Teoria della Personalità e nuova Scienza del disagio psichico


Introduzione

Con il lavoro condotto l’anno scorso siamo pervenuti ad una critica della teoria psicoanalitica, in particolare per quanto riguarda l’ideologia della natura umana da cui essa muove e il concetto di fissazione che viene assunto come fondamento della struttura psicopatologica. Spogliata di questi elementi, la psicoanalisi può contribuire alla formazione di una nuova scienza del disagio psichico: scienza dinamica che vede la mente, con l’attrezzatura di cui dispone – e della quale fa parte costantemente la tradizione -, impegnata a risolvere i problemi da cui dipende la soddisfazione dei due bisogni che abbiamo assunto come fondamentali per ogni essere umano: l’individuazione, e cioè la definizione autonoma della personalità, e l’integrazione sociale, la capacità cioè di stabilire legami relazionali significativi.

Abbiamo assunto lo scacco di questo impegno, che conflittualizza ed oppone radicalmente i bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale, come la matrice strutturale di ogni esperienza di disagio psicopatologico. Si tratta, dunque, di approfondire anzitutto la teoria funzionalista della mente che sottende tale modo di vedere.

Nell’ultimo seminario dell’anno scorso si sono gettati i presupposti di questa teoria. Ora occorre approfondirli. Lo faremo in modo singolare: assumendo come materiale probante i sogni, e, dunque, assumendo l’attività onirica come espressione dello sforzo continuo della mente di mettere a fuoco i problemi che la agitano e di tentare, a livello immaginario, delle soluzioni. Non sorprenderà scoprire che, anche a livello dei sogni, tali soluzioni non vanno al di là delle possibilità iscritte nell’attrezzatura mentale di cui il soggetto dispone. Laddove la mente è libera dai vincoli reali, cionondimeno essa appare tributaria di vincoli mentali che ne vanificano la tensione verso soluzioni soddisfacenti.

Si tratta, dunque, di definire la natura e il significato di questi vincoli. Sappiamo già che è in gioco il codice morale, e cioè una visione del mondo globale e ideologica dalla quale l’individuo non può affrancarsi. Per illuminare la genesi di questo codice occorrerà esplorare i due spazi vissuti all’interno dei quali si sviluppa la personalità: la famiglia e il mondo. L’analisi approfondita del rapporto tra esperienza psicopatologica e famiglia ci permetterà di valutare ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria relazionale; o, in altri termini, ciò che si può ritenere scientificamente importante e ciò che appare marcatamente ideologico. Questo approfondimento ci aiuterà a recuperare la struttura psicopatologica nella sua dignità di struttura dinamica, nella costruzione della quale il soggetto esprime nel contempo la sua libertà e i limiti invalicabili cui essa è soggetta. La struttura psicopatologica, insomma, come vicolo cieco ideologico, che comporta –criticamente o continuamente- soluzioni impossibili o economicamente disastrose di problemi decisivi per la soddisfazione dei bisogni individuali, ma mal posti.

La nozione di struttura psicopatologica consente di analizzare le esperienze soggettive su due livelli: il livello formale e dinamico, che la definisce come forme di esistenza che si autoalimentano, perché corrispondono a equilibri minimali, e il livello genetico, che permette di ripercorrere longitudinalmente le esperienze individuali per comprendere la logica in virtù della quale esse esitano nella struttura psicopatologica. Si dedicherà attenzione alle cinque strutture che esauriscono l’ambito psicopatologico (isterica, ipocondriaca, depressiva, ossessiva, delirante), cercando di documentare quanto è stato affermato l’anno scorso: essere la struttura ossessiva la chiave per comprendere tutte le altre forme.

Dalla teoria, infine, alla pratica, all’intervento, alla cura. Quest’anno non faremo altro che porre i presupposti di un discorso che andrà articolato e dettagliato, cercando di mettere a fuoco gli obiettivi che le strutture d’esperienza perseguono e che impediscono la soddisfazione dei bisogni, e, da ultimo, il problema delle resistenze: del perché, insomma, gli individui insistono a risolvere problemi con strategie inadeguate e sembrano incapaci di prendere atto dell’esperienza e di cambiare.

 

TEORIA DELLA PERSONALITAí E NUOVA SCIENZA DEL DISAGIO PSICHICO


1. Il problema

2. Teorie della personalità psicanalitiche, transazionaliste e comportamentiste.

3. Presupposti di una teoria della personalità

4. Genesi e struttura della personalità

5. Teoria della personalità e disagio psichico


I. Il problema

Se si volesse azzardare un bilancio della ricerca condotta l’anno scorso, non si andrebbe lontano dal vero individuando due tematiche fondamentali: la prima concerne la possibilità di formalizzare l’infinita varietà dei vissuti psicopatologici riconducendoli a tre paure radicali - di morire, di impazzire e di commettere crimini -, assunte come chiavi dinamiche e strutturali del disagio psichico; la seconda postula che tali paure possano essere comprese e spiegate come prodotti di una vicenda umana a patto che si utilizzi un metodo che abbiamo definito microstorico. Tale metodo, a partire da una minuziosa ricostruzione dell’interazione dell’individuo, e del suo corredo disposizionale, con le istituzione pedagogiche e sociali, mira a porre in luce l’attività del soggetto nel costruire, con i materiali ricavati dall’interazione con il mondo, la sua mente, intesa come struttura più o meno chiusa, il cui funzionamento permette di esercitare un potere minore o maggiore sul modo (interno ed esterno). Da questo punto di vista, le grandi paure psicopatologiche attesterebbero vicende esitate in strutture chiuse, e autoalimentatesi, il cui funzionamento forza i soggetti a reiterare soluzioni impossibili di problemi fondamentali sotto il profilo dei bisogni umani.

Strutture altamente ideologiche votate, insomma, ad imboccare vicoli ciechi.

Queste tematiche definiscono, nel complesso, una teoria della genesi, della struttura e della dinamica del disagio psichico. Teoria ambiziosa, oserei dire, nella misura in cui mira a risolvere il problema che, sinora, ha ostacolato il definirsi di una scienza del disagio psichico: quello delle mediazioni tra psicologico e sociale. Allo stato attuale della ricerca, sarebbe azzardato affermare che quel problema è risolto. Ma almeno alcune premesse sono state articolate.

Se è vero infatti che le tre grandi paure hanno come oggetto comune la minaccia di una radicale esclusione dal contesto sociale, esse esprimono il conflitto che qualifica immediatamente la socialità come bisogno irrinunciabile. D’altro canto, in rapporto a quanto si è detto, non sembra lecito ricondurre la drammaticità di questo conflitto ad una resistenza della natura umana in quanto essa ha di asociale. All’altro polo del conflitto c’è infatti un bisogno non meno radicalmente umano della socialità, il bisogno di individuazione, inteso come libertà personale, autonomia e capacità decisionale. Posto in questi termini, il problema genetico, posto da ogni esperienza di disagio psichico consiste nel comprendere e nello spiegare come e perché l’interazione dell’individuo con l’ambiente, anziché pervenire ad un’integrazione di quei bisogni, sia giunta a far sì che essi si pongono, a livello soggettivo, intersoggettivo e sociale, in termini di opposizione irriducibile. Quanto si è detto o suggerito riguardo questo problema è poco, approssimativo e, in fin dei conti, incerto. L’ipotesi secondo cui sono quadri mentali collettivi, veicolati dalle istituzioni pedagogiche, a fuorviare l’esperienza soggettiva, è suggestiva, ma troppo formale e schematica. In fin dei coni, i quadri mentali collettivi sono recinti entro i quali procede l’umanità. Quali sono dunque le particolarità interattive da cui si origina il disagio? Questo è il problema che sarà al centro della ricerca di quest’anno.

Anziché precipitarsi in media res, penso però che valga la pena di affrontare una difficoltà preliminare. Per quanto una teoria del disagio psichico muova da fatti clinici, dai dati d’esperienza, è pur vero che essa li interpreta. Per organizzarli, insomma, e dare ad essi un significato, essa deve utilizzare un quadro di riferimento implicito e, in particolare, una teoria della personalità. Per personalità si può intendere, nel modo più semplice, l’unità psichica soggettiva o l’individualità umana concreta. Ma la definizione importa poco. Ciò che importa, come rivela R. Pagès, è che ogni teoria della personalità "presuppone.. una concezione filosofica, parziale o totale, implicita o esplicita, dell’uomo". Anche il più rigoroso organicismo, che fa appello al metodo descrittivo, non sfugge a questa necessità: basti pensare alle valenze filosofiche del concetto di normalità cui esso si appella, come se fosse un idea chiara e distinta, per giudicare la devianza. Né pare sia possibile sottrarsi al problema in altro modo, rifiutando sdegnosamente, come ha già fatto Basaglia, ogni teorizzazione a favore di una prassi volta al cambiamento. Ciò che di fatto è accaduto ha del paradossale, e merita una riflessione. Tutta l’opera basagliana, sulla carta e nella realtà sociale, è sottesa da una chiave interpretativa altamente drammatica della condizione umana ricca di bisogni - di ex esistere, in tanto, e di conseguenza di esprimersi e di realizzarsi -, ma incarcerata e mutilata da istituzioni sociali repressive. In virtù di questa concezione, il fatto psicopatologico viene assunto come espressivo della condizione reale, ambientale e relazionale, in cui l’individuo si trova. La prassi, di conseguenza, non può essere orientata che allo scopo di cambiare quella condizione, per permettere all’individuo di esprimere i suoi bisogni e tentare di realizzarli. E’ senz’altro superficiale, data la statura culturale di Basaglia, accusare la sua ‘teoria’ del disagio psichico di essere meramente ambientalista e sociologista. Ma c’è da sorprendersi se essa, che postula la messa tra parentesi dell’essere al mondo, sia presa alla lettera, e dia luogo alle pretese dell’analisi transazionale, scienza del ‘cambiamento’, di portare a termine una rivoluzione psichiatrica incompiuta per difetto degli strumenti tecnici? Tra lo storicismo radicale basagliano e l’antistoricismo metodologico dell’analisi transazionale non c’è alcun verosimile punto di contatto: ma è il rifiuto basagliano di formulare una teoria psicologica della personalità a offrire il fianco all’equivoco…

Il rischio denunciato da Basaglia della psicologizzazione, e cioè della tendenza di ogni teoria del disagio psichico a ripiegarsi nello studio delle vicissitudini soggettive e intersoggettive, o viceversa, a ignorarli, isolando il livello comunicativo e comportamentale, non va dimenticato. Senza parlare d’altro, il tragitto teorico di Laing può essere assunto come una drammatica denuncia della fondatezza del rischio. Ma è un rischio da correre: senza una teoria della personalità non si può fondare una nuova scienza del disagio psichico. O, per essere più precisi, la si può edificare in riferimento ad una teoria implicita della personalità.

L’intento che ci proponiamo in questo saggio è duplice: dedicheremo, anzitutto, una qualche attenzione alle teorie della personalità, esplicite o implicite, che sottendono le tre correnti di pensiero che hanno, oggi, maggior significato clinico (la psicoanalisi, l’analisi transazionale, il comportamentismo); successivamente, chiariti i presupposti ideologici con cui deve confrontarsi ogni scienza della personalità ed enunciate le scelte che noi operiamo in rapporto ad essi, cercheremo di delineare i contorni di una teoria della personalità funzionale agli scopi che ci proponiamo.


II. Teorie della personalità psicoanalitiche, transazionaliste e comportamentiste

Limitiamo l’analisi critica a solo tre correnti di pensiero per la pressione che esse esercitano sul piano della prassi, oltre che, in misura diversa, a livello teorico, in ambito psichiatrico.

Ciascuna di esse riconosce un nucleo teorico originario, spesso ‘duro’ perché formatosi in un ambiente culturale ostile, come è il caso della psicoanalisi freudiana, o in opposizione critica rispetto ad altre teorie, e numerose varianti. Per brevità, prenderemo in considerazione solo il nucleo teorico originario.

Quanto alla psicoanalisi freudiana, cui si è dedicato già molto spazio, basta dire che essa muove dall’attribuire alla natura umana un corredo pulsionale soggetto al principio del piacere e che ricava dalle vicissitudini di questo corredo la propria teoria dello sviluppo. Penso che sia superfluo entrare nei dettagli, se non per rilevare che l’attribuzione alle pulsioni di un carattere amorale e asociale costringe la psicoanalisi ad individuare, nell’ambito del processo di sviluppo, una fase critica - l’Edipo - che, postulando la rinuncia del desiderio e l’acquisizione del principio di realtà, decide, in pratica, il destino del soggetto. Ma - è bene ribadirlo - si tratta di una rinuncia che muove da una necessità, e non esprime un bisogno radicalmente umano: essa, pertanto, non può avvenire in virtù di un’integrazione, di una modificazione qualitativa dei bisogni che si aprono al mondo, bensì solo di una repressione. E’ evidente l’antropologia filosofica ingenuamente evoluzionistica che sottende la teoria della personalità freudiana: in sé e per sé, nella sua natura, l’uomo è ancora un animale selvaggio che, solo per necessità, si piega, e sempre di malavoglia, a divenire sociale. Antropologia, dunque, naturalistica e, oserei dire, vitalistica, che assegna alla cultura, e alla civiltà, solo il significato di uno strumento di potente controllo sulle pulsioni primarie.

Il riduzionismo analitico, incentrato sulla mitologia istintuale - esasperata sino al punto di validare l’esistenza di un istinto di morte -, non poteva non produrre delle reazioni critiche. Ce ne sono state anche all’interno del movimento psicoanalitico stesso: da Jung a Adler e Reich e alla scuola neofreudiana statunitense. Ma a noi interessano soprattutto le critiche esterne, quelle che non si sono ripromesse la revisione, bensì la formulazione di una teoria della personalità a partire da presupposti affatto diversi.

Il comportamentismo e l’analisi transazionale hanno, in comune, un punto di partenza antipsicanalitico: ritenendo non obiettivabile l’esperienza soggettiva, essi decidono di metterla tra parentesi, rispettivamente negandola o ritenendola una scatola nera. Tolta l’esperienza soggettiva cosa rimane di obiettivabile in ambito psicologico? La condotta, sia essa intesa come insieme di risposte comportamentali e di stimoli ambientali, sia essa intesa come interazione con le informazioni che scorrono all’interno dei sistemi interpersonali comunicativi. Per il comportamentismo, l’uomo è null’altro che un sistema nervoso che deve apprendere ad adattarsi a configurazioni ambientali i cui stimoli ne minacciano l’equilibrio; per l’analisi transazionale, l’uomo è null’altro che un essere dotato di capacità di codificazione e decodificazione, inserito in una rete di rapporti nei quali scorrono flussi di informazione con i quali egli interagisce.

La teoria della personalità del comportamentismo è rigorosamente fisiologista: il suo scopo ultimo è di dimostrare che tutta l’esperienza umana è riconducibile all’apprendimento di risposte in rapporto a stimoli ambientali, e che questo apprendimento è regolato dalla legge del rinforzo (positivo o negativo).

Naturalmente, non mancano, nel panorama comportamentista, posizioni più sfumate, che postulano come variabile intermedia tra stimolo e risposta un’attività organizzatrice del sistema nervoso. Cionondimeno, il comportamentismo appare vincolato, e sotteso, da una concezione antropologica utilitaristica. Scopo ultimo del comportamentismo è la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. Definire banale questa concezione dell’uomo è dir poco. La banalità consiste nell’assumere le categorie di piacere e di dolore come immediatamente evidenti, mentre questa evidenza non và al di là di alcuni livelli comportamentali. Un forte mal di denti, per esempio, può inibire l’assunzione del cibo, non diversamente dalla scarica elettrica impartita al topo in presenza di cibo. Ma, per esempio, la più cruciale tortura, che può concludersi con la morte, non può indurre un individuo, convinto della giustezza della causa per cui lotta a confessare e a denunciare i compagni. In questo caso, il piacere può essere identificato con il serbar fede a certi valori. E i valori sono senz’altro appresi. Ma qual è il rinforzo che giunge a radicarli tanto profondamente da pervertire apparentemente la logica elementare del piacere e del dolore? Occorre far riferimento al sentimento di giustizia e di libertà, al desiderio di un cambiamento radicale, a una volontà di opposizione che non tiene conto delle conseguenze distruttive: a una visione del mondo, insomma, che individua nel sacrificio di sé il male minore. Questa sovversione delle categorie di piacere e di dolore è incomprensibile se non si tiene conto dell’esperienza soggettiva e della storicità di questa esperienza. Non è azzardato affermare che il comportamentismo, sul piano esplicativo, funziona solo fin dove la realtà lo conferma, e cioè a livello dei comportamenti che rientrano nell’ambito della mentalità e del modo di essere che non è irriverente definire piccolo-borghese. Fin dove, insomma, regge, mutatis mutandis, il confronto fra uomini e ratti d’allevamento (asserzione patetica e non, ovviamente, spregiativa nei confronti dell’umanità forzata a vivere unicamente bisogni primari…).

Non stentiamo a capire quanto profondamente la teoria della personalità comportamentista risenta dell’economicismo della teoria della civiltà al cui interno essa è maturata. Ma è paradossale che essa non riesca adeguatamente a spiegare tutta la realtà umana neppure nei confronti di quella civiltà. Ché se la logica utilitaristica permette di comprendere la motivazione del guadagno, è pur vero ch’essa diventa inefficiente laddove l’utilità marginale si azzera. Qual’ è, per esempio, la spiegazione comportamentale del modo di essere di un industriale miliardario, che vive totalmente per il lavoro? Il rinforzo, in questo caso, non può essere il piacere del guadagno, bensì l’ambizione, la potenza, il prestigio, la competizione. Motivazioni radicalmente umane, per quanto pervertite nelle loro manifestazioni. E se aggiungiamo che queste motivazioni non sono frenate neppure dalla consapevolezza di condurre una vita ad alto rischio di mortalità ( i manager sanno di rischiare l’infarto in misura statisticamente più rilevante rispetto ad altre fasce di popolazione…), è evidente che il comportamentismo, di fatto, spiega solo il comportamento medio, e non la totalità dei fatti umani.

Il riduzionismo dell’analisi transazionale è di tutt’altro segno rispetto al comportamentismo: è un riduzionismo sociologista, infatti, non fisiologista. I presupposti da cui muove la teoria della personalità transazionalista sono pochi e chiaramente formulati. Si riconosce la radicale socialità dell’uomo, il suo essere immerso, dall’inizio alla fine della vita, in una rete di rapporti interpersonali organizzata in sistemi: la famiglia, la scuola, l’ambiente di lavoro ecc. La nozione di sistema comporta l’interdipendenza tra le parti che lo costituiscono: di conseguenza, l’individuo, com’è concepito per esempio dalla psicoanalisi, viene ritenuto un’astrazione. "L’uomo è nel senso più letterale del termine, un animale politico, non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società…è un’ assurdità pari al formarsi di una lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme". Questa citazione che potrebbe essere sottoscritta da qualunque esponente della scuola di Palo Alto, è tratta dai Grundrisse di Marx, e basterebbe da sola a far capire gli equivoci in cui cade chi ritiene che il riconoscere la socialità come costitutiva dell’uomo sia, in sé e per sé, una presa di posizione antropologica rivoluzionaria. La teoria relazionale limita la portata di questo assunto in due modi: per un verso, infatti, la socialità, l’esser in relazione, viene assunta come l’unica dimensione obiettivabile dell’esperienza umana; per un altro, i sistemi in cui l’individuo fa parte vengono considerati solo sotto il profilo delle informazioni che in essi scorrono, determinando interazioni e retroazioni. Queste limitazioni comportano la messa tra parentesi della soggettività, identificata metaforicamente con una scatola nera, e il misconoscimento della storicità dei sistemi interpersonali, e cioè della loro dimensione istituzionale. Ciò che resta, il piano obiettivabile, è l’hinc et nunc, un presente isolato e sospeso sul nulla di cui interessa solo il funzionamento sotto il profilo comunicativo. Da queste rigorose premesse metodologiche sembra impossibile ricavare una teoria della personalità. Ma i tecnici della comunicazione non ignorano i pericoli di un radicalismo che metterebbe in luce troppo manifestamente l’applicazione ai sistemi interpersonali di principi ricavati da una teoria matematica che riguarda circuiti elettronici.

"Ci sembra chiaro - scrivono - che se si considera l’uomo soltanto come animale sociale si trascura il suo nesso esistenziale, di cui i rapporti sociali in cui l’uomo è coinvolto sono soltanto un aspetto". Occorre, dunque, per necessità spostare l’attenzione dall’interpersonale all’esistenziale: formulare insomma una teoria della personalità.

Misconosciuto il carattere istituzionale e storico dei sistemi interpersonali, messa tra parentesi la soggettività e ritenuta inattendibile la memoria, e cioè lo spessore storico dell’esperienza soggettiva, il risultato non può essere che un relativismo assoluto. La genesi della personalità è null’altro che un processo di elaborazione delle informazioni il cui fine è di significare il mondo, e cioè di dotare l’individuo di una visione del mondo. Ma quali sono i criteri con cui procede l’organizzazione delle informazioni? La risposta è sorprendente, ma, per motivi che approfondiremo, non potrebbe essere diversa: l’arbitrio. "La realtà è costituita dall’esperienza soggettiva che ci facciamo dell’esistenza, delle nostre intenzioni e dei nostri scopi; la realtà è il nostro modellare qualcosa che probabilmente l’uomo non è in grado di sottoporre a nessuna verifica oggettiva". E ancora: "in larga misura la realtà è ciò che la facciamo essere. I filosofi esistenzialisti propongono una relazione molto simile tra l’uomo e la sua realtà: essi concepiscono l’uomo come un essere gettato in un mondo opaco, privo di forme e di significato, da cui è l’uomo stesso a creare la sua situazione. Il suo modo specifico di essere nel mondo è quindi il risultato della sua scelta, è il significato che egli dà a quello che presumibilmente è al di là di ogni oggettiva comprensione umana". Più che una scatola nera, la soggettività sembrerebbe potersi definire un buco nero ove le informazioni precipitano dando luogo ad un’elaborazione arbitraria e fantasmatica. Ovviamente, l’indicibilità dei punti di vista soggettivi è funzionale alla definizione della verità in termini di efficacia pragmatica. Indurre cambiamenti nei sistemi comunicativi è l’unico potere che ha l’uomo: ma ciò postula che egli sia in grado di comunicare sulla comunicazione, di prendere le distanze dalle premesse da cui muove per comunicare.

Antistoricista e pragmatista, l’antropologia filosofica che sottende la teoria relazionale è manifestamente tributaria di una cultura che nega i problemi che non può e non vuole affrontare. La messa tra parentesi della soggettività, e della storicità dell’esperienza umana, fa di ogni uomo una sorta di self-made-man mentale, che costruisce arbitrariamente una visione del mondo. Negando il carattere istituzionale dei sistemi interpersonali, la società si riduce ad un universo di scatole nere tra le quali scorrono flussi di informazioni, che interagiscono e retroagiscono.

Ma il punto debole della teoria della personalità transazionale è laddove nessuno se lo aspetterebbe. E’ il problema del codice. Una comunicazione non esiste senza codice. I sistemi interpersonali come sistemi comunicativi che codificano e decodificano perpetuamente. Ora i codici che scorrono nei sistemi interpersonali sono codici ideologici, filosofici, morali, religiosi, politici, ecc. E’ assurdo pensare che gli utenti ne siano anche i produttori. E allora? Cacciate dalla porta, la storia e la tradizione rientrano dalla finestra. Sarebbe facile (e forse si dovrà fare) dimostrare che molti paradossi comunicativi e molti presunti doppi legami possono essere interpretati tenendo conto dei quadri mentali entro i quali i soggetti articolano le loro esperienze. Un esempio solo ci farà comprendere in quale misura la raffinatezza logica si esercita a vuoto. Il prototipo di un messaggio paradossale è: "Sii spontaneo!. Un teorico della comunicazione obietterebbe che non si può essere spontanei su comando. Ma non sarebbe giusto chiedersi perché mai l’emittente del messaggio ritenga la spontaneità un requisito indispensabile per vivere in una società, al punto che un individuo, se non lo è spontaneamente, deve esserlo?

 

III. Presupposti di una teoria della personalità

La difficoltà di enunciare una teoria della personalità rispettosa, per quanto, possibile, della totalità dell’esperienza umana, è da ricondurre alla complessità dell’oggetto in questione e ai problemi, in una certa misura ideologici, che vanno affrontati preliminarmente. Abbiamo visto che il riduzionismo della teoria della personalità maturata nell’ambito della psicoanalisi, della teoria dei sistemi interpersonali e del comportamentismo, discende da una messa tra parentesi arbitraria di quei problemi. Il definirli indecidibili non risolve granchè, poiché, proprio il negare che essi possano essere oggetti di scienza, espone al pericolo di una ideologizzazione. Per non incorrere in questo pericolo, quei problemi vanno esplicitati: più in particolare, occorre esaminare le possibili soluzioni ideologiche cui essi si offrono, ed operare un’opzione ragionata.

I problemi preliminari per enunciare una teoria della personalità sono i seguenti:

1) il corredo biopsicologico naturale,

2) le istanze che promuovono e sottendono la genesi della personalità

3) il significato dell’interazione con l’ambiente,

4) il problema della soggettività.

Già sappiamo che il problema della natura umana è indecidibile e che, ciononostante, il metterlo tra parentesi esprime una neutralità scientifica estremamente dubbia. L’indecidibilità è del resto riferita all’impossibilità di oggettivare l’oggetto in questione: ma non esiste solo l’induzione come metodologia scientifica. Più si conosce il substrato biologico - il cervello -, più è possibile operare delle deduzioni. Solo una teoria del cervello può permettere qualche deduzione sulla natura umana. Quanto si sa è poco, non insignificante.

Ormai si accetta pressoché unanimemente che il cervello è un prodotto dell’evoluzione naturale dotato di potenzialità atte a favorire un rapporto adattivo e trasformativo del mondo, ed a innescare dunque un nuovo processo evolutivo: la cultura. Ciò significa, in pratica, che esso è uno strumento rigido ed elastico al tempo stesso. Ambedue queste qualità hanno un fondamento genetico: nella sua parte chiusa, il programma prescrive rigidamente strutture, funzioni, attributi; nella sua parte aperta, determina soltanto delle potenzialità. Questa frontiera tra rigidità ed elasticità del programma nessuno l’ha ancora esplorata. Ma è probabile ch’essa sia spostata piuttosto dalla parte della rigidità. Il cervello è plastico, dunque, e cioè educabile, perlomeno entro i vasti confini delle restrizioni genetiche. Questo dato si può ritenere ormai fuori discussione. Ma il problema è un altro, e si apre all’interno stesso della concezione evolutiva.

Si danno infatti due teorie sul cervello. La prima, pluralistica, vede nel cervello una struttura stratificata, tale cioè che in essa residuano vestigie evolutive - il cervello dei rettili, il cervello dei mammiferi - gerarchicamente soggette alla neocorteccia, ma non integrate: veri e propri nuclei di "bestialità" tenuti a freno dal controllo corticale, ma potenzailmente a rischio di autonomizzarsi. La seconda, monistica, ammette che, in virtù dell’evoluzione naturale e di quella culturale, tutto il cervello si sia "umanizzato" almeno nel senso di essere predisposto a tutti i livelli, da quello istintuale a quello simbolico, all’integrazione culturale e sociale. Io opto esplicitamente per questa seconda teoria. Il motivo è semplice: la teoria pluralista presenta infatti una contraddizione insolubile. Essa postula infatti una struttura sociale di controllo atta a frustrare le pulsioni filogenetiche. Ma, per ammettere tale struttura, diversa rispetto a quella delle società animali, rigidamente gerarchizzate e regolate da meccanismi istintuali, occorre vedere in essa l’espressione di una libertà biologica. Ora se questa libertà non avesse coinciso con un rimodellamento di tutti gli strati biologici, non si vede il perché essa non abbia indotto un esercizio immediatamente e irriversibilmente distruttivo. In breve: se l’organizzazione sociale umana è venuta prima della libertà, non si comprende da dove essa sia venuta; se si ammette che sia venuta dopo, non si comprende come possa essersi determinata.

Anche la teoria monistica, ovviamente, presenta le sue difficoltà. Da una parte, infatti, si tratta di spiegare come e perché il cervello, in tutti i suoi strati, si sia umanizzato; dall’altra parte, occorre evitare, per rimanere sul terreno scientifico, ogni postulato teleologico. Non sembra che queste difficoltà, almeno su un piano teorico, siano insormontabili. Intanto, l’uomo non è divenuto uomo attraverso una serie unica di tappe che fossero come tanti anelli di una catene initerrotta, ma attraverso un mosaico di cambiamenti. Si può ammettere che l’ominizzazione sia avvenuta, insomma, per tentativi ed errori, e che, ad un certo punto, in virtù delle capacità strumentali e simboliche, l’uomo si sia trovato ad un bivio. Il suo merito deve essere stato di saper utilizzare questa opportunità in uno dei possibili modi: sfruttandola per avviare un processo di integrazione, sociale e culturale, piuttosto che di disintegrazione. Probabilmente, è vero che questa scelta è stata operata per scampare all’estinzione. Ma il pericolo dell’estinzione non può essere riferita a pulsioni primarie, bensì ad un certo sviluppo delle capacità umane e della libertà, e cioè ad un problema squisitamente umano.

Dal problema della natura umana discendono le premesse del discorso sulle istanze che promuovono e sottendono la genesi della personalità. Anche qui ci si trova di fronte ad un bivio epistemologico indecidibile. O si ammette infatti che lo sviluppo corrisponde sostanzialmente ad un processo di normalizzazione - e da questo punto di vista che la normalizzazione coincida con la costrizione pulsionale, con l’acquisizione di una buona capacità interattiva, o con l’apprendimento di certe condotte non fa differenza - o si ritiene ch’esso consista nell’esprimere e nell’integrare, in virtù dell’interazione sociale, bisogni fondamentali e irrinunciabili propri della natura umana, che si rendono evidenti nel corso dello sviluppo stesso. Dal primo punto di vista, lo sviluppo corrisponde, insomma, ad una logica funzionale. Per giungere alla maturità, l’uomo deve apprendere a controllare le pulsioni, a destreggiarsi nella rete della comunicazione e a rispondere all’ambiente con dei comportamenti adeguati. Dal secondo punto di vista, lo sviluppo mira invece ad una struttura, atta ad integrare e a realizzare bisogni umani nel contesto sociale. Questa seconda prospettiva comprende la prima, nel senso che essa riconosce l’importanza del codice morale, del codice comunicativo e del codice comportamentale, subordinandolo però alla soddisfazione dei bisogni. Non è vero il contrario: la logica funzionale può ignorare i bisogni, o considerarli una conseguenza, piuttosto che il primum movens dello sviluppo.

Non si può prescindere, a questo punto, dall’accennare alla teoria dei bisogni. Occorre essere onesti: ancor oggi, nonostante lo sforzo meritorio della Heller, essa versa in una condizione di totale confusione. Purtroppo l’origine di questa confusione è dovuta a Marx stesso, che accetta la distinzione tra bisogni naturali e bisogni sociali e, quanto ai primi, ritiene che essi possano essere umanizzati, come pure regredire verso manifestazioni bestiali. Da allora, si può dire che non si sono fatti molti passi in avanti: la Heller stessa distingue bisogni naturali, bisogni irrisolti, bisogni radicali. In un certo senso, il punto dolente, e irrisolto, del problema è proprio quello dei bisogni naturali. Ma, a mio avviso, non è insormontabile. Prendiamo per es. il bisogno naturale e più elementare: il bisogno di cibo. E’ evidente che esso ha la funzione di conservare l’individuo. Ma, in rapporto agli studi di Spitz sull’ospitalismo, è altrettanto evidente ch’esso, per essere soddisfatto, non richiede solo la l’introduzione di calorie, ma anche una relazione affettiva. Il bisogno naturale di cibo è in realtà il bisogno di cure. Questo significa che il bisogno non mira solo a conservare l’organismo, ma anche ad alimentare lo sviluppo della personalità. Esso, dunque, nonché fine a se stesso, è funzionale al raggiungimento di qualcos’altro: la differenziazione della personalità e lo stabilirsi di legami interpersonali. Qualunque sia l’ambito dei bisogni che esploriamo, e quali che siano le modalità di soddisfazione, si giunge a conclusioni identiche. Tutti i bisogni sono orientati alla definizione individuale della personalità e allo stabilirsi di legami sociali sempre più integrati. Non è azzardato dunque assumere come bisogni fondamentali della genesi della personalità i bisogni di individuazione e i bisogni di integrazione sociale. Definirli bisogni fondamentali significa tre cose: in primo luogo, assumerli come bisogni posti dalla struttura stessa del cervello (in questo senso essi sono naturali); in secondo luogo, riconoscerli, anche laddove essi sembrano mascherati da bisogni naturali (per es., il cibo); in terzo luogo, assumerli nel contempo come moventi ed obiettivi dello sviluppo stesso. In quanto moventi, si può dire che essi tendono a mete il cui raggiungimento definisce l’uomo in quanto tale, essere autonomo e capace di legami sociali; in quanto obiettivi, essi sono praticamente illimitati. Ciò significa che, raggiunta una soddisfazione minimale, cionondimeno essi continuano a premere.

Da questo punto di vista, è chiaro che i bisogni di cui parla la Heller non ne rappresentano che una manifestazione: il bisogno di liberta, per esempio non è altro che una manifestazione del bisogno di individuazione quando questo, nella sua potenzialità, urta contro strutture sociali mortificanti. Vedremo successivamente le implicazioni di questa teoria.

Il terzo problema concerne l’integrazione con l’ambiente, inteso come punto di leva essenziale dello sviluppo, e, soprattutto, ciò che si debba intendere per ambiente. Genericamente, non c’è dubbio che l’ambiente sia un milieu emotivo e cognitivo al tempo stesso. Ma, evidentemente, sottolineare il significato delle persone che lo costituiscono o le strutture all’interno delle quali le persone si trovano non è la stessa cosa. Nel primo caso, infatti, si dà rilievo alle persone in carne e ossa, nel secondo ai codici antropologici che quelle persone trasmettono.

Due esempi ci permetteranno di comprendere la radicale differenza delle due concezioni. Si dia un rapporto iperprotettivo di una madre con il bambino. Assumendo un punto di vista psicologico, si potranno mettere in evidenza le motivazioni dell’iperprotezione: il rifiuto inconscio del figlio, il desiderio di opporsi alla sua crescita, la difficoltà di separarsene, ecc. Da un punto di vista strutturale, ciò che importa è individuare il pericolo che alimenta l’iperprotezione: un vissuto drammatico e persecutorio del mondo, in rapporto al quale la condizione del figlio sembra fragile e inadeguata. Il primo punto di vista sottolinea le valenze affettive del rapporto, e le loro conseguenze; il secondo punto di vista, individua nell’iperprotezione un atteggiamento che, sia pure sotto forma indiziaria, veicola una visione del mondo.

L’altro esempio riguarda la scuola. C’è un professore che ritiene l’insegnamento come la trasmissione di un sapere precostituito che va riversato nella mente dei bambini. Da un punto di vista psicopedagogico, si può analizzare questo sistema di insegnamento nei suoi effetti passivizzanti e, sostanzialmente, disincentivanti l’apprendimento. Se si assume un punto i vista strutturale, ciò che il professore trasmette è una valutazione acritica del sapere tradizionale, che tende ad imporre alle nuove generazioni il rispetto per gli adulti che sanno. Ancora una volta, la persona conta meno della visione del mondo in cui essa stessa è persa.

Anziché per la teoria dell’ambiente come contenitore affettivo, cognitivo e sociale, io opto per una concezione dell’ambiente come totalmente istituzionalizzato, strutturato e devoluto alla trasmissione dei codici.

C’è da affrontare, infine, il problema della soggettività, che è il modo gordiano di una teoria della personalità. Per soggettività si può intendere, nel modo più semplice, la forma dell’esperienza di una vicenda umana così come essa è colta dalla coscienza. Ciò non significa ovviamente che quella forma sia riducibile alla coscienza: essa, infatti, è strutturata da livelli di esperienza inconsci. L’inconscio è provato in modo inoppugnabile proprio dallo scarto, evidente in molte esperienze di disagio psichico, tra coscienza e forma di esperienza.

Ritenere la soggettività una scatola nera significa mettere tra parentesi una dimensione ineludibile. Se non siamo in grado di dire nulla sulla scatola nera, non siamo in grado di dire nulla cha abbia senso riguardo all’uomo. Al di là della negazione del problema, si danno tre impostazioni ideologiche: il determinismo, l’indeterminismo e il possibilismo. Il determinismo presume che la soggettività sia totalmente ricavabile dalle condizioni ambientali: è, insomma, una forma estrema di riduzionismo sociologico. L’indeterminismo esistenzialista sostiene che la soggettività gode di un’ assoluta libertà rispetto al mondo. Il possibilismo afferma che il rapporto tra individuo e ambiente si configura come un insieme di possibilità, una delle quali, di volta in volta, si analizza in virtù di una scelta soggettiva, non importa quanto e se consapevole.

Ai quattro problemi enunciati all’inizio corrispondono dunque le seguenti opzioni:

Il cervello è un prodotto evolutivo il cui programma genetico comporta una parte aperta assolutamente rilevante, che determina l’educabilità della natura umana. Quanto a questa, si ritiene che tutto ciò che è in essa presente originariamente abbia connotazioni radicalmente umane.

Si assumono i bisogni di individuazione e di integrazione sociale come motivanti lo sviluppo della personalità, nel duplice senso di alimentarlo intrinsecamente e di rappresentare degli obiettivi minimali

L’ambiente, al di là delle relazioni concrete tra persone, e delle sue valenze affettive, cognitive e sociali, viene assunto come totalmente strutturato da istituzioni il cui significato, in rapporto allo sviluppo della personalità, è di trasmettere codici che, nel loro insieme, integrano sempre una visione globale del mondo.

La soggettività, intesa come forma di esperienza, si configura come il risultato di scelte di vita operate all’interno di un insieme di possibilità, la cui finitezza definisce la storicità dell’esperienza soggettiva.

La teoria della personalità che si tenterà di delineare è totalmente tributaria di queste opzioni ideologiche.

 

IV. Genesi e struttura della personalità

Non c’è alcun dubbio che la personalità è l’espressione di un processo costruttivo nel quale intervengono, come materia prima, le disposizioni genetiche; come forma le configurazioni ambientali, strutturate come istituzioni; e, come variabile intermedia, l’attività soggettiva, impegnata nel duplice compito di assimilare il mondo esterno e di accomodare ad esso il mondo interno.

Il fine ultimo cui tende la costruzione della personalità, e che dunque si può ritenere costitutivo di ogni progetto soggettivo, è un equilibrio dinamico, capace al tempo stesso di assicurare l’omeostasi e un certo grado di attivazione nel rapporto tra mondo esterno e mondo interno.

Più precisamente, per equilibrio dinamico si può intendere una visione del mondo che soddisfa, sul versante interno, il bisogno di coerenza proprio di ogni soggetto, e cioè la capacità del soggetto di modellare le sue esperienze, fino al punto di ristrutturarle, in virtù di nuovi eventi.

Questa condizione ottimale postula l’integrazione dei tre livelli costitutivi di ogni esperienza: il livello cognitivo, quello affettivo e quello sociale. A tutti i livelli, l’integrazione media tenta di soddisfare i due bisogni che sottendono e lo sviluppo della personalità e la sua progressiva realizzazione adulta: il bisogno di individuazione e il bisogno di integrazione sociale. E’ banale ma essenziale affermarlo: una personalità si può ritenere integrata o matura quando essa esprime sia la capacità di tollerare e di dar senso alla solitudine, sia la capacità di entrare in relazione con gli altri secondo diversi gradi di intimità. Ciò postula una certa padronanza del mondo interno, di quello esterno e delle interazioni tra l’uno e l’altro. E’ in termini di potere - cognitivo, affettivo e sociale - sul mondo che va valutata la personalità.

Adottando questo criterio, è evidente che la dimensione psicologica, per quanto si possa e si debba sottolineare l’attività del soggetto nel costruirsi il suo mondo, non è causa sui, ché essa riconosce due limiti costruttivi: le costrizioni genetiche, che si possono ritenere in decidibili, e le costrizioni ambientali, che possono invece essere adeguatamente valutate, soprattutto sotto il profilo degli apporti cognitivi, affettivi e sociali. Per quanto riguarda il disagio psichico, sottolineare un difetto dell’uomo di questi livelli si può ritenere riduttivo, poiché è la loro integrazione in rapporto ad un contesto storicamente determinato che coglie la totalità dell’esperienza umana.

Se si esplora l’ambito della teoria della personalità psicologiche, non è arduo identificare in Piaget il teorico più rispettoso di quella totalità. Purtroppo Piaget, essendo uno psicologo puro, ignora la storicità dell’esperienza umana, pertanto delinea una teoria che è meno formale che astratta. Ma i suoi contributi sono preziosi, e possono essere utilizzati come armatura di una teoria della personalità funzionale ai bisogni di una scienza microstorica del disagio psichico. Paghiamo dunque subito il debito con Piaget.

La teoria di Piaget è una teoria costruttivistica, che individua nello sviluppo un’incessante attività di assimilazione e di accomodamento delle strutture cerebrali, e, da un certo livello di maturazione, dell’io rispetto al mondo. Non sorprende, pertanto, che Piaget stesso abbia riconosciuto (in uno degli ultimi scritti) nell’antropologia marxiana un’intuizione che la scienza psicologica non può che confermare: essere l’attività in rapporto al mondo la prerogativa essenziale della natura umana. Intuizione che Marx ha ricavato dalla storia, ma che Piaget estende al porsi dell’essere umano nel mondo fin dalle fasi primarie dello sviluppo ontogenetico.

Fondamentali, poi, risultano, nella teoria della personalità di Piaget, i concetti di genesi e di struttura. Per Piaget, a qualunque livello di sviluppo, la personalità è una struttura, e cioè "un sistema che presenta leggi e proprietà di totalità in quanto sistema". Il processo di sviluppo della personalità è pertanto un processo di strutturazione che muove da strutture semplici (originariamente identificabili con le strutture biologiche) e procede, in virtù dell’assimilazione e dell’accomodamento, verso strutture sempre più integrate e complesse. La genesi è, per l’appunto, una "forma di trasformazione che parte da uno stato A e che si conclude in un'altra struttura". La teoria della personalità di Piaget si può definire pertanto come strutturalismo genetico, a patto che si tenga presente che "non esistono strutture innate; ogni struttura suppone una costruzione".

Il metodo microstorico da noi adottato nella costruzione delle esperienze di disagio psichico è anch’esso definibile in termini di strutturalismo genetico, poiché muove dal livello fenomenologico del vissuto, cerca di individuare la struttura chiusa e autoalimentarsi che lo sottende, e, infine, tenta di definire la genesi di questa struttura in rapporto all’interazione tra attività soggettiva e ambiente. Non è superfluo, forse, ricordare che, dal nostro punto di vista, l’ambiente non è fonte di esperienza immediata, bensì fonte di esperienze che, per essere assimilate, vanno interpretate; e che, inoltre, ogni ambiente, strutturato com’è da quadri mentali, offre all’individuo dei codici interpretativi.

Mentre la teoria della personalità di Piaget segue il corso dello sviluppo, e, tra l’altro, si arresta all’adolescenza, il metodo microstorico non può procedere che retrospettivamente, a posteriori, a partire cioè da un’esperienza di disagio che, il più spesso, si manifesta al di là dell’adolescenza. Si tratta, ora, di vedere se la teoria dello sviluppo ‘normale’ della personalità offre le chiavi di possibili sviluppi ‘patologici’, e, viceversa, se il metodo microstorico può arricchirla, a partire dall’esperienza di disagio, di dati che essa misconosce o di cui semplicemente difetta. Non ci si sorprenderà, pertanto, se, anziché una teoria articolata in tutte le sue fasi, ci si soffermerà su alcuni nodi critici di particolare interesse.

In accordo con Piaget, sembra lecito distinguere, nello sviluppo di ogni personalità, quattro fasi genetiche, ciascuna delle quali ha caratteristiche sue proprie, pur essendo unico il movimento che le anima, e che va da una struttura ad un'altra struttura più stabile. Le fasi vanno da 0 a 2 anni, da 2 a 7, da 7 a 12, e dall’adolescenza alla prima giovinezza. Alle soglie di questa, la stabilità della struttura di personalità, e i suoi equilibri dinamici, decidono dell’apertura al mondo, intesa come processo di realizzazione progressiva dei bisogni personali, o di una chiusura che fonda i presupposti dell’affiorare del disagio psichico.

La prima fase presenta problemi di particolare rilievo, poiché il relativo mutismo comunicativo del bambino offre la possibilità di interpretazioni molteplici, e, in particolare, di proiezioni ideologiche. Non sussistono dubbi sul fatto che la condizione originaria del bambino sia indifferenziata, nel senso che essa non riconosce alcuna distinzione tra corpo e mondo, interno ed esterno, io e l’altro. Condizione, dunque, di confusione con l’ambiente, che comporta una totale dipendenza e un elevata permeabilità. Condizione di prematurazione, sulla quale si può speculare filosoficamente, ma il cui significato evolutivo è evidente: giunto ad un certo livello di maturazione, reso possibile dall’ambiente uterino altamente protettivo ma poco stimolante, il sistema nervoso ha letteralmente bisogno del mondo, e cioè di un certo livello di tensione e di stimolazione, per avviare un’integrazione funzionale il cui obiettivo è una prima definizione dell’io, dell’altro e del mondo. Condizione indispensabile perché questo processo di integrazione si compia è, ovviamente, un ambiente che assicuri, nel contempo, e un adeguata stimolazione e una rassicurante protezione.

Questa condizione originaria, che non è drammatica, poiché si articola già nel registro che sottenderà tutta l’esperienza successiva, e che spazia da una sicurezza che non deve essere tale da estinguere le tensione verso il nuovo a una tensione che non deve sormontare la capacità di organizzazione della struttura psicofisiologica, può essere facilmente drammatizzata da un punto di vista adultomorfo: lo è, di fatto, all’interno di vissuti psicopatologici che la ricostruiscono retrospettivamente, ma lo è anche nel quadro ideologico di quelle teorie psicologiche - esistenzialiste e psicoanalitiche - che proiettano sul bambino, essere prematuro letteralmente gettato nel mondo, il peso - reale e fantasmatico - di un’angoscia adulta. Che questo essere nella precarietà e sotto l’incubo di perpetue minacce - esterne e interne - non corrisponde al vero, si può dimostrare con un’argomentazione d’ordine filosofico e storico. Il neonato come oggetto privilegiato di interesse e di cure, e cioè come problema, è un’invenzione culturale piuttosto recente. Nel tempo, sono esistite società e civiltà che lo hanno praticamente ignorato, identificandolo con una sorta di vegetale. Se il neonato fosse un essere la cui vita interiore avesse la drammaticità cosmica ipotizzata, per es. da M. Klein, la sopravvivenza e, ancor più, la salute mentale dell’umanità si configurerebbero come problemi insolubili. In realtà, non c’è bisogno di ammettere una vita fantasmatica originaria: con tutta evidenza, la condizione neonatale è di fatto ‘irreale’. Per il difetto di maturazione, il neonato vive in un mondo, irriproducibile per la coscienza, e forse evocato solo da gravi stati confusionali, in cui non c’è differenza tra esterno ed interno, non esistono oggetti permanenti, né uno spazio unico, né un ordine temporale, né leggi di casualità, né, infine, persone e relazioni ‘oggettuali’. Dopo la nascita, il sistema nervoso entra in azione con un obiettivo primario: promuovere la discriminazione del corpo come totalità del mondo esterno, come insieme di oggetti permanenti, e dell’io e dell’altro. Il raggiungimento di questo obiettivo, che pone le premesse di ulteriori sviluppi incentrati sul bisogno di individuazione e di integrazione sociale, non è ovviamente un processo solo fisiologico, bensì è costitutivo della dimensione psichica.

C’è da chiedersi, dunque, come e perché il problema delle fasi primarie dello sviluppo sia comparso all’orizzonte della cultura con caratteristiche tanto angosciose, al punto da distorcere ideologicamente la realtà dei fatti fino all’attribuzione a quelle fasi di un significato che decide il destino dell’individuo. Questo problema non è comprensibile se non si tiene conto del cambiamento delle strutture sociali e, in conseguenza di ciò, del definirsi di una nuova mentalità.

Il cambiamento è identificabile nel passaggio della famiglia allargata a quella nucleare, e nel conseguente allentamento progressivo di vincoli parentali, non vicariato dalla solidarietà sociale. Questo cambiamento, facendo ricadere in gran parte il peso dell’allevamento del bambino sulle spalle della madre, minacciata già da fantasmi di indipendenza culturale, trasforma la costrizione del primo anno di vita in un rapporto claustrofobico, animato e attraversato dall’angoscia e dai conseguenti fantasmi di liberazione. Ciò significa che se i meccanismi di scissione, proiezione e introiezione del buono e del cattivo nel neonato sono in decidibili, la presenza nella famiglia nucleare di atteggiamenti di protezione e di abbandono liberatorio si può assumere come dato di fatto, che ovviamente incide in misura diversa a seconda delle persone e delle costellazioni parentali e sociali.

Al neonato, in altri termini, non si possono attribuire che i bisogni elementari la cui soddisfazione è essenziale ai fini di una prima integrazione dell’io e del mondo personale e oggettuale.

In questa fase, i livelli cognitivi e quelli affettivi interagiscono già in maniera indissociabile. Il volto umano, a partire dal 3° mese, è un pattern percettivo che evoca, com’è noto, una risposta affettiva. La familiarità che il bambino giunge ad avere con esso, specie per quanto riguarda le persone che più di frequente sono a contatto con lui, innesca successivamente, nel corso dell’8° mese, la discriminazione dell’estraneo, alla cui presenza il bambino agisce con angoscia. L’economia di questa prima categorizzazione, cognitiva e affettiva insieme, dell’universo personale non può essere sottovalutata. Essa definisce, infatti, un confine che l’ulteriore sviluppo tenderà lentamente a spostare, dando luogo ad una progressiva familiarizzazione col mondo, che non avrà mai più ( o non dovrebbe avere) il carattere di un ingenuo abbandono acritico all’altro. L’angoscia dell’estraneo, nella misura in cui segnala la precaria identità dell’io, e la sua dipendenza da persone familiari, qualifica anche il bisogno di integrazione sociale come bisogno la cui realizzazione deve essere discriminativo. Anche a questo livello, non si può ignorare, però, che le categorie del familiare e dell’estraneo sono radicalmente influenzate dal tipo di organizzazione familiare e dal rapporto aperto o chiuso che la famiglia intrattiene con il mondo parentale e sociale. Da questo punto di vista, la famiglia nucleare, intesa in senso proprio, si può ritenere un’organizzazione che rende più drammatico e, quindi, meno facilmente superabile quel confine.

Raggiunta la distinzione tra corpo come totalità e mondo come insieme di oggetti permanenti, tra io e altro, e, nell’ambito interpersonale, tra familiare e estraneo, la prima sottofase si può ritenere conclusa. Essa esita in una struttura infinitamente più stabile rispetto a quella originaria, ma, al tempo stesso, ben poco critica. Il superamento di questa struttura abbisogna di un incremento dell’azione, e ciò è reso possibile dagli strumenti di cui il bambino comincia a disporre a partire da un anno o poco più: la deambulazione, che comporta la possibilità di misurare e di esplorare il mondo reale, e il linguaggio, che permette l’esplorazione del mondo simbolico e il definirsi, in senso proprio, del mondo interiore e della socialità. E’ in questa fase, che occupa tutto il secondo anno, che il bambino viene a contatto con l’universo delle regole. Indubbiamente, come ha rilevato la psicoanalisi, il problema del controllo sfinterico è importante, ma esso non va isolato da un quadro di valori che concernono, in senso lato, la proprietà, l’ordine e la pulizia. Da questo punto di vista, è chiaro che il codice comportamentale con cui il bambino si confronta va bene al di là delle funzioni corporee, investendo in particolare sia l’esplorazione dell’ambiente domestico sia alcune manifestazioni sociali. Quanto al primo problema, è il rispetto delle cose che viene richiesto, indipendentemente dal fatto che lo spazio sia più o meno adeguato ai bisogni del bambino. Quanto al secondo problema, il comportamento del bambino, in presenza di persone non familiari, comincia ad esser vissuto come indice dell’educazione impartita, e, pertanto, viene sovraccaricato di una più o meno intensa angoscia sociale. Non si può ignorare, a questo punto, l’incidenza di fattori sociologici che impongono ritmi educativi non sempre funzionali ai bisogni del bambino.

Mi si permetterà di mettere in discussione l’ideologia della socializzazione precoce, che sottende e giustifica l’istituzionalizzazione negli asili. Che i bambini abbiano bisogno di socializzare è fuori discussione, e, di fatto, questo bisogno è stato sempre riconosciuto. Ma la modalità di allevamento privilegiata fino a qualche decennio fa comportavano la socializzazione dei bambini in presenza o in stretto contatto con il mondo degli adulti. L’urbanizzazione e la nuclearizzazione della famiglia ha prodotto un brusco cambiamento di questo modello. Sempre più precocemente, per motivi sociali (impegni lavorativi dei genitori, ristrettezza degli spazi abitativi, assenza di spazi di socializzazione limitrofi alle abitazioni), i bambini vengono istituzionalizzati.

L’acquisizione precoce del controllo sfinterico e di comportamenti socialmente compatibili è, spesso, funzionale a questi bisogni sociali. Non è azzardato affermare che, da qualche decennio, la società stia sperimentando una civilizzazione sempre più precoce del bambini e che ideologizzi questa sperimentazione in rapporto ai bisogni psicologici che, a dir poco, possono essere criticati.

La seconda fase, dai 2 ai 7 anni, è caratterizzata dagli effetti della progressiva conquista del linguaggio, e dalla socializzazione che esso consente, sul versante interno e relazionale. Per effetto del linguaggio la permeabilità educativa del bambino è infinitamente maggiore rispetto alla fase precedente. Se a questo fattore si aggiunge la seduzione che esercita il mondo degli adulti, si comprende la potenza e l’intensità dell’eteronomia, e cioè dell’introiezione dei codici morali e comportamentali il cui funzionamento, tuttavia, è assicurato dalla stima, dal rispetto e dall’obbedienza. Questo processo che, se fosse passivo, permetterebbe alla cultura e alla tradizione di riprodursi con la stessa inesorabilità del codice genetico, e integrerebbe socialmente il bambino come automa, riconosce un correttivo di fondamentale interesse: la tendenza alla opposizione, che, nel corso di questa fase, si manifesta criticamente almeno in treperiodi, intorno ai 3 ai 5 e ai 7 anni, e che rappresenta l’affiorare, sotto forma di crisi di indipendenza, del bisogno di individuazione. Non esito ad affermare che l’interazione dell’ambiente con questa crisi di opposizione, la cui intensità è già di per sé indizio del conflitto tra bisogni d’individuazione e bisogni di integrazione sociale, è una delle chiavi dell’evoluzione della personalità. L’opposizione introduce, talora per la prima volta, nel rapporto con gli adulti un elemento di ostilità. Se questo elemento non viene drammatizzato, l’opposizione diventa funzionale allo sviluppo. Se esso altresì viene interpretato come indizio di germi negativi presenti nella natura umana, la cui persistenza induce il timore di gravi conseguenze future, e, pertanto, viene sottoposto ad un processo correttivo radicale, l’opposizione repressa si trasforma in rabbia: rabbia furibonda, perché impotente. Rabbia che, in una certa misura, allergizza il bambino nei confronti dell’autorità, e che quindi compromette un rapporto evolutivo e critico, inducendo un’obbedienza cieca e meccanica sotto la quale urge il bisogno di ribellione estremamente intenso o un’opposizione protratta che qualifica il bambino come ‘difficile’.

Naturalmente, queste affermazioni non vanno assunte in senso deterministico: al di là di questa fase, anche quando essa si configura conflittualmente, ci sono molti molteplici possibilità di riequilibrio, legate e alle capacità che vengono ulteriormente acquisite di esprimere meglio la propria opposizione e a cambiamenti degli atteggiamenti degli educativi. Come per ogni altro aspetto della genesi della personalità, non è un momento traumatico che ne decide il destino, bensì una somma di circostanze, in epoche diverse. L’opposizione, come espressione del bisogno di individuazione, si manifesta precocemente e, il più spesso, in forme negative (di capriccio o di testardaggine ), ma la sua storia si conclude con la crisi adolescenziale. E’ il riproporsi di alcune tematiche in momenti diversi, ciascuno dei quali può essere risolutivo, la chiave dello sviluppo individuale. Da questo punto di vista, ciò che sorprende è che all’infinita plasticità educativa del soggetto le istituzioni pedagogiche rispondono, talora, con una rigidità uniforme, che svela il carattere non evolutivo ed inerte dei quadri mentali che le sottendono.

Ancora una riflessione si impone sulla tendenza all’opposizione. Se ci si chiede il suo significato profondo, la risposta è che in essa si può riconoscere il bisogno di individuazione in una forma ancora molto primitiva. Il difetto di autonomia e di organizzazione del mondo interiore forza letteralmente il bambino a definire i confini dell’io, per affrancarsi dalla dispersione di sé nei rapporti con gli adulti. Un problema di straordinaria importanza, da questo punto di vista, è dato dal fatto che, fino ad una certa epoca, attribuendo agli adulti una certa onnipotenza, il bambino si sente trasparente ai loro occhi. Il confine dell’io - è un’ipotesi, questa, da verificare - si definisce nel momento in cui il bambino sente di non essere più trasparente.

Paradossalmente - non lo rivelo io per primo - ciò avviene in virtù della capacità di mentire: è mentendo, e verificando che il genitore può essere ingannato, che il bambino sperimenta la sua interiorità come penetrabile, come schermata. E’ in questo momento che si può parlare della nascita della soggettività in senso proprio, rivoluzione copernicana che definisce la soggettività come scatola nera per gli altri. Ma questa rivoluzione non è sempre indolore, poiché essa spesso deve avvenire in trasgressione di un codice morale al quale gli adulti annettono una particolare importanza: il codice della sincerità. Non che questo codice non abbia una sua importanza: ma è sorprendente che gli adulti, ciascuno dei quali sa di mentire, almeno nel senso di non comunicare agli altri tutti i propri pensieri, diano tanto valore alla sincerità comunicativa. In questa insistenza è difficile non vedere l’espressione della paura di perdere il controllo sulla mente del bambino. Penso che a questo livello si può forse individuare la fondazione dell’inconscio represso: non potendo essere assolutamente sincero, se non rinunciando a definire il confine dell’io, e non tollerando la colpa della menzogna, che viene di continuo sottolineata dagli adulti, il bambino deve cominciare a operare delle repressioni. Deve cioè mentire a se stesso, estraniandosi da aspetti della sua vita interiore nel mentre essa si definisce come tale. Il codice della sincerità, che è un codice di controllo dell’adulto sulla mente del bambino, dà luogo paradossalmente ad una mistificazione che definisce il potere del bambino sulla propria vita interiore nella misura in cui esso è spinto a espropriarsene, perlomeno per quanto riguarda ciò che può essere vissuto come inconfessabile. Non si stenta a comprendere come questa situazione paradossale, che obbliga il bambino alla rimozione, incide su uno degli aspetti più importanti dell’esplorazione del mondo che lo sviluppo fa affiorare in questa fase: la curiosità sessuale.

Questo animarsi del desiderio in una fase così anticipata rispetto alla maturità sessuale, intesa in senso funzionale, pone dei problemi di interpretazione piuttosto complessi. La soluzione freudiana è nota: sarebbe la sessualità infantile, orientata verso un oggetto impossibile - l’oggetto edipico - a postulare e a promuovere l’acquisizione del principio di realtà, a forzare cioè il soggetto a riconoscere che non tutto ciò che è desiderabile è possibile. Manifestandosi insomma come una colpa, espressione della propria logica del desiderio soggetta al principio del piacere, la sessualità infantile fonderebbe la moralità come frustrazione del desiderio. E’ superfluo, forse, ricostruire il quadro mentale, caratterizzato da un’opposizione irriducibile tra piacere e dovere, che ha indotto Freud a dover ammettere, nell’elaborare la sua teoria della personalità, una strozzatura traumatica, e a identificarla nell’Edipo. Oggi si possono avanzare numerosi dubbi sulla fondatezza di questa teoria.

Tutto lo sviluppo della personalità, fin dall’epoca in cui si definisce l’io, è sotteso dalla dialettica tra desiderabile e possibile. Ma se il desiderio, anziché come espressione di corredo pulsionale, viene assunto come bisogno del mondo, bisogno radicalmente umano, poiché è esso a sottendere l’attività del soggetto che, nel costruirsi, costruisce il suo mondo, lo scarto tra desiderabile e possibile si configura come una tensione il cui significato evolutivo non si può misconoscere. E’ il mondo come insieme di possibilità indefinite ad alimentare il desiderio. Il problema è come il desiderio di organizza per giungere a sfruttare quelle possibilità, a partire da una condizione di impotenza e di assoluta dipendenza.

L’organizzazione del desiderio, inteso come bisogno del mondo, sembra riconoscere, a qualunque livello di sviluppo, tre momenti: l’attività del soggetto orientata ad esplorare il mondo, i codici cognitivi e comportamentali degli adulti che orientano quell’attività, e l’ulteriore attività del soggetto che assimila quei codici e si accomoda al mondo dando ad essi una configurazione individuale.

Naturalmente, il rapporto tra queste due componenti varia molto nel corso dello sviluppo. Ma se si assume questo come un processo di progressiva autoregolazione, la cui dinamica è assicurata proprio da equilibri che promuovono la strutturazione, il concetto di frustrazione freudiano perde senso e va sostituito con quello di integrazione, intesa come acquisizione progressiva delle proprie capacità in rapporto al mondo. E’ evidente che l’integrazione, da questo punto di vista, dipende dalle opportunità che vengono offerte ai soggetti di integrarsi, e, ovviamente, da come essi utilizzano queste opportunità.

Riportiamo il discorso con i piedi sulla terra, esemplificandolo. Ben prima che affiori la curiosità sessuale, il bambino affronta il problema di organizzare il proprio desiderio. A 4 - 5 anni egli ha già appreso un insieme di codici che regolano il rapporto tra desiderabile e possibile. Egli distingue per esempio tra commestibile e non commestibile, pulito e sporco, toccabile e non toccabile, fattibile e non fattibile, ecc. Mi si permetterà di soffermarmi sull’acquisizione di almeno una di queste categorie, per giustificare quanto si è detto prima. Il bambino che porta tutto alla bocca nel corso del primo anno non può essere assunto come un mostro di avidità orale: è evidente, semplicemente, che egli non distingue tra commestibile e non commestibile. In una certa misura, il commestibile è una categoria culturale, agendo all’interno della quale il bambino definisce il suo gusto come espressione del bisogno di individuazione. Questo è un tipico processo di autoregolazione che parte da un’esplorazione del mondo squilibrata perché difettosa di categorie cognitive, la acquisisce sotto forma di codici culturali (e, in parte, di esperienza diretta) e la usa dando ad essa in significato individuale.

Per quanto riguarda la sessualità, è possibile che il suo affiorare precoce, sotto forma di curiosità, serve anzitutto a introdurre nell’esperienza del bambino una categoria - quella uomo/donna - che, arricchendo una visione del mondo ancorata alle categorie del familiare e dell’estraneo, prefigura un cambiamento di registro relazionale, che, di fatto, avverrà solo con l’adolescenza, ma che postula un’identità che può essere solo il frutto di una lenta costruzione, e la cui fondazione postula un opposizione categorica, a partire dalla quale è possibile un’integrazione. La sessualità risulterebbe un ulteriore asse dello sviluppo, che promuove l’individuazione e la socializzazione. Da questo punto di vista lo scarto tra animazione del desiderio e possibilità di agire la sessualità non sorprende, poiché è funzionale ad una lenta ristrutturazione - cognitiva, affettiva e sociale - dell’universo personale e interpersonale. L’intensità del desiderio sembra deputata piuttosto ad alimentare questo lungo processo che non a fare incombere un’improbabile minaccia pulsionale. Il sisma della curiosità sessuale è compensato dal fatto che esso non comporta, sul piano della realtà, alcun pericolo. E’ l’impotenza del bambino, e non l’Edipo, insomma a dare ad esso il carattere di uno squilibrio che non minaccia bensì promuove una ristrutturazione psichica.

Ciò risulta comprovato dall’evoluzione del tabù incestuoso.

Levj-Strauss ha rilevato che, nella storia dell’umanità, questo tabù è servito meno a porre rimedio all’infinito disordine del desiderio che non a stabilire vincoli tra gruppi umani altrimenti chiusi e inclini all’ostilità in virtù di una reciproca percezione di estraneità. L’integrazione sociale avvenuta nel corso del tempo spiega a sufficienza l’alternarsi progressivo dei codici incestuosi, fino al loro ridursi, attualmente, alla madre e, nei casi in cui esiste, alla sorella. Questo allentamento comprova il significato relazionale del tabù, e la sua progressiva perdita di funzione all’interno di una società non più minacciata da possibili ostilità tribali o intergruppali. La persistenza del tabù materno si può considerare un residuo di quella funzione, che, in sé e per sé, non ha letteralmente senso. Ammettendo pure, infatti, che il desiderio del bambino sia orientato sulla madre sessualmente, chi può dubitare che, venendo meno il tabù, il bambino, crescendo, non orienterebbe il suo desiderio su soggetti più desiderabili? L’Edipo psicoanalitico si può ritenere, pertanto, un mito interpretativo scientificamente infondato

E ciò obbliga a interpretare in termini non sessuali, bensì relazionali, la persistenza e l’onnipresenza di quel mito nelle strutture psicopatologiche. Il compito, come vedremo, non è proibitivo, poiché l’Edipo stesso, presentandosi spesso, nei sogni e nelle fantasie ad occhi aperti, sotto forma di contenuto manifesto, si rende inattendibile…

Se la curiosità sessuale è un bisogno prevalentemente cognitivo, non si può ignorare che esso, a differenza di altri bisogni, postula una soddisfazione dall’esterno. Se si vuol comprendere qualcosa delle vicissitudini della sessualità infantile, occorre, anzitutto, tener conto dei quadri mentali che la riguardano, e dai quali muove la soddisfazione del bisogno cognitivo. Tutta la psicoanalisi freudiana è un’esplorazione degli effetti dell’introiezione di un codice repressivo e moralistico.

Ancor oggi, per alcuni aspetti, questo codice è attivo, e le conseguenze che esso induce sono le stesse: ripiegamento sulla manipolazione del proprio corpo, abbandono a giochi erotici con coetanei o con persone puù grandi, curiosità morbose orientate all’esplorazione della ‘misteriosa’ sessualità adulta. Ma circolano, e si vanno strutturando, ormai, altri codici, più o meno liberalizzanti o liberatori: occorre dar merito a Foucault di averne avviato un’esplorazione minuziosa, dai cui primi risultati (cfr. "La volontà di sapere") affiorano inquietanti interrogativi.

In un certo senso, tutta la prima infanzia è dominata da una dialettica tra il bisogno di individuazione e il bisogno di integrazione sociale, la cui tensione reciproca assicura lo sviluppo. Ma occorre fare alcune osservazioni ulteriori. Il bisogno di individuazione si manifesta essenzialmente in negativo, sotto forma di opposizione, come bisogno di indipendenza cui non corrispondono ancora reali capacità di esercitare e tollerare la libertà. Il bambino è impegnato a definire i confini dell’io, ma, entro questi confini, egli non si sente ancora padrone di sé. Questa condizione di oggettiva debolezza significa che, in questa fase, si inaugura un conflitto il cui esito dipende molto dalle capacità di smaltimento delle figure parentali che da quelle infantili.

A questo conflitto fa da contrappeso il bisogno di integrazione sociale che, in questo periodo, evolve configurandosi prima come bisogno di sicurezza, e poi inducendo il bambino alla conquista dell’affetto e della stima degli altri. Ci si può chiedere, a questo punto, a che serve l’affetto dal punto di vista della costruzione della personalità. La risposta è che esso, con tutte le sue valenze - positive e negative -, serve a dotare il bambino di un’immagine interna di sé, che cominci parzialmente a farlo sentire padrone del suo mondo interiore. La costruzione dell’immagine interna di sé si può ritenere la chiave di volta dello sviluppo della personalità. Ciò è comprovato da tutte le esperienze di disagio psichico, dalle quali costantemente affiora un’immagine negativa di sé. Le tre grandi paure psicopatologiche non sono altro che l’espressione di questa immagine negativa, che comporta o l’assoggettamento dipendente o la ribellione colpevole.

In una prospettiva costruttivistica della personalità, l’immagine di sé non è mai immediatamente ricavabile dall’immagine che gli adulti hanno del bambino. Solo una lunga vicenda relazionale di conflitti, spesso ricostruibile in virtù dell’affiorare del disagio psichico, porta gli adulti a giudizi disperati. Chi non ha sentito genitori di disagiati affermare che il figlio è un folle, un criminale o che, in ultima analisi, se morisse sarebbe meglio per tutti? Proiettare queste conclusioni disperate sull’intera vicenda relazionale e ricavarne un vissuto costantemente e altamente negativo nei confronti del figlio è un arbitrio interpretativo. E’ la costruzione di un’immagine negativa interna di sé, che esprime l’attività del soggetto in rapporto alle interazioni ambientali, ad avviare la personalità in un vicolo cieco soggettivo e relazionale, al cui fondo l’individuo si trova a confrontarsi con le tre grandi paure e, spesso, con un’esplicita conferma della sua cattiveria da parte dell’ambiente.

L’importanza che è necessario accordare all’immagine interna di sé non comporta, però, come spesso accade, la sopravvalutazione dell’elemento psicologico. L’immagine interna si configura infatti come un giudizio globale che il soggetto enuncia su se stesso. Esso postula la definizione e la percezione di un mondo interiore, e l’applicazione, a questo mondo interiore, di un codice morale. Per quanto ciò possa sorprendere, anche l’immagine interna è un’ interpretazione del proprio mondo interiore alla luce dei criteri di giudizio che, essendo assunti irriflessivamente come naturali,, danno luogo ad un inganno realistico.

Questa premessa è fondamentale per capire l’importanza della terza fase, che va dai 7 agli 11 anni, ingiustamente considerata dalla psicoanalisi periodo di latenza, praticamente insignificante. E’ in questo periodo, infatti, che l’attrezzatura mentale di cui giunge a disporre il bambino lo pone in grado di strutturare una prima visione del mondo in senso proprio che investe sia il mondo esterno che quello interno e, su questo versante, dà luogo all’immagine interna di sé.

Non pretendo di poter neppure sfiorare una problematica vasta e, per alcuni aspetti, ancora oscura. Mi limiterò, dunque, ad alcune osservazioni, il cui interesse in rapporto al disagio psichico dovrebbe risultare evidente.

E’ alle soglie di questa fase che affiora un sentimento che avrà un peso decisivo in tutta la vita successiva: il sentimento della giustizia. Più spesso, come ha rivelato Piaget, questo sentimento si manifesta in virtù della percezione di ingiustizie (reali o immaginarie) perpetrate dagli adulti. Con tutta evidenza, il sentimento di giustizia postula l’intuizione dei propri diritti: in un certo senso, esso è una funzione del bisogno di individuazione. Senza esasperare il discorso, è lecito affermare che è alla luce di questo sentimento che il bambino valuta i codici comportamentali e morali che gli sono offerti, le costruzioni che ne seguono e le punizioni che investono le trasgressioni. Ma tutto ciò avviene in una condizione di sostanziale impotenza, per cui quel sentimento non può avere alcun significato correttivo del sistema di valori adottato dagli adulti. Se sopravviene un conflitto, il bambino non può uscirne che perdente: ma la rabbia che si produce in questa fase, proprio perché impotente, può avere ulteriormente degli esiti catastrofici, orientando il bambino verso la vendetta.

L’affiorare così precoce del sentimento di giustizia crea rilevanti problemi interpretativi, che possono essere risolti solo se noi vediamo in essa una sorta di asse strutturale che, ponendo il bambino in funzione critica nei confronti del mondo adulto, dà luogo alla fondazione di un sistema morale di valori, relativamente autonomo, destinato, da questo momento in poi, a crescere progressivamente. Ancora una volta, insomma, ci confrontiamo con un meccanismo destinato ad impedire che la trasmissione culturale funzioni con la rigida necessità nei confronti dei codici genetici. Naturalmente, questo meccanismo non va sopravvalutato, nel senso che esso, in sé e per sé, non affranca il bambino dalla possibilità di interpretare male la realtà. Esso inaugura un periodo di sviluppo, al termine del quale solo, nella tarda adolescenza, si definirà l’autonomia morale. Cionondimeno, sembra giusto insistere sul fatto che esso inserisce, nelle relazioni del bambino con il mondo, un’ulteriore dimensione conflittuale, e che l’evoluzione del conflitto è legata, in gran parte, alla flessibilità dei codici morali veicolati dagli adulti. Il codice dell’obbedienza cieca, per esempio, è messo in crisi dal sentimento di giustizia, che, non ricusando l’obbedienza come valore, la associa alla stima e al prestigio dell’autorità. L’incapacità di quel codice di accomodarsi ai nuovi bisogni del bambino è un fattore che avvia il conflitto in un vicolo cieco.

La percezione dei diritti personali è, d’altro canto, compensata dalla formazione, nel bambino, del senso del dovere, e cioè della responsabilità personale in rapporto alle proprie azioni. Alla dialettica giusto/ingiusto si associa, insomma, in questa fase, la dialettica bene/male, che, a livello di mondo interiore, dà luogo all’autonomizzarsi progressivo del senso di colpa del giudizio degli adulti. Ma, dato che il senso di colpa ha un rilievo assoluto in ambito psicopatologico, poiché è esso in fondo a negativizzare l’immagine di sé, non ci si può astenere da alcune considerazioni.

Va ascritto a Freud il merito di aver ricondotto tutta la psicopatologia al senso di colpa, inteso come espressione di un Super-io sadico. La scoperta è inconfutabile, ma l’interpretazione è contestabile. Il senso di colpa, così come si configura, nell’esperienza di disagio psichico, oppone sempre dei bisogni fondamentali - d’individuazione e di integrazione sociale - a codici morali la cui rigidità, strutturale, forza quelli ad esprimersi trasgressivamente, e, in virtù di ciò, li sanziona. E’ difficile attribuire la rigidità dei codici morali a un’attività del soggetto, mentre è più probabile che quella rigidità definisca la natura inerziale dei codici morali (propria, del resto, di ogni codice in quanto derivato dalla tradizione). Occorre pertanto distinguere, nella genesi del senso di colpa, almeno due momenti: il momento dell’introiezione del codice, inteso come assimilazione soggettiva, che conclude la fase eteronomia e avvia l’autonomia morale, e il momento in cui il codice, dopo aver riverberato negativamente su un mondo interiore in evoluzione, e dunque disordinato, giunge a confermarsi in virtù della necessità di tenere sotto controllo parti di sé che il soggetto vive come mostruose.

L’autonomia morale, intesa come processo che si inaugura nel corso della seconda infanzia, può avere insomma due esiti: il primo, è di indurre un accomodamento dei codici ai bisogni soggettivi, che coincide con una vera autonomia, e cioè con il sentire di avere una certa padronanza su di sé, di poter operare delle scelte relativamente libere e di assumere la responsabilità; il secondo, è di indurre una distorsione dei bisogni soggettivi, che diventano mostruosi, inducendo il soggetto a rinunciare alla libertà, e a difendersi da ciò che ritiene incontrollabile. In questo secondo caso, il soggetto rimane in una condizione di eteronomia interna: totalmente schiavo di codici che non sono stati affatto integrati, ma ai quali egli, e i suoi bisogni, ha dovuto adattarsi.

Questi processi che avvengono nel corso della seconda infanzia sono praticamente inapparenti, perché la soluzione dei problemi che essi pongono viene sistematicamente proiettata nel futuro, e associata al divenire grande.

Un ulteriore riflessione si impone, e riguarda il fatto che la visione del mondo - interno e esterno - che si articola nel corso della seconda infanzia e che - come vedremo - funzionerà come una matrice della visione del mondo adolescenziale, risente dell’orizzonte limitato all’interno del quale si svolge l’esperienza infantile: orizzonte limitato psicologicamente, socialmente e culturalmente. Il limiti psicologici consistono nella logica concreta con cui il bambino interpreta il mondo, e che induce spesso un realismo che fa corpo totalmente con i fatti. Per fare solo un esempio, un comportamento repressivo parentale non può essere interpretato che come una prova che i genitori sono cattivi, o, viceversa, che il bambino stesso è cattivo. Al di là di questi limiti psicologici, in virtù dei quali il mondo è visto con un ingenuo realismo, e, dunque, viene ad essere terribilmente semplificato, occorre considerare i limiti sociali e culturali. Il bambino non può esplorare che un minuscolo frammento del mondo, la sua vita svolgendosi tra la famiglia, la scuola e il gioco con i coetanei. Ma ovviamente un frammento può essere più o meno esemplare del tutto: può, insomma, aprire al mondo o chiudere entro una visione ristretta e inadeguata. L’incidenza dei quadri sociali e mentali entro i quali si articola l’esperienza del bambino assume un importanza estrema. Mi si permetta un solo esempio. Un padre operaio conduce una grigia esistenza di lavoro, che assicura alla famiglia appena il mantenimento. Egli può offrire al figlio una visione critica di questo modo di vivere, oppure può giustificarla in riferimento ad un’ etica che accetta la vita come una croce, un peso, un’espiazione. In questo caso, se il bambino partecipa di questa visione del mondo, egli si orienta verso una percezione grigia e vuota dell’esistenza: il mondo come insieme di possibilità, che offre, in una certa misura, a ogni generazione l’arma del riscatto, rimane fuori dall’orizzonte psicologico. Rimangono, dunque, due possibilità: la depressione, per cui il bisogno di agire si demotiva (e, per es. porta il bambino a non capire che senso abbia studiare), o il prepararsi ad essere schiavo come il padre.

La quarta fase, la preadolescenza e l’adolescenza, rappresenta la chiave di volta dello sviluppo della personalità. Come ogni fase, essa ricapitola il passato, ma dà luogo ad una strutturazione.

Ha ragione Piaget nel sostenere che gran parte della letteratura psicologica, compresa quella psicoanalitica, ha banalizzato l’adolescenza, sottolineandone soprattutto gli squilibri e le contraddizioni. Come in ogni altra fase di sviluppo, gli squilibri non rappresentano altro che l’avvio d’una nuova genesi, che gravita verso una nuova struttura. E’ il loro significato funzionale, dunque, che occorre cogliere, per capire anche come e perché esso possa fallire.

Ha ragione, ancora, Piaget nello stigmatizzare la sottolineatura della rivoluzione affettiva ed erotica che caratterizza questa fase, prescindendo dagli sviluppi del pensiero, e, in senso più lato, dagli strumenti cognitivi e culturali. In effetti, sono nuove possibilità logiche che sottendono la rivoluzione adolescenziale. Per arricchire un discorso che, altrimenti, può rimanere formale, noi cercheremo di sottolineare prima il significato funzionale della crisi adolescenziale e, successivamente, esamineremo gli strumenti che determinano la crisi e la avviano verso una possibile soluzione.

Il termine crisi è più che mai giustificato: nel corso dell’adolescenza, il bisogno di individuazione si esalta, entrando in conflitto con l’integrazione familiare. Da questo punto di vista, l’adolescenza è un’ennesima e decisiva guerra di indipendenza, che serve a sancire i confini dell’io e a definire il potere autonomo del soggetto sul suo mondo interno: premessa, questa, da cui dipende l’aumento del potere sul mondo esterno. C’è una certa ebbrezza nell’adolescenza, spesso associata al vissuto di poter disporre finalmente della propria mente, e di poterla usare per progettarsi nel mondo. Questa ebbrezza è solo in parte giustificata. Indubbiamente, l’adolescente giunge a disporre di strumenti cognitivi che lo affrancano dalla logica concreta della seconda infanzia e lo inducono ad elaborare ‘teorie’, a formalizzare il mondo - esterno e interno - in una visione il più possibile coerente.

Se si cerca la prova che lo sviluppo della personalità gravita verso la costruzione di una visione del mondo, è l’adolescenza che la fornisce, mettendo in luce contemporaneamente i pregi e i rischi dell’ideologizzazione. Il pregio è dato dal fatto che l’adolescente pensa, per alcuni aspetti, in maniera originale, contrapponendosi al realismo, talora un po’ grigio, degli adulti, e manifestando una capacità di azzardo teorico, il cui significato è di rimescolare le carte di una cultura che, altrimenti, si trasmetterebbe senza variazioni. Se ogni sistema culturale, infatti, tende a naturalizzarsi, e quindi all’inerzia, è l’adolescenza che, sul piano collettivo, introduce in esso una sorta di spirito ‘scientifico’ antelitteram, che induce a vedere nelle soluzioni proposte dal sistema problemi ancora aperti. Non sono io il primo a rilevare che, con il suo atteggiamento ipercritico nei confronti della realtà, l’adolescenza restituisce complessità a ciò che è realtà, in misura più o meno rilevante, semplificato dalle generazioni precedenti.

Ma il rischio di questa ideologizzazione è duplice. Per un verso, infatti l’adolescente si illude di pensare con la propria testa: se è vero, infatti, che egli opera con nuovi strumenti logici, che gli permettono di formalizzare il pensiero, non è meno vero che questi strumenti non possono prescindere dai quadri mentali veicolati dalle istituzioni pedagogiche e, in senso più lato, dalla società degli adulti. Ma questo nesso, che è evidente nelle società fredde e in quelle conservatrici, che impongono all’adolescente una visione del mondo fondata sul rispetto della tradizione, è divenuto oggi, nella società avanzata, più difficile da ricostruire, in virtù dell’ideologia di una libertà di pensiero che lascia sospettare forme più sottili e sotterranee di manipolazione familiare e sociale. Non occorre un grande sforzo per comprendere che questa ideologia maschera ben altro. Ogni società, essendo strutturata a livello mentale, e riconoscendo nei quadri mentali il fondamento della sua struttura sociale ed economica, tende all’inerzia, e cioè a difendersi da ogni manifestazione umana che fa incombere su di essa il rischio della destrutturazione. A questa legge generale dell’equilibrio, ovviamente, ogni società risponde in maniere specifiche: le società fredde e quelle conservatrici utilizzano la repressione della devianza, le società calde invece forzate ad ideologizzare e ad incorporare la minaccia del cambiamento.

Mi si permetterà una breve trasgressione. L’evoluzionismo, il marxismo e la psicoanalisi, al livelli diversi, hanno introdotto nella civiltà occidentale minacce di destrutturazione. Ci si può chiedere, a distanza di un secolo, quale sia stato l’esito di questa minaccia. La risposta sorprendente è che esse sono state metabolizzate. L’evoluzionismo ha finito con il giustificare l’imperialismo, il razzismo e la disegluaglianza sociale; il marxismo è stato utilizzato per introdurre nel sistema elementi correttivi che, salvaguardandolo, estinguono la carica rivoluzionaria di quello; la psicoanalisi, divenuta moda culturale, anziché decentrare l’io, è giunta a rafforzare uno psicologismo di piccolo cabotaggio, che permette, acquisiti alcuni schemi di pensiero, di comprendere tutto l’uomo.

La digressione non è fuori luogo, in riferimento alla teoria della personalità, ché se ci si chiede quale sia la fase dello sviluppo che postula un atteggiamento critico e un desiderio radicale, la risposta è ovvia: l’individuazione, ricapitolando una costante dello sviluppo, e cioè la tendenza all’opposizione, funziona, nelle società calde, come una minaccia che non può prescindere da qualche forma di cooptazione.

Ci si può chiedere, dunque, che cosa, nell’ambito della nostra civiltà, vicari i riti di iniziazione che, in altre sancivano l’ingresso nel mondo adulto. E’ fuori di dubbio che oggi questi riti si esercitano a livello di socialità spontanee, nei gruppi di adolescenti. Ma occorre tener conto che, mentre il termine socialità spontanee lascia pensare a manifestazioni di libertà, quello che è evidente è che, svincolandosi dal controllo parentale, l’adolescente paga il suo tributo ad altre forme di controllo.

Lo stesso svincolamento dai legami parentali non è privo di problemi. La crisi adolescenziale necessariamente corrisponde, oggi, ad una crisi del sistema familiare. Una delle chiavi dello sviluppo, e cioè la perdita di controllo dei genitori sulla mente e sulla vita del figlio, assume, in un sistema le cui possibilità relazionali sono praticamente indefinite, una coloritura drammatica.

Ciò è assolutamente evidente in rapporto a due comportamenti ‘squilibrati’ che, solitamente, hanno un qualche rilievo biografico nella ricostruzione delle esperienze di disagio: lo stare troppo fuori casa e, viceversa, lo stare troppo in casa. Nel primo caso, la famiglia è in crisi per l’angoscia dell’estraneo, riferita alle relazioni incontrollabili che il figlio intrattiene e che evocano costantemente il fantasma delle ‘cattive’ compagnie. Nel secondo caso, il ripiegamento su di sé del figlio dà luogo all’angoscia dell’asocialità, della solitudine e delle difficoltà di inserimento sociale. In ambedue i casi subentrano tentativi di manipolazione correttiva, che, spesso, conseguono effetti paradossali, e che, nel loro complesso, definiscono la difficoltà di dare un senso funzionale agli squilibri della crescita e pongono in luce un modello normativo totalmente centrato sulla ‘misura’.

Ma la socialità spontanea, qualora essa si realizzi, è attentata non solo dai modelli familiari, ma anche dai miti sociali, ai quali gli adolescenti aderiscono come se fossero un prodotto della loro libertà. Il più potente di questi, forse, è il sistema della moda in senso lato, messo a punto, e continuamente alimentato, dalla cultura industriale, che ha scoperto l’adolescenza come fascia di utenza privilegiata. Non oso inoltrarmi in un ambito di discorso che eccede le mie competenze. Ma uno studio sia pur superficiale della pubblicità rivolta alla fascia adolescenziale, e che ormai investe molti prodotti (abbigliamento, cosmetici, alimenti, ecc), spiegherebbe a sufficienza la precocizzazione dei comportamenti adolescenziali, che gravitano ormai verso una vera e propria ostentazione ‘innaturale’ di maturità. Gran parte di questa pubblicità esalta l’estroversione, la gioia di vivere, la socialità spontanea, l’indipendenza e - last but not least - l’erotismo, giungendo a proporre un modello normativo che sembra totalmente impregnato del principio di piacere.

Non ignoreremo certo altre strutture sociali che si fanno carico dell’iniziazione, e che vanno dai movimenti religiosi a quelli politici. I quadri mentali offerti agli adolescenti, in maniera più o meno esplicita, sono insomma molteplici: ma non dovrebbe sorprendere se essi tendono, con fini e strumenti diversi, alla cattura del consenso, piuttosto che alla maturazione critica.

Se oggi, più che mai, l’adolescenza appare un’età ingrata, ciò è meno per il suo carattere intrinsecamente travagliato, che per la confusione culturale che investe i problemi che essa deve affrontare, e che deriva dalla coesistenza, nell’ambito di una stessa civiltà, di diversi quadri mentali, stratificatisi e intersecantesi.

Questa premessa, un po’ lunga e - temo - molto approssimativa, è però necessaria, almeno sul piano metodologico, a capire quali difficoltà incontri l’adolescente a pervenire ad una visione del mondo coerente e funzionale. Le tematiche, infatti, che si mettono in movimento nel mondo interno e nella vita relazionale non possono essere organizzate che in virtù della definizione di un codice morale. Ma i codici morali, intesi anche nel loro aspetto psicologico di dover essere, di modelli normativi, non sono mai prodotti dall’individuo, bensì sono sempre acquisiti e personalizzati. Occorre, dunque, tener conto dei dati dell’esperienza personale che danno luogo all’elaborazione, dei processi di formalizzazione dovuti ai nuovi strumenti logici, e ai codici con i quali il soggetto si confronta. Ovviamente tutta questa vaste problematica non può essere, per ora, che affiorata. L’approfondiremo successivamente alla luce del materiale clinico, ma alcuni aspetti vanno sottolineati

L’autonomia, intanto, è già un problema in sé e per sé. Se è vero infatti che il confonderla, come ormai accade a livello di linguaggio corrente, con l’indipendenza è il portato di una troppo lunga mortificazione socio-storica dei bisogni di individuazione, che induce ormai ogni soggetto a sentirsi libero nella misura in cui non è sottomesso ad un altro, non è meno vero che il ricondurla, come fa Piaget, al suo significato etimologico di capacità di darsi una legge, di autoregolarsi, è un po’ astratto, perché dà al soggetto un potere legislativo ch’egli, con evidenza, non ha mai.

In senso morale, l’autonomia è la capacità di darsi una legge scegliendola all’interno di codici precostituiti: la libertà del soggetto, insomma, non si esercita nel legiferare, bensì nell’esser fedele alla legge che accetta. Ma ciò lascia intendere che l’appropriazione della legge dipende in gran misura dalla storia individuale del contatto col mondo delle regole, dal potere esercitato dagli adulti nella fase eteronomia, e anche dalla corrispondenza dei codici ai bisogni umani. Si può capire in quale misura il passaggio all’autonomia sia reso difficoltoso o compromesso laddove il soggetto, fino all’adolescenza, è stato spinto ad alimentare fantasie di libertà totale e incontrollate. In questo caso, tra legge, regola o valore e libertà personale si determina un conflitto irriducibile, la cui conseguenza è di inattivare il meccanismo che presiede all’esercizio della libertà: e cioè l’atto volitivo, inteso come processo decisionale che sceglie tra due diverse tendenze.

Le conseguenze di un distacco nell’acquisizione dell’autonomia sono molteplici. La più importante in assoluto è che il rifiuto di darsi una legge non promuove la libertà, bensì si traduce nella persistenza di una condizione eteronomica. Condizione vissuta con estrema angoscia, perché riferita non più ad un’oppressione esterna, bensì interna e, dunque, fantomatica. Lo scatenarsi della rabbia contro questa limitazione della libertà consegue due effetti: da una parte, l’immagine del soggetto, se già non era negativa, si negativizza, e giunge a configurare i fantasmi configurati dalle grandi paure psicologiche; dall’altro, la rabbia, associandosi ormai a una condizione di potenzialità, tende ad esprimersi, il più spesso sotto forma di atti di rottura il cui significato dovrebbe essere liberatorio in rapporto alla dittatura interna.

L’associazione di questi due effetti è una delle chiavi, forse la più importante, del disagio psichico. Ché, essendo l’atto di rottura intrinsecamente motivato, e dunque soggettivamente giustificato, esso non può essere colto sul piano della responsabilità oggettiva come un errore, quali che siano le sue conseguenze.

L’immagine negativa interna, minacciata da un livello straordinario di sensi di colpa, comporta infatti come estrema conseguenza paradossale, l’impossibilità di riconoscere l’errore, dato che questo, funzionando come goccia che fa traboccare il vaso, determinerebbe una catastrofe psichica.

Il problema dell’autonomia investe tutti gli ambiti della vita interiore e della vita di relazione. Esso, intanto, postula una riorganizzazione del passato nel presente: se il passato è gravato da memorie intollerabili, l’autonomia si configura come cancellazione. Questo livello è il livello di seconda fondazione dell’inconscio, da cui la soggettività può affiorare come autoinganno sistematico.

Ma l’autonomia investe anche la vita di relazione, poiché la categoria fondamentale che essa introduce, che è quella del dovere e del piacere, riverbera su tutti gli ambiti di integrazione sociali: l’affettività, la sessualità, lo studio, il lavoro, ecc.

In conclusione - conclusione frettolosa che necessiterà di ulteriori approfondimenti - l’adolescenza esita in una visione del mondo - interno ed esterno - in rapporto alla quale il soggetto elabora una progettazione di sé. La struttura, più o meno aperta alla visione del mondo, decide degli obiettivi che il soggetto si pone. Ma non è azzardato affermare che gli obiettivi sono sempre in qualche misura riferibili ai bisogni fondamentali. Sono le strategie adottate a determinare il conseguimento o meno degli obiettivi. Se le strategie difettano di meccanismi autocorretivi - dalla capacità di riconoscere gli errori e di apprendere da essi - l’esperienza del soggetto si avvia nel vicolo cieco del disagio psichico.

 

V. Teoria della personalità e disagio psichico

Se, nel ricostruire la genesi della personalità, ci siamo limitati alla fase che si suole definire evolutiva, ciò non significa che, al di là di essa, l’attività costruttivistica viene meno. I bisogni fondamentali di individuazione e di integrazione sociale urgono nel corso di tutta la vita: ogni individuo, in una qualsivoglia fase della vicenda, non fa altro che tentare di costruirsi un mondo il più soddisfacente possibile.

Ma c’è una differenza qualitativa tra la fase evolutiva e quella successiva: nella prima, sottoposto a sollecitazioni interne legate alla maturazione e a pressioni pedagogiche in rapporto alle quali è permeabile, il soggetto è costretto, in qualche modo, a tendere verso equilibri di livello più elevato; al di là della fase evolutiva, viceversa, egli, proprio perché ha raggiunto una visione del mondo - interno ed esterno - che ha una sua coerenza, può chiudersi, e cioè mirare sistematicamente a mantenere l’equilibrio raggiunto, estinguendo selettivamente sia le sollecitazioni interne che quelle che provengono dall’ambiente.

Se è vero che ogni personalità non può fare a meno di un’attrezzatura ideologica, che metta un po’ di ordine in un universo infinitamente complesso, è pur vero che questa necessità rappresenta, al tempo stesso, la forza e la debolezza della mente umana. La forza, perché è assolutamente sorprendente che, nel giro di due decenni al massimo, ogni individuo giunga ad elaborare una teoria, più o meno implicita, che investe praticamente tutti gli aspetti della realtà fisica, psicologica e sociale. La debolezza, poiché questa teoria, cui ogni individuo assegna un grado di verità molto elevato, è, il più spesso, l’espressione di vissuti personali, microstorici, che vengono formalizzati, e cioè universalizzati, in virtù di codici mentali attinti dalla tradizione, e integrati alle strutture cognitive e affettive.

La forza della tendenza della mente a teorizzare è evidente più a livello collettivo che individuale, e, in particolare, in due fenomeni che, in misura diversa, caratterizzano ogni società, e che sono i "quadri mentali" che sottendono e interagiscono con le strutture socioeconomiche, e la "scienza", costantemente rivolta a mettere in discussione quei quadri mentali (di cui, purtroppo, essa rimane sempre, comunque, debitrice). A livello individuale, la teorizzazione funziona quando essa fa capo ad una struttura di personalità relativamente aperta, capace, cioè, anche al di là della fase evolutiva, di accettare le anomalie, vengano esse dal mondo interno o da quello esterno, e di misurare, a partire da queste, ad una ristrutturazione della visione del mondo.

La debolezza della tendenza ideologica della mente umana è, altresì, evidente sia nei casi in cui, a livello collettivo, essa si traduce in quadri mentali francamente pregiudiziali, che sembrano insensibili a ogni verifica, sia nei vicoli ciechi ideologici che sottendono le esperienze di disagio psichico.

Naturalmente, questa distinzione, tra forza e debolezza della tendenza ideologica della mente, è, se non artificiosa, schematica. Si potrebbe, infatti, dimostrare che tra la serie di fenomeni citati esistono rapporti reciproci: al limite, lo stesso pensiero scientifico, quando si normalizza (nel senso di Khun), può diventare una formidabile costrizione mentale, mentre un sistema delirante può, nella sua trama di bisogni, alludere ad un mondo possibile, e configurarsi come un’affascinante utopia. Ma - confessiamolo - sottigliezze di questo tipo lasciano il tempo che trovano, poiché prescindono da un dato essenziale: qualunque visione del mondo, qualunque teoria va valutata non con il metro di misura di un’astratta verità, bensì dalla sua capacità di affrontare e risolvere i problemi che essa si pone. Da questo punto di vista, un pregiudizio collettivo può essere efficace perché serve a mantenere un certo ordinamento sociale, mentre un sistema delirante non affranca l’individuo dai problemi che mira a risolvere.

Il disagio psichico è un vicolo cieco ideologico in cui finisce una vicenda umana. Esso va esaminato da un punto di vista strutturale e da un punto di vista genetico: vedremo che a tutti e due questi livelli, senza una teoria della personalità è impossibile comprendere alcunché.

Il punto di vista strutturale consiste nel chiedersi la funzione che assolve il disagio psichico nel contesto di un’esperienza personale. Per quanto si possa essere scettici, la risposta è che, producendo un disagio psichico, quale che sia la forma che esso assume, la mente non fa nient’altro che perseguire quello che appare il suo obiettivo costante: risolvere i problemi che ostacolano la soddisfazione dei bisogni fondamentali. In un certo senso, ciò che Freud ha intuito e affermato, essere la malattia null’altro che un tentativo di guarigione, si può ritenere provato, oggi, in rapporto a tutto l’universo psicopatologico, ma al di là di quanto Freud riteneva. Il tentativo di guarigione non riguarda infatti una pretesa fissazione a fasi arcaiche dello sviluppo pulsionale, bensì la configurazione alienata che alcuni problemi, connessi ai bisogni fondamentali, vengono ad assumere nel corso dello sviluppo, in conseguenza dell’attività costruttiva della mente, che - lo sappiamo - elabora i dati di cui dispone. Un esempio, già noto, permette di comprendere meglio quell’aspetto. Infinite sono le circostanze ambientali e interpersonali in virtù delle quali, nel corso dell’evoluzione, un soggetto può giungere ad identificare la sua libertà nell’incontrollabilità, e cioè nel rifiuto o nell’infrazione di ogni regola, vissuta come mortificante l’individuazione. Noi sappiamo che questo è un vicolo cieco dell’esperienza soggettiva, poiché impedisce al soggetto di raggiungere l’autonomia, che è l’espressione completa dell’individuazione. Ma, nel momento in cui il problema della libertà si configura in termini di incontrollabilità, la struttura della personalità corre il rischio di squilibrarsi: chè il prezzo dell’incontrollabilità è l’esclusione sociale, cioè la perdita totale di libertà. Come può essere reintrodotto il bisogno di autonomia in questa struttura che è stata fuorviata fino al punto di misconoscerlo?

La mente non dispone, a questo fine, che di alcune strategie, la cui entrata in azione scongiura il pericolo, ma si traduce in disagio psichico.

La prima è la minaccia psicosomatica, che funziona come una potente briglia, che viene tirata ogni qualvolta l’individuo tenta di abbandonarsi a degli eccessi. La seconda è l’ipercontrollo interno, in pratica la sovrastruttura ossessiva, che obbliga l’individuo a fare ciò che non vuole e a non fare ciò che desidera. La terza, la più drammatica, è il controllo dell’esterno, il controllo sociale che si instaura soggettivamente sotto forma di persecuzione. Si tratta di tre strategie che, utilizzando i sensi di colpa, tentano di reintrodurre nella struttura della personalità il bisogno di autoregolazione.

Per ora, non importa entrare nei dettagli, ché i problemi teorici sono vastissimi. Ciò che importa è comprendere che, anche nel produrre sintomi e sindromi, la mente funziona perseguendo l’obiettivo di risolvere dei problemi. Da questo punto di vista, non è affatto azzardato, su un piano epistemologico, sostenere che la mente non ammala mai, poiché essa funziona sempre con scopi conservativi e riequilibranti. Che il raggiungimento di questi scopi possa dar luogo ad esiti paradossali non mette in discussione il funzionamento della mente bensì la configurazione che, nelle trame di una vicenda personale, hanno assunto alcuni problemi fondamentali per la realizzazione di sé. E’ evidente dunque che, se si vuole comprendere la genesi e la struttura del disagio psichico, è la costruzione della personalità, in tutti i suoi aspetti, il piano di ricerca da cui occorre muovere.

Il punto di vista strutturale - in rapporto al quale il disagio psichico viene analizzato come un tentativo di conservazione e di riequilibrio della personalità - è, dunque, indissociabile dal punto di vista genetico. Ma l’approccio genetico non solo non può prescindere ma postula una teoria della personalità, ché la ricostruzione del passato d’una sola esperienza umana comporta l’accumulo di una quantità di dati - testimoniati, vissuti ed elaborati retrospettivamente - tale che frustrerebbe ogni tentativo di organizzazione, se la ricerca non fosse orientata da alcuni presupposti teorici. Il problema, da questo punto di vista, è che i presupposti teorici non solo possono orientare la ricerca, ma anche permettere sistematicamente di trovare ciò che si cerca, si tratti di fantasmi distruttivi, dell’Edipo, di doppi legami comunicativi o di errati apprendimenti. Non penso che questo problema sia facile da risolvere: ma assumere i bisogni di individuazione e di integrazione sociale come leva dello sviluppo, vedere nel loro animarsi e nella tensione dialettica che li caratterizza la chiave degli squilibri che inaugurano le diverse fasi dell’evoluzione della personalità, e, infine, individuare cause ambientali che hanno ostacolato o distorto l’organizzazione dei bisogni, orientando l’attività soggettiva verso vicoli ciechi ideologici, mi sembra il modo più aperto ad un’incessante ricerca di affrontare la genesi del disagio psichico. Quest’affermazione, nonché assiomatica, può essere arricchita di argomentazioni.

La teoria della personalità esposta, formalmente ispirata al genetismo strutturale piagetiano, si caratterizza, a mio avviso, per due aspetti che hanno scarso rilievo nella teoria di Piaget. Il primo è che, pur essendo costruttivista, e assegnando alla soggettività un ruolo attivo nella elaborazione del mondo - interno ed esterno - che rappresenta l’attrezzatura mentale della personalità, su cui si fonda la progettazione di sé, essa postula alla base di quell’attività due bisogni fondamentali che sarebbero iscritti nel corredo genetico: il bisogno di individuazione e il bisogno di integrazione sociale. Assumendo questi due bisogni con fattori dinamici dello sviluppo, l’uno centripeto, l’altro centrifugo, la dialettica dello sviluppo, nelle sue fasi di squilibrio, che segnano il conflitto tra quei bisogni, e nelle sue fasi di riequilibrio strutturale, che ne segnalano l’organizzazione, si configura come una necessità il cui significato evolutivo è evidente, poiché essa affranca l’individuo, e l’umanità, dal duplice rischio di una chiusura monodica e di una passiva cooptazione sociale. Ma questa dialettica, proprio perché attraversa delle fasi di squilibrio, comporta il rischio, anziché risolverli, possono esasperare i conflitti tra i bisogni fondamentali.

Il secondo aspetto consiste nel dare al costruttivismo un significato storico, nel senso che, pur riconoscendo nei dati dell’esperienza personale i materiali da cui muove l’elaborazione della visione del mondo e nei poteri cognitivi gli strumenti che permettono questa elaborazione, si ritiene che una visione del mondo non possa mai esser costruita se non entro quadri mentali veicolati dalle istituzioni con cui l’individuo viene a contatto nel corso della fase evolutiva. Ogni costruzione genetica di una visione del mondo personale postula, pertanto, la capacità di mettere a fuoco quei quadri mentali, spesso diversi, e di comprendere come l’individuo li ha utilizzati in rapporto ai dati della sua esperienza.

Rispetto ad altre teorie della personalità, che oscillano tra paradigmi indeterministici e paradigmi deterministici, la teoria esposta può essere definita possibilistica, poiché essa postula che le due strutture - il corredo genetico e l’ambiente culturale -, che definiscono i limiti di ogni esperienza umana, non sono altro che insiemi di possibilità, originariamente disarticolati, in rapporto ai quali l’attività soggettiva si pone come variabile intermedia, rivolta ad integrare quelle strutture per giungere a soddisfare, nel migliore dei modi possibili, i bisogni fondamentali di individuazione e di integrazione sociale. Il possibilismo introduce, nella ricostruzione genetica della struttura di personalità, un atteggiamento autenticamente scientifico poiché il filo rosso della dialettica dei bisogni fondamentali avvia, in rapporto ad ogni esperienza, una ricerca che rinuncia ad ogni schema predeterminato e mira ad individuare le fasi e le circostanze che hanno avviato quella dialettica in un vicolo cieco soggettivo. Ciò significa che è la globalità dell’esperienza umana ad essere presa in considerazione, alla ricerca di quelle che possono essere considerate le chiavi strutturali del disagio psichico: la costruzione di un’immagine negativa interna e l’impossibilità, che spesso ne consegue, di dotarsi di un codice morale che, realizzando l’autonomia, fonda la libertà.

Alla luce della teoria della personalità esposta, il metodo microstorico, rivolto a ricostruire l’interazione complessa e perpetua tra attività soggettiva e quadri mentali sottesi alle strutture sociostoriche all’interno delle quali si svolge l’esperienza individuale, non si configura come un’attestazione di principio, bensì come uno strumento autentico di indagine contestuale interminabile

 

Note di lettura e suggerimenti

Il discorso avviatosi l’anno scorso procede, com’è giusto che sia, trattandosi di una ricerca, a spirale. Il nucleo teorico della ricerca è sufficientemente delineato. Ma, se dovessi avanzare un’autocritica, direi che i seminari dell’anno scorso, ricchi di problemi più che di soluzioni, si configurano formalmente come strutture chiuse. Penso che sia il motivo per cui, nonostante gli intenti originari, non si è riuscito ad avviare un lavoro di approfondimento. Il cambiamento è possibile, sia sul piano della ricerca in atto che retrospettivamente. Queste "note di letture, ecc." sono delle schede, che raccolgono un materiale che non può trovare adeguata sistemazione nella cornice di un discorso compiuto, ma che mi sembrerebbe arbitrario tener da parte. L’apertura che esse consentono è praticamente indefinita. Ogni seminario diventa, in virtù di esse, una struttura aperta, sulla quale si può lavorare. Penso che schede di lettura, di commento e di aggiornamento possano essere elaborate anche per quanto riguarda i seminari dell’anno scorso. E’ un impegno che mi assumo, e che si traduce in un invito, rivolto a tutti, ad arricchire un sapere sempre povero e incerto rispetto alla globalità dell’esperienza umana. L’uomo, questo sconosciuto, è un assioma ancora valido e, se si assume una prospettiva storica, destinato a rimanere sempre tale. Ciò non autorizza, però, a confondere l’inconoscibile con l’ignoto.

 

Prematurazione

Per prematurazione s’intende, com’è noto, la condizione di totale inattitudine del neonato umano, che si prolunga in una dipendenza che dura almeno sino all’epoca dell’adolescenza.

Il significato evolutivo della prematurazione è ormai accertato: essa, infatti, è il fondamento della plasticità strutturale e funzionale del sistema nervoso. Strutturale, poiché

L’integrazione dei centri nervosi postula un apprendimento; funzionale, poiché essa definisce la qualità più specificamente umana, l’educabilità. Allettando, senza eliminarle, le constrizioni genetiche, la prematurazione fonda la possibilità di un’evoluzione culturale. Ma la libertà potenziale che consegue al venir meno dei rigidi meccanismi istintuali va pagata al prezzo di costrizioni sociali - la famiglia, anzitutto - che investe in essa notevoli energie per un lungo periodo di tempo.

Tra prematurazione e dipendenza dell’infante e struttura sociale è probabile che si sia instaurato, nel corso dell’evoluzione, un rapporto di casualità circolare: la prematurazione avrebbe favorito lo stabilizzarsi della struttura familiare, e questa, a sua volta, avrebbe consentito il graduale allungarsi della dipendenza.

Ma, come tutte le interazioni, anche questa avrebbe i limiti insormontabili, valicati i quali si produrrebbero effetti paradossali.

Un limite, inferiore, è dato dal grado di costrizione esercitato dalla prematurazione quando essa, con il suo carico di bisogni, viene a pesare praticamente su di una sola persona o sulla coppia parentale. Ciò avvenne nelle società avanzate che, nuclearizzando la famiglia, giungono a identificare la ‘funzione’ materna con la maternità biologica.

Azzardo sociologico, le cui conseguenze sono evidenti in virtù della diminuzioni della natalità e nei sempre più frequenti episodi psicopatologici del puerperio e nel corso del primo anno di vita del bambino.

C’e da chiedersi quanti rifiuti ‘inconsci’ della maternità dovranno ancora essere diagnosticati e quanti vissuti d’abbandono, più o meno disastrosi, registrati nei figli prima di prendere atto che la famiglia nucleare non può funzionare, se non come struttura ad alto rischio. Ma c’è, anche, un limite superiore: il prolungarsi della dipendenza al di là dei limiti naturali. Questo può accadere per motivi psicologici, ma si tratta di una quota irrilevante rispetto ai casi in cui incidono motivi sociologici, e, in particolare, il prolungarsi degli studi universitari ben al di là della adolescenza, le aspettative familiari e individuali di un buon inserimento sociale comportano, oggi, una dipendenza che vien meno solo tra i 25 e i 30 anni. Il ritardo del parto sociologico rispetto a quello psicologico ha degli effetti che è dato intuire, ma che, in molti casi, sono senz’altro negativi, ché la dipendenza economica non è né può essere mai solo economica. L’associazione della famiglia nucleare per un verso, e di una dipendenza che eccede di gran lunga i limiti naturali rappresentano una novità sperimentale prodotta dalle società cosiddette avanzate. Per molti aspetti, quest’associazione si può ritenere una miscela di contraddizioni esplosive.

Si consiglia la lettura della voce "Educazione" di Philip Ariès nell’enciclopedia Einaudi (vol. V).

Il significato evolutivo della prematurazione e dell’apertura che essa comporta nel programma genetico, è tratteggiato magistralmente nel capitolo conclusivo de "La logica del vivente) di Francois Jacob (Einaudi, Paperbacks, ’71).

 

Il bambino come oggetto proiettivo

Ogni cultura è sottesa da una concezione antropologica, che concerne l’essenza dell’uomo. Il più spesso, questa concezione è adultomorfa, muove cioè da dati ricavati dall’esperienza adulta che gli uomini hanno del mondo, che vengono elaborati per ricavarne una teoria. Dato il carattere totalizzante che questa assume, non sorprende che essa venga proiettata sul bambino e si traduca in codici di allevamento ed educativi. Le scienze che hanno come oggetto del bambino, nonostante abbiano prodotto numerosi progressi nella conoscenza della verità infantile, non sono immuni dal rischio dell’adultoformismo, soprattutto per quanto riguarda le fasi primarie dello sviluppo, che si prestano particolarmente alle proiezioni, essendo il bambino praticamente muto sotto il profilo comunicativo linguistico. In alcuni casi, l’impressione è che essa, non sempre consapevolmente, diano addirittura una versione scientifica di antichi pregiudizi collettivi.

Per confortare questa ipotesi, mi limiterò ad un solo esempio, significativo soprattutto sotto il profilo metodologico. Una pratica secolare di allevamento è quella della fasciatura, in virtù della quale i bambini, praticamente fino all’epoca della deambulazione, venivano sorretti sino al collo da bendaggi che impedivano ogni movimento degli arti. Questo metodo che, a quanto mi risulta, è ancora in uso in alcune zone depresse dell’Italia, assolveva due funzioni: scongiurava il pericolo che i bambini crescessero ‘storti’ e impediva che essi potessero farsi del male (graffiarsi a sangue, cavarsi gli occhi, ecc.). le origini di questa pratica, presente in molte culture, non sono chiare ed è presumibile che non siano neppure univoche. In essa, forse, è da riconoscere in intreccio, peraltro variabile, di fantasmi sociali e di problemi reali. Nelle zone depresse d’Italia, soprattutto per quanto riguarda il passato, sembra certo che i presunti comportamenti autodistruttivi si configurano come manipolazioni dovuti alla fame.