La conseguenza di questo è che le personalità giovanili le albergano entrambe, spesso a livello inconscio. Ciascuna delle due, in rapporto a cirostanze di vita, può assumere un significato egemonico, tradursi cioè in un codice superegoico.

Di fatto la psicopatologia giovanile riconosce due categorie che, solo apparentemente, sembrano nettamente differenziate. Il numero dei giovani che crollano sotto il peso di valori religiosi colpevolizzanti - sviluppando attacchi di panico, depressioni, deliri, ecc. - è ancora elevato. Il Super-io freudiano, per questo aspetto, è ancora attivo, e esercita il suo potere in nome del fatto che l'educazione religiosa produce l'istintualizzazione dei bisogni individuali, rendendoli minacciosi. L'altra categoria, che rappresenterebbe una novità psicopatologica, è costituita da giovani che aderiscono acriticamente ai valori propri del capitalismo selvaggio, adottando i codici culturali (adultomorfo, claustrofobico, anestetico) che ho analizzato ne La Politica del Super-io, prevedendo tra l'altro la loro diffusione sociologica e la loro trasformazione in ideali superegoici.

La nuova patologia, insomma, è figlia del capitalismo selvaggio. Essa esprime un orientamento individualistico, egoistico, narcisistico che dà luogo a fenomeni psicopatologici perché entra in conflitto con il primato che la socialità, vale a dire l'altro, mantiene a livello inconscio. Anche questa nuova patologia è sottesa da intesi sensi di colpa che vengono sistematicamente rimossi, e la cui rimozione spinge sempre di più i soggetti a radicalizzare la loro forza, l'anestesia, il cinismo e, in alcuni casi, la brutalità nei rapporti interpersonali.

Non c'è nulla di nuovo, insomma, sotto il sole. La difficoltà degli analisti di interpretare la situazione discende, per un verso, dalle loro scarse competenze storico-culturali (che spesso si riducono allo studio dei simboli, come se questi non fossero un prodotto della storia sociale) e, per un altro, dal rifiuto della teoria freudiana del Super-io interpretata alla lettera. Per rivitalizzare questa teoria, e rendere più efficace l'analisi, basterebbe accettare che il bisogno d'appartenenza e d'integrazione sociale, su cui si costruisce il Super-io, può indurre ad interiorizzare qualunque codice culturale che assume un significato egemone.

Ottobre 2003


Da Nilalienum


Aggiornamenti di Psicopatologia teorica
Ancora sul Super-Io

1.

Super-Io è, in assoluto, il termine che ricorre più frequentemente in tutta la mia opera. Per quanto, fin dal primo saggio (La Politica del Super-Io), ho sottoposto il termine, coniato da Freud, ad una revisione concettuale radicale, ricavando dall'attività superegoica, massimamente evidente nelle esperienze psicopatologiche, la prova dell'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale intrinseco alla natura umana, geneticamente determinato, e assegnando, di conseguenza, al Super-Io la funzione primaria di favorire la replicazione culturale attraverso le generazioni e di privilegiare l'adempimento dei doveri di ruolo funzionali al mantenersi dell'ordine e della coesione sociale rispetto ai bisogni e ai diritti individuali, la decisione di continuare ad utilizzarlo (anche per l'impossibilità di trovare un sinonimo ugualmente efficace[1]) ha pesato parecchio sulla diffusione del mio lavoro.

In parte ciò è dovuto al fatto che la sua assimilazione a livello di cultura comune, dovuta alle straordinarie capacità divulgative di Freud, è rimasta ferma al concetto originario di istanza psichica sostanzialmente rigida e repressiva, orientata a contenere le spinte pulsionali. Parecchi lettori dei miei saggi è me ne sono reso conto più volte è comprendono il nuovo significato concettuale del Super-Io nella cornice struttural-dialettica, ma, di fatto, continuano a fare riferimento al concetto freudiano.

Un altro aspetto va ricondotto alla progressiva affermazione del cognitivismo che, privilegiando gli aspetti funzionali (pensiero, memoria, emozioni, ecc.) rispetto a quelli strutturali,, è giunto a gettare una luce di discredito sul sapere psicoanalitico. In questa nuova ottica, il Super-Io, in quanto istanza psichica o parte dell'apparato mentale differenziata rispetto all'Io, fino al punto di potersi autonomizzare in rapporto ad esso, è stato giudicato come un concetto incompatibile con il ruolo (totalizzante) che il cognitivismo assegna all'Io stesso.

A ciò va aggiunto che, anche nel contesto della psicoanalisi, clamorosamente stagnante sotto il profilo teorico, non pochi studiosi, influenzati dal pensiero di Kohut e protesi a perseguire l'integrazione dei principi cognitivi nella cornice della teoria analitica, sono giunti addirittura ad affermare che il Super-Io sarebbe tramontato con la cultura gerarchica e repressiva che lo ha prodotto.

Se fosse vero, ciò significherebbe che, anziché un'istanza strutturale, il Super-Io freudiano rappresenterebbe semplicemente l'espressione dell'influenza di una determinata cultura sull'organizzazione della psiche umana. Un'ipotesi del genere richiederebbe di ammettere una plasticità del cervello di gran lunga superiore a quella che oggi sembra ammissibile.

Al presunto tramonto del Super-Io, che sarebbe reso evidente soprattutto dalle esperienze psicopatologiche giovanili, ho dedicato già un articolo al quale rinvio il lettore.

Torno sull'argomento perché, riscrivendo la Politica del Super-Io (di cui ho pubblicato solo l'Introduzione, nutrendo la speranza di giungere ad una nuova edizione a stampa) e gli articoli sul significato funzionale dei sintomi, mi sono reso conto che, nel corso degli anni, la teoria del Super-Io è andato incontro a cambiamenti non radicali, ma di sicuro significativi. Che ne abbia preso coscienza a posteriori, prova semplicemente che il rimaneggiamento continuo dei contenuti concettuali, legato alla riflessione, avviene anche al di là della coscienza.

Nel saggio originario, che era in gran parte il frutto del lavoro di ricerca effettuato nel corso degli anni, a partire dal 1982, documentato dai Seminari, il Super-io, pur avendo le sua radici nel bisogno di appartenenza/integrazione sociale e rappresentando la matrice della replicazione culturale, assolveva una funzione univoca di controllo sociale sulla libertà individuale: era teorizzato, insomma, come l'espressione nel cuore della soggettività della tendenza conservatrice propria della cultura, orientata ad impedire il più possibile il cambiamento culturale.

Oggi tale funzione è ancora reperibile in numerose esperienze psicopatologiche, anche giovanili.

A differenza di quanto sostengono i cognitivisti e ormai anche alcuni analisti, la patologia da senso di colpa (conscio o inconscio che sia) non è affatto scomparsa dall'orizzonte della soggettività contemporanea.

G., per esempio, che ha ricevuto un'educazione rigorosa ma non moralistica, per la semplice influenza del catechismo, a 17 anni si chiude in casa perché, avendo lanciato per strada uno sguardo desiderante su di una donna adulta, che subito dopo si è accorta essere sposata, si sente investito, quando tenta di uscire, da occhiate rimproveranti che provengono da tutto il mondo.

M., che ha avviato con successo un'attività autonoma come ragioniere commercialista, si ritrova a falsificare qualche fattura, consapevole del fatto che se egli pretendesse far pagare ai clienti tutte le tasse che lo Stato esige, li perderebbe. Il problema è che egli ha un carattere estremamente scrupoloso, per cui, dopo alcuni mesi, comincia a sviluppare il timore che il suo comportamento ex-lege possa essere scoperto e punito. Nel giro di alcune settimane, il timore è confermato dal fatto che, per strada, egli avverte giudizi piuttosto pesanti nei suoi confronti e, distintamente, minacce che fanno riferimento al tribunale e al carcere.

In casi del genere, la funzione repressiva e moralistica del Super-Io, che difende l'ordine sociale dal disordine dei desideri e dei bisogni individuali, è del tutto evidente.

2.

E' pur vero, però, che, negli ultimi anni, sempre più spesso, la funzione del Super-io, oltre che punitiva, sembra sempre più spesso preventiva e protettiva.

La prevenzione si realizza quasi sempre allorché l'individuo, sotto la spinta della rabbia o di una cieca (quindi claustrofobica) rivendicazione di libertà, sta agendo comportamenti che potrebbero avere esiti catastrofici.

V., per esempio, che ha avuto sin da bambino un rapporto oppositivo e conflittuale con la famiglia e con la scuola, pur essendo dotato di grandi potenzialità, a 15 anni decide di darsi allo ìsbracoî, abbandonando lo studio e incentrando la sua vita sull'uso di marijuana. Tale uso si trasforma rapidamente in abuso. V. vive alleggerito dalle angosce e dalle paure che hanno contrassegnato la sua esperienza infantile, ma in una dimensione molto simile ad una trance. Ad un certo punto, data l'assuefazione, avverte il bisogno di una droga più incisiva, la cocaina. Si sta approssimando a questa ulteriore svolta della sua vita allorché uno stravolgente attacco di panico lo chiude in casa e pone fine all'uso delle droghe.

A. che, dall'adolescenza, ha ispirato la sua vita ad un modello di libertà totale, ritrovandosi in una ambiente universitario alternativo, assume un ruolo di leader della trasgressione, sollecitando gli altri a non aver paura di alcuna esperienza nuova. Per dare il buon esempio egli, oltre al fumo, sniffa cocaina e, ad un certo punto, comincia ad usare gli acidi e i funghi. Dopo un'assunzione di acidi, egli sviluppa un attacco di panico incentrato sulla paura di andare fuori di testa, sormontato il quale, assillato dalla convinzione di avere indotto un danno cerebrale grave e irreversibile, si trova ìvaccinatoî in rapporto al pericolo di usare droghe pesanti.

In casi del genere, pur considerando che l'attacco di panico e le paure che ad esso residuano, sono sicuramente di matrice superegoica, il riferimento ad un Super-Io repressivo sembra piuttosto ridicolo. L'attivazione della funzione superegoica sembra orientata non solo a proteggere l'integrità psicofisica dei soggetti, ma anche a porre termine ad un'esperienza alienata, vale a dire influenzata da motivazioni ìideologicheî che si sovrappongono ai bisogni individuali e li mortificano.

Si danno, però, esperienze ancor più significative.

A. fin da bambino si rende conto di essere dotato di una sensibilità sociale eccessiva. Vive tormentato da essa, che lo costringe ad essere un figlio e uno studente modello, finché non si realizza una circostanza particolare. Il padre viene ricoverato in Ospedale per un ictus. Alessandro, che si rende conto del pericolo di perderlo (destinato a realizzarsi), soffre le pene dell'inferno, finché una mattina la sua mente non è attraversata da una singolare fantasia incentrata sul ìfregarseneî se il padre sopravvive o muore. Tale fantasia lo fa sentire immediatamente leggero, finché, dopo pochi minuti, non sopravviene un atroce senso di colpa che lo tormenterà per anni.

Il problema è che quella fantasia ha portato alla luce un desiderio che, nel corso degli anni, si radicalizza: giungere a non sentire più nulla per nessuno, ad essere totalmente indifferente nei confronti degli altri, per vivere bene. Oppresso dalla sensibilità, infatti, egli si sente fragile e vulnerabile: rimane, infatti, profondamente turbato dal dolore altrui e sollecitato a fare qualcosa per rimediare. Se se ne liberasse, diventerebbe sicuro, forte e onnipotente.

Per anni, dunque, vive all'insegna di una vera e propria fobia della sensibilità: quando non riesce a controllarla, infatti, repentinamente si sente crollare in una depressione profonda. Nei momenti in cui gli sembra di averla fatta fuori, tocca il cielo con le dita.

Il problema è che l'ossessione stessa di liberarsi dalla sensibilità, la incrementa fino a livelli intollerabili. Se A. va in un ospedale identifica con coloro che soffrono fino a sentire un dolore lancinante, se incontra per strada un immigrato non può fare a meno di dargli tutti i soldi che ha, se si imbatte in un animale sperduto o ferito non dorme la notte.

E' evidente che la sensibilità esasperata compensa e punisce la sua volontà di liberarsene del tutto.

P. manifesta precocemente una iperdotazione introversa che si esprime in una carriera scolastica brillantissima, nella coltivazione di molteplici interessi culturali e nell'eccellere anche a livello sportivo. Attraversa l'adolescenza, muta sotto il profilo dell'interesse per l'altro sesso, senza rendersi conto della sua diversità, anzi disprezzando le coetanee che parlano solo di ragazzi, abiti, canzoni, ecc. A 19 anni, malauguratamente, il suo non avere ancora intrattenuto rapporti di alcun genere con gli uomini si configura repentinamente come un'espressione di intollerabile inferiorità. Anche se non se ne rende pienamente conto, questo vissuto riverbera una luce negativa sul passato eccezion fatta per il bisogno divorante di primeggiare. Ciò la induce a operare una scelta universitaria molto lontana dai suoi interessi umanistici, anche se funzionale ai fini di un'ascesa sociale, e ad installare la sua vita su di un registro ìsuperficialeî, caratterizzato dalla seduzione e dalla conquista di uomini importanti e di successo (per quanto psicologicamente e culturalmente mediocri) e dal culto delle apparenze (immagine estetica).

Questa sciagurata ìsceltaî di vita, che inaugura una serie fallimentare di rapporti sentimentali, il blocco di una carriera professionale avviatasi fin troppo brillantemente, e un dissesto economico dovuto a spese compusive inerenti oggetti di lusso (abiti, gioielli, ecc.),coincide con l'affiorare di una depressione che viene diagnosticata come disturbo dell'umore e avvia una carriera psichiatrica destinata a protrarsi negli anni.

E' evidente che la depressione segnala per un verso il tradimento dei valori piccolo-borghesi trasmessi dalla famiglia e, per un altro, il tradimento della sua vocazione ad essere, sostanzialmente intellettuale.

Purtroppo quella scelta di vita viene confermata nel corso degli anni e dà luogo all'incremento della depressione e dei sensi di colpa sino a livelli drammatici.

Esperienze del genere, incomprensibili e inspiegabili se non si ammette l'entrata in azione di un'istanza capace di contrapporsi all'Io e di inibire la sua libertà, non rientrano nella teoria formulata originariamente ne La Politica del Super-io, a cui ho fatto riferimento ancora, anche se in termini più articolati, in Star Male di Testa.

Esse costringono a pensare che il Super-Io è una istanza psichica il cui spettro funzionale va dall'estremo di un'intensa colpevolizzazione e di una dura punizione all'estremo opposto di un controllo sulla libertà personale che si può ritenere protettiva e preventiva rispetto ai pericoli di un esercizio alienato della stessa.

Non si tratta di un aspetto del tutto nuovo. Fin da Prassi terapeutica dialettica ho sottolineato che i sintomi psicopatologici, gran parte dei quali di fatto sono accomunati dal diminuire, in misura più o meno rilevante, la libertà personale, possono avere di volta in volta un significato punitivo, protettivo o preventivo. Non si può negare però che l'attribuzione al Super-Io di una capacità funzionale così ampia che, sia pure sulla base univoca del senso di colpa, comporta al limite la protezione dell'individuo dall'esercizio di una libertà alienata, pone di fronte ad una serie di problemi che costringono a rivedere la teoria struttural-dialettica del Super-Io stesso.

Mentre infatti la funzione punitiva, con i suoi eccessi, sembra confermare che il Super-Io, una volta interiorizzati determinati valori culturali, li assolutezza e li utilizza come metro di misura della conformità o meno ad essi del comportamento individuale (attività che conferma il suo ruolo di servomeccanismo di regolazione dell'ordine sociale culturalmente definito), la funzione protettiva e preventiva può essere, d'acchito, facilmente equivocata come una conferma della teoria pulsionale freudiana.

Questo equivoco, portato alle estreme conseguenze, invalida quasi totalmente la teoria struttural-dialettica. Certo la funzione protettiva e preventiva del Super-Io attesta che il suo radicamento avviene a partire da un bisogno sociale primario, dato che essa prescinde da qualsivoglia rappresaglia e sembra riabilitare, dall'interno della soggettività, un potere di controllo positivo sulla libertà che nessun essere in carne ed ossa sembra più in grado di agire sul soggetto. In un certo qual modo, essa sembra quasi sopperire alla perdita di potere di controllo delle figure genitoriali e vicariarla con l'entrata in azione di un loro rappresentante simbolico il cui intento è tutt'altro che repressivo.

E' pur vero, però, che quella funzione argina, contiene e inibisce una libertà che sembra sottesa da incoercibili spinte pulsionali.

Freud dunque avrebbe sbagliato nel misconoscere la presenza nella natura umana di un bisogno sociale e nell'attribuire al Super-Io una valenza univocamente punitiva, ma avrebbe colto nel giusto nell'identificare una componente pulsionale anarchica, facente parte della natura umana, che si esprimerebbe attraverso l'esercizio di una libertà compulsava e senza limite.

Il problema è che un'interpretazione del genere è insostenibile in quanto contraddittoria. L'esistenza, infatti, nella natura umana di un bisogno sociale primario, vale a dire di un bisogno di appartenenza radicale, è incompatibile con quella di una libertà pulsionale anarchica, che implica un egocentrismo totale.

Come interpretare, dunque, lo spettro funzionale del Super-Io che si evince dalle esperienze psicopatologiche contemporanee?

3.

L'ipotesi più semplice consiste nel tenere conto che il Super-Io, nell'ottica struttural-dialettica, integra sempre e comunque due componenti, l'una psicobiologica e l'altra culturale. La componente psicobiologica è identificabile con una sensibilità sociale che, consentendo di sentire l'altro come dotato di bisogni e diritti, incide in due modi nella progettazione dell'autorealizzazione individuale: per un verso, infatti, essa definisce il legame sociale, intersoggettivo, come costitutivo dell'identità personale; per un altro verso, comporta anche una realizzazione sociale dell'Io. Su questo sfondo psicobiologico, l'interazione con l'ambiente, attraverso l'interiorizzazione dei valori culturali regola e modula la relazione sociale in termini di diritti e doveri dell'io nei confronti degli altri e degli altri nei confronti dell'Io.

Il problema è che questa regolazione, per i motivi più vari, non ultimo tra i quali è l'estrema influenzabilità dei bambini (e soprattutto di quelli dotati di una maggiore sensibilità), di fatto può giungere a rappresentare non già un canale che permette il dispiegamento dell'individuazione entro limiti rispettosi dei bisogni e diritti altrui, bensì un canale che mortifica l'individuazione, impedendo ad essa di dispiegarsi.

In circostanze del genere, come noto, il bisogno d'individuazione frustrato dà luogo allo strutturarsi di un Io antitetico che tende a promuoverne la realizzazione mortificando o reprimendo il bisogno sociale, che lo vincola, e giungendo di conseguenza ad assumere una configurazione più o meno intensamente anarchica e ìpulsionaleî.

Il problema è che la rivendicazione di libertà si realizza non solo violando i valori culturali interiorizzati è circostanza che, in sé e per sé, non esclude un loro superamento in nome di nuovi valori riconosciuti come propri dall'io -, ma anestetizzando la sensibilità che ne ha consentito l'interiorizzazione. Il soggetto, insomma, si ritrova a vivere sì affrancato da valori che possono essere alienati o poco compatibili con la sua vocazione ad essere, ma anche al di fuori della propria pelle: su di un registro, dunque, alienato, espressivo di uno solo dei bisogni che sottendono la sua esperienza.

In casi del genere, non c'è da sorprendersi che il Super-Io entri in azione con una doppia valenza: l'una punitiva in rapporto alla trasgressione morale, l'altra protettiva e riparativa in rapporto ad una sensibilità sociale profondamente radicata nelle viscere dell'apparato mentale.

C'è ovviamente una contraddizione nell'attività superegoica: per un verso, infatti, per quanto concerne l'aspetto punitivo, essa tende a mantenere l'io in una condizione eterodiretta (dunque alienata); per un altro verso, essa, quando si contrappone ad un Io antitetico esasperato, mira a restaurare un bisogno autentico di socialità che la rivendicazione ìpulsionaleî di libertà ha anestetizzato, quindi a disalienare il bisogno stesso.

Mi rendo conto che riflessioni del genere non hanno alcun interesse per chi, pur adottando una logica psicodinamica, ritiene che il Super-Io sia tramontato e, a maggior ragione, per i cognitivisti, per i quali il concetto di Super-Io non ha senso alcuno.

Se si prescinde però dal ritenere la psicopatologia una scienza in senso proprio è statuto che, eccezion fatta per la linguistica, nessuna disciplina umana e sociale ha raggiunto e potrà raggiungere -, il suo obbiettivo non può essere altro che formulare teoria le quali consentono di interpretare sempre meglio i dati offerti dalle esperienze soggettive.

Per questo aspetto, a me sembra che la teoria del Super-Io come funzione il cui spettro di azione pone in luce le due componenti a partire dalle quali esso si struttura sia estremamente efficace.

E' o dovrebbe essere ovvio che tale teoria implica che anche l'Io antitetico sia una funzione a spettro, che va dall'estremo di una rivendicazione sostanzialmente giusta di una libertà intrinseca alla vocazione ad essere personale all'estremo opposto di una rivendicazione totale, anarchica e claustrofobia che porta il soggetto sul terreno dell'alienazione, dell'insensibilità ai suoi bisogni autentici e, al limite, della devianza.

La concezione del Super-Io e dell'Io antitetico come funzioni dinamiche a spettro danno alla teoria del conflitto strutturale un'estensione e una flessibilità che sembrano adeguate a comprendere e a spiegare il continuum psicopatologico. Fermo restando, ovviamente, che si tratta di substrutture dell'Io che con esso interagiscono.

Le forme diverse di tale interazione saranno analizzate in un ulteriore articolo.

Nota

[1] I sinonimi sui quali ho più riflettuto sono l'Altro generalizzato (coniato da Mead), il Noi (coniato nell'ambito della psicologia evolutiva degli ultimi anni) e il Sociale interiorizzato (o in alternativa l'Altro), che ho utilizzato in Miseria della neopsichiatria. L'Altro generalizzato è un concetto sovrapponibile per molti aspetti al Super-io. Esso però è inutilizzabile perché, almeno nella teorizzazione mediana, implica l'interiorizzazione delle originarie interazioni interpersonali: In breve, misconosce del tutto la matrice psicobiologica. Il Noi è efficace nella misura in cui implica l'appartenenza dell'Io ad un gruppo o ad una totalità sociale, di cui è membro e funzione, ma diventa confusivo laddove si devono analizzare esperienze psicopatologiche all'interno delle quali il Super-Io si contrappone all'Io e lo assume come oggetto. Il Sociale interiorizzato ha come limite l'alludere ad una condizione psicologica univocamente autodiretta e il non tenere conto che l'interiorizzazione delle influenze ambientali implica anche la sensibilità personale e l'interpretazione soggettive di esse.

Se fossi costretto ad optare per uno dei tre termini, opterei (come ho fatto) per il terzo.

Rimane il fatto che il termine Super-Io, pur nell'indeterminatezza di chi sovrasta l'Io, è il più suggestivo.


Da Appartenenza e Individuazione 2007

(Nuova edizione de La Politica del Super-io)
Capitolo secondo
La scoperta del Super-Io e le sue implicazioni

2. 1

Fin dall'avvio delle sue ricerche, Freud intuisce che il disagio psichico implica un conflitto tra contenuti psichici inconsci (desideri, pensieri, fantasie) poco o punto compatibili con le norme, le regole e i valori culturali correnti e una funzione di censura che impedisce ad essi di affiorare (rimozione) o, nel caso ciò avvenga, li respinge immediatamente al di sotto della soglia della coscienza (repressione). Egli si rende anche conto che i contenuti sono censurati in quanto si associano ad un giudizio e ad un sentimento di colpa. Chi fornisce tale giudizio, visto che l'Io, il più spesso, è del tutto inconsapevole di quei contenuti?

E' nel tentativo di rispondere a questa domanda che Freud perviene all'intuizione, alla scoperta e alla teorizzazione del Super-Io. Si tratta però di un tragitto accidentato, che comporta molteplici ripensamenti e che giunge, infine, ad un esito è l'attribuzione alla natura umana di una pulsione primaria di morte è destinato a lacerare il movimento psicoanalitico. Seguire minuziosamente tale tragitto richiederebbe un saggio autonomo. Mi limiterò a ricostruirlo nei suoi punti essenziali, avvertendo che, per semplicità espositiva, farò ricorso al termine Super-Io anche laddove Freud, non avendolo ancora coniato, lo appella diversamente (istanza morale, ideale dell'Io).

Il termine Super-Io, in effetti, è introdotto da Freud solo nel 1922 in L'Io e l'Es per designare un'istanza psichica che può separarsi e contrapporsi all'Io assumendo una funzione più o meno aspramente critica e giudicante nei suoi confronti. L'intuizione dell'esistenza di questa istanza risale però al 1914. Nella Introduzione al narcisismo, Freud scrive:

´I moti pulsionali libidici incorrono nel destino di una rimozione patogena quando vengono in conflitto con le rappresentazioni della civiltà e dell'etica proprie del soggetto. Con ciò non abbiamo mai inteso che l'individuo abbia una nozione meramente intellettuale di queste rappresentazioni, ma sempre piuttosto che egli le riconosca come normative e si sottometta alle sollecitazioni che da esse gli pervengono. Abbiamo detto che la rimozione procede dall'Io. Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione che l'Io ha di sé... Possiamo dire che un individuo ha costruito in sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale... La formazione di un ideale sarebbe da parte dell'Io la condizione della rimozione.' (Sigmund Freud, Opere, Boringhieri, Torino, vol. 7 p. 463)

Poco più oltre, Freud aggiunge:

´Non ci sarebbe niente di strano se riuscissimo ad identificare una speciale istanza psichica che assolva il compito di vigilare affinché a mezzo dell'ideale dell'Io sia assicurato il soddisfacimento narcisistico, e a tal fine osserva costantemente l'Io attuale commisurandolo a questo ideale. Se tale istanza esiste, non è possibile che ci accada di scoprirla: possiamo solo riconoscerla come tale e ci è lecito dichiarare che ciò che chiamiamo la nostra "coscienza morale" ha questa prerogativa. Riconoscere l'esistenza di tale istanza ci rende intellegibile il cosidetto "delirio di essere notati" o, più precisamente, di essere "osservati", delirio che si manifesta con tanta evidenza nella sintomatologia delle affezioni paranoidi... I malati di questo tipo si lamentano del fatto che tutti i loro pensieri sono conosciuti, e le loro azioni sono osservate e inquisite... Tale lamentela è giustificata poiché corrisponde al vero. Una forza di questo genere che osserva, scopre e critica tutte le nostre intenzioni esiste davvero, e precisamente nella vita normale di ciascuno di noi.' (op. cit. p. 465)

La genesi del Super-Io che, nei deliri paranoidi, sembra parlare in nome del mondo, appare ovvia:

´L'esigenza di formare un ideale dell'Io, su cui la coscienza morale è incaricata di vigilare, è scaturita nell'individuo per opera delle critiche che i suoi genitori gli hanno rivolto a voce, alle quali, nel corso del tempo, si sono associati gli educatori, i maestri e l'incalcolabile e indefinita schiera di tutte le altre persone del suo ambiente (il suo prossimo e la pubblica opinione).' (op.cit. p. 466)

Ovvia è anche l'interpretazione del carattere persecutorio che il Super-Io assume in quanto rappresentante della norma sociale:

´Sia le voci, sia la moltitudine di persone la cui identità è lasciata nel vago sono... riportate in primo piano dalla malattia; e con ciò viene riprodotta regressivamente la storia evolutiva della coscienza morale. Ma la ribellione contro questa "istanza censoria" dipende dall'intenzione del soggetto... di liberarsi da tutti gli influssi che sono seguiti a quelli dei genitori...

La sua coscienza morale gli si fa dunque contro in forma repressiva, assumendo le sembianze di qualcosa di ostile che agisce all'esterno.' (op. cit. p. 466)

All'epoca, dunque, l'interpretazione freudiana dei sensi di colpa appare abbastanza lineare. In conseguenza della dipendenza dal contesto sociale, e in primis dai genitori e dagli educatori, ogni soggetto si confronta con un codice culturale che comporta regole, norme e valori da rispettare per sentirsi approvato e confermato. Una volta interiorizzato in conseguenza dell'identificazione con le figure genitoriali, tale codice si trasforma in un ideale dell'Io che funge come metro di misura dei comportamenti, dei pensieri, dei desideri e delle fantasie soggettivi.

Il Super-Io si configura, dunque, come un'istanza che osserva l'Io stesso e lo giudica, facendo valere, all'interno della soggettività, il potere originario che la società, a partire dai genitori, ha sull'individuo. Laddove la condotta del soggetto, sul piano interiore o comportamentale, risulta in contrasto con le regole, le norme e i valori interiorizzati, il Super-Io genera sensi di colpa che, al limite, possono essere vissuti come giudizi negativi provenienti dall'esterno. In questo modo, è assicurato sul foro interno della soggettività, subordinata su quello esterno alla legge e al giudizio sociale, un certo controllo sull'individuo.

E' ovvio, per Freud, che tale controllo, il quale potrebbe essere semplicemente riferito alle esigenze di normalizzazione proprie di ogni contesto sociale, vale a dire al bisogno di ogni società di mantenere una coesione identitaria, implica un pericolo da scongiurare. A riguardo, egli non ha alcun dubbio. Il pericolo in questione è intrinseco ad una natura umana animata da una tensione pulsionale che, se non fosse tenuta a freno, scompaginerebbe l'ordinamento sociale, a partire dalla famiglia. Essa, infatti, comporta una tendenza univoca all'appagamento, alla scarica, che non tiene conto in alcun modo delle esigenze della vita associativa, tanto è vero che si rivolge originariamente nei confronti del genitore di sesso opposto con una violenza tale che l'altro viene avvertito come un rivale da eliminare.

Il pericolo, dunque, è l'anarchia morale, che l'umanità ha scongiurato attraverso il tabù dell'incesto, che ha contrassegnato il passaggio dallo stato di natura alla cultura, e al quale deve piegarsi ogni soggetto nel corso della sua evoluzione abbandonando il principio del piacere intrinseco alla pulsione libidica e approdando al principio di realtà, che implica la frustrazione del desiderio.

Il superamento del pensiero kantiano sulla coscienza morale, rivendicato esplicitamente da Freud in nome della possibilità di spiegare l'origine del Super-Io nei termini di una socializzazione forzata, atta a promuovere il primato della cultura sulla natura umana, avviene pertanto a partire dall'ipotesi ideologica di un conflitto irriducibile tra di esse. In quest'ottica, il Super-Io si pone come il rappresentante soggettivo della società nel suo complesso, il baluardo della civiltà contro il disordine pulsionale. Cultura vs natura: è questa opposizione radicale la matrice del Super-Io.

Avallata, secondo Freud, dai dati tratti dalla pratica psicoanalitica, questa ipotesi, che rappresenta un basso continuo del suo pensiero, incorre rapidamente in una crisi. A produrla, però, non sono i ripensamenti teorici ma le circostanze storiche.

2. 2

Pochi mesi dopo l'Introduzione al narcisismo, la Grande Guerra avvia, nel cuore dell'Europa civilizzata, un massacro al quale i popoli non possono sottrarsi, ciascuno in nome di ragioni che sembrano coincidere con le radici stesse della civiltà. Dopo un iniziale e fervido entusiasmo patriottico, Freud cade in una profonda e lunga crisi. Gli riesce infatti immediatamente chiaro che il Potere costituito, il quale dovrebbe garantire i valori della civiltà, può essere esercitato in disprezzo di essi.

Egli scrive, in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915):

´Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: e cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l'uso dell'ingiustizia, non perché intende sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla... Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l'individuo singolo... Lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrificio di sé, ma li tratta poi da minorenni... Lo Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con gli altri stati e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza.' (op. cit., vol. 8, p. 127)

Espressione massima di un patto sociale in conseguenza del quale i singoli soggetti hanno accettato di subordinare la loro libertà al diritto dei molti sull'individuo, e dunque ai doveri sociali, lo Stato, deputato a difendere la civiltà e il bene comune dalle pulsioni individuali, ha manifestato, in occasione della guerra, la sua "immoralità", affrancandosi da ogni vincolo giuridico e esibendo senza alcun freno una distruttiva volontà di potenza. E' proprio il potere statale, infatti, che, con l'ipnotica fascinazione dei valori di cui si ammanta ó la patria, la nazione, il bene comune ó, mantiene i cittadini in una condizione di totale assoggettamento, ad avere promosso un figlicidio e un fratricidio universale.

Ciò getta un'ombra sul legame univoco che Freud ha stabilito tra civiltà e valori culturali elevati.

La riflessione sulla guerra, insomma, mette in crisi l'ingenuo positivismo freudiano, che oppone alle cieche pulsioni naturali le esigenze collettive della civiltà, e assegna al Super-Io la funzione di frustrare le une in nome delle altre.

Nonché di valori elevati, il Super-Io, che mantiene, all'interno della soggettività, il primato dei molti sull'individuo, non potrebbe veicolare e rendere coercitivi, in nome dell'appartenenza sociale, anche valori culturali semplicemente convalidati dalla tradizione e dall'Autorità, per quanto oggettivamente immorali? Non potrebbe esso semplicemente piegare la coscienza individuale ad obbedire alla volontà del gruppo di appartenenza e di chi lo rappresenta soffocando, per effetto dell'angoscia sociale, ogni valutazione critica in merito all'elevatezza del valore cui fa riferimento quella volontà?

Se Freud avesse portato alle estreme conseguenze la crisi prodotta dall'immane tragedia della Grande Guerra, sarebbe giunto ad intuire che ogni cultura ha un'intrinseca ambiguità e una potenziale ambivalenza: essa, infatti, offre alla natura umana possibilità illimitate di integrazione ma può anche imporre ad essa valori alienanti, se non addirittura perversi. A una conclusione del genere, come vedremo, egli arriverà ne Il disagio della civiltà, ma solo dopo aver sancito la sostanziale anarchia della natura umana e la necessità della repressione.

Nell'immediato, la sua esigenza è di risolvere la dissonanza cognitiva prodotta dagli eventi storici. Questa, però, incide anche sulla riflessione analitica, com'è attestato da Lutto e melanconia, scritto quasi contemporaneamente alle Considerazioni sulla guerra e sulla morte. L'accostamento tra lutto e melanconia è giustificato dalle cause occasionali ambientali, entrambe le condizioni rappresentando ´la reazione alla perdita di una persona amata o di un'astrazione che ne ha preso il posto, la patria, ad esempio, o la libertà o un ideale e così via.î (op. cit. vol. 8, p. 103) A differenza del lutto, la melanconia è uno stato patologico caratterizzato ì da un profondo e doloroso scoramento, da un venire meno dell'interesse per il mondo eterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualunque attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione.' (op. cit. vol. 8, p. 103) L'analogia con il lutto porta a pensare che il malinconico ha subito una perdita che riguarda l'oggetto; ma, sul piano psicologico, egli attacca e denigra se stesso, giudicandosi indegno di vivere, fino al punto di essere spinto ad attentare alla propria vita. Ecco, dunque, ancora una volta prendere corpo un'istanza autonoma rispetto all'Io che assume una funzione persecutoria:

´Nel malinconico vediamo che una parte dell'Io si contrappone all'altra parte, la valuta criticamente e la assume, per così dire, quale suo oggetto. Il nostro sospetto che l'istanza critica, prodottasi in questo caso per scissione dell'Io, possa dimostrare la sua autonomia anche in altre circostanze sarà confermato da tutte le osservazioni ulteriori. Troveremo davvero che esistono validi motivi per separare questa istanza dal resto dell'Io. Ciò che in questo caso impariamo a conoscere è l'istanza comunemente definita istanza morale.' (op. cit. vol. 8, p. 106)

Rimane da capire come possa un'istanza morale è il Super-Io - incrudelire a tal punto da indurre una sofferenza così grave e, al limite, una condanna a morte che il soggetto stesso esegue. La risposta di Freud è di grande interesse:

´Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del malinconico, alla fine non ci si può sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che invece con qualche insignificante variazione si adattano perfettamente ad un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare... Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimproveri rivolti ad un oggetto d'amore ó e da questo poi distolti o riversati sull'Io ó abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia.' (op. cit. vol. 8, p. 107)

La chiave in questione, in realtà, è più inquietante di quanto Freud pensa.

Posto, infatti, che le autoaccuse del malinconico sono l'espressione di una rabbia colpevolizzata che si ritorce contro di lui, c'è da chiedersi quale logica induce la ritorsione. A livello di rapporti interpersonali familiari, si sarebbe portati a pensare che essa entra in contrasto con gli affetti. Ma spesso, la malinconia è sottesa da una rabbia che, a partire da situazioni interattive frustranti o lesive dei diritti individuali, si generalizza investendo tutto il mondo. Se i rimproveri e le accuse del soggetto hanno un fondamento, perché la rabbia si rivolge regolarmente contro di lui? Perché l'istanza morale si schiera sempre a difesa delle ragioni dell'altro, della società, e non tiene mai conto di quelle dell'individuo? Perché, infine, essa appare tanto attiva e severa in alcuni, che pagano colpe commesse solo nella fantasia, e scarsamente attiva o del tutto inattiva in altri, che commettono colpe reali?

C'è una sola risposta possibile La ritorsione della rabbia che attiva il bisogno di autopunizione si può interpretare solo ipotizzando che essa entri in conflitto con una sensibilità sociale originaria, modellata dalla cultura. La sua intensità sarebbe, da questo punto di vista, un indice diretto di tale sensibilità, al di sotto della quale occorrerebbe ammettere un bisogno primario di relazione sociale.

Ciò che Freud dunque ha scoperto, in realtà, è un'istanza psichica, in gran parte inconscia, che sacralizza l'altro o al limite la società tutta con le sue regole, norme e valori, squalificando, sanzionando e punendo qualunque ribellione, indipendentemente dalle sue ragioni, in misura direttamente proporzionale alla sensibilità sociale soggettiva.

Egli però non può giungere a questa conclusione, perché essa invaliderebbe la teoria pulsionale. Per corroborare questa, occorre un'altra ipotesi che giustifichi il bisogno di autopunizione e consenta di spiegare la severità, che talora arriva alla crudeltà, del Super-Io.

2. 3

Due passaggi intermedi vanno considerati per giungere a questa nuova ipotesi.

Il primo concerne l'autonomia, almeno relativa, del Super-Io rispetto all'Io. Se il Super-Io osserva, giudica, condanna e perseguita l'Io quando il suo comportamento non è conforme al quadro di valori interiorizzato, è evidente che esso funziona come un'altra identità soggettiva all'interno della personalità.

Non è per caso che in questo periodo Freud abbandona ogni riserva e comincia ad utilizzare, per definire il Super-Io, termini antropomorfici, parlando di Censore e di Giudice.

L'antropomorfismo superegoico rappresenterà, per Freud stesso e per il movimento psicoanalitico un nodo gordiano di insolubile difficoltà. Di fatto, l'ipotesi di una doppia identità psichica è perturbante, tanto più se si tiene conto che l'istanza superegoica, in quanto espressione della tradizione culturale, veicolata dai genitori, dagli educatori e dalla società nel suo complesso, dovrebbe avere l'effetto di integrare socialmente la personalità, di "familiarizzarla" con il mondo. Ciò che invece risulta chiaro a Freud è che quell'istanza rende familiare il mondo ó interno ed esterno ó solo se ad essa l'individuo si assoggetta, accettandone passivamente gli ideali che veicola; se l'individuo si ribella, l'istanza superegoica da protettiva diventa persecutoria e mortificante.

L'antropomorfismo superegoico è confermato da Freud in un saggio, Il perturbante (1919), a torto ritenuto minore. Esso è percorso da un'inquietudine che sarebbe ingenuo attribuire all'argomento, che, in apparenza, concerne l'estetica. Freud intende dimostrare che una delle forme più inquietanti di angoscia, quella significata dal termine tedesco unheimlich è dovuta al riaffiorare, dopo una lunga rimozione, di ciò che un giorno fu heimlich (patrio), familiare, e che, in seguito alla rimozione, diventa perturbante, lugubre, sinistro. Uno dei temi sui quali Freud sofferma l'attenzione è ´il motivo del sosia in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante la trasmissione immediata di processi psichici dall'una all'altra di queste persone... così che l'una è compartecipe delle conoscenze, dei sentimenti e dell'esperienza dell'altra; l'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io e lo sostituisce con quello delle persone estranee; un raddoppiamento dell'Io, quindi una suddivisione dell'Io, una permuta dell'Io; un motivo del genere è infine il perpetuo ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose, e persino degli stessi nomi attraverso più generazioni che si susseguono.' (op.cit. vol. 9, p. 95)

Questo motivo suggerisce a Freud la definizione dell'istanza superegoica:

´La rappresentazione del sosia... può acquisire un nuovo contenuto traendolo dalle fasi di sviluppo successivo dell'Io. Nell'Io prende forma lentamente un'istanza particolare, capace di opporsi al resto dell'Io, un'istanza che serve all'autosservazione e all'autocritica, che effettua il lavoro della censura psichica e che ci diventa nota come coscienza morale. Nel caso patologico del delirio di essere osservati questa istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile da parte del medico. Il fatto che esista un'istanza del genere, che può trattare il resto dell'Io come un oggetto, il fatto cioè che l'uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alle vecchie rappresentazioni del sosia...' (op. cit. vol. 9, p. 96)

In nota, Freud aggiunge: ´Io credo che quando i poeti lamentano che il petto dell'uomo ospita due anime, e quando gli psicologi popolari parlano della scissione dell'Io nell'uomo, essi intravvedono questo dissidio che fa parte della psicologia dell'Io, tra l'istanza critica e il resto dell'Io.' (op. cit. vol. 9, p. 96)

Alla luce di questi testi è insensato sostenere che l'antropomorfismo superegoico rappresenti una svista freudiana o un cedimento della riflessione scientifica a residui animistici. Si tratta, invece, di un'intuizione prodigiosa perché omologa ogni struttura di personalità ad un sosia, attribuendo ad essa normalmente una doppia identità che la psicopatologia rivela, consentendone dunque l'oggettivazione.

Il secondo passaggio, che si realizza in Al di là del principio del piacere (1920), consiste in una revisione della teoria pulsionale rimasta ancorata alla distinzione tra pulsioni autoconservative e pulsioni sessuali. La revisione è resa necessaria dalla crescente evidenza che assume agli occhi di Freud il masochismo morale, vale a dire il bisogno inconscio di soffrire che affligge molti pazienti. Sarebbe semplice interpretare tale bisogno come espressione del carattere perverso dell'istanza morale, che tormenta le persone allorché il loro comportamento e soprattutto la loro vita interiore non si conforma ai valori culturali interiorizzati. Ma questo significherebbe mettere in dubbio l'elevatezza di tali valori e il ruolo sostanzialmente civilizzante del Super-Io. Non potendo né volendo fare questo, Freud è costretto a formulare l'ipotesi della pulsione di morte, pulsione primaria che tende alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l'essere vivente allo stato inorganico. Rivolta dapprima verso l'interno e tendente all'autodistruzione, la pulsione di morte verrebbe successivamente diretta verso l'esterno, manifestandosi sotto forma di aggressività o di distruttività.

Questa ipotesi implica l'esistenza di un masochismo primario, i cui effetti autolesivi sono scongiurati solo dalla sua trasformazione in sadismo.

Alla pulsione di morte (Thanatos) fa da contrappeso la pulsione di vita (Eros), che tende a creare legami tra il soggetto e il mondo, laddove Thanatos tende solo a distruggerli. Ma si tratta di un contrappeso sempre precario, perché l'aggressività tende a permeare tutti i legami che il soggetto intrattiene.

2. 4

Con l'ipotesi della pulsione di morte i conti tornano. La severità e la crudeltà del Super-Io si possono spiegare leggendo in esse l'estremo rimedio contro una natura umana animata da una primaria e ´cieca ostilità contro tutti e contro tutto', che, se non fosse duramente repressa, voterebbe la civiltà alla catastrofe. Per Freud si tratta di una verità di assoluta evidenza: "Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest'affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopoÖ In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente, e rivela nell'uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie." (op. cit. vol. 10, p. 599)

La citazione, tratta da Il disagio della civiltà, che è del 1929, attesta che la crisi in cui è incorso Freud in seguito alla Prima Guerra Mondiale si è risolta a favore della civiltà, e del Super-io che la rappresenta, contro la natura umana considerata priva di qualunque afflato sociale e morale.

In questa stessa opera, nella quale il pessimismo antropologico si esprime senza riserve, Freud assume, però, anche un atteggiamento critico nei confronti della civiltà.

Posto che "per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è continuamente minacciata di distruzioneÖ la civiltà deve fare di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive dell'uomo" (op. cit. vol. 10, p. 600), come si realizza di fatto il controllo sociale dell'aggressività? In due modi: dall'esterno, attraverso la sanzione penale, che punisce i trasgressori, e il giudizio sociale, che li emargina, all'interno della soggettività attraverso il senso di colpa, promosso dal Super-Io, la cui preoccupazione fondamentale consiste nel tenere a freno l'aggressività innata dell'uomo.

Il Super-io, in breve, rende l'uomo civile e adattato al suo contesto culturale nella misura in cui riesce a piegare alle esigenze sociali l'egoismo individuale sotteso dalle pulsioni, che, in sé e per sé, non hanno altra meta che non sia la soddisfazione dell'individuo. In conseguenza di questo, "infuria in ogni individuo la lotta tra due tendenze, quella verso la felicità individuale e quella a congiungersi con gli altri esseri umani; così si contrappongono ostilmente i due processi dello sviluppo individuale e dell'incivilimento, costretti a disputarsi il campo l'un l'altro." (op. cit., vol. 10, p. 526) Via via che l'incivilimento progredisce, tentando sempre più di tenere sotto controllo l'aggressività, tanto più la frustrazione pulsionale che viene richiesta dalla società e rappresentata psicologicamente dal Super-io aumenta. La civiltà, insomma, "presume che l'io dell'uomo sia psicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l'Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell'Es non può superare un certo limite. Esigendo di più, si produce nell'individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rende infelice." (op. cit., vol. 10, p. 628) Si dà dunque una "patologia delle comunità civili" riconducibile al fatto che alcune epoche civili, come la nostra, "sono divenute nevrotiche per effetto del loro stesso sforzo di civiltà." (op. cit., vol. 10, p. 629)

Ancora una volta, Freud lambisce la verità intravedendo la matrice strutturale del disagio nel conflitto tra normalizzazione e individuazione. Il persistente pregiudizio nei confronti della natura umana, alla quale egli rifiuta di attribuire qualunque valenza sociale, gli impedisce però di mettere in discussione la civiltà e il Super-io che la rappresenta. Egli ammette che la società può esagerare nell'imporre all'uomo un carico eccessivo di frustrazioni, ma non si chiede perché e in nome di che essa diviene nevrotizzante.

Nella cornice della pulsione di morte, che caratterizza la fase matura della teorizzazione freudiana, il Super-Io non è più solo l'erede dell'Edipo: esso è il rappresentante della cultura tout-court della società con cui il soggetto interagisce.

Questo arricchimento concettuale è evidente nella Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932), ove è scritto che "nel corso dello sviluppo il Super-Io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori, cioè educatori, insegnanti e modelli ideali. Normalmente esso si allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventa per così dire più impersonale." (op. cit., vol. 11, p. 177)

Ma che cosa infine viene di fatto interiorizzato? A riguardo Freud fa una notazione di straordinario interesse: "Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell'educazione del bambino, i precetti del proprio Super-IoÖ Così, in realtà. Il Super-Io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-Io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazioneÖ L'umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-Io e, finché agiscono per mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente." (op. cit., vol. 11, p. 179)

Freud è dunque pienamente consapevole che il Super-Io stabilisce una sorta di collegamento tra il soggetto e la storia sociale che giunge sino a lui attraverso i familiari e gli educatori con cui interagisce. Ciononostante, egli non ricava da ciò l'ovvia ipotesi che il potere dinamico del Super-Io non può essere riferito alla persistenza a tempo indeterminato della soggezione infantile nei confronti degli adulti, ma implica che i valori culturali si replichino di generazione in generazione attecchendo su di un terreno predisposto alla socialità.

En passant, è importante rilevare che l'intuizione freudiana del rapporto che si stabilisce, in virtù del Super-Io, tra esperienza individuale e storia sociale non ha avuto un rilevante sviluppo nell'ambito del movimento psicoanalitico. La corrente culturalista statunitense - con H. Ericson (Infanzia e società, Armando, Roma, 1976), H. S. Sullivan (La moderna concezione della psichiatria, Feltrinelli, Milano 1961), K. Horney (La personalità nevrotica del nostro tempo, Newton Compton, Roma 1976), E. Fromm (Psicoanalisi della società contenporanea, Comunità, Milano 1976) - ne ha indubbiamente tenuto conto, ma l'elaborazione teorica non è riuscita ad andare molto al di là del concetto di personalità di base messo a fuoco da A. Kardiner (L'individuo e la sua società, Bompiani, Milano 1965).

Quell'intuizione, invece, è stata recepita e approfondita nell'ambito di una disciplina apparentemente molto lontana dalla psicoanalisi è la storia è per merito di studiosi francesi, confluiti nella scuola de Les Annales, che hanno identificato nell'inconscio sociale, definito come mentalità, un aspetto strutturale di ogni società umana (cfr La nuova storia, a cura di Le Goff J., Mondadori, Milano 1976 e Le Goff J.- Nora P. (a cura di), Fare storia, Einaudi, Torino 1980).

Una mentalità è sostanzialmente una visione del mondo caratterizzata da un insieme di sistemi di significato o di valori che, scorrendo nello strato più profondo dell'organizzazione sociale, a livello dunque inconscio, concorre a mantenere la sua identità culturale. Essa si tramanda di generazione in generazione riverberando attraverso le singole soggettività, ma funzionando come un recinto mentale normativo che le coscienze possono sormontare solo con uno sforzo critico enorme, perché esso cattura l'inconscio ancor più della coscienza e, trasmettendosi attraverso modalità prevalentemente inconsce, oppone resistenza a qualunque cambiamento.

Una mentalità, dunque, è un'ideologia di lunga durata, che può rimanere attiva a livello sociale e individuale anche quando la cultura e le coscienze pensano di averla superata.

Essa definisce il primato che la coesione identitaria sociale ha e mantiene sulle esigenze di differenziazione individuale.

Ideologia

In termini generali, per ideologia si può intendere qualunque costruzione concettuale che estrapola dall'infinita complessità del reale alcuni dati e li organizza per giungere ad una rappresentazione di essa semplificata e coerente.

In questa accezione, l'ideologia coincide con l'attività spontanea della mente umana in rapporto alla realtà e definisce il suo bisogno primario di dare ad essa senso, vale a dire di rappresentarla.

Sul piano collettivo, l'attività ideologica produce un sistema di valori culturali nei quali il gruppo si riconosce e sui quali si fonda la sua identità, differenziata rispetto ad altri gruppi.

Sul piano individuale, essa produce, invece, l'immagine cosciente che il soggetto ha di se stesso: il modo in cui egli pensa di essere.

A entrambi i livelli, l'ideologia comporta una manipolazione concettuale della realtà che può andare dall'estremo della mistificazione, per cui essa viene rappresentata in termini che ne mascherano la struttura e il significato concreto, all'estremo opposto di un'interpretazione significativa per quanto riduttiva rispetto alla sua complessità che assume spesso la configurazione di una visione del mondo sistematica.

L'importanza di questo concetto nell'ambito delle scienze umane e sociali non può essere minimizzato.

I codici normativi, che permettono ad una società di mantenere una sua identità e una sua coesione funzionale, nella misura in cui fanno riferimento a valori culturali relativi che vengono assolutizzati o naturalizzati, sono di necessità in qualche misura ideologici. La loro riproduzione sociale, attraverso la catena generazionale, che si realizza a livello soggettivo attraverso la strutturazione del Super-Io, implica che ogni personalità paga, sull'altare dell'appartenenza, un prezzo in termini di mistificazione, e che l'individuazione urta costantemente, sia pure in misura diversa da persona a persona, contro una resistenza.

A ciò occorre aggiungere la tendenza intrinseca all'io cosciente alla mistificazione, che si fonda sull'esigenza di tenere l'immagine di sé al riparo da tutte le contraddizioni che possono invrinarne la coesione e l'unità

Il carattere concreto o astratto ó con tutte le possibili formule combinatorie ó dell'ideologia soggettiva si rileva sia dal grado (sempre relativo) di fedeltà con cui essa significa il reale tragitto di esperienza del soggetto nel mondo sia dalla sua capacità di promuovere comportamenti orientati a soddisfare dialetticamente i bisogni fondamentali nelle loro valenze psicobiologiche, pre-ideologiche.

2. 5

E' evidente che il carattere perturbante e contraddittorio della scoperta freudiana del Super-Io può risolversi solo ipotizzando che la funzione superegoica si edifichi sulla base di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale che va intesa come una forma affettivo-cognitiva innata sottesa da una logica sistemica, che assume l'individuo come funzione del gruppo cui appartiene e sacralizza il legame sociale.

Nel corso di ogni esperienza, tale forma promuove l'interiorizzazione dei valori culturali propri dell'ambiente di interazione che strutturano la funzione superegoica. Il grado di compatibilità di tali valori con il corredo di bisogni individuali, del tutto indifferente dal punto di vista del Super-Io, che ne impone la condivisione in nome del mito dell'armonia sistemica e del debito di appartenenza, è decisivo per il prodursi o meno di conflitti psicopatologici.

Interiorizzazione, Introiezione/Assimilazione

L'introiezione è il processo in virtù del quale le interazioni con l'ambiente danno luogo all'interiorizzazione di un sistema di valori culturale che funziona come codice e metro di misura del comportamento soggettivo. L'introiezione è attivata e resa possibile dai legami affettivi di identificazione che il soggetto intrattiene con figure significative: tali legami, infatti, facendo leva sul bisogno di integrazione sociale, funzionano come canali che facilitano la trasmissione e la replicazione dei valori culturali.

Pur non essendo un processo passivo, l'introiezione dà luogo ad una identità culturale che funziona, all'interno della soggettività, come rappresentanza sociale, come Super-Io che impone il primato della totalità sociale sull'individuo e subordina questo ad un debito di fedeltà. I valori introiettati animano, dunque, all'interno della soggettività, una volontà alienata ó che rappresenta l'Altro ó, il cui potere, fondandosi sul debito emozionale di appartenenza, è maggiore rispetto alla volontà personale.

Questa condizione, che si può definire autodiretta, in quanto caratterizzata dal controllo che il Super-Io esercita all'interno della soggettività, rappresenta una fase evolutiva necessaria nello strutturarsi della personalità.

Essa, che implica il dominio del sociale sull'individuo, può essere superata solo in virtù dell'attivarsi periodico del bisogno di opposizione, che, promuovendo la sospensione della volontà altrui e dei valori culturali di cui essa impone il riconoscimento, dà luogo all'assimilazione, processo selettivo in conseguenza del quale quei valori vengono adattati ai bisogni personali, e cioè in parte ricusati e in parte modellati in maniera tale da poter essere vissuti come espressione della volontà propria.

L'assimilazione, laddove si realizza, segna il tramonto (non l'estinzione) del potere del Super-io che viene sostituito dalla coscienza morale critica.

Interpretata in questo modo, la scoperta del Super-Io permette un approccio radicalmente nuovo ai problemi psicopatologici e induce a formulare, in termini critici, una serie di questioni, inerenti il rapporto tra natura umana e cultura, che attraversano tutto l'ambito delle scienze umane e sociali, coinvolgendo anche le scienze neurobiologiche.

Il paradigma psicopatologico che propongo porta alle estreme conseguenze epistemologiche ciò che è implicito in quella scoperta.

In quanto fondata su di un corredo naturale di bisogni in tensione tra di loro, la personalità umana è esposta al rischio di un conflitto strutturale che oppone alle ragioni degli altri le ragioni dell'individuo, ai doveri sociali i diritti individuali. La realizzazione di tale rischio dipende dalle interazioni con l'ambiente, che possono favorire l'integrazione di quel corredo come pure mortificarlo e indurre in esso una scissione.

Se tale paradigma dovesse risultare capace di spiegare i fenomeni psicopatologici, c'è da chiedersi perché esso non sia già stato formulato nell'ambito della psicoanalisi postfreudiana. La risposta è semplice.

Il rifiuto della teoria pulsionale, avvenuto progressivamente nel corso dello sviluppo movimento psicoanalitico e approdato ormai alla definizione di un modello relazionale, avrebbe potuto valorizzare quella scoperta solo in nome di un profondo cambiamento paradigmatico che considerasse l'incidenza del contesto sociostorico e culturale nell'evoluzione e nella strutturazione della personalità. Il modello relazionale è invece rimasto vincolato al livello delle interazioni primarie tra il bambino e le figure genitoriali. In questa ottica, che non può prescidere dai cambiamenti intervenuti nella struttura familiare contemporanea, caratterizzati da una maggiore intimità comunicativa nei rapporti, dal superamento di un modello educatico repressivo e da una minore soggezione dei figli nei confronti delle figure genitoriali e degli adulti, il concetto di Super-Io non poteva non risultare imbarazzante per gli ìsconcertanti problemiî (D. Rapaport, Il modello concettuale della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano 1977) che esso pone.

La soluzione di tali problemi è stata la rimozione del concetto dalla teoria psicoanalitica.

Il sostanziale rifiuto dell'antropologia freudiana ha comportato, infatti, non solo l'abbandono della teoria pulsionale, ma anche la messa tra parentesi dell'approccio strutturale alla personalità, che fa riferimento a parti e funzioni diverse, in nome di un'enfatizzazione del Sé, vale a dire di un costrutto teorico molto incerto. Nonostante i suggestivi richiami alla costruzione della personalità come processo che evolve attraverso fasi di integrazione e di conflitto con l'ambiente interpersonale, la psicologia del Sé appare del tutto incapace, in conseguenza di una eccessiva valorizzazione delle interazioni affettive primarie, di capire che tale processo fa capo, da ultimo, al rapporto tra natura umana e cultura, e che i suoi fallimenti, che si esprimono attraverso la psicopatologia, comportano una scissione dell'infrastruttura della personalità prima ancora che dell'Io.

Il rifiuto della metapsicologia, promosso dall'insofferenza per le pretese filosofiche del sistema freudiano, diventa, di conseguenza, una nuova ideologia che restringe l'ottica della ricerca e della teoria sul piano di un'attenzione un po' miope per l'individuo, la cui irripetibile unicità viene ricondotta e resa complementare alla unicità dell'ambiente interpersonale entro il quale il Sé si costruisce.

Andare al di là di Freud, della sua teoria della natura umana, è necessario, ma non tenere conto della sua prodigiosa intuizione di una strutturazione della personalità caratterizzata da funzioni e logiche diverse, porta la psicopatologia dinamica in un vicolo cieco.


Aggiornamenti di Psicopatologia teorica


Inconscio psicobiologico e inconscio culturalizzato

1.

Quest'articolo tenta di portare alle estreme conseguenze la revisione che ho avviato sulla struttura dell'apparato mentale e sulle funzione dell'Io, del Super-Io e dell'Io antitetico.

Sono perfettamente consapevole che le ipotesi che propongo sono, per molti aspetti, nuove e sorprendenti. Una ricerca che intende mantenersi fedele a se stessa (e allo spirito della scienza) non può né deve arretrare di fronte a qualsivoglia intuizione epistemologicamente stimolante.

Non so se questo articolo potrà riuscire ad esprimere compiutamente gli sviluppi teorici che sono maturati in me in questi ultimi anni. Temo, però, di essere arrivato ad una frontiera al di là della quale si danno ancora infinite cose da comprendere, soprattutto per quanto concerne i correlati neurobiologici della struttura mentale delineata a partire dalla teoria dei bisogni. Dubito di essere in grado di varcare tale frontiera.

Per agevolare la lettura dell'articolo, cerco di riassumere i termini della questione.

Nell'esplorazione dell'apparato mentale umano, Freud è partito dall'intuizione che, al di sotto della coscienza, si dà una vivacissima attività mentale, rispetto alla quale l'Io rimane schermato in virtù di processi di rimozione e di repressione. La schermatura non solo consente all'Io di non stare perpetuamente a contatto con l'inconscio: essa favorisce anche la costruzione di un'immagine di sé tendenzialmente mistificata, che tiene conto solo di alcuni aspetti del modo di essere del soggetto e ne trascura altri (contraddittori, inquietanti o spiacevoli).

Per interpretare questa situazione ìnormaleî di mistificazione, che viene compromessa laddove si danno conflitti psicopatologici, in conseguenza dell'affiorare sotto forma di sintomi dei contenuti inconsci, Freud ha elaborato la teoria dell'Es. L'Es è l'unica vera realtà psichica secondo Freud è è un serbatoio ribollente di pulsioni, cieche ad ogni principio di realtà, che di per sé tenderebbero solo alla scarica.

La teoria dell'Es è stata invalidata dalla scoperta, avvenuta a livello di antropologia filosofica e successivamente di neurobiologia, che il passaggio dagli animali all'uomo è avvenuto sulla base di un critico allentamento degli istinti.

Tra le pulsioni, nella cornice della seconda topica, Freud ammette anche l'esistenza dell'istinto di morte, vale a dire di una tendenza intrinseca dell'apparato mentale a ridurre la frustrazione del rapporto con il mondo esterno attraverso una regressione verso uno stato di quiete che comporterebbe lo scioglimento di tutti i legami con quello.

Ammettendo l'istinto di morte, Freud giunge a negare l'esistenza nella natura umana di qualsivoglia bisogno di relazione oggettuale o sociale. Questo sarebbe solo il prodotto dell'angoscia legata all'istinto di morte: angoscia sociale, che giustificherebbe la presenza, nell'apparato mentale umano, di un Super-Io inteso come minaccioso rappresentante della società e delle regole minimali del buon vivere sociale.

La teoria dell'istinto di morte è stata la cartina di tornasole del movimento psicoanalitico: accettata dagli analisti ortodossi, alcuni dei quali (come Melania Klein) l'hanno portata alle esterme conseguenze, essa è stata rifiutata dalla maggioranza degli psicoanalisti in nome dell'attribuzione all'uomo di un bisogno primario di relazione oggettuale.

Il passaggio da un modello intrapsichico ad un modello relazionale, incentrato sull'intersoggettività, ha però prodotto una conseguenza negativa. Il punto di vista strutturale freudiano è stato abbandonato in nome dell'esigenza di ricostruire la personalità come espressione delle vicissitudini interpersonali.

Nel corso degli ultimi decenni, poi, la pressione esercitata dal cognitivismo ha costretto progressivamente la psicoanalisi a sviluppare, sulla base delle intuizioni di Hartman, una psicologia dell'Io, che ha posto in ombra progressivamente la strutturazione del mondo interiore. La conclusione di tali sviluppi è stata la teoria del narcisismo di Kohut, incentrata sul Sé inteso come principio organizzatore di tutti gli aspetti della personalità.

A livello psicoanalitico, il Sé è la notte in cui tutte le vacche sono nere. Può darsi che, in virtù di questo concetto, l'analisi abbia rimediato all'attacco portato dal cognitivismo. Si tratta, però, di un rimedio peggiore del male, che enfatizza a dismisura il ruolo dei genitori in quanto agenti affettivi e misconosce il loro ruolo di agenti culturali, deputati è vogliano o meno è a trasmettere valori normativi.

2.

Questo breve excursus consente di capire più in profondità il tragitto di ricerca che ho seguito. Sono partito dal fatto che, con la scoperta del Super-Io, Freud ha definito l'importanza che la cultura del gruppo di appartenenza ha nella strutturazione della personalità umana: tramite il gruppo, il Super-Io definisce una relazione tra il soggetto e la storia sociale cui egli appartiene. Funzione psichica di acculturazione individuale, il Super-Io ha come finalità primaria quella mantenere la coesione e l'organizzazione di ogni società consentendo ad essa di riprodursi attraverso le generazioni sollecitando il soggetto a mantenersi fedele ai valori morali tradizionali.

L'importanza del Super-Io riesce vieppiù evidente se si considera il rapporto tra Legge e Moralità e lo sviluppo di tale rapporto nel corso dell'evoluzione storica.

Nella nostra società il Diritto esiste sotto forma di codici civili e penali di estrema complessità. Se si eccettua l'influenza religiosa, che assegna ai valori morali un carattere impositivo, i codici morali sono impliciti: sono attivi nelle singole soggettività, spesso a livello inconscio.

E' evidente che l'allevamento dei bambini postula l'acquisizione precoce di tali codici, poiché la conoscenza della Legge richiede un'attrezzatura cognitiva adulta.

Il Super-Io funziona dunque come un replicatore culturale il cui fine primario è l'interiorizzazione delle norme morali.

A differenza di quanto pensava Freud, il Super-Io non serve affatto ad arginare e a reprimere un'energia istintuale caotica (le pulsioni), semplicemente perché, nel passaggio dall'animale all'uomo, il bagaglio istintuale si è criticamente allentato. La sua funzione è di sopperire all'angoscia dell'indefinita libertà sopravvenuta in conseguenza di questo, e di canalizzare l'esperienza soggettiva in maniera tale che essa contribuisca a stabilizzare e a corroborare la cultura del gruppo di appartenenza, vale a dire ad alimentare l'illusione, attraverso la condivisione collettiva degli stessi valori, che questi siano ìnaturaliî e oggettivi.

E' vero che il Super-io mantiene a livello soggettivo l'ambivalenza sacrale con cui il bambino vive le figure dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.). Nella misura in cui però il fascino e la soggezione nei confronti di essi si fonda sull'assumerli come rappresentanti di un'Autorità suprema, non c'è da sorprendersi che, a livello adulto, esso investa la società nel suo complesso (o al limite Dio).

Il Super-Io è il rappresentante interiorizzato del sociale e della cultura su cui si fonda l'organizzazione sociale. Da questo punto di vista, esso è sempre altamente culturalizzato. Analizzarlo come erede delle vicissitudini affettive nel rapporto con i genitori è un grave errore, perché quelle vicissitudini sono sempre di minor peso rispetto al fatto che, comunque, attraverso il loro modo di essere i genitori incarnano e trasmettono valori culturali.

Su quale base però avviene l'interiorizzazione di tali valori?

Freud riteneva il Super-Io erede del complesso edipico, vale a dire strutturato sulla base dell'angoscia sociale prodotta dalla pulsione violentemente ostile nei confronti della figura paterna.

Sormontata la teoria pulsionale, l'ipotesi non ha più significato.

Occorre ammettere una predisposizione dell'essere umano all'interiorizzazione dei valori sulla base dell'identificazione con le figure genitoriali e in senso lato con gli educatori. Tale predisposizione mi ha portato ad ammettere l'esistenza di un bisogno di appartenenza/integrazione sociale geneticamente determinato, che rappresenta l'attrattore su cui si struttura il Super-Io.

C'è da chiedersi, però, perché, dato uno stesso ambiente familiare e culturale, la strutturazione del Super-Io raggiunge gradi diversi in diversi soggetti. Occorre ricondursi, ovviamente, a vari fattori, tra i quali io ritengo decisiva la sensibilità sociale. Con questo termine intendo sia l'empatia, la capacità di registrare le aspettative e i desideri presenti negli adulti (a livello conscio e inconscio), sia la predisposizione morale, la tendenza naturale del soggetto ad attribuire agli altri i suoi stessi diritti, e quindi a tenerne conto e a rispettarli.

In questa ottica, l'empatia consente l'interiorizzazione dei valori culturali propri del gruppo di appartenenza su di un fondo che non saprei definire in altro modo se non facendo riferimento ad una moralità naturale.

Nel Super-Io, dunque, occorre distinguere due diversi aspetti: l'uno psicobiologico, riconducibile alla sensibilità sociale, l'altro culturalizzato.

Questa distinzione consente di comprendere meglio come funziona il Super-io soprattutto a livello psicopatologico.

In alcuni casi, infatti, tale funzione è semplicemente repressiva, nel senso che essa mira a subordinare l'esperienza soggettiva a valori culturali interiorizzati che limitano arbitrariamente la libertà e lo sviluppo dell'individuo.

Ancora oggi, la funzione repressiva del Super-Io è evidente laddove, in rapporto ad un'educazione religiosa, moralistica o perbenistica, il soggetto sviluppa intensi sensi di colpa in conseguenza di fantasie, desideri e pensieri che sono ìcriminalizzatiî superegoicamente, ma che, in sé e per sé attestano solo un grado di libertà interiore e potenzialità di sviluppo personale che fuoriescono dalla gabbia dei valori interiorizzati.

In altri casi, però, la funzione del Super-io è preventiva e contentiva. Essa, in altri termini, serve ad arginare fantasie, desideri, pensieri e comportamenti prodotti da un'interazione conflittuale con l'ambiente sociale, ma che sono poco o punto compatibili con la sensibilità sociale e morale ìnaturaleî del soggetto.

Questa funzione, oggi, è del tutto evidente all'interno di numerose esperienze giovanili che fanno capo ad un corredo introverso le quali vengono investite da una pulsione al cambiamento radicale che comporta l'anestetizzazione della sensibilità e l'agire comportamenti antisociali, aggressivi o trasgressivi del tutto incompatibili con il modo di essere introverso.

Nel primo caso, dunque, la funzione superegoica agisce in nome della sua struttura culturalizzata; nel secondo, in nome del terreno psicobiologico su cui si è impiantata.

3.

Analogo discorso può essere fatto per la funzione che ho definito con il termine Io antitetico, che, ancora oggi, non è riconosciuta al di fuori della stretta cerchia delle persone che aderiscono al modello struttural-dialettico della personalità.

E' inutile che ripeta per l'ennesima volta che la scoperta di questa funzione o substruttura dell'Io è l'unico contributo originale che ritengo di aver fornito alla psicologia dinamica. Essa, però, maturata lentamente, ha costretto a ristrutturare tutta la conoscenza del campo psicopatologico.

Anche l'io antitetico ha un impianto psicobiologico, che ho ricondotto al bisogno geneticamente determinato di opposizione/individuazione. Tale bisogno veicola la spinta verso la definizione di un'identità differenziata, dotata di una volontà propria e orientata verso la realizzazione di un progetto di vita espressivo delle potenzialità individuali.

Tale spinta deve però fare i conti con l'ambiente culturale all'interno del quale evolve la personalità. Altrove ho scritto che la cultura, nella misura in cui risponde essenzialmente ad esigenze che sono proprie della società, non dei singoli individui, tende in genere ad esercitare un'azione normalizzante nei confronti della personalità: a ricondurla, insomma, verso la media. Se questo è vero per ogni cultura, è evidente che si dà uno spettro di culture più o meno rispettose delle esigenze di libertà e di sviluppo dell'individuo.

A ciò occorre aggiungere che i potenziali d'individuazione sono diversamente distribuiti nei vari corredi genetici secondo uno spettro che comporta una spinta più o meno marcata.

Nell'interazione del soggetto con l'ambiente, si possono dunque definire due diverse circostanze.

La prima è legata al fatto che il bisogno d'individuazione giunge ad essere, almeno per alcuni aspetti, mortificato e represso dall'interiorizzazione dei valori culturali.

Ciò accade in alcune esperienze normalizzate che soffrono perché la loro spinta verso l'individuazione e l'autorealizzazione rimane ingabbiata in un modo di essere molto povero e mediocre rispetto alle loro potenzialità di sviluppo e di differenziazione.

La seconda circostanza, invece, è legata al fatto che, in seguito ad un'interazione repressiva, l'Io antitetico assume una configurazione che prescinde dallo sviluppo e comporta semplicemente la tendenza all'opposizionismo, al negativismo e alla trasgressione.

Oggi, ciò si realizza sempre più spesso all'interno di esperienze giovanili che, dopo aver seguito nel corso della prima e della seconda infanzia un tragitto lineare e totalmente accondiscendente nei confronti delle aspettative ambientali, alle soglie o nel corso dell'adolescenza adottano, più o meno coscientemente, un sistema di valori del tutto opposto a quello che ha governato in precedenza la loro vita, e imboccano, a livello ideologico ma talora anche comportamentale, uno stile di vita contrassegnato dall'insensibilizzazione, dal ribellismo e dall'anarchia.

Eè evidente che, nel primo caso, l'Io antitetico, rivendicando una libertà e uno sviluppo conforme al potenziale personale, funziona in nome del bisogno d'individuazione psicobiologico, mentre nel secondo, protendendosi verso un modo di essere alienato, esso manifesta una strutturazione culturale o ideologica che si sovrappone a quel bisogno e ne utilizza le potenzialità ma in forma alienata.

4.

Mi astengo, per ora, dal valutare il ruolo che l'Io svolge all'interno delle varie situazioni descritte, limitandomi a rilevare che esso più spesso appare connivente con il Super-io o con l'Io antitetico culturalizzati che non con le loro componenti psicobiologiche.

Perché però la distinzione tra questi due aspetti è quello psicobiologico e quello culturalizzato è si può ritenere particolarmente importante? La risposta è che essa fornisce una chiave interpretativa ed esplicativa dei fenomeni psicopatologici molto più potente di qualunque altra. Consente, in particolare, di capire che, posto che si dia una scissione tra di essi, sia il Super-Io che l'Io antitetico culturalizzati possono svolgere una funzione squilibrante. Le loro matrici psicobiologiche, invece, vale a dire i bisogni sulla cui base si edificano svolgono sempre un ruolo equilibrante, nel senso che tendono a riportare l'individuo nella sua ìpelleî di essere socialmente sensibile e/o bisognoso di individuarsi.

Per comprendere meglio questi aspetti, già impliciti nella definizione delle quattro configurazioni psicopatologiche (handicappante, opposizionistica, riparativa, sfidante) fornita nella Prassi Terapeutica Dialettica e negli articoli che ho dedicato all'analisi funzionale dei sintomi psicopatologici, basterà fare degli esempi sintetici.

A. è stato sempre un figlio docile per quanto tendenzialmente timido e, nonostante una buona intelligenza, appena sufficiente a scuola. Nel corso delle scuole medie e del liceo, per via della sua timidezza, viene preso in giro dai compagni in maniera pesante. Non reagisce, anzi apparentemente incrementa il suo essere paziente e tollerante. In realtà, nella sua anima si agitano rabbie e fantasie di vendetta di ogni genere. A. ne rimane inorridito per via dei valori religiosi in cui crede, che gli imporrebbero di perdonare, e s'impone di liberarsene. All'inizio dell'università, l'impresa sembra riuscita. A. appare disteso, sereno, posato. Ma è proprio allora che si attiva un delirio persecutorio acuto nel corso del quale A. sente che qualcuno vuole la sua morte. Superato l'episodio psicotico, le angosce si ripresentano periodicamente sempre associate a vissuti persecutori.

E' evidente, in questo caso, che è in azione un Super-Io culturalizzato, la cui matrice è religiosa, che fa pagare ad A. la colpa di aver continuato a nutrire nel suo inconscio le rabbie e le fantasie di vendetta di cui pensava di essersi liberato.

V. per quanto nel suo intimo sensibile, è un bambino oppositivo che reagisce drammaticamente ad una certa rigidità dei genitori e alla durezza della maestra elementare con un rendimento scolastico mediocre. Nonostante l'opposizionismo, è estremamente pauroso e subisce le angherie dei coetanei. Per questo, e per la perpetua umiliazione legata all'insufficienza scolastica, egli abbandona gli studi alla fine delle medie. Non ha alcun progetto di vita che non sia quello di liberarsi della sensibilità e delle paure che lo tormentano. Il rimedio lo trova nell'uso della marijuana, da cui diventa rapidamente dipendente, ma che lo trasforma in un altro, in un essere tracotante, aggressivo, sfidante. Finalmente non ha più paura di niente e di nessuno, non ha più sensi di colpa né remore nel tiranneggiare i suoi.

Solo talvolta, avverte, nel suo intimo, una remota vibrazione di paura. Per tenerla a bada e aumentare l'indurimento del carattere, decide infine di provare l'eroina. Il proposito non va in porto in seguito al sopravvenire di un attacco di panico che lo precipita nuovamente in uno stato di paura e di tremore perpetuo.

Anche se nella produzione dell'attacco di panico non si può escludere una componente superegoica repressiva, è fuor di dubbio che la componente prevalente va ricondotta ad una sensibilità sociale che V. ha tentato di estirpare.

M. cresce all'insegna di un perfezionismo che s'incrementa nel corso degli anni. Quando arriva all'Università, egli si isola totalmente per fare nel modo migliore possibile il suo dovere di studente mantenuto dai suoi e con la propsettiva di una rilevante affermazione professionale. Conseguita la laurea, egli si immerge nel lavoro totalmente, ma comincia a sperimentare i vissuti di un perfezionismo ormai ampiamente patologico. Nonostante risultati eccellenti, si sente sempre inadeguato, esposto al rischio di fallire e di fare una brutta figura. Per arginare questi pericoli pensa al lavoro giorno e notte. Al di là del lavoro non coltiva alcun interesse né una vita di relazione sociale.

Comincia ad avvertire sempre più spesso una profonda stanchezza, che sormonta con strenui sforzi di volontà. Nel giro di un anno, però, si realizza uno ìstressî che gli impedisce di lavorare e lo costringe a dare le dimissioni.

E' evidente che, canalizzando tutte le sue energie in una direzione univoca, M. ha perseguito un obbiettivo di autorealizzazione molto mortificante in rapporto al patrimonio dei suoi umani bisogni.

L'entrata in azione dell'Io antitetico, in questo caso, corrisponde alla rabbia per un maltrattamento che M. si è inflitto senza rendersene conto, e ad una rivendicazione di individuazione aperta su di un fronte più ampio rispetto all'ossessione lavorativa e più incline alla sperimentazione del piacere di vivere in opposizione ad un senso del dovere totalizzante.

R. viene educata dalla famiglia piccolo-borghese e dalle suore come una madonnina e, con questo habitus, si inserisce in un liceo animato dagli inquieti fermenti della fine degli anni '70. Il contatto è traumatico, e rapidamente si traduce in un processo di emarginazione totale e in una dolorosa riflessione sull'educazione ricevuta. Nel giro di due anni, tale riflessione esita in un cambiamento radicale. R. diventa una ragazza estremamente seduttiva e disinibita, si aggrega a gfruppi la cui ideologia è trasgressiva, intrattiene un rapporto con un drogato, alla fine si droga essa stessa.

Angosciato dalla sorte dell'unica figlia, il padre cerca in ogni modo di controllarla giungendo a realizzare il ricovero in una casa di cura privata. Nel corso del ricovero, R. sembra rinsavire e manifesta anche qualche senso di colpa per quello che ha fatto. Non appena esce dalla clinica, però, riprende la sua vita sull'onda di uno stato di eccitamento solo in parte dovuto alla droga.

Nel caso di R., riesce del tutto evidente che il bisogno di opposizione/individuazione, gravemente conculcato nel corso delle fasi evolutive, si attiva a contatto con un ambiente che le restituisce il suo modo di essere come intollerabilmente vergognoso e, attraverso l'interiorizzazione di un'ideologia trasgressiva, dà luogo alla strutturazione di un Io antitetico il cui obbiettivo è l'infrazione di qualunque regola o valore che limiti la libertà personale.

5.

Anche se, in virtù del suo essere un continuum che si definisce a partire da una matrice conflittuale costante, riconducibile ad una scissione dei bisogni intrinseci e delle funzioni che su di essi si edificano, la partizione dinamica dell'universo psicopatologico si può ritenere sempre precaria poiché ogni esperienza comporta la possibilità di molteplici sviluppi, gli esempi forniti consentono di capire meglio in che senso appare necessario distinguere l'inconscio psicobiologico e l'inconscio culturalizzato.

E' facile intuire la portata di questa distinzione sul piano della pratica terapeutica, ma la sua portata maggiore è di ordine teorico.

Uno degli assiomi portanti dell'antipsichiatria, ereditato peraltro dalla tradizione psicoanalitica, identificava nell'esperienza psicopatologica un tentativo di guarigione. Nella tradizione analitica tale assioma significava solo che, in virtù dei sintomi, quale che fosse la loro dimensione disfunzionale, l'apparato mentale riusciva a mantenersi al riparo da una catastrofica destrutturazione. Nell'ottica antipsichiatrica, invece, quell'assioma faceva riferimento al fatto che ogni crisi aveva in sé e per sé un significato potenzialmente evolutivo.

Alla luce del discorso fatto, sembra possibile andare al di là di queste due interpretazioni, troppo pessimistica la prima, troppo ottimistica l'altra.

E' vero che ogni crisi psicopatologica segnala un'instabilità degli assetti profondi della personalità non più contenibile nei limiti degli equilibri preesistenti. Per questo aspetto, sembra che si possa confermare che ogni crisi rende necessaria un'evoluzione della personalità, un miglior investimento dei bisogni e delle potenzialità proprie dell'individuo. Al tempo stesso, è importante affermare che, mentre l'attivazione del Super-io e dell'Io antitetico culturalizzato hanno di solito un effetto squilibrante è rispettivamente repressivo o disordinante è che aumentano il grado di alienazione soggettivo, l'attivazione delle matrici psicobiologiche del Super-Io e dell'Io antietico conseguono un effetto è rispettivamente riparativo o propulsivo è che può essere più facilmente utilizzato dal punto di vista terapeutico perché è orientato nella direzione della soddisfazione di bisogni autentici.

Ci si può chiedere, infine, quale sia l'attualità di queste considerazioni in rapporto alla psicopatologia contemporanea.

Posto che il Super-Io culturalizzato, nonostante quello che affermano anche alcuni psicoanalisti, continua ad essere vigorosamente rappresentato nelle soggettività, anche se esso sta assumendo sempre più marcatamente una configurazione normativa dipendente dalla mentalità piccolo-borghese (associata, ma sempre di meno, a valenze religiose e moralistiche), è fuor di dubbio che la psicopatologia legata all'Io antitetico culturalizzato (sul registro dell'immagine sociale, dell'insensibilità e della legge del più forte) sia continuamente in crescita, specie a livello giovanile. Per ciò è sempre più frequente reperire, in queste esperienze, sintomi che attestano l'attività del bisogno di appartenenza sociale.

Lo spettro psicopatologico si sta modificando in rapporto ai cambiamenti della cultura contemporanea. Ma questo è sorprendente solo per chi ritiene che l'universo psicopatologico sia generato da disfunzioni cerebrali di natura genetica e biochimica.

I cambiamenti che stanno intervenendo, però, non significano che, da un punto di vista psicodinamico, occorra cambiare paradigma. La teoria struttural-dialettica non ha alcuna difficoltà a riconoscerli, ad interpretarli e a spiegarli.

Purtroppo, però, tutto questo, per ora, significa solo che ai mali antichi se ne stanno aggiungendo di nuovi.