SOGNO, MENTE, MENTALITA'


1. Premessa

2. Il sogno da un punto di vista psicofisiologico

3. La rivoluzione incompiuta . Un sogno di Freud

4. L'esperienza onirica come strumento di indagine microstorica

5. Il sogno come chiave strutturale dell'esperienza psicopatologica:

Sogno del pilota automatico

Sogno dello strano negozio

Sogno del quadro

Sogno del lager

Sogno dell’ascensore

6. Sogno, mente, mentalità


1. Premessa

Dedicare attenzione al sogno e, dunque, all'attività mentale inconscia, può apparire, nell'ambito della nostra ricerca, una sorta di cedimento psicolo gistico o, peggio, un esercizio intellettualistico. In realtà, le premesse di questo seminario esistevano da tempo: da quando si affermò che Freud, muovendo dall'ipnotismo, scoprì l'inconscio come deposito di memorie e introdusse in psichiatria la dimensione della storicità soggettiva. Sappiamo per quali limiti storici e culturali egli fu indotto a svuotare di significato, poi, questa dimensione, ricostruendola da un punto di vista fantasmatico.

Avendo assunto un punto di vista microstorico, che individua nella soggettività una variabile intermedia tra i bisogni umani, iscritti nel corredo genetico, e le strutture sociali e mentali, all'interno delle quali evolve la personalità, non ci si può esimere dal chiedersi se questo punto di vista investa l'attività mentale inconscia, e, in particolare, il sogno, che ne rappresenta l'espressione più articolata. Verificare questo o meno si può ritenere di fondamentale importanza ai fini della fondazione di una nuova scienza del disagio psichico, che non abbia bisogno di ricusare la soggettività, pur nelle sue pieghe più intime, per sfuggire al ricatto psicologista. Diamo, dunque, anzitutto a Cesare ciò che è di Cesare.

In virtù dell'interpretazione dei sogni, Freud ha scoperto che l'attività mentale non si esaurisce nei confini della coscienza, che l'attività mentale inconscia tende costantemente ad organizzare, a dare senso e a restituire alla coscienza un capitale di memoria arbitrariamente esclusa dalla sua integrazione e, dunque, dalla visione del mondo in cui essa si esprime, e che, infine, tra le due sfere dell'attività mentale, quella cosciente e quella inconscia, esistono rapporti di interazione causale ben più importanti di quanto si riteneva in precedenza. Nessuna di queste scoperte, in sé e per sé, si può ritenere assolutamente originale: ma, nel loro insieme, e nell'uso teorico che Freud ne fa, esse rappresentano una concezione affatto nuova dell’uomo sotto il profilo mentale.

Con Freud, la mente giunge ad essere intuita per quello che essa é: un sistema più vasto, articolato e dialettico di quanto appare alla coscienza. Il limite della teoria freudiana sta nella risposta che essa fornisce al quesito più banale che pone la scoperta di questo sistema: a che serve?

Secondo Freud, questo sistema serve a tradurre in istanze psicologiche - i desideri - pulsioni biologiche, e nell'assoggettare queste, che non riconoscono altra legge che non sia la soddisfazione, al principio di realtà, che ne comporta la moralizzazione in virtù di una frustrazione. Il sogno, interpretato come espressione della logica dei desideri, che tendono ad appagarsi, è la conferma di questa ipotesi.

Io penso che questa ipotesi possa essere contestata utilizzando gli strumenti di indagine che Freud ha scoperto, arricchiti dai progressi delle scienze neuropsicologiche e di ciò che di nuovo, nell'ambito delle scienze storiche, si sta delineando sui rapporti tra esperienza mentale soggettiva e quadri mentali collettivi.

In breve, questo seminario persegue due scopi. In primo luogo, partendo dal presupposto che la coscienza svolge una funzione fondamentalmente ideologica, e che questa funzione è rivolta alla soluzione di problemi fondamentali per la soddisfazione dei bisogni, esso tenterà di dimostrare che il confine tra attività mentale conscia e inconscia è definito, più che dalle censure, dagli strumenti culturali di cui il soggetto dispone per organizzare il suo capitale di esperienza; e che l'attività onirica, nonché mirare all'appagamento dei desideri, tenta di riproporre i problemi esperienziali in termini che, essendo meno irrigiditi dall'ideologia, sono più adeguati a risolverli. Si suggerisce, insomma, una teoria della struttura e dell'attività mentale che dovrà essere adeguatamente sviluppata in futuro.

In secondo luogo, si tenterà di dimostrare che, a qualunque livello di esperienza mentale, il soggetto non può uscire dai recinti segnati dalla sua esperienza privata e organizzati dai quadri mentali collettivi veicolati dalle strutture sociali con le quali egli interagisce, soprattutto nella fase evolutiva.

Evidente a livello di struttura psicopatologica, questa verità viene confermata. dall'indagine dell’attività onirica. Anziché una libera attività della fantasia, il sogno si configura dunque come un ulteriore indizio sintomatico della dialettica tra bisogni umani, esperienza privata e quadri mentali collettivi .

E’ di questa dialettica, infine, che, nel progetto di ricerca perseguito, deve farsi carico una nuova scienza del disagio psichico.


2. Il sogno da un punto di vista psicofisiologico

Da non più di 30 anni il sogno è oggetto di incessanti indagini psicofisiologiche, il cui intento è di capire sia la fisiologia del sogno che la sua economia nel contesto dell’attività mentale umana. Gli elementi sicuramente acquisiti non sono molti, ma di fondamentale importanza.

Li riassumo brevemente:

l. il sogno corrisponde ad un terzo stato fisiologico rispetto al sonno e alla veglia, caratterizzato da un'intensa attività cerebrale, da rapidi movimenti oculari e da una caduta del tono muscolare. L’associazione di questi tre elementi caratterizza la cosiddetta fase REM del sonno.

2. Il sonno REM è presente in tutti i mammiferi, ma non in altre specie animali, il che significa che esso corrisponde ad un certo livello di integrazione delle strutture nervose

3. Esiste una relazione inversa tra età e durata del sonno REM: nel feto questo occupa il 100% del sonno, nel neonato il 50% del tempo complessivo di sonno, nell’adulto il 20-25%.

4. La durata media di un periodo REM è di circa 20 minuti: nel corso di una notte si succedono, ad intervalli piuttosto regolari, da 5 a 7 periodi.

5. Il sonno REM, con certezza, precede nello sviluppo l'esperienza onirica, che, come esperienza soggettiva, si associa progressivamente ad esso, utilizzando l'intensa attività cerebrale che lo caratterizza, e, nel corso dello sviluppo, si struttura e si organizza.

6. Il sonno REM, sotto il profilo fisiologico, appare corrispondere ad un bisogno biologico irrinunciabile: privazioni di sonno REM danno luogo, nei mammiferi e nell'uomo, ad un recupero proporzionale alla durata totale della privazione. Nell'uomo questo bisogno biologico è correlato al bisogno di esperienza psicologica onirica.

Da questi dati non è facile ricavare delle indicazioni univoche sull'economia del sogno nel contesto dell'attività mentale umana. L'ipotesi più probabile, sostenuta ormai da parecchi studiosi, è che esista un isomorfismo tra biologico e psicologico, nel senso che a tutti e due i livelli il sonno REM e l'attività onirica, che ad esso si associa progressivamente, funzionerebbero mantenendo attive certe potenzialità, fisiologiche e psicologiche, che, benché escluse dalla veglia e dall'esperienza cosciente, sembrano avere un ruolo complementare rispetto ad esse.

Da un punto di vista fisiologico, il sonno REM nel neonato, corrisponde ad una intensa attivazione delle strutture nervose necessarie al suo sviluppo. E' probabile che, anche al di là della fase ontogenetica, esso svolga un ruolo importante nel mantenere la plasticità della struttura stessa, e, in particolare, di quei circuiti che vengono poco o punto utilizzati nella veglia.

All’attività fisiologica, originariamente priva di senso si associano, progressivamente, a partire dalla primissima infanzia, contenuti psicologici, che si arricchiscono, si organizzano e si strutturano in rapporto allo sviluppo della personalità.

L'attività onirica sembra svolgere, in rapporto all'esperienza cosciente, la stessa attività complementare che il sonno REM assolve nei confronti della vigilanza. Ma si tratta di un’attività psicologica, e cioè di un'incessante lavoro di riorganizzazione e di rimodellamento di tutto il capitale soggettivo, dai contenuti esperienziali alle forme simboliche.

In un certo senso, coscienza e attività onirica risulterebbero, da questo punto di vista, i poli di una dialettica, atta a scongiurare sia un’eccessiva mortificazione ideologica del capitale mentale, come espressione del bisogno di coerenza della coscienza, sia una sorta di perenne confusione, quale risulterebbe dall'uso di tutte le potenzialità della mente.

Via via che la coscienza si struttura, anche l'attività onirica tende a strutturarsi, rimodellando i contenuti esperienziali esclusi dalla visione del mondo.

Viene da chiedersi quali fattori definiscano, all'interno di ogni personalità, il tipo e l’equilibrio di quella dialettica. E’ evidente che questi fattori sono individuabili negli strumenti culturali di cui dispone la coscienza per integrare, senza destrutturarsi, i dati onirici e, in senso lato, i dati dell'attività mentale inconscia. La barriera tra conscio e inconscio è meno un dato psicologico che culturale. Per verificare questa affermazione, di enorme portata teorica e pratica, cercheremo di vedere come questa barriera culturale funziona in colui che, per primo, l’ha violata.


3. La rivoluzione incompiuta. Un sogno di Freud

Il sogno in questione è quello la cui analisi occupa il secondo capitolo de L’Interpretazione dei sogni. La fama di questo sogno è dovuta al fatto che il sognatore, Freud stesso, gli attribuisce l’intuizione folgorante della logica onirica e dell'inconscio.

Il materiale che Freud ci offre ne permette una rivisitazione, che giunge a mettere in evidenza una trama di pensieri molto più articolata rispetto all'interpretazione che viene fornita, e, inoltre, totalmente tributaria del quadro mentale collettivo entro cui viveva Freud. Per semplicità di discorso, diamo per scontata un’attenta lettura del testo freudiano.

Nelle conclusioni, Freud enuncia una contraddizione che però fornisce la chiave di una nuova interpretazione. Egli sostiene, infatti, che il sogno è l'appagamento di un desiderio (formula che varrebbe per tutti i sogni, tanto che essa titola il capitolo successivo dell’opera); che il desiderio appagato dal sogno in questione è quello di non essere colpevole della malattia di Irma. Ma questo tema circoscritto si inserisce in un gioco di pensieri più ampio, che concerne la salute e la malattia, e il ruolo del medico e delle medicine. Il sogno si configura pertanto come un’arringa, nel corso della quale, l’accusato, Freud stesso, si discolpa, accusando la paziente e la medicina ufficiale.

In effetti, il sogno tenta di risolvere un problema drammatico: Freud si sente atrocemente colpevole, ma la colpa in questione sconfina dall’ambito in cui egli la circoscrive: le condizioni di Irma. Riguarda, invece, la teoria psicoanalitica come essa si andava configurando in quel periodo, e, più in particolare, la sessualità che la psicoanalisi intende liberare, avendo colto il significato patogeno della repressione, ma la cui liberazione, nell'inconscio di Freud, fortemente influenzato dalla mentalità, si configura al tempo stesso come farmaco e come veleno, come vaccino e come peste.

Ma la colpa di Freud dipende dal fatto che la mentalità di cui egli partecipa lo porta a temere che la psicoanalisi possa avvelenare e appestare l’umanità piuttosto che curarla e guarirla.

Scendiamo nei dettagli. Irma soffre, dunque, di una sindrome isterica, che Freud attribuisce alla giovane età e alla vedovanza, e cioè, in pratica, all’astinenza sessuale. Freud le ha proposto una soluzione che essa non ha accettato. Nonostante il riserbo di Freud, non occorre molta fantasia per capire quale sia la soluzione: maritarsi e avere una vita sessuale regolare. Ma Irma è riluttante ad accettare questa soluzione e, in pratica, ad assoggettare il suo corpo ad un uomo. Questa ribellione giustifica i dolori che essa ha, ma, al tempo stesso, la identifica con altre donne riluttanti: una giovane amica, vedova anch’essa, e la moglie di Freud.

Quest’ultima identificazione è sorprendente: se anche una donna sposata ha la sua sindrome isterica - i dolori al ventre, un ritegno eccessivo, la tendenza a rifiutare i rapporti, come è facile arguire - è evidente che la soluzione proposta da Freud è solo formale e mistificante. E che essa, in fondo, nonostante l’onestà freudiana, si riduce a proporre un vincolo coniugale, - l'assoggettamento della donna all'uomo - al quale si attribuisce la capacità di ridurre 1’isterismo femminile, non di convertirlo in equilibrio psicofisico. In breve, il problema della sessualità femminile è insolubile, poiché essa è, al tempo stesso, una droga e un’infezione.

Ciò che Freud vede, nel sogno, nella gola di Irma, richiama la difterite e l'uso della cocaina; ciò che i colleghi scoprono, visitando Irma, denuncia una tubercolosi. Condensando questi elementi, ciascuno dei quali ha un significato simbolico, è evidente che il fantasma che affiora, e che Freud non riesce a vedere, è quello della sessualità femminile come sifilide, come pericolo di contagio che incombe sulla società. La soluzione adeguata sarebbe quella proposta da un collega: liberarsi dai veleni della sessualità scaricandoli attraverso l'intestino, come materiali da eliminare. Una soluzione, dunque, ascetica, che restituirebbe all’umanità minacciata la salute, l’innocenza e la quiete.

Ma si tratta, ovviamente, di una soluzione impossibile, che va tradotta sul piano della realtà in un rimedio parziale. Questo rimedio, per Freud, è la famiglia, una struttura sociale che assoggetti il disordine della sessualità femminile al potere dell’uomo. Il rimedio trasforma la perdizione nel vizio (intrinseco alla natura femminile), in infelicità isterica (Freud non ignora, infatti, che l’isterismo crea sempre fantasie di piacere sfrenato, pagato a prezzo di frigidità. . . ), e pone l'uomo al riparo dai contagi.

Nella siringa sporca con la quale l'amico Otto infetta Irma e difficile non vedere l’allusione ad una vita disordinata. Ma, secondo Freud, la sifilide sta nella donna: tanto è vero che sono le prostitute, donne svincolate da un contratto matrimoniale, a diffonderla. Gli uomini sono solo veicoli: se ne contagiano e, a loro volta, la diffondono. Ciò che affiora, nel sogno, insomma, sono i fantasmi freudiani inerenti la sessualità, fantasmi totalmente impregnati dalla mentalità contemporanea, e che Freud non è in grado di analizzare.

E’ inutile sottolineare la potenza dei quadri mentali collettivi, vedendoli in azione nell’inconscio di uno scienziato rivoluzionario che sta cercando di violarli e di destrutturarli. Ciò che risulta chiaro è il dramma di Freud, l’assillo di una colpa che va ben al di là del relativo insuccesso conseguito con Irma.

Nel materiale onirico vi sono due episodi che permettono di decifrare questo dramma. L’uno, banale: la prescrizione di un farmaco, che passava per innocuo, e che aveva invece prodotto una grave intossicazione. L'altro, di importanza storica: dieci anni prima, Freud aveva scoperto le qualità analgesiche della cocaina e ne aveva consigliato l'uso terapeutico. Le conseguenze sono note, e la più tragica, sul piano personale, è rievocata da Freud: la cocaina, anziché una panacea per i dolori, si era rilevata una droga ad effetto, talora, letale. Droga afrodisiaca, e, come tale, continuata ad usare. Droga atta a risvegliare il mostro di una sessualità incontrollabile e intemperante.

La chiave del sogno è ormai chiara. Con la psicoanalisi, Freud intuisce di aver scoperto un altro farmaco potenzialmente capace di lenire la sofferenza umana. Ma questo farmaco postula, in rapporto a ciò che Freud conosce della sofferenza umana, la liberazione della sessualità dalla repressione iscritta nella moralità dell’epoca.

E’ a questo punto che affiora il dramma di Freud, intrappolato nei quadri mentali collettivi, per un verso, e, certamente, per l’altro, di aver appurato una verità: e se anche questo nuovo farmaco si rivelasse un veleno? se la liberazione sessuale sortisse l’effetto, anziché di lenire i dolori, di far ammalare la società? se lo sprigionarsi dell’erotismo femminile, in cui Freud vede una malattia, dovesse giungere a disintegrare la struttura familiare, ad affrancare la donna dal potere di controllo dell’uomo? se, anziché felicità, la psicoanalisi dovesse produrre solo vizio, disordine, un’infezione generalizzata a tutto l’organismo sociale?

In breve, Freud è certo di aver individuato nell’inconscio la peste del desiderio e nel principio di realtà - nella capacità dell'organizzazione sociale di imporre una rinuncia al desiderio - il vaccino. Ma il dubbio di cui è preda, e che nell’inconscio si trasforma in colpa atroce è che la malattia, liberata dalla quarantena rappresentata dalla rappresaglia sessuale e dalla struttura familiare, possa risultare insensibile al vaccino e, in ultima analisi, inguaribile. Il problema è che Freud, uomo del suo tempo, la ritiene inguaribile, ed esibisce al riguardo, una serie di fantasmi che mettono in luce il suo essere prigioniero della mentalità corrente, mentre viceversa, il ricercatore, nel suo sforzo di liberarsi dalla catena di pregiudizi, sa d’aver imboccato la via della verità.

Non c'è da sorprendersi che questo conflitto finisca in un vicolo cieco ideologico: la soluzione che Freud trova è quella di una liberazione la cui pericolosità sia salvaguardata dall'ordine delle strutture sociali, e, anzitutto, della struttura familiare; dal potere di controllo che l'uomo, cui Freud attribuisce una maggiore ragionevolezza e senso morale, può esercitare, in virtù del contratto coniugale, sull'incontrollabile, e pestilenziale, sessualità femminile. Il sognatore, in ultima analisi, dice più dell'interprete del sogno: dice ciò che questi non può recepire, perché mette in scena fantasmi che sono sociali prima di essere individuali. Fantasmi la cui decifrazione non potrà mai essere di pertinenza della psicoanalisi, come scienza della soggettività, o di qualsivoglia scienza psicologica.


4. L'esperienza onirica come strumento di indagine microstorica

Nel sogno di Freud, passato e presente per un verso, individuale e sociale per un altro, si confondono nell’enunciazione di un problema drammatico - gli effetti sull’ordine morale della liberazione sessuale - nel quale vediamo confluire l’esperienza conflittuale di Freud uomo del suo tempo e di Freud scienziato, e che il sogno stesso tenta di risolvere in virtù di una soluzione che, demandando alle strutture sociali il compito di contenere il disordine iscritto nella natura umana, affranca Freud dalla colpa di aver scoperto un farmaco dagli effetti letali più che terapeutici.

Mi sembra impossibile, a posteriori, ricondurre una trama di pensieri così complessa e animata, privata e politica al tempo stesso, nei confini della formula del sogno come appagamento di un desiderio. Con un'evidenza che mi sembra inconfutabile, il sogno di Freud oppone il bisogno di individuazione del ricercatore che, inoltratosi per un sentiero abbandonato alle ortiche, ha catturato una preda preziosa, un frammento di verità, dal quale ricava la speranza di una fama immortale; e il bisogno di integrazione sociale che, segnalando lo scarto tra quella verità, e le sue estreme conseguenze, e l’ordine morale e sociale con cui Freud uomo si identifica, fa incombere su di lui il dubbio che la scoperta possa risultare pestilenziale per l'umanità, e che egli possa dunque ricavarne l'esclusione e l'abominazione, piuttosto che il prestigio sociale.

Anziché esprimere desideri istintuali, l'attività onirica sembra impegnata, ad un livello più complesso rispetto alla coscienza, a porre problemi e ad articolare soluzioni. Ma, sia il modo in cui i problemi sono posti sia le soluzioni elaborate, appaiono tributari di un'esperienza soggettiva irretita e recintata in una trama di codici morali e di fantasmi sociali che la trascendono e, in ultima analisi, si impongono ad essa.

Non sorprende, adottando questo punto di vista, che una scoperta rivoluzionaria debba essere forzata ad esiti sostanzialmente conservatori. C'è da chiedersi se questi assunti, ricavati dalla rivisitazione di un sogno freudiano, siano generalizzabili. Se, cioè, l’attività onirica, ponga sempre in luce l'impegno della mente di risolvere problemi fondamentali per la realizzazione dei bisogni umani e se questo sforzo appaia sempre irretito nella trama di quadri mentali collettivi, che tendono a farlo rifluire in canali normativi, a qualunque costo. La mia ipotesi, che va elaborata più profondamente di quanto è, per ora, possibile, è che le cose stiano proprio così.

Tenterò di fornire un’esemplificazione ripercorrendo un tragitto di ricostruzione microstorica totalmente orientato dal materiale onirico. Ricostruire una vicenda umana esitata in un vicolo cieco psicopatologico, utilizzando il filo rosso dei sogni che, spesso, nel loro insieme, configurano la struttura della mente, è un’esperienza il cui fascino intellettuale è difficile restituire. Nel caso in questione il fascino è aumentato dai cambiamenti che intervengono a livello di attività onirica, e giungono quasi a lambire il mistero dell’io originario.

Fiorella ha 28 anni e, dall'età di 18, vive una penosa condizione di inibizione sociale che la costringe a star murata in casa. A livello di immagine interna, Fiorella si vede orribile e schifosa, al punto che deve evitare accuratamente di guardarsi allo specchio per non odiarsi a morte. Le rare volte che esce di casa, quest'immagine viene drammaticamente confermata dagli sguardi e dai giudizi della gente. Ha tentato più volte il suicidio. Per allentare l'angoscia, a 21 anni, cominciò a far ricorso all'alcool, giungendo a bere sino a 5-6 litri al giorno. A quell'epoca risale l'incontro con un uomo sposato, di mentalità piuttosto anticonformista, con il quale intrattiene una relazione le cui valenze erotiche, molto intense all'inizio, vengono quasi totalmente soppiantate da valenze affettive. Per 5 anni si è sottoposta ad una terapia individuale e familiare ad indirizzo transazionale, il cui effetto è stato di ridurre l'ingestione di alcool. L’ha abbandonata perché sentiva che il suo mondo interno era ricusato dalla terapista.

Il sogno-chiave della ricostruzione della genesi e della struttura di questo mondo interno è fascinoso:

"Ho deciso finalmente di separarmi dai miei e di andare ad abitare da sola. Mi reco in un residence il cui ingresso è vigilato da cani feroci. Il portiere mi fa presente che essi sono in grado di riconoscere gli ospiti e rivolgono la loro aggressività sempre e solo nei confronti degli importuni. Mi vengono consegnate le chiavi dell'appartamento, e vengo rassicurata sull’assoluta privacy del residence. Entrando nell’appartamento che è di due stanze, mi sento finalmente tranquilla, ma scopro, con sorpresa, che, al centro di ambedue le camere, c’è un quadrato, piuttosto ampio non pavimentato, che da nel vuoto. Penso che dovrò fare attenzione a non mettere il piede in fallo."

La trama del sogno è evidente, e restituisce al tempo stesso genesi e struttura della personalità. Solo chiudendosi al mondo, familiare e sociale, e difendendo la sua privacy con atteggiamenti ostili e ringhiosi, Fiorella è riuscita a mantenere un minimo di equilibrio. Ma il privato, il mondo interno, non è privo di insidie: in esso si apre infatti un vuoto voraginoso, che alimenta la paura di una caduta fatale.

Non stentiamo a comprendere il significato di questo pericolo, che sollecita Fiorella a non fidarsi neppure di se stessa. Ma perché mai l’identità dell'io comporta un isolamento così marcato? e ancora: perché, nonostante l’isolamento, Fiorella sente di correre un pericolo mortale? L’ambiente familiare dal quale Fiorella intende separarsi è, in effetti, piuttosto singolare. La madre e la zia, sposandosi, hanno deciso di non separarsi. I due nuclei familiari sono convissuti in una situazione di affollamento crescente, in virtù della nascita di 5 figli, e, ovviamente, di promiscuità. La convivenza è stata sempre giustificata da motivi economici, ma, in effetti, le famiglie non sono mai state disagiate, quanto piuttosto minacciate entrambe da un sentimento di precarietà e di paura del futuro che ha finito per coinvolgere tutti in una sorta di ingiustificata lotta per la sopravvivenza. L’etica del lavoro, del dovere, del sacrificio, dello stringere i denti quotidianamente nell'attesa mitica di una liberazione, di là da venire, dai pesi della vita, veicolata dal padre e dallo zio, simili in questo come due gocce d’acqua, ha finito con lo stendere sul mondo un velo di grigiore, di costrizione, di infelicità.

In questo clima, il ruolo della donna, schiava dei doveri domestici, delle mestruazioni, della gravidanza, dell’allattamento, ecc., si è configurato come sacrificale. La madre di Fiorella, donna avvenente ed esuberante, ha pagato il prezzo maggiore, regredendo lentamente in una condizione di trascuratezza e di perpetue minacce psicosomatiche: dolori al ventre, senso di soffocamento, malori, violente cefalee premestruali, ecc. Talora, le donne di casa apparivano come due madonne addolorate, e chiuse in una ipocrita rassegnazione.

In breve, la cultura della famiglia fa capo ad un principio di realtà mortificante, che postula un investimento delle energie di tutti membri in una perpetua lotta per tirare avanti . Dei piaceri, 1’unico riconosciuto è quello della tavola, essendo esso finalizzato a reintegrare quelle energie. La sessualità, che le estenua, è vissuta male da tutti, anche in rapporto alla promiscuità. La rimozione della sessualità crea, per altro, un clima morboso, che si traduce in una serie di messaggi repressivi che investono la curiosità dei bambini.

Sono queste le premesse di un dramma soggettivo, la cui ricostruzione è consentita da due sogni. Il primo è questo:

"Sono alla finestra e osservo la piccionaia. Vedo tornare un piccione tutto sporco. Intuisco che deve essersi calato in un campo bruciato."

Questo essere alato, e dunque infinitamente libero, che però si lascia addomesticare, e rimane in una condizione di dipendenza, restituisce a Fiorella un frammento della sua vicenda. Essa non può fare a meno di pensare all’adolescenza, allorché, nonostante l’ancora forte dipendenza familiare, ha tentato di spiccare il volo. Frequentava delle amiche e, nel tempo libero dagli studi, andava sempre in giro. In famiglia, questo comportamento veniva stigmatizzato e ritenuto sconveniente. Più volte la madre le ha fatto presente che si sarebbe fatta una cattiva fama nel quartiere. Poco alla volta, Fiorella ha cominciato ad aver paura della libertà, e si è rifugiata nella comunità giovanile parrocchiale. Ivi ha conosciuto un ragazzo, con il quale ha avuto alcune superficiali esperienze erotiche, dalle quali ha ricavato atroci sensi di colpa, che, negli anni, si ingigantiranno e che, nell’immediato, l’hanno indotta a chiudersi nell'ambiente familiare, a tornare al nido.

Il sogno, manifestamente, allude ad una verità più profonda. Il tentativo di rappresentare se stessa come una innocente sporcata da una brutta esperienza non è convincente. Il campo dal quale il piccione ritorna è, infatti, un campo devastato dal fuoco. Prima dell'esperienza adolescenziale deve essere accaduto qualche coda di devastante.

Un sogno si incarica di suggerirlo:

"Sono nel cortile di casa. Alzo lo sguardo verso la piccionaia e vedo, con sorpresa, che i piccioni si sono trasformati in gatti. Le femmine si lamentano in maniera straziante e una di essa, la più piccola, tenta di spiccare il volo e precipita, morendo."

Questa confusione di animali è tutt'altro che incomprensibile.

Qualche giorno prima, Fiorella ha visto in televisione un film tratto da un dramma di Tennessee Williams, il cui titolo (La gatta sul tetto che scotta ) si riferisce esplicitamente al desiderio sessuale femminile, impietosamente identificato con quello di una gatta in calore. Fiorella ricorda anche che, alcuni anni prima, una gattina allevata in casa, all'epoca del primo mestruo, era letteralmente impazzita, e, dato che i suoi non volevano farla uscire, si era precipitata dalla finestra. Il sogno ricostruisce dunque un ambiente familiare alla Tennessee Williams, con le donne straziate da un desiderio insoddisfatto. Ma la gattina che si lasciava cadere era la più piccola. La trasformazione da piccioncina in gattina attesta un'innocenza perduta ben prima dell’adolescenza. Il segreto, inconfessabile, viene finalmente alla luce. A 7 anni Fiorella ha scoperto che il suo corpo era in grado di darle piacere e che questo piacere dissolveva le tensioni accumulate nel grigiore della vita quotidiana. Una volta, mentre era a letto, e agitava innocentemente le gambe, la madre la rimproverò con estrema crudezza. Fiorella capì a cosa volesse riferirsi, e pensò che mai e poi mai si sarebbe lasciata reprimere nell’unico piacere che provava. Continuò, dunque, ma sotto una costante minaccia di colpa. Pensava di essere l'unica al mondo a fare quelle porcherie e non ha mai avuto il coraggio di confessarlo a nessuno, neppure al sacerdote all'epoca della prima comunione.

Lentamente, dentro di lei, il piacere si è trasformato in vizio, e, nonostante gli sforzi di Fiorella di contrastarlo, si è radicato, riflettendosi nella costruzione di un’immagine interna di sé sempre più negativa. Lo specchio, divenuto temibile, ha cominciato a restituirle i segni inequivocabili della corruzione e della decadenza fisica. L'identificazione con una gatta in calore, confessa Fiorella, è antica.

Sino a questo punto - me ne rendo conto - la storia di Fiorella presenta degli aspetti banali e, per giunta, facilmente equivocabili. Come sottrarsi alla suggestione della teoria della fissazione a modalità arcaiche di sviluppo pulsionale, e al mitico Edipo? Perché complicare ciò che è semplice?

Perché queste non sono che le premesse di un dramma la cui elaborazione giungerà a contestare quella pretesa evidenza. Ciò che chiude Fiorella nella trappola psicopatologica non è infatti l’immagine interna negativa, residuata alla colpevolizzazione della masturbazione infantile, bensì il suo tentativo di liberarsene. Via via che cresce, infatti, Fiorella sviluppa, nei confronti della cultura familiare, una coscienza critica che contesta, con ragioni sempre più articolate, il modello di vita da quella proposto, sacrificale e sostanzialmente infelice. Essa giunge a pensare che la vita valga la pena di esser vissuta, che non sia solo una croce, e che 1’impegno di ciascuno debba essere rivolto all’obiettivo di renderla il più piacevole possibile. Questo progetto comporta - è vero - una rivalutazione della sessualità, e il desiderio di viverla liberata dalle catene della colpa, ma esso, a livello cosciente, non ha nulla di sfrenato. Fiorella ha degli interessi culturali, sociali e politici, una avidità di vivere che non si esaurisce certo nel far l’amore. Che significato hanno dunque i sensi di colpa, e le inibizioni sempre più marcate che ne derivano, e che la spingono a far ricorso all’alcool?

E’ vero che i sensi di colpa, originariamente, attestavano la introiezione del codice morale familiare: ma come spiegare il fatto che, con la maturazione critica della coscienza, essi, anziché attenuarsi, si sono accentuati, fino al punto di incarcerare letteralmente Fiorella in casa? Il problema non è in alcun modo risolvibile in riferimento ad una pretesa fissazione. Ciò che è in gioco è il processo di elaborazione dell’esperienza familiare e soggettiva di Fiorella che, confermando, nonostante 1’immagine interna negativa, la giustezza della sua opposizione ai valori mortificanti veicolati dalla famiglia e il suo diritto ad aspirare ad una vita piacevole, ha prodotto un'ideologia libertaria, che, proprio in virtù delle limitazioni che Fiorella ha sperimentato nello spiccare il volo adolescenziale, si è vieppiù esasperata, giungendo a tradire i suoi bisogni originari.

In pratica, quell'ideologia, impastata di lucidità critica e di rabbia, si è tradotta in fantasia di scatenamento, la cui qualità vendicativa riesce, alla mente di Fiorella, inaccettabile, per due motivi. In primo luogo, essa non odia i familiari, perché la sua maturazione critica l’ha portata a comprendere le motivazioni del loro comportamento; in secondo luogo, non desidera affatto perdersi nel mondo, e distruggersi, ma vivere bene.

L'eccesso di misura del progetto di vita maturato in Fiorella è reso con evidenza da un sogno, che, per la prima volta, la pone di fronte al problema dell'autoinganno.

"Sono fuori di un negozio di scarpe. Dentro di esso, stanno parlando le commesse e un ex compagno di scuola. Vorrei entrare per star con loro, ma esse mi chiudono la porta in faccia e mi fanno capire che devo restare sul marciapiede."

Il negozio in questione è vicino all'abitazione dell'uomo con il quale Fiorella intrattiene una relazione. Fiorella può uscire di casa solo per recarsi da lui: tragitto obbligato che percorre a capo chino nell'angoscia di essere giudicata negativamente da tutti. Le donne presenti nel negozio hanno un tratto in comune: sono ambedue legate a valori tradizionali, che, però, sembrano vivere con serenità. La commessa è fidanzata da anni con lo stesso ragazzo; l'ex compagno di scuola è sposato ed ha due bambini. In rapporto alla sua ideologia, per cui tutto ciò che è nel solco della tradizione va rifiutato, Fiorella intimamente le disprezza, ma non può non riconoscere che esse godono di una libertà che a lei manca. Se le disprezza, perché mai vuole entrare nel negozio e stare con loro? Questo desiderio di ricongiungimento non potrebbe attestare che la rottura con la tradizione riguarda più i contenuti e i modi in cui essa è stata proposta che non i bisogni di moralità cui essa mira a rispondere?

Un rilievo ironico di Fiorella conferma questa ipotesi. Nel periodo adolescenziale, nel corso del quale andava sempre in giro, e, in un certo senso, cercava di marciarci, consumava molto le scarpe. Da quando vive praticamente in casa, le scarpe non le consuma affatto, e, in realtà, ne ha alcune paia che, dacché le ha acquistate proprio in quel negozio, non ha avuto occasione di mettere. E’, dunque, evidente che le donne nel negozio rappresentano parti tradizionali di Fiorella che si sono chiuse per preservare integri certi valori e certe potenzialità di progresso. Se esse rifiutano il rapporto con Fiorella, che è sul marciapiede, è perché ne temono la contaminazione. Ma da dove viene questo pericolo se non da un’ideologia troppo trasgressiva, troppo incline a battere strade equivoche? Il sogno attesta, dunque, che l'intuizione di Fiorella, che protesta spesso una radicale innocenza, e si ribella all'immagine negativa che le si impone, non è infondata. C’è in lei qualcosa di incontaminato da preservare. Non solo: ma questo qualcosa è tanto significativo da giustificare le limitazioni della libertà contro cui Fiorella urta invano ogni giorno. La malattia, in ultima analisi, serve a mantenere di fatto Fiorella su una retta via: ma si tratta solo di una violenza della tradizione o di un bisogno radicale?

E' ancora un sogno a permettere di rispondere:

"Sono sospesa ad un paracadute, il cui ombrello è regolato dal mio amico. Egli, ogni tanto, fa finta di chiuderlo, ma io reagisco ogni volta, con il terrore di precipitare a capofitto."

Il rapporto che Fiorella intrattiene ha funzionato, in effetti, come un paracadute, fin dalla sua origine. A quell'epoca, intorno ai 20 anni, i sensi di colpa e le paure erano già attivissimi. Ma Fiorella, che non voleva farsi intrappolare da essi, e insisteva a percorrere il vicolo cieco di un progetto di vita senza inibizioni, faceva ricorso abbondantemente all'alcool. Una sera uscì con degli amici. Era ebbra. Si ritrovò ad un certo punto distesa su un prato, incapace di ogni difesa. Gli amici si limitarono a spogliarla e a carezzarla: non profittarono di lei, proprio perché era inebetita e non partecipava in alcun modo.

Al mattino, comprese che era esposta al rischio di subire qualsiasi violenza. Comprese anche una verità più profonda. Era uscita con delle persone che non le piacevano per nulla, perché, giudicandosi brutta e cattiva, il semplice fatto che essi, anziché rifuggirla come un’appestata, ne accettavano la compagnia, produceva in lei una condizione di disponibilità totale. Ma questa circostanza non era eccezionale, bensì sintomatica. Nonché infinita, la sua libertà, per effetto dell'immagine negativa, era giunta ad azzerarsi, a trasformarsi in una sorta di disponibilità totale nei confronti di chiunque la desiderasse. Non era questa, ovviamente, la libertà desiderata da Fiorella: questa condizione, nonché liberarla, la confinava nell'ambito delle donne non tradizionali che, però, devono subire i desideri di qualunque uomo. L'ambito, insomma, delle prostitute, che non hanno alcun potere selettivo su coloro che si rivolgono ad esse per soddisfare i loro desideri. Fiorella decise di sottoporsi ad una psicoterapia, cercò l'uomo che aveva conosciuto casualmente qualche tempo prima e del quale aveva intuito la radicale bontà. Ma intanto, per evitare pericoli, la mente decise di conservare la sua integrità mettendola in quarantena, e cioè rafforzando ed esasperando i giudizi negativi della gente nei suoi confronti. Da quel periodo, uscendo di casa Fiorella comincio a sentirsi accusata di essere una puttana, e, lentamente, finisce per accettare una condizione di clausura.

Quanto al sogno, è chiaro che l'amico funziona nel ruolo di protettore e che questa protezione, sommandosi ai giudizi della gente che impediscono a Fiorella di muoversi, tiene sotto controllo una libertà che altrimenti risulterebbe rovinosa. Ma rovinosa per chi se non per Fiorella stessa? e, infine, per cosa, se non per il suo bisogno di sentirsi padrona di se stessa e capace di amministrare la sua libertà?

Nonostante l'ideologia dell'incontrollabilità, nella quale ideologicamente Fiorella insiste ad identificare la sua libertà, la malattia serve dunque a preservare un bisogno irrinunciabile di autonomia e, dunque, di moralità, mortificato dalle circostanze in cui essa si è trovata a costruire la personalità, sino al punto di estraniarsene, confondendolo con i contenuti dei codici morali veicolati dalle istituzioni pedagogiche (famiglia, scuola, parrocchia).

Questa ipotesi, che Fiorella stenta ad accettare, per quanto essa confermi la radicale innocenza che ha sempre protestato, è infine confermata inequivocabilmente da un sogno:

"Mi sveglio e sento un gran prurito dietro la testa. Scopro, con orrore, che tra i capelli c'e un nido di scarafaggi. Comincio a scrollare il capo per liberarmene."

Gli scarafaggi sono i cattivi pensieri rintanati nella sua mente e che l'hanno indotta a viversi come un essere sporco e contagioso, un mostro unico al mondo (tante persone hanno in testa i pidocchi, ma gli scarafaggi?). Ma, al tempo stesso, in dialetto romanesco, i bacarozzi sono i preti: termine spregiativo che ha molte valenze, ma che in ultima analisi, fa riferimento al loro dover vivere socialmente occultati e al loro essere bacati .

Il nido di scarafaggi condensa dunque i cattivi pensieri e i sensi di colpa che si sono ad essi sovrapposti, sino a ridurre Fiorella alla clausura. Questo nido è ormai affiorato, è fuori e non dentro la testa. Fiorella intuisce di potersene liberare e che la sua mente, che a lungo ha considerato marcia, è in realtà rimasta integra. Può essere dunque usata per accordare i suoi bisogni di libertà con i suoi bisogni di moralità. Questo segna, in un certo senso, la rinascita dell'io con il suo corredo di bisogni originari - di individuazione e di integrazione sociale.

Non ignoro che l’interpretazione di un sogno è, in fondo, un esercizio ideologico. Un insieme di sogni, con l'insistenza su pochi temi articolati da vari punti di vista, e con la sensibilità che essi rivelano nei confronti del bisogno di sapere attivato dal dialogo terapeutico, è senz'altro più significativo. Ma, da un punto di vista scientifico, la ricostruzione di una vicenda umana in virtù dei sogni, e del carico di ricordi e di cultura che essi veicolano, rimane comunque contestabile. In fin dei conti, c'e un solo elemento di verifica della validità delle interpretazioni: la loro capacità di illuminare il rapporto vissuto che il soggetto ha con il mondo. Perciò non mi sembra illecito concludere con un frammento esperienziale che può essere restituito come un sogno:

"Esco con due amici conosciuti cercando lavoro. Con loro mi trovo bene, mi sento accettata. Mi conducono in un ristorante: non esito a seguirli, perché penso che, se essi non si vergognano di farsi vedere in mia compagnia, evidentemente non faccio loro schifo. Ci sediamo e parliamo. Manifestano nei miei confronti una simpatia che, poco alla volta, mi preoccupa e mi induce alla diffidenza. Come è possibile che tutto quello che dico gli vada bene? Mi viene il dubbio che sia una messa in scena, che si tratti di poliziotti che fingono di essermi amici per indurmi a tradirmi. Ma tradir cosa? Alla fine, mi sembra di capire: devono essere agenti dell'antiterrorismo che stanno conducendo un'indagine sul mio amico, e pensano che io possa fornir loro degli indizi. Decido che non li vedrò più, perché non voglio che si faccia del male a lui."

Si tratta come ho accennato, di un'esperienza reale. La ristrutturazione critica dell'immagine interna consente a Fiorella, sia pure con prudenza, di cercar lavoro e di cominciare a tessere relazioni. Il suo amico, che in effetti è un militante politico di estrema sinistra, non la ostacola: da tempo il rapporto ha assunto una configurazione sostanzialmente affettuosa, ed entrambi sanno che esso, quando Fiorella sarà in grado di organizzare la sua vita, è destinato a risolversi. Come spiegare dunque il vissuto persecutorio che interviene ad equivocare un'esperienza relazionale positiva? E' evidente che è di nuovo l'immagine interna negativa ad entrare in azione. Fiorella, infatti, comincia a dubitare che l'apparente disponibilità nei suoi confronti, che ritiene ingiustificata, non celi altri fini. Ma come si organizza poi il suo dubbio? Nella paura di tradir l’amico e di fargli, inconsapevolmente del male. Il che la dice lunga su di una sensibilità morale fin troppo raffinata, che contesta definitivamente la tendenza all'incontrollabilità che per anni Fiorella si è attribuita.


5. Il sogno come chiave strutturale dell’esperienza psicopatologica

Se la funzione del sogno, espressione dell’attività mentale inconscia, è di rimodellare contenuti esperienziali di cui il soggetto non ha potuto tener conto nel costruire la sua visione del mondo, è evidente che l’attività onirica è un indice abbastanza fedele della struttura più o meno chiusa della coscienza o, in altri termini, del gradiente ideologico che, assicurandone la coerenza, la rende più o meno funzionale alla soddisfazione dei bisogni soggettivi. Indice prezioso nei casi in cui quel gradiente coincide con un’esperienza di disagio psichico, poiché esso, permettendo di ricostruire il corredo originario e globale dei bisogni, restituisce all’armatura dei sintomi, che il più spesso frustrano i desideri coscienti dei soggetti, il suo significato autentico, che è conservativo e, in una certa misura, protettivo. In breve, mentre i sintomi impediscono al soggetto di finire fuori strada (e ciò - come tenterò di dimostrare ulteriormente - quale che sia il prezzo di sofferenza che essi impongono...), i sogni ci consentono di comprendere rispetto a cosa il soggetto rischia di finire fuori strada. Non rispetto ad ad un’astratta normalità, bensì rispetto ai suoi stessi bisogni!

Mi rendo conto che queste affermazioni precipitano i tempi della ricerca, perché in esse traspaiono tutti i presupposti di una nuova scienza del disagio psichico. E, ancora, mi rendo conto che essi possono indurre dubbi molto seri sulla possibilità di una traduzione della teoria a livello di prassi. Ma l’importante, per ora, mi sembra che sia il dimostrare la loro fondatezza.

Fornirò, pertanto, di seguito una serie di sogni ciascuno dei quali offre la chiave di un’esperienza psicopatologica. Sotto il profilo microstorico, mi limiterò all’essenziale, poiché quasi tutte le vicende in questione saranno analizzate in dettaglio nei seminari successivi.


Sogno del pilota automatico

"Io, mia madre e mio padre siamo andati in gita in macchina a Fregene. Di punto in bianco, mio padre, che appare più giovane di come è in realtà, ci comunica che ha deciso di separarsi dalla famiglia. Ci lascia la macchina. Né io né mia madre sappiamo guidarla. Allora inseriamo il pilota automatico, e la macchina si dirige verso casa evitando ogni pericolo."

Alessandra, la sognatrice, ha 22 anni e, dall’età di 14, vive un’esperienza psicopatologica, incentrata originariamente sulla paura di subire una violenza sessuale che, lentamente, l’ha costretta a chiudersi in casa. Alla reclusione, Alessandra ha reagito con fantasie di trasgressione di natura sessuale sempre più disordinate, ad arginare le quali sono sopravvenuti una serie di imponenti disturbi psicosomatici.

Fino a 14 anni, Alessandra non godeva di alcuna libertà: frequentava, dalle elementari, un istituto di suore; andava e tornava dalla scuola con il pullman dell’Istituto; il pomeriggio studiava. A 14 anni, contro il parere dei genitori, ha tentato di spiccare il volo: si è iscritta ad un liceo statale ed ha cominciato ad andare in giro con dei compagni. Dopo un mese, è affiorata la paura di subire una violenza sessuale, che l’ha indotta a lasciare la scuola statale e a tornare all’istituto di suore. L’insuccesso ha fatto affiorare, nei confronti del padre, un’ostilità lungamente covata, e ha indotto una stretta alleanza con la madre. Nel sogno, il padre dimostra l’età che aveva all’epoca dell’insorgenza della nevrosi di Alessandra. Il sogno rievoca, dunque, invertendo i ruoli, una separazione affettiva avvenuta a quell’epoca, e sembra rispondere ad una domanda che Alessandra si è posta più volte: cosa sarebbe accaduto se il padre, reagendo all’ostilità che avverte nei suoi confronti, avesse abbandonato la famiglia? La risposta che il sogno fornisce è incarnata nella sofferenza di Alessandra, la cui ribellione al potere ha prodotto, anziché una liberazione, una forma di esistenza che corrisponde ad una sorta di dittatura interiore. Dittatura che, frustrando i desideri di vivere di Alessandra, li esaspera, forzandoli nel vicolo cieco di una incontrollabilità cui pone rimedio la paura di uscire di casa.

Naturalmente, la fantasia di un libertà incontrollabile preesiste all’avvento della nevrosi. Ma che si tratti di un atteggiamento reattivo ad un potere male esercitato, piuttosto che di un desiderio originario di sregolatezza, è espresso dal sogno con un’evidenza inconfutabile. Associando a sé la madre Alessandra lascia intendere che il problema della libertà concerne la donna in rapporto all’uomo, e si configura come un problema di libertà personale, piuttosto che di sfrenatezza. Tanto è vero che la separazione del padre postula l’entrata in azione di un pilota automatico, e cioè di un meccanismo di autoregolazione in difetto del quale la sopravvivenza sarebbe posta a gravi rischi.

Il sogno esprime, in breve, questo bisogno di autoregolazione, che l’esperienza psicopatologica si incarica di realizzare assoggettando Alessandra, che ancora non è in grado di riconoscerlo come un proprio bisogno, ad un controllo automatico. Nell’incapacità di porsi alla guida della macchina, comune a lei e alla madre, c’è però di più: c’é un quadro mentale che attribuisce alla donna una radicale debolezza che necessità di una guida maschile.

Il sogno, insomma, esprime un bisogno radicale, quello dell’autoregolazione; la difficoltà di riconoscerlo come bisogno proprio, difficoltà che fa capo all’esperienza soggettiva di mortificazione della libertà -; e la tendenza ad espropriarsi della capacità di soddisfarlo autonomamente, nella quale si esprime una mentalità tradizionale.


Sogno dello strano negozio

"Entro in un negozio con dei parenti di mio marito. Il negozio è diviso in due vani: da una parte c’è una rivendita di latte; dall’altra un negozio di calzature. Sono un po’ confusa: non riesco a capire per quale motivo sono entrata. I parenti esprimono la loro preoccupazione per la vita un po’ sregolata che conduce una figlia adolescente."

La ragazza in questione, che ha 15 anni, va in giro da sola, frequenta strane compagnie, studia poco ed esprime il desiderio di andare a vivere da sola quanto prima possibile. Questi comportamenti configurano, nel complesso, il quadro di una crisi adolescenziale turbolenta. Ma essi impattano in un contesto familiare che è di un tradizionalismo radicale e orgoglioso. Famiglia - quella del marito - allargata, omogenea, ricca; ostile, in tutti i suoi membri, ad ogni forma di modernismo.

Per Anna, la sognatrice, madre di tre figli, la preoccupazione dei parenti ha un significato personale. Essa, infatti, è perpetuamente in ansia per una figlia di 13 anni, che, pur non manifestando alcun comportamento anomalo, dall’epoca dello sviluppo, si è chiusa in se stessa ed è divenuta incontrollabile nella sua vita interiore. Conoscendo la sua innocenza e una sostanziale ingenuità, poiché essa, per andare a scuola, prende dei mezzi pubblici, la madre è angosciata dal pensiero che possa fare dei brutti incontri. A ciò si aggiunga la preoccupazione per l’atteggiamento del marito che è, nei confronti della figlia, di una severità assoluta, che si traduce nell’imposizione di non uscire di casa nel pomeriggio e di non ricevere né amiche né amici. La sua ideologia è chiara ed esplicita: gli uomini sono cacciatori (lui stesso non disdegna alcuna preda...), le donne o deboli o puttane.

Prima che sulla figlia, questa ideologia si è esercitata sulla moglie, con effetti devastanti. Fin dall’epoca del fidanzamento, egli ha imposto la legge del più forte, motivandola con la necessità di difenderla dai pericoli di cui essa non poteva rendersi conto. Anna ha progettato più volte di svincolarsi: ma, sia prima che dopo il matrimonio, al momento di decidere, è stata colta da una serie di dubbi. E se Stefano avesse avuto ragione riguardo alla sua debolezza e alle insidie del mondo?

Allevata in una famiglia piccolo-borghese e totalmente dedita allo studio fino all’incontro con Stefano, del mondo, Anna, in effetti, conosce ben poco, e meno ancora del suo possibile porsi in rapporto al mondo. In fondo, nonostante l’intelligenza e la cultura, è rimasta ingenua come un’adolescente e, ovviamente, con le fantasie di libertà un po’ torbide proprie dell’adolescenza. Nel suo universo mentale, il confine tra l’innocenza e la perdizione - le uniche possibile condizioni umane - è netto e sottile: basta un nonnulla a precipitare il soggetto dal paradiso all’inferno, con esiti irreversibili. Ora, in questo universo, l’innocenza si identifica con la vita domestica, sia pure essa infelice; la perdizione con la possibilità di muoversi nel mondo, esponendosi a brutti incontri o prevedibili cedimenti.

Lo strano negozio, con l’evidenza dei simboli - dalla bocca che odora ancora di latte al battere il marciapiede - è una definizione inequivocabile di questo universo mentale. Ed è ovvio che Anna, nel sogno, pur essendo confusa, mai e poi mai rinuncerà all’innocenza per la perdizione. Quanto costi questo sforzo di mantenersi in una condizione senza macchia, è presto detto.

Da anni, Anna vive in una condizione quasi perpetua di depressione che l’ha spinta a tentare tre volte il suicidio. Ricorre costantemente all’alcool e agli psicofarmaci. Ciononostante, ha portato avanti con estrema fatica, essendosi sposata a vent’anni, gli studi, conseguendo due lauree. Ma i suoi progetti di lavoro, di inserimento sociale e di autonomia economica sono venuti sempre ad urtare contro il muro della paura della libertà. Come se non bastasse questo vincolo interno, Stefano, che attribuisce il suo disagio al non volersi arrendere al suo ruolo di moglie e di casalinga le ha fatto avere tre figli, l’ultimo dei quali proditoriamente, mentre era ubriaca, nell’intento di incastrarla, certo che Anna, per i suoi principi morali, non sarebbe mai ricorso ad un aborto.

A 29 anni, dunque Anna ha tre figli, una condizione agiata, che rende incomprensibile a tutti i parenti il suo desiderio di autonomia economica, e una disperazione totale. Ché, in fondo, liberarsi di Stefano è il meno. Il problema è accettare di mettere in gioco l’innocenza, ed esporsi al rischio - per debolezza o per cattiveria di altri - di commettere un passo falso irrimediabile per la sua coscienza. Non che Anna rifiuti il rischio: l’odio per il marito si traduce quasi costantemente in fantasie di tradimento, motivate, peraltro, da un radicale bisogno d’amore. Ma sono proprio queste fantasie, infine, a gettarla nella disperazione e a rifuggire il mondo.

In rapporto al sogno riferito, la confusione che Anna prova nello strano negozio può lasciar sussistere qualche dubbio riguardo ai suoi bisogni profondi di moralità. Le sue inibizioni, infine, non potrebbero segnalare la persistenza, a livello profondo, di desideri amorali?

Mi sembra opportuno riferire un altro sogno, atto, a mio avviso, a fugare malizie interpretative.

"Dal terrazzino guardo nella camera da letto e mi accorgo che manca il quadro della madonna sul letto e la litografia di una colomba. Percorro il corridoio e vado in bagno: nella vasca piena d’acqua scorgo, morti per annegamento, la gatta, 3-4 gatti maschi e un numero imprecisato di gattini."

La dimestichezza che ormai abbiamo con il simbolo della gatta in calore ci permette di essere sintetici. Cosa accadrebbe, dunque, se la sacralità del matrimonio fosse messa in gioco e se Anna si decidesse a liberarsi del suo ruolo inerme e a sfoderare gli artigli? La risposta è inequivocabile nella sua drammaticità: farebbe la fine della gatta annegata con le prove della sua perdizione.


Sogno del quadro

"Sono in un paesino vagamente medioevale e entro in una chiesa per visitarla. C’è il sacerdote che officia un rito e numerosi fedeli in preghiera. Vado verso l’abside, dove so che c’è una tela famosa. Ma riesco solo ad intravedere un volto pallidissimo ed angosciato su uno sfondo scuro e indecifrabile. Il sacerdote mi punta contro l’indice e mi impone di uscire. Mentre vado verso l’uscita, sento di essere condannata a morte e che una lama mi trafiggerà."

La tela è una raffigurazione molto precisa della condizione di Maria, una ragazza di 24 anni, la cui vita è, dall’adolescenza, un groviglio di paure e di sofferenza che affiorano sullo sfondo di una vita interiore totalmente immersa nell’oscurità, sia sotto il profilo delle memorie che sotto il profilo strutturale.

Nelle aspettative di Maria, che è realmente interessata alle arti figurative, il quadro doveva essere di scuola rinascimentale. La tela del sogno è invece evidentemente seicentesca. Il particolare è carico di significati biografici: nella storia di Maria, il trapasso dagli anni bui dell’infanzia, trascorsi in un clima familiare e socioculturale medioevale (ma tutt’altro che metaforicamente...), agli incubi seicenteschi del disagio, sotteso da un radicale senso di colpa, è stato brusco. L’adolescenza, l’atteso rinascimento, si è configurata come un fuoco fatuo di repentini innamoramenti e di gravi delusioni. Al culmine dell’adolescenza, Maria ha tentato di togliersi la vita e, successivamente, si è separata dalla famiglia: ma la liberazione non è avvenuta. Anzi la sua condizione è precipitata in un tunnel di angoscia apparentemente senza scampo.

E’ evidente che la tela contiene la chiave di questo travaglio. Ma come farla venire alla luce? E’ il movimento stesso del sogno che lo suggerisce: l’indice puntato dal sacerdote, che espelle Maria dalla chiesa, e la condanna a morte che essa sente incombere su di sé non alludono, forse, ad un fatale sacrilegio? non rievocano una sorta di processo alla strega? non l’assegnano al ruolo di indemoniata, cui non può più essere concesso perdono? E’ probabile, dunque, che la tela raffiguri un soggetto sacro, carico di valenze biografiche, rispetto al quale Maria ha un atteggiamento sacrilego. Una fantasia ad occhi aperti fornisce la soluzione: a Maria viene in mente un quadro rinascimentale che raffigura san Giorgio nell’atto di trafiggere il drago e di liberare la principessa. Il sacrilegio è infine confessato: emotivamente, Maria parteggia per il drago, simbolo tradizionale del male e del disordine. Questa singolare presa di posizione ha un riflesso biografico, che si è poi tradotto in ideologia. Biograficamente, il disordine è affiorato alla coscienza di Maria nel corso dell’adolescenza in virtù di una crisi di opposizione che l’ha posta sempre più in aperto contrasto con un ambiente culturale e familiare radicalmente tradizionale e fortemente ritualizzato. Disordine appena accennato a livello comportamentale, data l’oggettiva difficoltà di trasgredire all’interno di uno spazio socio-culturale chiuso, ma coltivato a livello interiore, nel corso di più anni, con intensità sempre maggiore e con i consueti effetti di colpevolizzazione.

Quando Maria ha trovato la forza di separarsi dall’ambiente sociofamiliare, questo disordine aveva già provocato una drammatica contraddizione nella struttura di personalità. A livello cosciente, infatti, esso si era tradotto in un’ideologia fortemente partecipe del negativo - dall’anticonformismo alla trasgressione, alla sregolatezza, all’arbitrio -, mentre ad un livello profondo erano già scattati meccanismi di inibizione, di angoscia e di paura, atti ad inibire la realizzazione di quell’ideologia. Anche il nuovo rinascimento, dunque, identificato con l’allontanamento dall’ambiente originario, è fallito, dando luogo, a livello psicopatologico, ad una sorta di penosa controriforma. Alle limitazioni dall’interno della libertà personale, marcata in tutti gli ambiti della vita (ovviamente, sessualità compresa), Maria ha reagito esasperando la sua ideologia del negativo e giungendo, infine, ad identificare il suo vero io con il drago.

Questo tragitto esperienziale, per cui un soggetto, mortificato nei suoi bisogni di individuazione, giunge a vivere la propria libertà in negativo, come misconoscimento non solo delle regole bensì del bisogno di autoregolazione, si può ritenere tipico di molte esperienze psicopatologiche, caratterizzate dal fatto che il soggetto letteralmente non desidera ciò che vuole. Ma quali elementi fornisce il sogno che stiamo analizzando a conforto di un’ipotesi tanto paradossale? Perché esso si svolge in chiesa? Chi è il cavaliere che si impegna a trafiggere il drago? Chi il sacerdote che, con l’indice, condanna a morte Maria?

Se teniamo conto che chiunque ha un senso di colpa affronta la psicoterapia come un’esperienza che oscilla tra la confessione e il processo, è possibile fornire una risposta ai quesiti. Maria chiede alla terapia di veder chiaro in una vita interiore da cui affiorano solo angosce e paure. Ma questa esigenza si associa alla volontà di mantenere un atteggiamento laico - essa entra in chiesa per vedere un quadro, non per intrupparsi nel gregge dei fedeli - e, ancor di più, di conservare e realizzare la sua ideologia. Ma se il drago, anziché espressione del suo desiderio di libertà, venisse scambiato dal terapeuta per la malattia? Maria, a differenza dell’iconografia, vuole essere liberata dal padre - e da ciò che egli culturalmente rappresenta - non dal drago per essere restituita al padre e alla tradizione. Ma se venisse alla luce, in terapia, che essa, nonostante la sofferenza, parteggia per il drago, per il disordine, per il male, che, in breve, non è affatto pentita dal suo identificare la libertà con la trasgressione, non ne seguirebbe forse una implacabile condanna? non sarebbe rifiutata dal terapeuta e, trattandosi di un’ennesima esperienza terapeutica, votata definitivamente a morte?

Quest’identificazione dell’io vero di Maria con il drago crea naturalmente il problema di recuperare, nella trama del sogno, ciò che essa sembra escludere: il bisogno di autoregolazione. Ma è un uovo di Colombo. In che senso, infatti, un eventuale rifiuto del terapeuta potrebbe tradursi in una condanna a morte, se Maria non si fosse già condannata? E condannata per cosa se non per l’infinito disordine morale che sente d’aver dentro di sé? Il problema è che questo infinito disordine esprime, nella unica forma concessa al soggetto, un bisogno irrinunciabile di individuazione. Maria, insomma, accetta di morire, non di piegarsi ad un ordine morale che mortifica la sua capacità decisionale. Occorre del cinismo per definire questo sacrificio una perversione.


Sogno del lager

"Sono con una delegazione di storici in visita ad un lager sovietico, in Siberia. C’è una spiaggia recintata, la cui sabbia ha il colore della neve, che dà sul mare del Nord. Nonostante il freddo, i dissidenti sono in costume e sembrano attendere qualcosa."

Lo stato delle cose, si potrebbe titolare questo sogno, dato che, qualche giorno prima, il sognatore, Mario, ha visto il film di Wenders, ed è stato colpito dalla troupe cinematografica che, nell’inerzia più totale, su di un’arida spiaggia portoghese, attende che giungano i capitali per realizzare un film.

Da anni, Mario stesso, preda di una nevrosi ossessivo-fobica, attende la liberazione del suo desiderio dalle catene della malattia. Ma, come nel film, questo desiderio di entrare in azione si riduce ad una sceneggiatura cui difettano i mezzi per realizzarsi. Il sogno si incarica di mettere in scena un frammento di questa sceneggiatura.

Mario è un dissidente rispetto ad un regime rigoroso ed oppressivo. Ma la sua dissidenza si esprime in virtù di un’opposizione radicale la cui assurdità è data dal venir meno di ogni protezione rispetto al gelo siberiano: dissidenza che - è inutile dirlo - si rivolge a suo danno, congelando il suo desiderio di vivere, esponendolo al rischio di ammalare e, presumibilmente, facendogli battere i denti per la paura. Cosa si può pensare, da parte dei visitatori, di fronte alla scena, se non che i dissidenti si sono giocato il cervello e, nella migliore delle ipotesi, sono pericolosi per se stessi? Abituati all’opposizione - suggerisce ironicamente Mario - se li si trasferisse sul Mar Nero, in un ambiente climatico mite, sicuramente indosserebbero pelliccia e colbacco!

Pochi dati biografici valgono a fornire la chiave del sogno. I genitori di Mario sono entrambi intellettuali (storici, per la precisione): intellettuali illuminati di formazione cattolica, votatisi entrambi al comunismo nel primo dopoguerra. Il loro amore per i figli è stato adulterato da un codice pedagogico confusivo, catto-marxista, sostanzialmente ascetico, il cui fine ultimo era quello di salvaguardare i figli dalla contaminazione dei vizi borghesi, avviandoli precocemente sulla via dello studio, dell’impegno e del rigore intellettuale e morale. La dissidenza di Mario si è tradotta precocemente in un’opposizione attiva, caratterizzata spesso da actings-out, poi nell’abbandono degli studi e infine nell’elaborazione di un modello di vita totalmente dedito al piacere.

Nel corso della prima adolescenza, sono scattate le inibizioni superegoiche, sotto forma di paura di impazzire e di morire. A queste inibizioni, interne e quindi meno tollerabili di quelle esterne, Mario ha reagito confermando e rafforzando la sua ideologia, alimentando il sogno di una vita sfrenata. La nevrosi è divenuta un lager, che ha finito con l’isolarlo dal mondo, congelandolo.

C’è un particolare del sogno che però affranca l’interpretazione da sterili riferimenti ad una teoria pulsionale. Mario è infatti presente sia come storico (e in ciò traspare il suo impegno di capire, ricostruendola, la sua vicenda interiore), sia come intellettuale: benché accusati di cedimenti borghesi, i dissidenti sovietici non propugnano un ideale di vita decadente e sfrenato, bensì un regime più adeguato ai bisogni umani.

La sfrenatezza di Mario è, dunque, un vicolo cieco imboccato da bisogni radicalmente umani, giunti a configurarsi come folli. Inconfutabile appare il sogno nel contestare sia l’ideologia familiare che l’ideologia sterilmente oppositiva e ribellistica nella quale Mario ha recintato il suo desiderio di vivere.


Sogno dell’ascensore

"Aspetto un ascensore. Quando si apre, vedo un cappotto e una pistola, che mi fanno venire alla mente un terrorista. Salgo e spingo un pulsante: l’ascensore comincia a salire vertiginosamente, e io so di non poterlo fermare. Ad un certo punto esce dal tetto e io vedo sotto di me il palazzo enorme, pauroso e labirintico. Poi comincia a precipitare, e temo che mi sfracellerò."

Il sogno veicola un vissuto pressoché costante: lo stare lì lì per crollare che, nella trama dell’esperienza soggettiva, si configura come pericolo di impazzire. Il sognatore, Francesco, ha 31 anni ed ha raggiunto un invidiabile condizione in un ente privato, che lo pone perpetuamente a contatto con personalità ragguardevoli nel campo della politica e dell’economia.

Il pericolo di impazzire, che si attiva particolarmente in situazioni relazionali, si associa alla paura di un crollo verticale nella gerarchia sociale. Di un ritorno alle origini, insomma, senza più possibilità di recupero: ché il soggetto proviene da una famiglia meno misera che disastrata.

Famiglia di provincia, di tradizioni patriarcali e, un tempo, di un certo peso sociale, caduta in disgrazia per via di intemperanza e sregolatezze di segno diverso di vari membri, alcuni dei quali hanno avuto per giunta una carriera psichiatrica. Famiglia tarata, dunque, nel giudizio sociale paesano e nel giudizio del soggetto stesso, il quale è convinto da anni, di lottare contro una malattia ereditaria, inguaribile e fatale nel suo determinismo. Nonché la paura, ha dunque la certezza che un giorno o l’altro impazzirà.

La sua lotta è rivolta ad un obiettivo definito: risollevare le sorti della famiglia e affrancarla da una vergogna sociale molto elevata. Questo fine giustifica i mezzi scelti dal soggetto, che il sogno descrive con precisione. Mezzi illeciti sia prima che dopo un’inversione di rotta ideologica che il sogno rievoca in maniera imbarazzante.

Molto vivace intellettualmente, nel corso dell’adolescenza, Francesco ricostruì la propria storia familiare e personale attribuendo la povertà e la sregolatezza a fattori sociali: in pratica, al disadattamento dei suoi ad un mondo dominato dagli interessi personali, dagli egoismi e dalle forme. Questo lo spinse ad assumere un atteggiamento politico di sinistra, sempre più estremista, che lo portò a militare in un gruppo extraparlamentare. La sua mente fiammeggiava di sentimenti di giustizia e di aspettative rivoluzionarie. Ma il suo carattere di fondo rimaneva sostanzialmente avverso ad ogni forma di violenza. Quando il gruppo cominciò ad impegnarsi in imprese un po’ pericolose, egli, che era riconosciuto come un leader per le sue doti intellettuali, ebbe paura. Nel giro di pochi mesi, si spogliò dell’habitus psicologico del terrorista e indossò quello del conformismo, iscrivendosi e militando nel partito democristiano. Benché strumentale e sostanzialmente mirante all’integrazione e al successo sociale, questa scelta di campo non fu possibile che in virtù di una ristrutturazione ideologica.

Tale ristrutturazione fece leva su tre conclusioni. La prima concerneva le responsabilità dei familiari, e del padre in particolare, nel processo di disadattamento a cui era seguito il declino sociale; la seconda individuava nella tara che egli si portava dentro, sotto forma di sregolatezza e di desiderio di vivere, il mostro da sconfiggere per non fare la fine dei suoi; la terza identificava lo strumento della lotta contro la sregolatezza in un principio di realtà totalmente acritico, nell’accettazione radicale della realtà come essa è e nella volontà di usarla per ascendere.

Senza sapere, Francesco finì per chiudersi in una corazza di carattere ossessivo, imponendosi ritmi di lavoro senza tregua e cominciando a trafficare negli ambienti politici della capitale, cercando di inserirsi in una rete di relazioni che potesse risultargli utile ai fini di una sistemazione.

L’ascesa sociale, nel corso degli anni, è risultata realmente vertiginosa, ma il sogno ne mette in luce anche la pericolosità. Per un verso, a livello di vita interiore, essa è stata resa possibile da una feroce dittatura che il soggetto si è imposto, dedicandosi totalmente al lavoro e frustrando ogni altro bisogno umano. La vita affettiva, considerata come uno spreco, è stata azzerata; la sessualità, individuata come uno dei fattori delle sregolatezze familiari, destinata all’impotenza. Francesco è giunto a vivere, insomma, in una dimensione che non è azzardato definire calvinista: ma l’ascesa cui si sottopone è tanto marcata da giustificare la paura di un crollo, di un cedimento pulsionale.

Sul versante sociale, poi, la rete labirintica di relazioni che egli ha stabilito e utilizzato per ascendere si configura come penosa perché essa è alimentata da una serie di stratagemmi ingannevoli, il più costante dei quali consiste nell’assumere atteggiamenti reverenziali e fedeli nei confronti di personaggi che Francesco, intimamente, disprezza.

La sua ascesa, insomma, è dovuta in gran parte alle competenze con cui ricopre il ruolo di servo o di lacchè: ma, nell’intimo, egli è rimasto un terrorista, un critico radicale e furibondo di un sistema che, proprio per esserne partecipe, gli svela i meccanismi su cui si fodna. Vedendo, nel sogno come nella realtà, il labirinto su cui ha costruito la sua ascesa, egli, dunque, si chiede come potrà continuare a destreggiarsi in esso e su di esso. Come, in ultima analisi, potrà, un pazzo criminale, pretendere di ingannare il mondo intero?

L’obiettivo è realizzato: egli ormai vola in alto, ed è riuscito, con i soldi e le raccomandazioni, a sistemare la famiglia. Ma ciò - secondo quanto egli pensa - lo ha fatto non per amore, bensì per coprire una vergogna che altrimenti gli sarebbe rimasta attaccata addosso. E lo ha fatto tradendo i suoi ideali di giustizia sociale e venendo a patto - un patto miserabile - con i rappresentanti di categorie sociali che egli continua ad odiare. La sua ascesa sociale è, dunque, un artificio: nonché un figlio affettuoso e un funzionario modello, egli rimane un pazzo criminale che odia tutto e tutti. Se si potesse liberare dai suoi vincoli familiari e sociali, se potesse affrancarsi dalle leggi della gravità e spiccare il volo!

L’ideologia anarchica e libertaria insiste ancora, ma il sogno si incarica di restituirle una verità che ad essa difetta. Affrancato da ogni vincolo, Francesco correrebbe il rischio di crollare, e cioè di mortificarsi piuttosto che di esaltarsi, di finire chiuso in manicomio o in carcere piuttosto che di godere di una incontrollabile libertà. Che senso ha questa minaccia se non quello di restituirgli il suo bisogno di integrazione sociale come un autentico bisogno di riscatto personale e familiare?

Ma Francesco è ancora lontano da questa consapevolezza: egli è convinto che solo una patologica costrizione tiene a freno la sua vera natura, sregolata e trasgressiva. Che sia stata, in ultima analisi, la malattia ad averlo normalizzato, e non essa ad aver recepito i suoi misconosciuti bisogni di socialità.


6. Sogno, mente, mentalità

Aperta, per l’oggetto stesso dell’indagine - l’attività mentale inconscia -, la struttura di questo seminario non tollera conclusioni perentorie. Ma alcune osservazioni, sparse qua e là nel testo, vanno riassunte, soprattutto per il significato propedeutico che esse hanno in rapporto alla clinica.

L’analisi del sogno di Freud ci ha posto di fronte, nonché all’appagamento di un minuscolo desiderio - quello di sentirsi a posto con la propria coscienza di medico curante - ad un dramma morale di enorme portata: il dramma di un soggetto che, sollecitato dai bisogni scientifici, sta destrutturando un quadro mentale collettivo, secolare per giunta, e, nonostante la convinzione di perseguire degli intenti di verità, è preda dell’angoscia di colpa che questa verità possa produrre un imbarbarimento dei costumi piuttosto che un’ulteriore civilizzazione. Ciò che Freud autenticamente desidera è di alleviare l’infelicità umana e, perché no, anche la sua, nella misura in cui questa dipende dalla repressione dei bisogni umani: desiderio nel quale non si può non riconoscere l’espressione di una elevata moralità. Ma, impastoiato come è nel quadro mentale collettivo della società cui appartiene, questo desiderio si associa alla paura di inoculare nella civiltà un farmaco che potrebbe rivelarsi un veleno. Sicché la soluzione del dramma non può essere che una: liberare il desiderio dalla corazza nevrotica nella misura in cui possono essere rafforzate strutture sociali deputate a controllarlo e a imbrigliarlo.

La rivoluzione psicoanalitica è pertanto destinata, sin dall’esordio, ad un esito conservatore, nel senso che la liberazione psicologica che essa promuove non può avvenire che al prezzo di un rafforzamento delle strutture sociali.

Sorprendentemente, insomma, Freud ha colto nel sogno, sia pure riduttivamente, i suoi bisogni radicali di moralità, ma contrapponendo ad essi l’immoralità costitutiva del desiderio. Egli legge bene nella sua mente, ma non può che accecarsi in riferimento al quadro mentale collettivo all’interno del quale quella si dibatte.

Poniamo conto che egli avesse avuto a disposizione strumenti culturali atti ad allargare il suo orizzonte interpretativo ed esplicativo: a quale conclusione sarebbe pervenuto? Alle stesse alle quali perveniamo noi che disponiamo di quegli strumenti. Che, cioè, il quadro mentale collettivo entro il quale egli si era immerso lo forzava a sentire come immorali - folli e criminali al tempo stesso - bisogni di una moralità più elevata rispetto a quella, meramente formale, che essi erano in grado di assicurare.

L’immoralità prodotta dai quadri mentali collettivi nei soggetti più ricchi di istanze morali: è questo il paradosso, peraltro oggi evidente, che a Freud sfugge, costringendolo a demonizzare il desiderio e a reificare il controllo sociale.

La conferma ricavata dall’analisi del materiale onirico riferito non è una prova definitiva della costanza di questo paradosso nelle trame delle esperienze psicopatologiche: ma, di certo, merita di essere considerata con attenzione. Le conseguenze che da essa potrebbero discendere sono, infatti, almeno due, e di estremo interesse.

In primo luogo, occorrerebbe infatti riconoscere la natura paradossale dei quadri mentali collettivi tradizionali: deputati a moralizzare, infatti, essi, per la loro stessa inerzia, che li rende poco attenti ai bisogni individuali, produrrebbero anche immoralità.

Ma, in secondo luogo, la produrrebbero proprio nei soggetti più dotati di sensibilità morale e quindi più inclini ad appropriarsi prima dei codici morali e poi, sperimentata la mortificazione da essi indotta, ad affrancarsene, alienandosi contemporaneamente il bisogno di moralità.

Adesione al codice morale tradizionale, mortificazione dei bisogni fondamentali, rifiuto del codice ed elaborazione di una ideologia più o meno consapevolmente liberatoria, con conseguente alienazione del bisogno di moralità: sarebbe questo, infine, il tragitto dinamico che, per infiniti sentieri, verrebbe percorso dalle esperienze che finiscono nel vicolo cieco psicopatologico.

Assumendo questo punto di vista, la struttura psicopatologica e l’attività onirica assumerebbero un significato funzionale correttivo rispetto ad una ideologia elaborata dalla coscienza che tradisce i bisogni del soggetto.

La struttura psicopatologica, almeno nei suoi aspetti prevalenti di inibizione, resi evidenti dalle grandi paure che sottendono ogni esperienza di disagio psichico, si incaricherebbe di impedire la realizzazione di un progetto che alienerebbe definitivamente il soggetto in rapporto al suo corredo di bisogni. L’attività mentale inconscia, in particolare quella onirica, tenterebbe altresì di forzare la struttura ideologicamente chiusa della coscienza per indurla a ristrutturarsi in maniera più fedele a quei bisogni. Ma, sia a livello di vissuto che a livello profondo, lo sforzo autocorrettivo della mente sarebbe contrastato dai quadri mentali collettivi, che impregnano tutte le dimensioni dell’attività mentale.

E’ evidente che queste, meno ambiziose che provocatorie, sono le premesse teoriche di una nuova scienza del disagio psichico: fondarla, però, è un conto; costruirla e porla in essere, un altro.