RESOCONTI DI ESPERIENZE TERAPEUTICHE


Introduzione alla lettura (2004)



Verso la fine del 1984 la ricerca, orientata a definire un nuovo modello psicopatologico, si poteva considerare conclusa nelle sue linee generali e nella sua struttura concettuale. Sembrava necessario, prima di organizzare il sapere acquisito sotto forma di saggi, prendere un po' di respiro. Nonostante il metodo microstorico di ricostruzione delle esperienze psicopatologiche fosse già stato utilizzato nei seminari precedenti, c'era una forte curiosità da parte del gruppo di vedere all'opera il metodo. Alcuni, infatti, pur apprezzando la teoria, dubitavano della possibilità di metterla in pratica.

Il dubbio verteva soprattutto sul problema del linguaggio e dei livelli di coscienza dei pazienti. C'era bisogno di fornire le prove che la traduzione sul piano della pratica terapeutica della teoria struttural-dialettica necessita di una qualche creatività da parte del terapeuta, vale a dire della capacità di adattare il linguaggio ai singoli soggetti e di tenere conto della loro attrezzatura culturale e dei loro livelli di coscienza.

A tale fine, quasi un intero anno venne dedicato al resoconto dettagliato di sette esperienze terapeutiche, già concluse o ancora in atto, diverse per l'età dei pazienti, la sintomatologia, il livello culturale, il contesto socio-ambientale, ecc.

Ogni resoconto, al di là del tentativo di restituire in maniera quanto possibile fedele ciò che accade nel corso della terapia, comporta anche riflessioni teoriche su particolari problemi evocati da ciascuna di esse.

Rileggendo il materiale a distanza di anni, mi sembra d'individuare una sola lacuna. Non c'è alcun riferimento infatti al problema dell'apprendimento culturale, vale a dire alla necessità di fornire al paziente, oltre che interpretazioni strutturali della sua esperienza, strumenti atti ad indurre una comprensione più profonda della struttura della coscienza e dell'inconscio, delle funzioni (il super-io e l'io antitetico) che sottendono il disagio, l'alleanza dell'io con una di esse e la rimozione dell'altra, l'influenza dei codici culturali, ecc. In un certo qual modo, tutto ciò è implicito. Solo successivamente, il problema dell'apprendimento culturale sarebbe stato sancito come una necessità, atta a sopperire alle lacune della cultura corrente (necessità valida anche per persone di elevata cultura) e come un elemento differenziale della pratica dialettica rispetto a qualunque altra pratica.

Tale elemento implica che le problematiche inerenti una qualunque esperienza di disagio psichico richiedono un allargamento della coscienza non solo in rapporto all'inconscio ma anche e soprattutto in rapporto alla storia sociale di cui il soggetto è partecipe.


Resoconti di esperienze terapeutiche


1.Marina

La situazione.

Come molte madri nelle quali si attivano fantasie distruttive nei confronti dei figli piccoli, Marina ha trascorso tre anni di inferno prima di decidersi a parlarne con qualcuno. Tre anni sottesi, per un verso, dall’angoscia di una radicale mostruosità, per un altro, dall’attesa che quelle fantasie ‘parassitarie’svanissero. L’effetto dirompente delle fantasie è da ricondurre anche al fatto che esse sono state evocate dalla nascita del secondo bambino, mentre non si erano mai presentate nei confronti del primo.

Una differenza qualitativa sembra aver caratterizzato le due esperienze di maternità. La prima non ha posto alcun problema né nel corso della gravidanza né all’atto del parto né successivamente. La seconda è risultata, invece ampiamente problematica: la gravidanza si è associata ad una condizione di malessere incessante; il parto, travagliato, non è avvenuto spontaneamente ma ha reso necessaria l’induzione farmacologia; il bambino si è rilevato difficile da allevare, sregolato nei ritmi sonno-sveglia, irrequieto, inappetente, bisognoso di continuo di stare in braccio, incapace di tollerare qualunque frustrazione. Dopo ritorno delle mestruazioni, Marina ha poi sviluppato un’angoscia perpetua e poco giustificata il cui oggetto era la paura di rimanere nuovamente incinta. Per un anno, ha effettuato continuamente test di gravidanza, si è sottoposta a visite ginecologiche, e ha avuto spesso sintomi sospetti (nausee, ecc). questa angoscia è scomparsa con l’affiorare, repentino, delle fantasie distruttive nei confronti del figlio.

Sul piano comportamentale, queste fantasie hanno prodotto paradossalmente un rapporto con il bambino che non è azzardato definire ‘patologico’. Per riparare la sua presunta mostruosità, Marina ha assunto un atteggiamento totalmente disponibile, donativo e partecipe: in breve, iperprotettivo. Con la conseguenza ovvia che il bambino, assoggettato ad un ipercontrollo che mortifica i suoi bisogni di opposizione e di differenziazione, manifesta una perpetua irrequietezza e una notevole aggressività nei confronti di soggetti e persone. Marina è dunque disperata e per le fantasie mostruose che continuano a tormentarla e per il comportamento reale del bambino, che sembra attestare uno sviluppo squilibrato.

Trattandosi di una persona assolutamente disponibile a capire e a prendere atto della verità — con l’unico, ovvio limite di essere terrorizzata dalla possibilità che il suo dubbio, di essere pazza e criminale nel contempo, sia fondato - l’elaborazione scritta della nostra esperienza sembra rappresentare uno strumento ottimale. Atto, tra l’altro, a scongiurare nei tempi lunghi le forche caudine del transfert: del dover vivere nella relazione terapeutica ciò che è già ampiamente vissuto nella vita reale…

Relazione:

Cara Marina,

mettere sulla carta le ipotesi su cui lavoreremo, per giungere ad una migliore organizzazione del tuo mondo interno e delle relazioni con il mondo esterno, penso che possa aiutare un tragitto di elaborazioni soggettiva.

I problemi che lei vive sono affiorati in successione cronologica: prima, e per un certo periodo, la paura di rimanere nuovamente incinta, poi la paura di poter far male al bambino. La seconda paura, per le sue connotazioni terrificanti, ha soppiantato la prima. Ma tra di esse non c’è solo una continuità cronologica, ma anche psicologica.

La paura di rimanere nuovamente incinta serviva, presumibilmente, a segnalare una condizione di coinvolgimento nei legami — affetti, doveri, obblighi, impegni - giunta al limite della esasperazione. "Se dovessi rimanere ancora incinta, crollerei": questa trama di pensieri, sottesa al sintomo, alludeva alla sua consapevolezza di avere già troppi pesi da sostenere. Non essendo riuscita ad interpretare questo messaggio, che, nonché scongiurare una nuova gravidanza, mirava ad indurre un alleggerimento dei legami, è probabile che lei si sia lanciata a corpo morto nell’impresa di allevare il bambino, aumentando la disponibilità nei suoi confronti nella misura in cui questi poneva delle difficoltà.

Alla fine questo conflitto tra i suoi bisogni di libertà (banalmente, di concedersi un qualunque respiro) e i bisogni crescenti di protezione e di cure del bambino si è trasformato in un circolo vizioso. Il desiderio di allentare un poco l’impegno ha cominciato a funzionare paradossalmente: come un desiderio colpevole che non solo non andava realizzato, bensì doveva essere espiato con un aumento di disponibilità e di cure. Questo circolo vizioso permette di comprendere come mai il desiderio di allentare il legame, di concedersi un po’ di respiro, sia stato costretto ad imboccare il vicolo cieco della fantasia distruttiva. Se lui — il bambino - non mi concede tregua, solo liberandomi di lui posso evitare di rimanere svuotata di energie. Ricorda il brano evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso? E’ una verità elementare, che investe qualunque rapporto umano: noi possiamo essere donativi nella misura in cui concediamo attenzione e cure anche a noi stessi. L’ovvietà di questo criterio di igiene mentale è tale da indurre un’ulteriore riflessione. C’è da capire perché la sua risposta ai bisogni del bambino sia così illimitata. E questo, se ha ben capito, è solo un esempio — il più drammatico - del suo modo di porsi nei confronti delle persone bisognose di protezione e di cure…

E’ evidente che questo modo allude ad una problematica che può essere definita, ma le cui origini vanno ricercate nella sua storia personale. La dinamica consiste nel vivere con estrema drammaticità le condizioni dell’essere bisognoso di cure e di protezione — come se egli fosse, in virtù di ciò, e della sua infermità sotto una minaccia costante di dolore e di morte — e nel sentirsi responsabile di proteggerlo da questa minaccia. Questa dinamica comporta che un essere bisognoso di cure e di protezione o, affidato a se stesso, muore o, per sopravvivere, richiede il sacrificio totale, nel senso della disponibilità, di qualcuno. Alla luce di questa dinamica, ogni relazione tra un essere bisognoso e essere curante si configura come realizzazione di una tragica metafora: vita tua, mors mea. La paura di rimanere incinta — di dare un’altra vita, segnando la tua fine, il crollo - attestava già che il suo modo di porsi in relazione agli altri aveva raggiunto livelli di guardia. L'inversione di tendenza — e il modo di rapportarsi -, non essendo avvenuta in virtù di una presa di coscienza, si è realizzata in virtù di una inversione della formula, che è diventata terrifica: mors tua, vita mea. C’è da capire perché la sua esperienza sia rimasta intrappolata in questa formula.

Ma intanto è chiaro che i sogni di morte, che la perseguitano da anni, non alludono altro che a ciò: ad una libertà che non può realizzarsi se non in virtù dello scioglimento definitivo di un legame. Dovrebbe anche essele chiaro che la crisi che vive da anni, fondata sull’inversione della formula vita tua mors mea, non attesta né cattiveria né mostruosità, bensì solo la necessità vitale di trovare un equilibrio più soddisfacente tra i bisogni di coloro che dipendono da lei — genitori, figli, ecc. - e i suoi bisogni. Perché ciò accada, occorre anzitutto che lei si faccia carico dei suoi bisogni: poiché, se è certo che non ha fatto male a nessuno, con essi finora è stata troppo severa, rinnegandoli, spostandoli all’esterno e soddisfacendoli negli altri senza alcun limite.

C’è da spiegare questo fatto misterioso: perché un soggetto proietta fuori di sé i bisogni di protezione e di cura? Perché tende a soddisfarli in maniera illimitata, schiavizzandosi rispetto a coloro che li rappresentano simbolicamente? Perché, infine, giunge a non vedere altra soluzione, per allentare la costrizione dei legami che ha prodotto, che la distruttività? E’ possibile rispondere a questi interrogativi.

Quanto al primo problema, una risposta dettagliata la troveremo ricostruendo la sua biografia interiore. Per ora si può solo affermare che, perchè siano proiettati, quei bisogni devono prima essere rimossi, rifiutati dentro di sé. E ciò avviene solo o perché sono frustrati o perché sono manipolati dall’ambiente per mantenere una condizione di dipendenza. In ambedue i casi — che essi pesino come bisogni insoddisfatti o come bisogni che impediscono di differenziarsi - la crescita postula un sacrificio: la rimozione. Rimuovendoli, un soggetto cresce di colpo: ma per mantenere la rimozione deve soddisfarli in qualche modo. Occorre, dunque, - ed è la risposta al quesito - spostarli fuori di sé e soddisfarli fuori di sé.

Questo meccanismo crea una paradossale dipendenza del soggetto dalle persone su cui quei bisogni vengono proiettati: in altri termini, avendo rimosso quei bisogni e per mantenerli rimossi, il soggetto deve continuare a soddisfarli fuori di sé.

Perché mai la soddisfazione promuove una disponibilità illimitata? Perché quei bisogni vengono vissuti nella forma in cui sono stati rifiutati dentro si sé: come bisogni, cioè che, in quanto bruscamente insoddisfatti, hanno dato luogo ad un vissuto angoscioso di abbandono. In altri termini, nella misura in cui il soggetto, rimuovendoli, li ha affamati, egli li vive proiettivamente come bisogni la cui insoddisfacente provoca un’angoscia repentina di carenza, di abbandono, di sospensione nel vuoto, di morte.

Questa forma costringe ad avere una disponibilità illimitata nei confronti di chi li rappresenta — i genitori anziani, il bambino… - ma, nel contempo, li rende insopportabili. Questa insopportabilità promuove, nei confronti di coloro che li rappresentano, le stesse strategie di soppressione che ne hanno determinato la rimozione. Ma è evidente che le persone in carne e ossa non possono essere rimosse. Come risolvere dunque il problema del legame soffocante che, in virtù della proiezione, si è creato con loro? E’ ovvio: distruggendo le persone con cui si è legati. La distruttività — che dentro di lei è affiorata in forma mostruosa - non è affatto rivolta nei confronti del bambino in carne ed ossa, ma del legame che la lega a lui, insopportabile per la proiezione che ha operato.

Ciò ci porta sulla soglia di una soluzione del problema. Sussiste infatti almeno un'altra possibilità, che appare non appena l’angoscia della costrizione viene ricondotta non alle persone — al bambino - bensì al tipo di legame che ha instaurato con lui. E’ l’uovo di Colombo: si può ristrutturare il legame. Ma ciò significa riprendere dentro di lei ciò che ha proiettato, riconoscendolo come espressione dei suoi bisogni lungamente frustrati, e orientarsi verso una liberazione che avvenga in virtù di una soddisfazione dei bisogni stessi. Nulla di più semplice sulla carta: nella realtà è possibile, benché difficile.

Dobbiamo inserire nel discorso l’analisi del vissuto che ha sotteso la gravidanza del bambino e il parto. Questo ci porterà un poco più in profondità. I livelli di guardia riguardo alla possibilità di mantenere una disponibilità illimitata probabilmente erano già stati raggiunti. L’attesa del bambino deve aver animato una trama di pensieri di questo genere: si sta per inaugurare un nuovo rapporto; questo rapporto mi vincolerà ad un esserino radicalmente dipendente e bisognoso di cure; io non potrò oppormi in alcun modo alla tendenza a soddisfare i suoi bisogni; mi intrappolerò di nuovo nel rapporto, mi sentirò tiranneggiata, priva di ogni libertà, svuotata: giungerò dunque ad odiarlo e pagherò questa colpa dovendo riparare, con un aumento di disponibilità; non ce la potrò fare, e, dentro di me, si scatenerà la guerra. Se il bambino rimanesse dentro di me, se persistesse la fusione tra noi, non ci sarebbe problema. Non c’è dubbio che, senza la congiura delle circostanze, le cose sarebbero andate diversamente da come sono andate. Probabilmente, avrebbe instaurato con il bambino un rapporto estremamente disponibile e donativo: egli — avendo bisogno, come ogni neonato, di essere iperprotetto - avrebbe interagito con minore irrequietezza. Il rapporto si sarebbe evoluto più serenamente.

La presenza di sua suocera ha invece drammatizzato un conflitto latente dentro di lei, inducendo un rapporto con il bambino troppo frustrante per alcuni aspetti, troppo iperprotettivo per altri. Come ogni bambino, il suo era affetto dalla sindrome di aggrappamento tipica delle prime fasi di sviluppo: deve aver interagito con alcuni atteggiamenti frustranti - per es. la precoce separazione notturna - sviluppando una reazione di aggrappamento.

La sua risposta, che, naturalmente, sarebbe stata congrua, deve essere stata alterata dall’interferenza della suocera: per un certo periodo, deve essersi configurata come alternativamente o troppo gratificante o frustrante.

Il circolo vizioso che ne è derivato è quello che ancora vive: alle frustrazioni il bambino reagisce con una reazione di aggrappamento. E l’angoscia che produce dentro di lei la sua sofferenza, la porta ad avere, dopo il tentativo di frustrarlo, una reazione riparativa. Da questo circolo vizioso il bambino non può uscire: deve uscirne lei, equilibrando gli atteggiamenti protettivi a quelli frustranti — che rispondono, poi, ad un reale bisogno del bambino di lenta separazione e autonomizzazione.

Ma, per non demonizzare sua suocera, attribuendole colpe che vanno al di là della sua oggettiva responsabilità, occorre tenere conto che il circolo vizioso iperprotezione-frustrazione-riparazione, attivato dalla presenza di essa, rappresentava (e rappresenta) una dinamica profondamente radicata nella sua personalità. La genesi esperenziale di questa dinamica sembra ormai sufficientemente chiara.

Sesta e ultima figlia non desiderata, assoggettata — comesa - a minacce di annientamento nel corso della vita fetale, il suo essere bisognosa, dipendente e di peso le è stato fatto vivere sempre, fino al conseguimento dell’autonomia lavorativa, come una condizione orribile e colpevole. Ha interagito come tutti i bambini i cui bisogni radicali vengono drammatizzati e colpevolizzati dall’ambiente: esprimendoli in maniera angosciosa, sul registro della precarietà fisica — l’essere ‘malaticcia’ -, dell’inappetenza, della capricciosità, del rendersi intollerabile.

Questa interazione, naturalmente, ha amplificato il conflitto tra la disponibilità della famiglia e i suoi bisogni, avviandolo in un vicolo cieco. Questo si è definito nel momento in cui quei bisogni, per il modo in cui si ponevano e per le risposte che attivavano, sono giunti ad essere vissuti come bisogni orribili e negativi da eliminare. La minaccia di annientamento, scongiurata sul piano di realtà, si è riproposta soggettivamente come momento necessario e inderogabile di una crescita affrancata dai bisogni di cura e di protezione. Quello che è accaduto è facile da ricostruire.

Di fatto, ha cominciato a comportarsi da persona adulta, autonoma, responsabile, utile e non più di peso: ma ciò è avvenuto al prezzo di spostare fuori di lei i suoi bisogni, e di soddisfarli negli altri esseri bisognosi. Le conseguenze di questo éscamotage coincidono con la storia del suo disagio. Trattandosi di bisogni assoggettati alla frustrazione e alla minaccia di annientamento (prima ambientale, poi soggettiva), essi, e coloro che li veicolano e li rappresentano (i genitori anziani, i bambini, ecc.), hanno assunto un carattere drammatico, intrappolandola in relazioni all’interno delle quali la sua disponibilità doveva essere illimitata per salvaguardare quegli esseri, e i suoi bisogni proiettati su di loro, dall’abbandono, dal dolore, dalla morte. Si è realizzato così il circolo vizioso in virtù del quale la sua disponibilità ipeprotettiva, ogniqualvolta andava incontro ad una crisi di rigetto, doveva essere riparata con atteggiamenti di ipercompenso, di cure, di attenzione e di dedizione maggiore. L’affiorare di fantasie distruttive nei confronti del bambino non ha rappresentato altro che il riattualizzarsi, su un fronte relazionale, di una soluzione già adottata in precedenza soggettivamente e che, purtroppo, ha funzionato nell’indurre una liberazione delle sue potenzialità di uscita dalle trappole dei bisogni di dipendenza, di cure e di legame. Tali fantasie, irrealizzabili perché se è purtroppo possibile eliminare quei bisogni non è possibile eliminare chi li rappresenta, la hanno solo posta di fronte a quanto di orribile è accaduto dentro di lei.

Questo impone diristrutturare la sua esperienza — soggettiva e relazionale - orientandola non, come è accaduto finora, verso la liberazione definitiva da quei bisogni, bensì verso la liberazione di quei bisogni dalla minaccia di annientamento che ancora grava su di loro.

Riflessioni

Quanto è stato riportato attesta con assoluta evidenza che il sintomo — univoco in questo caso - rappresenta un tentativo di soluzione di un problema reale che, nella trama dell’esperienza soggettiva, ha assunto una configurazione adialettica.

Nei suoi termini generali, il problema riguarda la relazione del soggetto con il mondo, con gli altri, e, più in particolare, la misura in cui questa relazione deve essere utilizzata come uno scambio in virtù del quale il soggetto ricava una soddisfazione dei propri bisogni e, nel contempo, soddisfa i bisogni degli altri. Non si tratta di un problema in sé e per sé drammatico, poiché si dà per scontato che una relazione tra persone è come una relazione tra esseri reciprocamente, anche se diversamente, bisognosi. Il problema diventa drammatico nel momento in cui un soggetto, che è costretto a negare i propri bisogni e che ha già, di conseguenza, un modo di porsi caratterizzato da una disponibilità illimitata nei confronti dei bisogni altrui, entra in relazione, assumendo un ruolo materno, con un esserino oggettivamente e radicalmente bisognoso — il bambino - che consente, e quasi facilita, una proiezione dei bisogni rifiutati. La proiezione trasforma il rapporto madre-bambino in una trappola che postula il sacrificio totale di uno dei due soggetti in relazione. La struttura adialettica del rapporto non consente che due soluzioni: il mors mea, vita tua o il mors tua, vita mea.

Questa struttura, con le sue soluzioni entrambi irrealizzabili, impone una pratica dialettica che, riconoscendo i diversi bisogni, ne comporti un’adeguata soddisfazione.

E’ anche chiaro che, nell’esperienza di Marina, il rapporto con il bambino non fa altro che mettere in luce un problema di ordine più generale, che postula, a tutti i livelli, un riconoscimento dei propri bisogni. nonché in rapporto al bambino, il modo di porsi di Marina, incentrato su una disponibilità illimitata, deve cambiare a tutti i livelli di relazione con il mondo. Ma ciò passa attraverso il riconoscimento del proprio essere bisognosa: ed è questo l’ostacolo, poiché Marina ha raggiunto la sua identità adulta proprio attraverso una negazione e una rimozione dei suoi bisogni.

La ricostruzione microstorica mette in grado di comprendere come e perché questa negazione si sia resa necessaria e, in un'epoca dello sviluppo, sia risultata funzionale al raggiungimento dell’identità e dell’autonomia. Ciononostante, essa va messa in gioco, poiché, nel tempo, rischia di diventare in rimedio peggiore del male.

Quanto al male, è ovvio che esso affonda le sue radici nella realtà familiare e sociale. Non può essere un male nascere bisognosi, dipendenti e di peso. Lo diventa quando per una famiglia un’altra bocca da sfamare rappresenta un peso quasi insostenibile. Dietro la miseria psicologica c’è spesso la miseria sociale e lo spettro di essa…

Considerazioni teoriche:

L’esperienza riferita mi sembra rilevante per molti aspetti. Anzitutto, riguardando essa una persona che opera in ambito assistenziale ed ha una cultura psicosociologica, c’è da considerare in quale misura dei vissuti, statisticamente piuttosto frequenti, sfuggono ancora del tutto alla coscienza sociale, essendo gravati da pregiudizi che li restituiscono ad ogni soggetto che li vive come mostruosi. Da questo punto di vista, il problema della prevenzioni, intesa come passaggio della coscienza sociale astratta — che sacralizza il rapporto madre/bambino - alla coscienza concreta sul rischio potenziale che come ogni madre nell’ambito della famiglia nucleare, si impone. C’è da rimanere un po’ sgomenti se si pensa che a molte madri, oggi, una sperimentazione sociale abbastanza crudele, che fa ricadere sulle loro spalle l’allevamento dei bambini, possa apparire come una legge di natura. Lo sgomento si accentua se si riflette sul fatto che l’umanità si è socializzata a partire dall’allungarsi dei tempi di maturazione dell’infante e, dunque, del riconoscimento del peso dell’allevamento e dell’educazione.

Una considerazione non meno importante richiama una nota acclusa al seminario sulla teoria della personalità, che verteva sul bambino come oggetto di proiezione. L’evidenza delle componenti proiettive nell’esperienza di Marina conferma quanto detto, ma permette anche di estendere il discorso al di là di vissuti psicopatologici. Il bambino, in quanto esserino inerme e indifeso e rappresentante di bisogni radicali, è oggetto di proiezione fin dall’epoca del concepimento. Da quando viene alla luce è, nonché oggetto di proiezione, un organismo psichicamente indifferenziato che interagisce "visceralmente" con l’ambiente. Il definirsi dell’io, intorno ad un anno e mezzo, e le espressioni comportamentali rappresentano la realizzazione di alcune possibilità intrinseche al corredo naturale. La fenotipizzazione è, dunque, un processo precoce fondato sulla struttura dell’ambiente, sulle proiezioni sul bambino e sui modi di interagire a queste proiezioni. Ma, ciò che appare massimamente importante è che le proiezioni sul bambino non sono né riconducibili meramente ad un transfert dei vissuti infantili dei genitori né concernono il bambino in sé e per sé. Ciò che viene proiettato è una visione del mondo elaborata a partire dall’esperienza soggettiva ma inevitabilmente strutturata in virtù di categorie culturali apprese.

Nell’esperienza in questione, la proiezione investe il bambino in quanto rappresentante di bisogni divoranti di cure e di amore che vanno soddisfatti al prezzo di un sacrificio totale dei bisogni materni: è ovvio che questa proiezione oppone al bambino preda di un principio del piacere che gli dà il diritto di non subire alcuna mortificazione, l’adulto che deve mortificarsi e solo mortificarsi, o , meglio, che in tanto è adulto in quanto è capace di rinunciare ai suoi bisogni di piacere.

Ciò che Marina proietta nel rapporto con il bambino è una visione del mondo che identifica la crescita, il divenire adulto con la rinuncia, il sacrificio, la mortificazione. Una visione del mondo tragica, tale per cui gli adulti devono praticamente rinunciare al piacere di vivere per preparare altri esseri — i bambini - a rinunciare ad esso.

Costretta a diventare adulta seconda questo modello in un regime di grave frustrazione, Marina pensa che il suo bambino possa più facilmente accettare questa tragica legge di vita in virtù di una soddisfazione completa dei suoi bisogni.

Queste considerazioni comportano una conclusione teorica di estremo interesse. Il modo di porsi di Marina nei confronti del bambino è un modo proiettivo, che muove da una visione del mondo totalizzante. Ma questa visione del mondo riconosce delle fasi: per un primo e lungo periodo essa si esprime sotto forma di gratificazione totale dei bisogni del bambino, in un secondo periodo, quando il bambino diventa grandicello, essa non può esprimersi che sotto forma di frustrazione, di rigore, di severità. Se ciò non è accaduto — ma le fantasie di Marina ne rappresentano un preannuncio -, è solo in virtù del fatto che il bambino è ancora piccolo. La conclusione, estrapolata da questa esperienza, è che i bambini interagiscono con visioni del mondo che si offrono a loro nel tempo sotto forma di comportamenti univoci e non dialettici.

Un’ultima riflessione, inevitabile, verte sull’ordine di genitura. Da un punto di vista tradizionale, che la stessa famiglia determini effetti radicalmente diversi nei figli è assunta come prova inconfutabile della diversa predisposizione genetica. A questa ideologia, banalmente, si contrappongono i tentativi, sofisticati ma sterili della psicoanalisi e anche delle teorie sistemiche di valorizzare casualmente l’ordine di genitura. Ma la realtà offre dei dati che non appaiono schematizzabili. L’esperienza di Marina attesta che la famiglia è una struttura che non contiene, in virtù della storia delle persone che la costituiscono, una quota di conflitti che si esprime nel momento in cui le soluzioni adottate cominciano a rivelarsi inadeguate in rapporto ai bisogni dei membri. E che quindi la crisi, e il fatto che essa investa tutti i figli o solo uno di essi o uno piuttosto che un altro, è un evento congiunturale, da ricostruire sempre a livello microstorico.


2. Mauro

E’ un ragazzo alto, un po’ corpulento, dal volto imberbe, la fisionomia piuttosto infantile, lo sguardo innocente. Ha 24 anni.

Viene, la prima volta, accompagnato dal medico curante, che mi fa presente, anzitutto, la disperazione dei familiari. La malattia di Mauro ha imposto alla famiglia un regime intollerabile, una ritualizzazione dei comportamenti assurda, alla quale gli altri — padre, madre e fratello - si adattano malvolentieri. Il padre, in particolare, che è un uomo di carattere, scalpita e, talora, trasgredisce le regole imposte da Mauro. Accadono, per ciò, liti verbali e scontri fisici piuttosto frequenti.

Il medico di famiglia non sa dirmi molto della situazione clinica. Ha portato con sé una batteria di test psicodiagnostici eseguiti in un centro universitario. I risultati evidenziano un ‘radicale di tipo depressivo, che domina il quadro clinico, associato a tratti di tipo psicoastenico ansioso…’, ’una notevole carica di aggressività sociale…’ e ‘ un’inibizione dell'azione per la presenza di un’incapacità decisionale di fondo’. In conclusione, ‘sul piano sociale, il p. appare gravemente inibito e bloccato, con difficoltà all’inserimento al gruppo, tendenza all’isolamento e chiusura ai rapporti interpersonali’.

Verità poco confutabili, ma senza anima.

Mauro entra in studio dopo che il medico mi ha parlato. Si muove con circospezione, siede sulla poltrona senza toccare né lo schienale né i braccioli. Mi anticipa che ritiene difficile che si possa avviare un discorso terapeutico: ha paura di tutto ciò che, direttamente o indirettamente, ha a che fare con la malattia mentale. E’ consapevole che, con gli strumenti di cui dispone, non può risolvere questa paura: ma frequentare uno studio psichiatrico è, a suo avviso, il modo meno indicato per mantenersi integro. Mi interroga sulla carriera. Non gli nascondo alcunché. Apprendendo che ho lavorato in un ospedale psichiatrico, trasale.

Trovandosi in ballo, decide di mettermi al corrente di come è insorta la paura della malattia mentale. Dato che ha un orientamento politico di sinistra, ci tiene ad informarmi che egli non ha alcun pregiudizio nei confronti dei malati di mente. Odia le istituzioni repressive, ed è d’accordo con la legge 180. Il problema è che egli deve evitare nel modo più assoluto qualunque contatto, diretto o indiretto, con i malati di mente, poiché l’essere a contatto o il trovare qualcuno o qualcosa che è stato a contatto con essi gli provoca un’intollerabile sensazione di ‘sporco’, di disagio, e lo obbliga a interminabili rituali di purificazione.

L’esordio di questa paura è collocabile nel tempo con precisione assoluta. Mentre effettuava il servizio militare, Mauro ha avvertito un disagio profondo per la vita in caserma, per l’affollamento, la scarsa pulizia degli ambienti, gli scherzi pesanti dei commilitoni. Dato che aveva già consultato uno psicoanalista per dei sintomi ossessivi, e aveva effettuato dei test psicologici, ha pensato bene di chiedere una visita medica per ottenere l’esonero. E’ stato ricoverato per due giorni in un reparto neuropsichiatrico, dove c’erano dei giovani evidentemente malati di mente. Ottenuto l’esonero, rientrando in casa, Mauro si è sorpreso a pensare che lo ‘sporco’ della malattia mentale lo aveva contagiato e che egli lo aveva portato a casa. Ricostruendo minuziosamente tutti i movimenti in casa, egli ha formulato una serie di regole precise atte a scongiurare che lo ‘sporco’ fosse toccato da lui stesso e dai membri della famiglia. Si è imposto una serie di tabù. Nessuno avrebbe mai dovuto sdraiarsi sul divano, ove egli si era disteso al rientro dalla caserma. Nessuno avrebbe dovuto entrare nella sua camera, che era stata contaminata. Data la diffusione dello ‘sporco’, i suoi avrebbero dovuto muoversi con estrema circospezione, ed evitare soprattutto di toccarlo, essendo tutti contaminati. La scoperta dell’oggetto delle paure ha interagito con la vita di relazione di Mauro: egli ha cominciato a limitare le sue uscite di casa per il timore di incontrare, per strada o sugli autobus, persone manifestamente disagiate.

Gli faccio osservare che, nel riferirmi la sua storia, egli opera una cesura tra la nevrosi di cui soffriva prima del servizio militare e quanto è accaduto dopo, e che, probabilmente, tra i due periodi c’è più continuità di quanto egli pensi. Sostiene che si tratti di due cose completamente diverse: prima era affetto da banali rituali di pulizia, ora la sua vita è totalmente incentrata sulla necessità di evitare qualunque contatto con lo ‘sporco’ della malattia mentale. Su questa tematica — della continuità o della discontinuità della sua esperienza di vita - penso che si possa avviare una riflessone. Si riserva di pensarci. Dopo tre mesi, decide di cominciare. Per disperazione, poiché non vede altra possibile soluzione. Mi pone solo alcune condizioni. Accettare che, durante i colloqui, stia in piedi, e aprirgli la porta per evitargli di venire a contatto con lo ‘sporco’degli altri.

Il problema preliminare consiste nel tentare di capire quale sia l’oggetto delle paure. Il vissuto di Mauro, riferito allo ‘sporco’ è evidentemente impreciso e incomprensibile. Quanto agli effetti di un eventuale contatto, Mauro non può dir molto: la sola idea gli provoca un disagio enorme. Non è paura di essere contagiato e di ammalarsi: è, né più né meno, ‘schifo’.

Quanto a coloro che lo veicolano, si tratta di una categoria sorprendentemente eterogenea. Oltre ai malati di mente, Mauro ha paura, e rifugge il contatto con barboni, handicappati, drogati, omosessuali. La matrice della paura è univoca: Mauro pensa che tutti i rappresentanti di queste categorie possono essere stati rinchiusi in istituzioni psichiatriche o cliniche private. Sorprendentemente, la paura non è riferita tanto alle condizioni di malattia o di disagio psicosociale in sé e per sé, quanto all’istituzionalizzazione, alla reclusione in un ambiente psichiatrico.

C’è una contraddizione che affiora immediatamente. Mauro, coscientemente, è critico e avverso nei confronti di ogni istituzione repressiva. Ma, nelllo stesso tempo, egli deve riconoscere che se tutte le categorie di persone che gli incutono paura fossero virtualmente internate, e impedite di circolare nel contesto urbano, non avrebbe più alcuna difficoltà. Naturalmente, gli ripugna ammettere ciò: ma - è onesto nell’ ammetterlo - se i ‘diversi’ fossero segregati, egli sarebbe finalmente libero.

Un ulteriore passo avanti viene fatto riflettendo sul problema della percezione sociale del disagio. Mauro si rende conto che i malati di mente sono molti. Quelli che gli fanno paura, sono, però, coloro che manifestano dei comportamenti strani, che parlano da soli o hanno gli occhi allucinati, che vestono miseramente o senza alcuna proprietà. E’ evidente che due dati accomunano le categorie di cui Mauro ha paura: la percettibilità sociale del disagio, e la qualità dello stesso che comporta la necessità di cure e, quindi, fonda la possibilità di un internamento istituzionale.

Con questi dati è possibile formulare una prima ipotesi interpretativa. Secondo questa, l’oggetto delle paure di Mauro è una condizione di estremo bisogno, che denota l’inadeguatezza della persona di provvedere a se stessa, e che comporta la possibilità che le cure siano erogate in un ambiente istituzionale, contro la volontà della persona e, comunque, in un regime di mortificazione della sua libertà. Utilizzando questi dati, non è azzardato riferirli ad una condizione sperimentata da tutti: la condizione infantile, caratterizzata dall’incapacità di provvedere a se stessi, e da una radicale dipendenza.

Tranne nei casi di bambini istituzionalizzati, la condizione infantile non comporta alcun internamento: salvo che, genericamente parlando, non si assuma la famiglia come istituzione repressiva…

Un solo dato differenzia nettamente i bambini ‘diversi’: mentre questi sono esposti al rifiuto, al disprezzo, all’ostilità o alla compassione, gli altri, quelli normali, proprio in virtù della loro inadeguatezza e vulnerabilità, sono protetti, curati ed amati. Di solito, non si rendono conto neppure di essere chiusi dentro la famiglia dalla schiavitù dei bisogni.

Qualche percezione soffocante legata all’essere bambino, Mauro deve averla già provata. A 3 anni — epoca in cui di solito si verifica una crisi di opposizione - egli ha cominciato ad avere dei violenti attacchi di asma. E’ stata formulata una diagnosi di asma allergica, ma, nonostante gli esami ripetuti nel tempo, non sono mai stati individuati gli agenti allergizzanti. Gli attacchi, ricorrenti ma discontinui, sono stati curati sintomaticamente, e sono scomparsi solo in epoca prepuberale. Le conseguenze della malattia hanno inciso profondamente sullo sviluppo psicologico di Mauro e sulla vita di relazione. Entrambi i genitori hanno drammatizzato la condizione di Mauro, vedendo in essa la prova di una vulnerabilità estrema alle infezioni respiratorie. Lo hanno considerato e trattato pertanto come un bambino ‘diverso’ dagli altri, da proteggere costantemente dalle insidie atmosferiche e dalle infezioni. Fino a 11 anni, in pratica, Mauro non ha potuto quasi giocare con gli altri bambini, né praticare sport, né correre. Ogni esposizione all’aria, al vento, al freddo è stata vissuta come un estremo pericolo. Mauro è cresciuto coperto da maglioni, sciarpe, cappelli. E’ come se la sua condizione neonatale si sia prolungata sino alle soglie dell’adolescenza. Soglia alle quali Mauro si è avvicinato con trepidazione, avendo saputo che, con l’adolescenza, l’asma sarebbe regredita. Come un purosangue tenuto nella bambagia, ricorda d’aver scalpitato dentro di sé nell’attesa che giungesse il momento di scattare, liberandosi della malattia e delle cure parentali soffocanti.

Dal regno della necessità al regno della libertà: nulla di più comprensibile di questo progetto di vita. Cosa ha impedito questa rivoluzione privata?

Un sogno piuttosto limpido fornisce una prima risposta. Mauro è in un porto, in attesa di imbarcarsi. E’ nello stato d’animo di chi si accinge ad intraprendere una crociera di piacere. All’improvviso, in un capannone, scoppia un violento incendio: fiamme e fumo invadono il molo. Terrorizzato, Mauro tenta di mettersi in salvo allontanandosi dal porto. Il clima atmosferico gelido promuove l’identificazione della località: è il porto di Leningrado, che Mauro di recente ha visto in un documentario televisivo. Al confine, insomma, tra l’Unione Sovietica e i paesi scandinavi e cioè tra due regioni opposte, almeno per quanto riguarda il problema della libertà individuale. Non è difficile tradurre questo confine in termini di biografia interiore: è il confine che, nelle aspettative di Mauro, avrebbe dovuto separare l’infanzia, vissuta all’ombra di una protezione oppressiva, dalla vita adulta, affrancata dai vincoli parentali e ispirata ai principi del libero amore.

Quel confine è risultato invalicabile: l’incendio allude ad un pericolo grave che, nel progettarsi, nel vedersi grande, Mauro aveva trascurato: il pericolo di cadere dalla padella dei legami parentali alla brace dei legami sentimentali. L’incendio attesta che i bisogni d’amore hanno assunto in Mauro il significato di una minaccia persecutoria: una minaccia atta a sconsigliare di imbarcarsi verso il regno di una libertà compromessa in partenza.

Il tema dell’imbarcarsi — Mauro lo rievoca dopo il sogno - non è del tutto simbolico. Dopo il CAR, era stato trasferito a Roma. La possibilità di ritornare a casa ogni sera alleviava abbastanza i disagi della vita di caserma. Rievocando quel periodo, Mauro si sorprende a posteriori di non aver mai utilizzato la libera uscita. Nonostante i commilitoni lo invitassero spesso ad accompagnarsi a loro per cenare e fare le ore piccole — andando, casomai, a donne - Mauro non se l’è mai sentita di accettare. Rientrava a casa puntualmente. Deve riconoscere che la dipendenza dalla famiglia e dall’ambiente domestico era più forte di quanto immaginasse (e della coscienza che ne aveva all’epoca). C’è un dato che conferma ciò, ancora più pregnante. Dopo 3 mesi di servizio militare era stata ventilata dai superiori la possibilità di un trasferimento di un contingente in Sardegna. Mauro si era dato affannosamente da fare per sapere se il suo nominativo era nella lista dei partenti. Avuta la conferma, il disagio per la vita di caserma era divenuto intollerabile, fino al punto da indurlo a presentare la documentazione psichiatrica per ottenere l’esonero.

Ricostruire la repentina ristrutturazione dell’esperienza ossessiva avvenuta in conseguenza dell’esonero militare appare ormai possibile. La minaccia di una separazione dalla famiglia ha attivato un’angoscia che Mauro ignorava di avere dentro di sé: l’angoscia di dover tollerare un’esposizione al mondo non più rimediabile con il rifugiarsi tra le pareti domestiche almeno la notte.

Onestamente, Mauro ammette che, avendo appreso del prossimo trasferimento in Sardegna, aveva pensato che non ce l’avrebbe fatta e che sarebbe crollato. La paura, naturalmente, riguardava la necessità di stare in ambienti affollati e sporchi, senza la possibilità di dedicarsi ai rituali ossessivi di pulizia, di cambiare la biancheria, ecc.

Ma, con ciò, la continuità dell’esperienza è confermata. Si tratta di capire il significato della ristrutturazione avvenuta.

Mauro rientra dunque in casa, consegnato l’esonero, con la consapevolezza ‘viscerale’ che, nonostante abbia vent’anni, la sua dipendenza dalla famiglia è radicale. Lo ‘sporco’ che egli porta in casa è identificabile con i suoi bisogni ‘malati’ (folli, addirittura) di cure e di protezione, che definiscono la sua diversità rispetto agli altri.

Il servizio militare, in quanto rito d’iniziazione alla vita sociale, gli ha restituito un’immagine impietosa di sé: quella di un bambino impaurito e vulnerabile, in balia dei suoi bisogni di dipendenza e delle persone da cui dipende. La scoperta di questo difetto di individuazione lo precipiterebbe in una grave depressione, se egli non trovasse il modo di smentirla. La smentita si realizza trasformando la sua impotenza in un potere tirannico sui familiari. Egli si isola fisicamente da loro, gli impone dei comportamenti ritualizzati che escludono ogni intimità, ogni abbandono, ogni contatto; rende inaccessibile la sua camera, argina ogni protesta sputando e scagliando oggetti. Diventa, di fatto, agli occhi dei suoi e dei vicini, un malato di mente. Ma mantiene una lucidità perfetta, e, pertanto, oltre che ‘pazzo’ viene giudicato egoista, prepotente, insensibile, cattivo. Un cuore di pietra, secondo l’implacabile definizione di una vicina di casa. Benché superficiale, questa definizione non è del tutto infondata.

In un sogno, Mauro è sulla sommità di una collinetta e ha accanto a sé un enorme masso sferico, di pietra levigata. Una voce gli impone di sospingerlo. Con uno sforzo estremo, Mauro riesce a farlo. Il masso ruota lungo il pendio, acquistando progressivamente velocità. Troppo tardi Mauro si accorge che, a valle, ci sono delle donne e dei bambini che giocano. Il masso ne investe alcune, uccidendole.

Il sogno non è di difficile interpretazione, se si tiene conto che - è superfluo specificare che Mauro è un appassionato di musica rock - il masso rotolante rappresenta un mito contemporaneo giovanile: quell’uomo duro e impenetrabile come una roccia ma non più ‘quadrato’, bensì capace di abbandonarsi, di lasciarsi andare, di perdere il controllo di sé. Ma, affinché il lasciarsi andare sia una conferma di forza, e non l’espressione di una patetica debolezza, occorre che il masso funzioni come un rullo compressore e distruttivo nei confronti delle donne e dei bambini, rappresentanti simbolici della vulnerabilità. In breve, che anche il lasciarsi andare risulti una prova di forza. C’è una enorme differenza metaforica tra la ‘valanga’ e la frana’. Il sogno lascia trasparire con evidenza la struttura dell’esperienza di Mauro. Che è caratterizzata dall’opposizione irriducibile tra i due modi di entrare in relazione nessuno dei quali di fatto può dar luogo alla costruzione di legami. Per un verso, infatti, Mauro si sente debole e vulnerabile, come le donne e i bambini: esposto, pertanto, al rischio di subire investimenti affettivi che potrebbero travolgerlo e disintegrarlo. Per un altro, egli sente la possibilità, seppur realizzabile solo in virtù di un enorme sforzo, di lasciarsi andare a livello relazionale facendo leva sulla sua (presunta) durezza, inafferrabilità, invulnerabilità, impenetrabilità: ma, per rimanere tale, entrando in relazione, egli dovrebbe divenire istruttivo, perdere il controllo fino al punto di non esitare a passar sopra alle sue e alle altrui ‘debolezze’. Diventare, in breve, un ‘mostro’.

Questa struttura di esperienza comporta la vulnerabilità totale, inerme e senza difesa, per un verso, e l’insensibilità distruttiva per un altro.

E’ evidente, dunque, che, nella realtà, Mauro è costretto a rimanere immobile, dalla paura di essere infinitamente vulnerabile o infinitamente distruttivo.

A questo punto, posta in luce la struttura profonda dell’esperienza di Mauro, e dato che l’angoscia che essa suscita appare legata ad un suo non offrire alcuna alternativa all’immobilità e alla chiusura relazionale rispetto al mondo, ciò che appare necessario consiste nel sollecitare in Mauro la consapevolezza che il conflitto non oppone qualità negative del suo essere — la vulnerabilità, la distruttività - bensì bisogni alienati, la cui apparente inconciliabilità è dovuta all’alienazione cui sono andati incontro nel corso della sua storia personale.

Paradossalmente, questa consapevolezza può essere indotta da un’ulteriore riflessione sull’oggetto della paura che limita inesorabilmente la vita sociale di Mauro: i malati di mente. Se è vero, infatti, che la paura concerne una categoria eterogenea (malati di mente, bambini, handicappati, omosessuali), è pur vero che i malati di mente hanno, nel vissuto di Mauro, una connotazione specifica.

Pur apparendo socialmente inadeguati, bisogni di cure e di protezione — caratteristiche comuni alle altre categorie - essi sono gli unici, di fatto, ad essere anche temuti e tenuti a distanza poiché si attribuisce loro una potenziale pericolosità, un'imprevedibilità che può esprimersi sotto forma di comportamenti incontrollati, sostanzialmente aggressivi. Vulnerabili per un verso, e potenzialmente pericolosi per un altro, si comprende perché Mauro veda in essi la manifestazione sociale della struttura profonda della sua personalità, e della conseguenza cui essa può dar luogo: l’isolamento e l’esclusione, per un verso — Mauro si sorprende a considerare che quelle persone stanno sempre da sole -, e la perdita della libertà, con internamento in istituzioni repressive, per un altro. C’è un’ulteriore possibilità, inerente il conflitto e i malati di mente che lo veicolano: ed è la possibilità paurosa che essi possano esplodere e commettere azioni illecite o criminose. In questo caso, la perdita di libertà si configura come reclusione carceraria, o, peggio ancora, - Mauro lo sa - come internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario.

Il discorso si è arricchito ulteriormente. Si può semplificare ancora la struttura dell’esperienza contrapponendo ai bisogni di legame, rifiutati perché intrappolano, ma al prezzo di una chiusura che confina costantemente con l’angoscia della solitudine interiore e dell’abbandono, bisogni di libertà pericolosi, perché la loro configurazione anarchica, ribelle al legame, alla costrizione, alla legge comporta la possibilità dell’internamento manicomiale e/o carcerario. Il problema consiste nell’aiutare Mauro a prendere coscienza della configurazione alienata che i bisogni fondamentali hanno assunto in lui. Che l’uomo sia un essere bisognoso di un’identità personale definita e di un certo grado di libertà individuale e, nel contempo, di legami significativi con il mondo, è, per Mauro, fuor di dubbio. Coscientemente, egli desidera sentirsi un uomo libero e capace di relazioni. Occorre, dunque, cercare di capire come mai, nel suo tragitto di esperienza del mondo, egli sia giunto a sentire la sua identità minacciata dai bisogni di legame, al punto da poter essere tutelata solo da una chiusura distruttiva rispetto al mondo. E, ancor più, perché egli insiste a vedere una possibile soluzione del conflitto tra la libertà e legame nell'estinzione dei bisogni di cura e di protezione, e cioè in un modello di autosufficienza onnipotente che potrebbe aprirsi alla relazione con il mondo senza rischiare di rimanere intrappolato.

A questo punto, la tentazione di interpretazioni psicologiste è forte. Basterebbe far riferimento a fantasie di onnipotenza maturate come compenso di una condizione infantile caratterizzata dal sommarsi, all’inadeguatezza propria del bambino, di una malattia invalidante drammatizzata dall’iperprotezione parentale. Un sogno vale a scongiurare questa ipotesi.

Mauro si vede in un ascensore di legno piuttosto traballante, che sale prima lentamente, poi sempre più velocemente. Giunto ad una certa altezza, che rende paurosa la precarietà dell’abitacolo, istallato in un traliccio anch’esso malcerto, Mauro ha paura e spinge il pulsante di arresto. L’ascensore anziché arrestarsi, aumenta la sua velocità, e il traliccio comincia a oscillare paurosamente.

Si tratta, con evidenza, di un sogno di crescita forzata, che Mauro, resosi conto della precaria attrezzatura della sua personalità, si è sforzato invano di arrestare, e che è giunta a mettere in gioco il suo equilibrio, comportando la minaccia di un crollo rovinoso. Appare certo che l’iperprotezione eccessiva cui Mauro è stato sottoposto da bambino deve aver funzionato come un meccanismo di propulsione di un desiderio di crescere il cui obiettivo non poteva essere che la libertà. Non meno certo è che la tempesta dell’adolescenza, con la minaccia di paurosi cedimenti sentimentali, deve aver funzionato come un ulteriore propulsione. Ma che cosa ha impedito a Mauro di arrestare la fantasia di crescita, che cosa lo ha orientato verso un’onnipotenza che non sembra corrispondere ad un bisogno autentico? Per risolvere questo problema, occorre riferirsi al sistema familiare, e dare per scontato che esso non può essere solo iperprotettivo.

Anche l’iperprotezione però è un aspetto su cui riflettere. Il termine, come tutti i termini psicologismi logorati dall’uso, corrisponde a diversi vissuti. Così è stato nella famiglia di Mauro. L’iperprotezione della madre fa capo, infatti, al dramma consueto di una donna tradizionale che, trattata in maniera piuttosto fredda e scostante dal marito, incapace di ribellarsi e priva di ogni altro orizzonte, si realizza unicamente del ruolo di madre e, ovviamente, tende a prolungarlo indefinitamente, negando la realtà evolutiva della crescita dei figli. Un paradosso singolare, però, è costituito dal fatto che, nei ricordi di Mauro, il ruolo più iperprotettivo lo svolge il padre. Il quale da sempre vive una condizione nevrotica strutturata, incentrata sulla paura delle malattie infettive, ideologizzate come espressione di ‘civiltà’, di amore della pulizia e dell’igiene. Alle rimostranze della moglie e, poi, dei figli, nei confronti dei suoi rituali — imposti, ovviamente, a tutta la famiglia -, egli ha sempre ribattuto che, se l’umanità si attenesse ai suoi principi, non esisterebbero malattie. Purtroppo, non esisterebbero neppure contatti…

Dietro la nevrosi strutturata del padre, c’è una paura profonda della propria vulnerabilità, risolta con un isolamento in apparente, poiché caratterizzato da una rigida burocratizzazione dei rapporti umani.

Non occorre molta fantasia per capire in quale misura questo vissuto di vulnerabilità drammatizzata abbia investito proiettivamente il figlio piccolo, cui veniva attribuita una predisposizione alle malattie respiratorie. Il cordone sanitario teso intorno a Mauro da bambino, e che lo ha stretto letteralmente alla gola, impedendogli di respirare psicologicamente, serviva a sancire la necessità di difendere la vulnerabilità dalle infinite insidie ‘batteriche’ del mondo. Insidie tanto più gravi perché impercettibili e veicolate, inapparentemente, dagli esseri umani. Per anni, Mauro ha inalato questo vissuto persecutorio, incentrato su un modo tragico di vivere i rapporti interpersonali. Non si è accorto di nulla, finché il padre, abbandonando il ruolo protettivo per assumere quello di ‘maestro di vita’, non ha esibito la sua invivibile visione del mondo.

Il padre di Mauro è un comunista ‘viscerale’ di stampo stalinista. La sua visione del mondo nasce da un profondo senso di giustizia, che individua nell’oppressione dei forti sui deboli la causa di ogni male. Ma, per difetto di strumenti culturali, la rabbia nei confronti dell’oppressione dà luogo ad una serie di contraddizioni insolubili. Anzitutto, essa si orienta verso una società all’interno della quale i rapporti tra persone siano regolate da leggi inderogabili: una società, dunque, formalista, ritualizzata e burocratizzata, nella quale il conflitto tra esseri umani è estinto dall’assoggettamento del comportamento alle regole, al dovere, alla legge.

Questo modello di società postula ovviamente un rigido e onnipresente controllo dell’autorità, pronta a reprimere ogni trasgressione: uno stato, dunque, forte, autoritario ed intransigente. Nell’attesa che questa società si realizzi, ed essendo la nostra caratterizzata dalla prepotenza del più forte e dalle debolezze lassiste dello stato, ciascuno deve attrezzarsi per sopravvivere.

Il padre di Mauro, naturalmente, si identifica con un uomo capace di difendersi da sé: forte e giusto. Ma la sua forza consiste in una radicale chiusura ai contatti interpersonali, in una vera e propria corazza caratteriale, e la sua giustizia in una ritualizzazione del comportamento corretto ma formale. Di fatto, è un uomo solo, chiuso dentro di sé, diffidente di tutto e di tutti, impegnato a difendere la sua vulnerabilità dalle insidie invisibili dei contagi. Non solo: l’identificazione con l’uomo forte, autosufficiente, capace di difendersi, comporta due conseguenze. Per un verso — e ciò spiga l’atteggiamento iperprotettivo nei confronti di Mauro - una profonda identificazione con gli esseri vulnerabili e indifesi; per un altro — paradossalmente- un profondo disprezzo per ogni manifestazione di debolezza, di inadeguatezza, di dipendenza, di bisogno. Tanto è stato iperprotettivo, quanto, dunque, sprezzante e ridicolizzante nei confronti dei figli piccoli e della moglie. Dal suo punto di vista, donne e bambini rientrano nella categoria degli esseri inferiori, letteralmente handicappati. L’odio nei confronti delle debolezze si riverbera, ovviamente, anche fuori della famiglia. Per il padre di Mauro, drogati, omosessuali, malati di mente, vagabondi, poveri sono categorie sociali spregevoli, espressione deteriore dei vizi della società borghese: una piaga, insomma, da sterilizzare.

L’universo familiare in cui vive Mauro è dunque caratterizzato da una contraddizione insanabile: iperprotettivo per un verso, e dunque infantilizzante; per un altro, esso è anche frustrante e automizzante, ma in virtù di un codice, veicolato dal padre, adultomorfo. Questa contraddizione vede nella crescita un salto di qualità radicale dell’esser bisognoso, dipendente, vulnerabile, inerme del bambino, dell’esser autosufficiente, difeso, impenetrabile, duro dell’adulto.

Ma questo salto di qualità, per quanto ponga al riparo dagli attacchi, postula il sacrificio totale dei bisogni di relazione — di cure, di protezione, d’amore - e, in ultima analisi, degli affetti, identificati con una minaccia interna che, non controllata, può dar luogo al cedimento, alla perdita di potere, all’alienazione, all’esposizione totale dell’altro.

Un episodio banale precipita in Mauro la presa di coscienza che l’oggetto profondo delle sue paure si identifica con l’essere bisognoso degli altri. Un giorno, mentre è in attesa dell’autobus per venire a parlarmi, gli si avvicina un uomo di mezza età, dall’aspetto non trasandato e non sospetto, che gli tende la mano per chiedere l’elemosina. Mauro reagisce a questa situazione con un panico irrefrenabile: fugge, rifugiandosi in casa. Per una settimana, si sottrae ai colloqui, meditando di nascondermi l’accaduto. Poi comprende che aver paura della verità, quando essa coincide con bisogni radicali, non serve ad estinguerli, bensì solo a viverli in maniera alienata.

C’è ancora un sogno, che vale a rimuovere ogni difesa. La porta della camera di Mauro, inaccessibile a tutti, è a vetri. Per impedire ai suoi di gettare in essa lo sguardo, Mauro ha provveduto a schermarla con dei giornali fino ad una certa altezza. Nel sogno, una vicina di casa, (che, in occasione di una crisi di Mauro, sentendo urlare a perdifiato, ha chiamato la polizia) utilizzando uno sgabello, scruta nella camera. Mentre guarda, la sua espressione, originariamente tesa ed ostile, cambia, divenendo triste e compassionevole.

La camera di Mauro rappresenta con evidenza il suo mondo interiore, la vulnerabilità sottratta alla relazione con il mondo e resa impenetrabile e imperscrutabile. Ma, nel contempo, dato il disordine assoluto in cui essa versa — da due anni la finestra è chiusa ermeticamente, la ‘laniccia’ è ormai stratificata dappertutto, le lenzuola sono incartapecorite, ci sono riviste pornografiche accatastate l’una sull’altra…- essa è anche la prova inconfutabile delle diversità di Mauro, del suo essere trasgressivo, barbone, perverso, malato.

La vicina, che in passato, ha chiamato la polizia per restaurare l’ordine, appare più commossa e impietosita da gettare lo sguardo nello spazio privato. Che significa questo se non che il mondo interiore di Mauro, sottratto dall’iperprotezione familiare, alla dittatura paterna e alla relazione con gli altri, è votato all’abbandono?

E’ questo dunque il prezzo dell’invulnerabilità: il rimanere integro e individuato, ma lasciandosi morire dentro. La paura che esprime la vicina è la pietas che Mauro prova nei confronti dei suoi bisogni di relazione lungamente frustrati da un irrealizzabile modello adultomorfo.

A questo punto, Mauro comprende che la difficoltà che ha avuto di riconoscere nel suo modo di essere la pressione latente di questo modello corrisponde al fatto che esso, adottato a tutela di una vulnerabilità vissuta drammaticamente, non solo non soddisfa i suoi bisogni autentici, ma ne impedisce la realizzazione nella pratica della vita. Comprende anche che le valenze gigantesche di quel modello muovono dalla percezione dei bisogni di relazione con il mondo in termini di nanismo, di handicap, di malattia. Su questo si fonda lo scarto tra la sua coscienza sociale aperta, tollerante, orientata a sinistra e il suo modo di essere sostanzialmente duro, intransigente, ‘fascista’. Mauro si sorprende, infine, di essersi alleato per anni con la malattia e di averla utilizzata per tentare di estirpare i suoi bisogni radicali. Sa anche che il tragitto inverso di lenta riapertura al mondo e di messa in gioco della sua vulnerabilità non sarà né rapido né facile da percorrere. Ma il più è fatto e, liberato dal peso del gigantismo, Mauro si abbandona sulla poltrona dello studio, come a sancire il crollo di uno sterile mito e la sua identificazione con i ‘diversi’.

Non è insignificante, forse, alla conclusione di questo resoconto, affrontare un problema che si è posto nel corso dell’esperienza. Pur avendo abbandonato l’analisi precedente poiché l’analista insisteva nell’attribuire la crisi sopravvenuta nel corso del servizio militare all’affiorare, in caserma, di una omosessualità latente, Mauro è rimasto, per qualche tempo, sorpreso dal fatto che il discorso tra noi procedesse non certo trascurando, ma neppure dando grande rilievo alle fantasie sessuali. Non è per caso che queste fantasie non siano state neppure riferite sinora.

Il problema — teoricamente molto importante - è che non c’è nulla di più ovvio e prevedibile di quelle fantasie all’interno di un’esperienza ossessiva. Sono, infatti, costantemente, piuttosto precoci, progressivamente sfrenate e, dall’adolescenza in poi, quasi sempre ‘perverse’. Lo scarso interesse che va ad esse accordato, finché non possono essere inserite in un contesto interpretativo più vasto, dipende dal fatto che esse, autonomamente, non significano alcunché.

Espressioni originariamente di un desiderio di crescita e di identificazione con l’adulto, esse, nel corso degli anni, via via che prende corpo la paura degli affetti, si caricano di valenze adultomorfe. E’ come se l’ossessivo, bisognoso di relazione e nel contempo terrorizzato dalla possibilità di un cedimento sentimentale, le utilizzasse per quadrare il cerchio: per alimentare possibilità immaginarie di relazione il cui contenuto sessuale è rassicurante perché adulto, e la cui forma — strumentale e sempre più trasgressiva - riduce le persone a oggetti. Esse vanno intese dunque come una mediazione tra un bisogno di relazione che cresce e il rifiuto, dovuto alla paura della vulnerabilità, di abbandonarsi alla relazione interpersonale.

Si può addirittura affermare che le connotazioni trasgressive delle fantasie sessuali nell’ambito di esperienze ossessive sono l’indice più fedele dell’entità della paura della trappola degli affetti. Esse, dunque, possono essere interpretate come una difesa da questa paura: ciò, tra l’altro, comporta anche una drammatizzazione del loro carattere perverso e criminoso.

Considerazioni sull’esperienza di Mauro

1. Sui test proiettivi e di personalità

 I test proiettivi e di personalità funzionano, oggi, come una protesi rispetto alla riconosciuta scarsa scientificità della diagnosi psichiatrica. Il loro uso viene propagandato come economico — nel senso che permettono una rapida valutazione della situazione interiore -, obiettivo — nei termini in cui può esserlo una radiografia - , e valido a misurare, nel tempo, gli eventuali cambiamenti profondi prodotti dagli interventi terapeutici (o, ovviamente, il decorso fatale del processo di malattia…).

Sussistono due motivi per rifiutare, dal punto di vista della prassi terapeutica dialettica, l’uso dei test. Il primo è di ordine strettamente ideologico: se la prassi terapeutica dialettica non opera in alcun modo prescindendo dai livelli di coscienza o alle spalle del soggetto, essa non può riconoscere, a nessun titolo, come corretta la situazione in cui avviene la somministrazione, l’esecuzione e la valutazione dei test. Poiché questa situazione mette a confronto un tecnico, che sa quello che fa e perché lo fa, con un soggetto che non sa e non deve sapere. Questo significa che il soggetto non dispone di alcuno strumento critico riguardo alla lettura dei test: la struttura profonda della sua personalità è ciò che risulta dai test, secondo un procedimento omologabile a una qualunque analisi di laboratorio. Questo rifiuto ideologico, che verte sui livelli di potere propri della situazione-test, fissi e immutabili, dovrebbe, secondo taluni, essere accantonato tenuto conto dell’obiettività scientifica che governa il protocollo e la lettura dei test. Ma questa pretesa obiettiva è un mito. La struttura profonda della personalità, così come appare dai test, non è neppure omologabile ad una radiografia, che per evidenziare qualcosa, deve trascurare qualcos’altro. Ciò che appare, infatti, è sempre e solo una serie di attribuzioni negative e pregiudiziali che esprimono tutt’altro che la neutralità del tecnico.

La lettura dei test opera una sezione trasversale dell’esperienza soggettiva che, ignorando la temporalità dell’esperienza stessa — il suo carico di memorie e la soggettività -, si riduce ad un’autopsia che non mette in luce altro che elementi negativi. Se la diagnosi psichiatrica clinica è oggettivante, poiché si fonda sul rilievo dei sintomi, la diagnosi testologica è, nonché oggettivante, infamante, poiché, al di là della malattia, mette in luce una personalità inadeguata a vivere, immatura, carica di pulsioni lipidiche ed aggressive ipercontrollate perché incompatibili con il principio di realtà. Mentre la diagnosi clinica è meramente nosografia, la diagnosi testologica è una diagnosi psicosociale, che si conclude regolarmente con un verdetto di condanna per la colpa. Vale la pena di rievocare l’assioma di Levj-Strauss: ‘Barbaro è colui che crede nella barbarie’, e di tradurlo in una metafora: ‘psicodiagnosta è colui che proietta la sua visione del mondo sui dati offertigli da un soggetto impotente’.

Si può opporre — e di solito, dagli addetti ai lavori, si oppone - a questa contestazione, il rilievo che la psicodiagnosi — rispetto a qualunque altra tecnica psichiatrica tradizionale, dal colloquio clinico al trattamento — rappresenta un’interazione, tra tecnico e soggetto, neutrale e ‘indolore’. L’obiezione è smentita dal fatto che il tecnico, adottando nella lettura un linguaggio esoterico, mette sulla carta, e non comunica a voce, i suoi pregiudizi, offrendo allo psichiatra un supporto non insignificante. Nel caso in questione, dai test risulta che Mauro è affetto da una depressione atipica con componenti psicoastenico.aggressive: la traduzione in un linguaggio corrente comporta la possibilità che egli già alberghi un processo schizofrenico e che, per di più, possa diventare, in virtù dell’evoluzione di questo processo, un deviante rompiscatole che, non avendo la maturità di affrontare la vita, sfoga la sua rabbia impotente contro il mondo. Penso che non occorra commentare la scarsa obiettività scientifica di un tale giudizio.

2. Lo scenario familiare

A differenza dell’approccio sistemico, che privilegia le esigenze omeostatiche del gruppo familiare, impegnato a mantenere l’equilibrio a qualunque prezzo — e dunque anche al prezzo della malattia di uno dei membri -, l’approccio dialettico valorizza il progetto familiare, il tendere verso un equilibrio non raggiunto, nel quale i figli vengono coinvolti: se il progetto è astratto — nel senso che mira ad una soluzione incompatibile con i bisogni umani -, il figlio che se ne fa carico e lo radicalizza, portandolo alle estreme conseguenze non può che ammalare. Il punto di vista sistemico vede i genitori impegnati nel far ammalare i figli e nel mantenerli ammalati per salvaguardare i propri equilibri; il punto di vista dialettico, altresì, vede la famiglia impegnata a normalizzare i figli secondo codici culturali che non rispondono ai bisogni di nessuno dei membri — nel senso che essi sono funzionali all’equilibrio del macrosistema - e il cui effetto alienante latente nei genitori diventa evidente in almeno uno dei figli.

Non si tratta di una piccola differenza, bensì di una differenza sostanziale, poiché essa non comporta tanto un cambiamento del sistema familiare sotto il profilo comunicativo, bensì un cambiamento del progetto e del sistema di valori che lo sottende: cambiamento del progetto e del sistema di valori che lo sottende: cambiamento che può avvenire anche (ma non solo) in uno dei membri della famiglia.

La famiglia di Mauro, da questo punto di vista, è una famiglia esemplare. Il codice culturale cui essa fa riferimento è, ne più ne meno, quello dell’ascesa sociale, incentrato sull’opposizione pulito/sporco. Questo codice permette di comprendere immediatamente sia le cure iperprotettive fornite da Mauro da bambino per tenerlo al riparo dalle infezioni sia la proposizione, dall’adolescenza in poi, di valori — lo studio, il lavoro, l’impegno in cose serie - miranti a tenerlo al riparo dai vizi.

Codice che identifica la normalità nell’ipercontrollo, nel rispetto assoluto delle regole proprie del buon vivere civile; codice la cui forza è nell’integrazione sociale che esso assicura, pagata al prezzo di una perpetua paura agli occhi della gente. L’adozione esasperata di questo codice lascia pensare — com’è vero - ad un passato di miseria sociale. Ed è agevole comprendere la trasformazione che esso subisce nel corso del tempo e delle generazioni: al riscatto sociale, che segue l’affrancamento dal bisogno, segue l’integrazione conformista nel modo di essere borghese — segnata dal timore che si rilevino gli indizi della condizione originaria, per es. l’ignoranza-, L’integrazione promuove a sua volta il desiderio di ascendere socialmente, che si proietta sui figli, ma postula che essi, per raggiungere posizioni di prestigio, rinuncino ad ogni distrazione — gli svaghi, le amicizie, gli affetti - e siano tutelati dai ‘vizi’ — alcool, droghe, perversioni, ecc. - che possono trascinarli nuovamente in basso. La spinta originaria, dovuta alla miseria, giunge così a configurare un modello ascetico di vita. Quello, appunto, che Mauro incarna fino al punto di rinunciare ad ogni contatto significativo con il mondo, vissuto come contaminante. Di tutto ciò, nulla (o quasi) può risultare a livello comunicativo, poiché le famiglie sono fuscelli microstorici inseriti in una corrente del cui corso nulla sanno. Affermando che le leggi microstoriche sono universali, i teorici sistemici ribadiscono l’assioma hegeliano: si conceda loro di studiare oggettivamente solo ciò che appare. Scrive Marx: "se l’apparenza delle cose coincidesse con l’essenza, la scienza non avrebbe senso".

3. Soggettività e mentalità

Lo scarto tra soggettività e mentalità non è sempre evidente nelle esperienze di disagio psichico. Il più spesso, il soggetto adatta la sua visione cosciente del mondo alla mentalità. Un ossessivo, per esempio, tende a progettarsi secondo un modello che riconosce il controllo sulle ‘pulsioni’ e la correttezza formale come valori assoluti. L’esperienza di Mauro, da questo punto di vista, è singolare (per quanto non eccezionale). La sua coscienza non solo non rifiuta i contatti, le relazioni, gli affetti, il piacere, ma, addirittura, tende verso un progetto di vita poco tradizionale. Politicamente, egli è dalla parte degli oppressi, degli emarginati, dei diversi, e, dunque, contro le istituzioni repressive. Rifiuta i valori borghesi del denaro, della competizione, del successo ad ogni costo, e, dunque, la concezione della vita come lotta per la sopravvivenza. Culturalmente, è aperto e sensibile a tutte le sollecitazioni — e anche alle ‘mode’ - che veicolano nuovi bisogni di socialità, di partecipazione, di giustizia, di libertà. Al tempo stesso, la sua esperienza psicopatologica, si elabora in un quadro di mentalità definito da scissioni (adulto/bambino, forte/debole, razionale/emotivo, normale/anormale, pulito/sporco) che, assegnando ai valori positivi un significato socializzante e a quelli negativi un significato di emarginazione e di esclusione, alludono ad una visione del mondo incentra sul dominio del più forte, sulla gerarchia, sulle regole rigide, sulle repressioni e sulla eliminazione di ogni diversità. In breve, coscientemente Mauro è un progressista; a livello di mentalità, più che un conservatore, un fascista. Non è difficile comprendere nella sua genesi questo scarto: la coscienza di Mauro si è evoluta a partire da un contesto familiare gerarchizzato — con una rigida distribuzione dei ruoli di capifamiglia, donne e bambini -, animato da una profonda vergogna sociale delle origini umili e gravitante verso l’incorporazione, meramente formale, del modo di essere borghese. Ma quello scarto è significativo perché pone in luce, inconfutabilmente, due livelli di coscienza: il primo, quello nel quale Mauro si identifica, fondato su una percezione e su un elaborazione personale del mondo; il secondo, quello che determina l’esperienza psicopatologica, vincolato a categorie totalizzanti, non dialettiche e pertanto insensibili alle esperienze concrete del mondo. Questo secondo livello è inconscio e perché la coscienza non lo riconosce come proprio — pur essendone agita - e perché alla coscienza sfugge il processo di generalizzazione in virtù del quale, all’epoca dell’adolescenza, l’esperienza privata è stata universalizzata, diventando una visione del mondo. Questo livello si può definire astratto, poiché esso contiene ed allude ad una esperienza personale privata — ad un capitale di memoria - che serve a mascherare e a rimuovere in virtù di un processo di ideologizzazione, di trasformazione in codice (culturale) del concreto in astratto.

Da ciò, appare chiaro l’inadeguatezza del concetto di inconscio psicoanalitico, che non distingue le memorie personali e il processo di ideologizzazione dovuto a codici culturali, che confonde le matrici esperienziali e quelle socio-culturali.

L’importanza di ciò non può essere sottovalutata, perché, mentre le memorie possono essere rimosse o distorte o falsificate, la visione del mondo nelle cui categorie la soggettività è intrappolata è sempre in superficie: al limite, coincide con il comportamento che essa stessa determina.


3. Massimo

Ha 30 anni, e mi viene indirizzato da un collega che, ambulatoriamente e con cure psicofarmacologiche, lo ha aiutato a risolvere un recente episodio delirante, che mi viene descritto accuratamente.

Da tre anni, Massimo lavora come impiegato in un ministero. Dopo i primi mesi, nel corso dei quali ha mantenuto un atteggiamento piuttosto controllato e difeso, entra in buoni rapporti con i colleghi — in particolare con una ragazza -, si lascia andare allo scherzo, anche se in maniera un po’ grossolana. Un giorno una sua battuta ‘volgare’ scatena una reazione piuttosto furibonda da parte della ragazza. Raffreddatosi bruscamente questo rapporto, Massimo, trasferito, in conseguenza dell’accaduto, in un altro ufficio, si sente isolato e tende a chiudersi. Pensa che si sta bloccando di nuovo, e progetta di rivolgersi nuovamente ad un analista con il quale ha interrotto il rapporto tre anni prima. Dopo qualche tempo, si accorge che alcuni impiegati del ministero, trasformatisi in una squadra di operatori psichiatrici coordinata — come Massimo intuisce - dall’analista, hanno cominciato a ‘trattarlo’ terapeuticamente. Il trattamento consiste nel diffondere nell’aria una polverina che, inalata da Massimo, permette agli operatori di comunicare con lui per mezzo del pensiero. Le comunicazioni che gli giungono in tal modo sono ricordi di infanzia, vissuti dimenticati e informazioni assolutamente sorprendenti. In particolare, Massimo apprende che la sua vera madre è un’amica di famiglia, che risiede nel paese originario dei suoi, e che il padre è Wilhelm Reich. Per effetto del trattamento, Massimo regredisce, fino ad identificarsi con il nipotino che ha 7 anni. Parla, nella sua testa, con la voce di questi, ed è trattato dagli operatori come un bambino bisognoso di cure. E’ la sorella, spaventata dalle ‘allucinazioni’ che convince Massimo a farsi visitare da uno psichiatra: dopo due settimane di cure psicofarmacologiche, le allucinazioni scompaiono Massimo serba memoria, però, dell’accaduto ed è convinto del realismo della sua esperienza. Al rientro in ufficio, reintegrato nel posto precedente, gli ‘operatori’ fanno finta di nulla. Gli scopi del trattamento, come gli era stato detto, saranno rivelati solo dopo alcuni anni.

Estinguendo il delirio, la cura psicofarmacologica ha provocato un blocco completo della vita interiore. Massimo non sente più la testa; l’io, debolissimo, è intrappolato nella regione del cervelletto. Di lì, pensieri ed emozioni scorrono flebili e quasi impercettibili, impedendo ogni comunicazione con gli altri. A questa condizione mentale, si aggiunge un’astenia fisica marcata: Massimo stenta ad alzarsi al mattino, trascorre tutto il pomeriggio a letto, non legge giornali, non ascolta la radio, non vede i programmi televisivi.

La domanda terapeutica, focalizzata da una fantasie di sblocco repentino delle energie lipidiche e aggressive — che esprime, tra l’altro, l’acculturazione bioenergetica -, è ampiamente rivendicativa. Massimo vuole, in breve, che gli sia restituito ciò che gli è stato tolto dal ‘trattamento’ al ministero: la personalità, tout-court…

L’esperienza recente al ministero mi sembra caratterizzata da un tragitto singolare: all’inizio, Massimo è chiuso alle relazioni con gli altri, poi si apre, prende confidenza, si disinibisce, diventa un po’ volgare e provocatorio (con le donne), finché sopravviene un conflitto che lo isola e, in conseguenza del trattamento, mette in luce la sua vulnerabilità, fino al punto di indurre l’identificazione con un bambino di 7 anni.

Nel complesso, l’esperienza sembra alludere ad un tentativo di assumere un ruolo adulto, per quanto con forti venature maschiliste, finito con uno scacco e una regressione.

Se a questa esperienza si dà un valore strutturale, essa attesta che la personalità di Massimo non ha che tre modalità di relazione con gli altri: l’aggressività, la vulnerabilità, vissuta come una condizione che permette a chi sappia prenderlo per il verso giusto di manipolarlo a piacimento, e la chiusura, come difesa dalla vulnerabilità. I primi due modi sono dinamici ma squilibrati, il terzo, che coincide con il blocco, è statico ma equilibrato.

Assumendo la vulnerabilità come un dato priMichele, c’è da pensare che la chiusura sia sopravvenuta, nella genesi della personalità, piuttosto precocemente, e che Massimo abbia poi tentato periodicamente di assumere potere sul mondo con sblocchi aggressivi. E che, quindi, quanto è accaduto al ministero non rappresenti che l’ennesima riedizione di una crescita finita sempre con una regressione e con il ricomporsi di un equilibrio statico sul registro della chiusura.

L’ipotesi di lavoro è accolta con attenzione da Massimo, il quale obietta solo, memore dell’esperienza bioenergetica, che l’aggressività è necessaria per vivere. Dato che, nonostante l’ideologizzazione avvenuta nel corso dell’analisi precedente, è trasparente l’angoscia di Massimo di essere vulnerabile e indifeso, non è il caso di mettere in discussione questa convinzione. Alla quale, però, si può opporre che, essendo l’uomo un essere precario e bisognoso dall’inizio alla fine della vita, ciò che è essenziale, ai fini di un qualche benessere, non è tanto tutelare la propria vulnerabilità dagli attacchi, quanto riuscire a costruire una rete di relazioni che funzioni al fine di soddisfare i propri bisogni.

Questo diventa subito un nodo del discorso. Massimo, infatti, interpreta la definizione dell’uomo come essere bisognoso nei termini di una condanna a dipendere dagli altri. Dopo 6 mesi, un sogno chiarisce la trama dei suoi vissuti a questo riguardo. Nel sogno Massimo è condannato all’impiccagione. Egli tenta di difendersi dall’esecuzione protestando la sua innocenza. Il boia, che gli applica il cappio intorno al collo, lo definisce un delinquente. Prima di soffocare (e di svegliarsi angosciato) Massimo trova la forza di urlare che, se lui è un delinquente, il boia è un ladro. Il tema della dipendenza come una corda al collo che lo soffoca è trasparente. Il boia, che non si riesce ad identificare, è un ladro perché ruba la vita. La condanna è iniqua: ma qual è infine l’imputazione? Quale crimine viene addebitato a Massimo?

Massimo vive con il padre, pensionato, e un fratello, Luca. La madre è morta nel 1981. una sorella, laureata in medicina, è sposata ad ha un bambino. Dopo la morte della madre, il padre, che è stato sempre estremamente ansioso, ha sviluppato una depressione catastrofica. Per mesi si è aggirato per la casa quasi vaneggiando. Che fine faremo?, diceva ogni tanto.

Luca ha risentito enormemente della perdita della madre, e della depressione paterna. Si è innamorato di una professoressa, è giunto a sviluppare un delirio amoroso e, poi, di fronte alla prova che le sue erano solo fantasie, si è chiuso in casa, e non è uscito più. Fa vita a sé, come un ospite, e non comunica né con il padre né con Massimo. Ciò che si è riusciti a comprendere è che egli pensa di essere stato rifiutato dalla professoressa per via della statura un po’ bassa, e si vergogna di mostrarsi agli occhi della gente piccolo com’è.

Massimo, Luca e il padre vivono insieme come monadi, senza comunicare, ciascuno chiuso nel suo dramma privato, apparentemente indifferenti l’uno dall’altro. Un giorno, una domenica pomeriggio, Massimo si reca al cinema da solo. Sceglie un film d’avventura, il cui protagonista, Indiana Jones, affronta una serie innumerevole di rischi. Nel corso del film, Massimo si identifica con il protagonista, e gli si rianima in petto la concezione della vita avventurosa che ha alimentato dall’adolescenza sino alle prime crisi di malattia. Quando esce dal cinema, è buio e si sente vagamente inquieto. Poi, repentinamente, sopravviene una crisi di panico: si sente piccolo, solo e sperduto nel mondo. Pensa che la casa è l’unico rifugio ove può stare tranquillo, e si sorprende a vivere con tenerezza il padre ansioso che lo aspetta e che, in fondo, è l’unica persona al mondo che lo protegge. Quando apre la porta di casa ha le lacrime agli occhi: ma, non appena varca la soglia, ogni emozione svanisce. Ridiventa freddo e chiuso.

Questo episodio rievoca il passato. Sentendosi soffocato dal clima familiare, tre volte, dai 17 ai 20 anni, Massimo ha tentato la fuga. Sacco in spalla, con pochi oggetti personali, ha sbattuto la porta ripromettendosi di non tornare più dietro. Dopo aver girovagato per qualche ora nei luoghi urbani mitici — Piazza di Spagna, Piazza Navona, Campo di Fiori -, sul far della sera, cade preda dell’angoscia di essere solo al mondo e deve rientrare.

Ancora una volta, il materiale esperienziale riconduce all’ipotesi formulata, e pone in luce reiterati tentativi di assumere un ruolo adulto, indipendente, autosufficiente, che fanno affiorare vissuti ‘infantili’di abbandono e di esposizione al pericolo. Occorre, dunque, risalire alla genesi e alla vicissitudine di una struttura di personalità che riconosce due livelli in conflitto irriducibile: l’uno, che veicola bisogni di cura, di protezione, di amore, identificato con l’essere bambino, dipendente, inadeguato, bisognoso (in senso negativo); l’altro che veicola bisogni di indipendenza e di autonomia, vincolato allo stereotipo dell’adulto autosufficiente e capace di affrontare il mondo da solo.

Prima della genesi, è giusto verificare l’ipotesi strutturale. Se essa è vera, è la storia della malattia, anzitutto, che può comprovarla.

La prima crisi risale all’età di 20 anni ma essa ha avuto una lenta gestazione. A 19 anni Massimo consegue la licenza liceale. Ha frequentato il liceo animato dalla contestazione studentesca. E’ diventato un fervente comunista, sogna la rivoluzione e l’avvento del regno della libertà. Dopo la fine del liceo, il gruppo politicizzato cui Massimo appartiene si lacera: ciascuno va per la sua strada. Massimo si ritrova solo a dover potare avanti un modello di vita antiborghese, leninista, ispirato ad un estremo rigore, ad un’autodisciplina assoluta, senza più la conferma e la protesi del gruppo. In famiglia — dai genitori e dai parenti, cattolici integralisti (il padre lavora in Vaticano) - le sue scelte politiche sono vivacemente contestate. Massimo si irrigidisce. I suoi interessi culturali sono vasti ma non profondi. Massimo pensa di iscriversi a sociologia, a psicologia, a scienze politiche; opta, infine, per statistica. Intanto, con una solitudine che diventa ogni giorno più pesante, a cui egli rifiuta di dare una risposta affettiva perché il modello della coppia è ideologicamente rifiutato, comincia ad aprire gli occhi sul mondo, e si accorge che la realtà è grigia, piatta, quotidiana: un tran-tran nel quale non si intuisce nessuna delle aspettative rivoluzionarie proiettate sulla società negli anni della contestazione. Comincia ad avere idee confuse, a sentirsi smarrito, solo e sperduto con la sua sterile diversità.

Riesce a dare un solo esame, poi insorge il rigetto dei libri, della cultura, dell’ascesa sociale. Avverte di essere in un vicolo cieco: avrebbe bisogno di consigliarsi, di parlare, di trovare il bandolo della matassa. Ma non sa con chi farlo: e poi, è orgoglioso e preferisce chiudersi dentro di sé. Non ha valutato un pericolo che gli si pone di fronte.

Non avendo rinnovato l’iscrizione all’Università scatta l’obbligo del servizio di leva. La sua cultura politica gli impedisce di vedersi militare, ma anche la prospettiva di separarsi dalla famiglia gli riesce paurosa. Un giorno, mentre è in salotto e sta guardando suo fratello, che ha 9 anni, ma è piccolo e mingherlino, si accorge di averlo introiettato, suo fratello è dentro di lui ed egli è quasi sconvolto dall’ansia di coglierlo piccolo, fragile e vulnerabile. Si chiede ossessivamente cosa sarà di lui quando diventerà grande in un mondo dalle leggi spietate. L’introiezione lo blocca: Massimo non riesce quasi più ad uscire di casa, è insicuro, e fa discorsi poco comprensibili. La famiglia si incarica di farlo visitare da uno psichiatra, che, dopo una vana cura domiciliare, ne consiglia il ricovero in clinica, anche per evitare il servizio militare. In clinica, Massimo viene sottoposto ad elettroshock: dopo il terzo la sua vita interiore si sblocca del tutto. Non ha più ansia per il fratello ma neppure pensieri ed emozioni. Al risveglio dall’elettroshock, non appena si rende conto del blocco Massimo pensa: "e ora, chi mi restituirà ciò che mi è stato tolto?".

Nel giro di un anno, è ricoverato altre due volte in clinica e trattato con pesanti dosaggi psicofarmacologici. In cartella viene annotato un discreto miglioramento. Massimo comincia a pensare — ed è la prima volta - di essere affetto da una malattia mentale.

Rievocando l’esperienza studentesca e politica, Massimo non ha difficoltà a coglierne, a posteriori, i limiti critici. Non la rinnega: ancora oggi le accuse alle istituzioni repressive, compreso il sistema familiare, al perbenismo, al consumismo, all’avidità di denaro gli appaiono giuste. Gli eccessi Massimo li riconduce al terrorismo culturale del gruppo cui appartiene, che promosse un modello di comportamento antiborghese, ma anche duramente ascetico, con un controllo spietato su ogni atteggiamento che poteva apparire molle, cedevole, compromissivo, inquinato. Alla fin fine — conclude Massimo - ci si convince ipnoticamente che non potendo realizzarsi la rivoluzione se non in virtù della violenza, occorreva, per diventare uomini nuovi, anzitutto far violenza a se stessi e, ovviamente, ai sentimenti. A tutti i sentimenti, compresi quelli amorosi: la cultura del gruppo tollerava il libero amore, ma bandiva i legami, soprattutto di coppia, e stigmatizzava impietosamente i sentimentalismi.

La rievocazione antica non impedisce a Massimo di capire che la sua connivenza con il modello di uomo proposto dal gruppo — duro e immune da debolezze affettive - non può essere stata casuale né passiva. C’era in lui, evidentemente, i presupposti soggettivi per aderire al modello. Un’esperienza adolescenziale lo conferma.

In prima liceo, Massimo, che ha frequentato sino alla fine delle medie una scuola privata, si trova in una classe mista. Prova interesse per una ragazza, e intuisce di essere ricambiato. Non solo non trova il coraggio di dichiararsi, ma si sente ridicolo e si vergogna. Comincia addirittura a balbettare, e questo difetto, che esaspera la sua timidezza, lo perseguiterà lungo tutto il corso degli studi liceali.

Ma c’è un’altra prova, ancora più clamorosa. A 25 anni, Massimo entra, per la prima volta, in rapporto con una ragazza. Benché l’affetto sia ricambiato, rapidamente la situazione precipita. Massimo diventa prepotente, aggressivo, insopportabile. L’amore che avverte lo fa sentire ‘viscido’, vale a dire ‘decadente’, ‘molle’, ‘gelatinoso’. Benché lo ami, la ragazza fa presto a capire che non si può andare avanti. Nonché avvilito, Massimo si sente liberato di un peso.

Il presupposto soggettivo, a partire dal quale Massimo ha costruito la sua personalità è, dunque, l’odio per i sentimenti vissuti come espressione di debolezza ridicola e vergognosa. Qual è l’origine esperienziale di questo tragico presupposto?

Rievocando la madre, ancora oggi ha paura. La ricorda rigida, severa, perfezionista, rimproverante, impietosamente castigatrice. Un ricordo vale per tutti gli altri. Massimo ha 5 anni, commette una marachella veniale (al punto che non ricorda neppure di cosa si trattasse), la madre lo picchia sulla testa, Massimo scoppia a piangere, la madre lo picchia ancora più duramente perché ‘non deve’ piangere. I ricordi di Massimo non sono elaborazioni fantasmatiche: la sorella conferma che la madre era ‘tremenda’. La sua severità, implacabile, non era giustificata dal comportamento di Massimo, che era un bambino buono, diligente e studioso (è stato il primo della classe sino alla V elementare e tra i primi sino alle superiori). Non è possibile neppure attribuire quell’atteggiamento ad una struttura di carattere, perché con Luca, nato 11 anni dopo, essa è stata tenera e protettiva. E, nel complesso, fino alla fine dei suoi giorni, non ha mai manifestato disagio per il suo ruolo tradizionale, non si è concessa mai nulla dedicandosi — anima e corpo - alla casa e ai figli. La sorella, di due anni maggiore, e Massimo sono dunque incappati in una situazione familiare congiunturale. I problemi sono, dunque, due: storicizzare questa congiuntura e capire perché Massimo ha risentito di essa in misura più drammatica della sorella.

Rimasta precocemente orfana di padre, la madre di Massimo ha trascorso la seconda infanzia e l’adolescenza in un collegio di suore, per decisione della madre, che, insegnante elementare nel paese d’origine, desiderava che la figlia ricevesse una buona educazione e non si ‘confondesse’ con le ragazze di paese. Uscita dal collegio giovinetta, è rimasta chiusa in casa negli anni della guerra, pervasi dall’incubo dell’occupazione nazista. Sposatasi e trasferitasi a Roma, i primi anni con un magro stipendio e la nascita di due bambini, sono stati anni di solitudine, di fatica e di stenti dignitosi. Nessuno mai l’ha sentita lamentarsi. Ma è chiaro che una percezione tragica del mondo l’ha orientata ad esprimere, paradossalmente, la sua sollecitudine materna in un tentativo di indurre nei figli un precoce rafforzamento del carattere. L’ossessione della debolezza infantile come esposizione al dolore l’ha spinta a soffocare i suoi sentimenti e a tentare di corazzare i figli. A favore di queste ipotesi, intuitivamente già vissute da Massimo, che non è mai riuscito ad odiare la madre, depongono almeno due prove. La prima è fornita dal modo autenticamente materno in cui si è posta nei confronti di Luca. Massimo, che la sollecitava di continuo a non picchiarlo e a non mettergli paura — senza, per altro, che ce ne fosse bisogno - se ne attribuisce il merito. Ma, probabilmente, due circostanze sono state decisive nell’indurre il cambiamento: un sensibile miglioramento delle condizioni economiche, che ha coinciso con un buon adattamento alla vita della grande città, e la presenza in casa, dopo la nascita di Luca, di una zia, trasferitasi dal paese per aiutare la nipote nello svolgimento dei compiti domestici. L’altra prova è fornita dall’atteggiamento, tenero, affettuoso e mai stigmatizzante, assunto nei confronti di Massimo dopo che egli è ammalato. Purtroppo, l’induzione in Massimo di un odio viscerale nei confronti della debolezza, della vulnerabilità e dei sentimenti era già avvenuta.

C’è da spiegare, il modo diverso di reagire alla situazione di Massimo rispetto alla sorella. Basterebbe, forse, pensare al fatto che il codice pedagogico della forza investe con maggior intensità i maschi. Ma occorre pur ammettere una "predisposizione" da parte di Massimo. Predisposizione attestata da un’elaborazione dell’esperienza infantile avvenuta nel corso del ‘trattamento’ al Ministero. Massimo è venuto a sapere che la ‘polvere’ che veniva utilizzata per rendere la sua mente influenzabile dall’esterno, e praticamente senza difesa, era la stessa che sua madre aveva utilizzato per educarlo quando era bambino.

Questa comunicazione ha avuto l’effetto di un’illuminazione. Massimo ha finalmente capito che il suo comportamento docile, buono e diligente, e il suo vissuto nei confronti della madre, caratterizzato dalla paura ma anche dal rispetto e dall’incapacità di odiarla, non erano naturali bensì prodotti dalla inalazione della polvere.

L’elaborazione a posteriori di Massimo rovescia i termini reali del problema. Naturalmente, sull’interpretazione dei fatti si genera un confronto dialettico: Massimo difende con ostinazione l’assoluto realismo della sua esperienza nei termini in cui la rievoca. Le informazioni ricevute dagli ‘operatori’ ne sono, d’altro canto, una conferma; io sostengo che la sua esperienza non solo è reale, ma contiene più realtà di quanto egli possa riconoscere, e che ciò lo obbliga a dare ad essa un significato misterioso.

In rapporto al suo essere radicalmente dipendente, bisognoso di amore e ciecamente fiducioso nei suoi, il bambino è già predisposto naturalmente ad essere influenzabile e manipolabile, e lo è tanto più quanto più è sensibile, cioè capace di registrare le aspettative dei suoi e incline a rispondere ad esse per ottenere, o sperare di ottenere, una risposta di amore. Rievoco la definizione di Laing dell’infanzia come di una condizione ipnotica che assegna agli ipnotizzatori — i genitori, gli educatori un potere totale sulla mente del bambino. Il rimedio naturale a questa condizione ‘morbosa’ di totale plasticità, e cioè di vulnerabilità indifesa, è il bisogno di opposizione. Ma, perché esso possa essere esercitato, occorre che il bambino si trovi in un contesto di rapporti che non faccia incombere sulla sua opposizione la minaccia della rappresaglia della vendetta dell’abbandono. Rievocando la sua esperienza infantile come un’esperienza resa indifesa e manipolata dal ricorso ad una ‘droga’, Massimo si attribuisce un potere di individuazione che presumibilmente non ha mai avuto, perché non ha potuto esercitare la sua opposizione.

E’ come se egli avesse bisogno di pensare che aveva già raggiunto precocemente un’identità personale differenziata, e in una certa misura chiusa, e che questa identità sia stata compromessa dall’uso arbitrario di una droga. Ma la droga potrebbe essere null’altro che il suo bisogno di cure, di protezione e d’amore, che, per l’effetto congiunto di un’elevata sensibilità e di un atteggiamento frustrante materno è venuto a configurarsi dentro di lui come un bisogno morboso, non fosse altro che per il fatto che la sua intensità ha indotto una mortificazione del bisogno d’opposizione, costretto a realizzarsi negativamente sotto forma di chiusura relazionale e di misconoscimento degli affetti.

Se ciò è vero, ne segue che la personalità di Massimo deve essersi orientata verso un modello di crescita che identificava nella repressione e nella estinzione degli affetti la possibilità di diventare forte, libero e indipendente. Modello atroce, che postula il blocco e la morte di bisogni ‘morbosi’ come premessa di una guarigione identificata con il divenire adulto.

Funzionali al tentativo di realizzare questo modello sono state le due esperienze ideologiche sperimentate da Massimo a partire dall’adolescenza: l’esperienza religiosa, vissuta con intensa partecipazione fino a 16 anni, ispirata a principi di autocontrollo ascetico piuttosto rigoroso (fino al punto di ignorare la masturbazione); e, successivamente, l’esperienza politica, di cui si è già fatto cenno.

Alla struttura superegoica della personalità, avviatasi in virtù di una percezione negativa degli affetti come minaccia di cedimenti e di perdita di sé, ha contribuito anche il padre. Anche questi deve aver risentito duramente dello sradicamento dell’ambiente nativo e dell’impatto con il contesto urbano. A detta dei parenti, da giovane era sicuro di sé, piuttosto baldanzoso, amante dello sport e della compagnia. Dopo il matrimonio e il trasferimento a Roma, è diventato insicuro, chiuso, pauroso di tutto e di tutti, perennemente apprensivo, angosciato dalla precarietà economica. Essendosi configurata la vita ai suoi occhi come una lotta per sopravvivere, egli ha intrattenuto con i figli un rapporto orientato solo a promuovere l’inserimento sociale lavorativo. A tal fine, lo studio era l’unica attività apprezzata. Il perdere tempo nel gioco, nelle amicizie, nello sport e negli interessi in genere — sia culturali che artistici che politici - è stato contestato e stigmatizzato come un venir meno ai doveri. Anche l’uscire di casa da parte dei figli veniva sistematicamente osteggiato, come un inutile esposizione alle infinite insidie della città. Non solo: il padre di Massimo mascherava l'insicurezza facendo riferimento alla sua esperienza di vita. Se i figli tentavano di restituirgli la sua ansia come eccessiva, egli reagiva accusandoli di essere ingenui ed imbecilli. La sua ossessione per i figli era quella del posto fisso: aspirava, insomma, a vederli impiegati, e nulla più, poiché le condizioni economiche della famiglia non permettevano, dal suo punto di vista, ambizioni più elevate. Ha ostacolato in ogni modo il progetto della figlia di conseguire la laurea in medicina, costringendola a lavorare per mantenersi gli studi. Quando Massimo ha avanzato anch’egli pretese universitarie, è andato letteralmente in bestia, accusandolo di aver mangiato il pane a sbafo. Con Luca, poi, che aveva una vocazione alle arti figurative, è stato addirittura distruttivo. Secondo Massimo, Luca è crollato perché, dopo la morte della madre, il padre lo ha letteralmente ‘perseguitato’ per indurlo a mettersi a lavorare al più presto.

Dopo la morte della moglie, che assicurava una buona gestione domestica, la maschera dell’uomo esperto della vita cade. Trovandosi solo con due figli malati (Luca cede dopo un anno dalla perdita della madre), e nonostante Massimo porti a casa uno stipendio, il padre, lentamente, crolla sotto il peso di un’angoscia di precarietà che assume connotazioni deliranti, ma di una qualità così vicina al senso comune che la drammaticità dell’esperienza sfugge a tutti. Il mondo è marcio, non c’è da fidarsi di nessuno, occorre contare solo su se stessi, quando si ha bisogno tutti si allontanano; sono questi i messaggi con i quali comunica quotidianamente con i figli, i quali, ciascuno per proprio conto si ritirano sempre più in se stessi, rifiutando una visione del mondo già troppo radicata dentro di loro. Nel novembre dell’84, dopo aver messo sulla scrivania di Massimo il libretto di risparmio e la cedola dei BOT, di mattina, il pover’uomo si impicca sul pianerottolo, come a voler violentare con un estremo atto di protesta l’insensibilità dei vicini e del mondo. Di fatto, nessuno gli ha dato una mano.

Luca reagisce con un apparente indifferenza all’accaduto, non partecipa ai i funerali. Delega Massimo a riorganizzare la vita domestica e familiare. Massimo si assume questa responsabilità: continua a lavorare, fa la spesa, prepara spesso da mangiare. Una donna delle pulizie assicura una maggiore continuità. Sia pure sotto l’incubo di una fatalità che sembra incombere sulla famiglia, si continua a vivere. In occasione del lutto, alcuni amici di antica data si sono riavvicinati a Massimo, e questi comincia a coltivare un minimo di relazioni. Dopo alcuni mesi, poi, contatta telefonicamente una ragazza con cui aveva avuto l’unico rapporto affettivo della sua vita, e la incontra due volte. La seconda volta, accompagnandola all’autobus e mentre essa va via, percepisce nettamente la paura di un coinvolgimento affettivo in una dimensione estrema di panico che lo ‘risucchia’ tra le pareti domestiche.

Massimo è costretto dall’evidenza e riconosce che quando le emozioni si muovono, egli vive la possibilità di perdere il controllo su di esse e di essere travolto. Comprende, dunque, che il ‘blocco’, l’anestesia affettiva è il sintomo meno d’una malattia che di un progetto fondato sull'invulnerabilità e sull'impenetrabilità.

Due sogni si incaricano di confermare quest'intuizione, arricchendola. Nel primo, Massimo è dietro la rete di un campo di concentramento e, intuendo di essere destinato a finire nella camera a gas, protesta vanamente di non essere ebreo.

Nel secondo Massimo impugna una bomba a mano fronte a fronte ad un ufficiale nazista, ed esita a disinnescarla e a lanciarla per il timore di saltare egli stesso e di andare a pezzi.

Ciò che sorprende, in questi sogni, è la trasparenza della struttura profonda non dialettica della personalità di Massimo e la misura in cui questa struttura rievoca un’esperienza biografica elaborata ideologicamente in maniera tale da rimanere intrappolato in essa.

Il trovarsi chiuso in un campo di concentramento come rappresentante di una razza inferiore destinata allo sterminio, senza alcun potere in rapporto ai persecutori, denuncia, per un verso, la condizione reale di dipendenza, di inferiorità e di assenza di potere propria della condizione infantile, e, per un altro, il modo orribile e tragico, perpetuamente minacciato, in cui Massimo l’ha vissuta. Ma ciò che più interessa è la protesta di Massimo, che non verte sulla ‘bestialità’ nazista, bensì sull’essere stato cambiato per ebreo, mentre egli è ariano. E’ evidente che questa protesta esprime un’identificazione con il persecutore e con il modello ‘forte’ e ‘puro’ da esso proposto. Il sogno, in breve, conferma che Massimo, per scampare alle minacce familiari inerenti la sua debolezza, ha cominciato egli stesso ad odiarla e a proporsi di eliminarla, rimuovendola e cioè lasciandola nel campo di concentramento.

Il secondo sogno, rievocando la minaccia parentale cui Massimo non ha potuto opporsi per paura che la sua aggressività si rivolgesse anche contro di lui, conferma questa paura a livello strutturale. L’ufficiale nazista rappresenta, con evidenza, le istanze superegoiche che bloccano la libertà di Massimo, il suo sentirsi padrone di sé. Ma attaccarla direttamente e con violenza è ancora impossibile, poiché Massimo teme che, venendo meno la corazza caratteriale, la sua vulnerabilità verrebbe allo scoperto e correrebbe il rischio di disintegrarsi, di andare in frantumi. Paradossalmente, dunque, una struttura di personalità definitasi per la necessità di difendersi da una minaccia esterna, è divenuta necessaria al fine di porre al riparo l’identità dell’io dai suoi stessi impulsi. Apparentemente, nel sogno, sono in gioco impulsi distruttivi. Ma ormai sussistono troppi elementi atti a confortare l’ipotesi che gli impulsi che Massimo teme sono gli affetti, e che l’aggressività risulta un pericolo solo perché —come ha sperimentato nell’unico rapporto di amore avuto- Massimo pensa che, se si lasciasse andare affettivamente dovrebbe mantenere il controllo della situazione con atteggiamenti possessivi, prepotenti e dittatoriali.

Avvalendosi della protezione offerta da Massimo e del sostegno terapeutico offerto da uno psichiatra di un C.S.M, Luca, intanto, ha cominciato ad uscire di casa e a frequentare alcuni amici.

Un giorno, allontanandosi di casa in bicicletta, egli non rientra alla consueta ora e non fa avere notizie di sé fino a sera. Massimo ha una crisi di panico: telefona sconvolto alla sorella, alla polizia, agli ospedali. Quando si accerta che non è accaduto alcun incidente il panico, anziché allentarsi, aumenta. Per alcune ore, Massimo rimane convinto che il fratello, ingenuo, inesperto della vita e ‘malato’ com’è, sia finito nella mani di qualcuno che ne può approfittare. Al rientro di Luca, Massimo, che non osa rimproverarlo, comprende da solo che l’introiezione di un tempo è ancora viva. Ma, soprattutto, riconosce che quell’introiezione concerne parti di sé che vanno bloccate in virtù di un tran-tran routinario — casa, ufficio, casa - poiché egli continua a viverle come infantili e sostanzialmente malate.

Qualcosa di nuovo, comunque, sta avvenendo. Il sentimento di oppressione profondo che prostrava Massimo è quasi scomparso, la debolezza fisica si è notevolmente attenuata. Nonostante il blocco del pensiero e delle emozioni sia immodificato, Massimo riesce ad ascoltare della musica, a leggere il giornale, a vedere un po’ di tv. Anche la vita di relazione riconosce dei cambiamenti. Consapevole di non potersi impegnare in un rapporto d’amore duale, almeno per il momento, Massimo ha riattivato una rete di relazioni amicali. Va spesso a cena fuori, esce la domenica pomeriggio. Gli viene detto da tutti che sta meglio, che è più comunicativo e meno ossessionato dai sintomi. Massimo, naturalmente, si arrabbia. Mai, come in questo periodo, si è sentito disperato, al punto che gli balena in mente con insistenza la fantasia di farla finita.

La comprensione di questo vissuto è fornito da un sogno, il cui grado di verità appare inconfutabile. Il sogno trae lo spunto dai colloqui con gli amici, nel corso dei quali è stato rievocato il passato.

Massimo è venuto a sapere che un compagno di liceo, che era uno dei pochi fascisti dichiarati, è divenuto odontoiatra e non ha rinnegato affatto le idee politiche giovanili. Continua a professarsi fascista, ad esaltare l’individualismo più sfrenato (secondo il modello del superuomo) in opposizione all’ideologia del gregge, e a sostenere che — essendo la vita null’altro che competizione - occorre contare sulle proprie forze.

Nel sogno compare per l’appunto questo personaggio in atteggiamento francamente narcisista, prepotente e provocatorio che, però, va incontro ad una strana metamorfosi. Lentamente si trasforma in un bambino piccolo, fragile e brutto. A questo punto interviene Massimo che si mette ad urlare che quel bambino è malato di mente e va immediatamente ricoverato in una casa di cura. La contrapposizione strutturale tra il modello di adulto autosufficiente, che, nonostante un rifiuto ideologico, ha assunto in Massimo connotazioni fasciste, identificandosi con la salute mentale e il potere reale, e il bambino dipendente, bisognoso e dunque brutto, rifiutabile e malato di mente, non potrebbe essere più chiara. Massimo, infine, deve riconoscere che il blocco di cui soffre, funzionale ad impedire il venire alla luce dei bisogni che il bambino rappresenta, non gli consente di realizzare il modello di adulto autosufficiente se non in negativo; rimanendo cioè chiuso alle relazioni, insensibile e impenetrabile. Un ‘duro’ insomma, sia pure a prezzo della malattia e di una totale mortificazione delle parti più vive e ricche e sensibili di sé.

Giunti a questo punto, a Massimo appare chiara l’insensatezza della fantasia di sblocco libidico ed aggressivo nella cui realizzazione egli vedeva la guarigione. Quelle fantasie erano e sono irrealizzabili per due motivi: in primo luogo, poiché esse erano funzionali al modello di normalità iperadulto con il quale Massimo si è identificato; in secondo luogo, poiché esse trascurano che l’apertura relazionale in virtù della quale solo avrebbero potuto realizzarsi, avvenendo in maniera repentina avrebbe inevitabilmente determinato l’affiorare dei bisogni profondi e prodotto, dunque, anziché la guarigione. E’ questa la chiave che permette di comprendere le sequenze di esperienze che hanno regolarmente prodotto le crisi, e la cui dinamica paradossale — di sblocco esitante in malattia - era stata rilevata all’inizio dell’esperienza terapeutica.

Accantonato quel progetto di guarigione, esso può essere sostituito con un altro dialettico, che tenga conto, nella pratica della vita, dei bisogni profondi di relazione di Massimo e, nel contempo, della necessità di tutelare la sua identità personale dal pericolo di ritrovarsi in balia di qualcuno.

La forza che, dato il peso del passato e la situazione di vita in cui Massimo si trova, richiede la realizzazione di questo progetto di riappropriazione della vita, non è di poco conto, anche se essa non ha nulla a che vedere con la forza postulata dal codice adultomorfo.

Considerazioni teoriche sull’esperienza di Massimo

1. Sul delirio.

La comprensibilità del delirio di Massimo si basa sull’alienazione dei bisogni fondamentali che sottendono la sua struttura di personalità. Nel momento in cui egli si ‘sblocca’, il bisogno di individuazione si esprime sotto forma di conflittualizzazione dei rapporti che egli intrattiene; la conseguenza non è un aumento di potere relazionale, bensì l’isolamento, la perdita dei rapporti. La reintegrazione sociale può essere assicurata solo da una repressione esterna, la quale — ed è una circostanza singolare - avviene sotto forma di un intervento terapeutico collettivo: benché non persecutorio, questo intervento mette in luce il prezzo che Massimo deve pagare per riabilitare la sua identità sociale. Il prezzo è di lasciare che gli altri facciano della sua testa ciò che vogliono: che lo manipolino, insomma, sia pure a fin di bene.

E’ chiaro che questo episodio lascia trasparire i due ruoli alienati nei quali solo Massimo si vede: il ruolo dell’essere malato, indifeso, inerme, che non ha alcun potere su coloro che si fanno carico di lui; e il ruolo dell’essere autonomo, indipendente, capace di affermare se stesso al prezzo, però, della conflittualizzazione del rapporto con gli altri. Non è di scarso significato rilevare che, nell’esperienza di Massimo, come in ogni esperienza psicopatologica, l’alienazione dei bisogni produce, in ultima analisi, il prevalere dei bisogni di integrazione sociale sotto forma di repressione. L’episodio delirante affonda, dunque, le sue radici nella struttura di esperienza di Massimo, che è il prodotto della sua storia personale, nel corso della quale egli si è dovuto far manipolare, per ottenere un minimo di cure, e non ha mai potuto opporsi, per non rischiare il conflitto con i ‘curanti’, l’isolamento e l’abbandono.

Se si dà per scontato che ciò sia vero, il delirio si configura come espressione di coscienza astratta, e cioè come il riproporsi di una verità microstorica in una forma che, attualizzandola, la estranea dalla concreta esperienza del soggetto nel mondo e la rende, dunque, adialettica. Ciò rende conto della difficoltà di elaborare un’esperienza delirante, e cioè di restituire alla coscienza la verità microstorica che in essa si esprime, rimuovendo l’astrazione che, attualizzandola, e cioè isolandola rispetto al continuum dell’esperienza soggettiva, la rende insignificante, adialettica. Questa restituzione impone di cogliere nel delirio una tematica strutturale, di dare ad essa un grado elevato di verità e di lavorare alla ricostruzione dell’esperienza concreta fino al punto che gli elementi acquisiti permettono di riproporre quella verità in termini dialettici.

Per quanto riguarda l’esperienza di Massimo, il discorso fa leva sulla mitica ‘polverina’ che avrebbe permesso, a sua madre prima e agli altri operatori poi, di rendere la sua mente priva di difesa e manipolabile a piacere. L’adozione di questo simbolo è risultata funzionale al bisogno di Massimo di attribuirsi, anche in riferimento all’età infantile, di un’identità definita, chiusa, impermeabile, che solo con mezzi illeciti è stata possibile compromettere. Lentamente, e non senza difficoltà, in virtù della consapevolezza che la condizione originaria dell’infante è tale da renderlo naturalmente permeabile alle influenze educative. Questa condizione di impotenza ma anche di plasticità, sottesa com’è dal bisogno di conferma dall’esterno, dà di fatto, agli adulti un potere smisurato, di cui essi non si rendono conto e che, quindi, facilmente usano in maniera illecita, approfittando della sensibilità dei figli e stabilendo, pertanto, una sorta di telecomando sulla loro mente.

Quando, come è capitato a Massimo, il figlio intuisce la trappola nella quale è finito, egli può essere spinto a liberarsene sacrificando la propria sensibilità, anestetizzandosi e indurendosi. Ma ciò produce come conseguenza che egli non riesce più a mettere in gioco la sensibilità: e, se ciò accade, deve pensare di aver subito una qualche violenza. In conseguenza di questo, l’identità personale è assicurata dall’impenetrabilità, e ogni relazione autentica si configura come violazione della volontà personale.

Agganciando l’esperienza delirante a questa tematica strutturale, che investe i rapporti tra io e mondo, riesce possibile orientare Massimo a prendere coscienza che tutta la sua esperienza è delirante, poiché si fonda su un nucleo ideologico precipitato in virtù dell’interazione con l’ambiente caratterizzato dall’assumere l’indipendenza come valore che postula la rinuncia al rapporto emozionale con il mondo. Nucleo ideologico che, tra l’altro, non serve a nulla, poiché esso non risolve il problema della sensibilità e si traduce in una rinuncia a vivere.

Per un altro aspetto, l’episodio delirante che ha vissuto Massimo è significativo. In virtù della comunicazione stabilita dagli operatori con la sua mente, gli sono stati comunicati infatti dei ricordi che egli aveva del tutto dimenticato e, addirittura, delle verità che egli ignorava. I ricordi principali sono tre. Il primo verte sull’uso da parte della madre della ‘polverina’. Il secondo risale all’età di 5 anni. Massimo avrebbe sentito nella sua testa le voci di maghi che gli stavano legando il cervello e progettavano di rapirlo alla famiglia. Avrebbe chiesto aiuto alla madre, la quale lo avrebbe rimbrottato dicendogli che si trattava solo di un brutto sogno. Il terzo ricordo risale a 15 anni: di sera, quando già tutti erano a letto, una banda di fascistelli, al quali la madre avrebbe aperto la pota, l’avrebbe sottoposta nell’ingresso a ripetute violenza sessuali, al fine di darle una lezione. Per paura della rappresaglia l’episodio non sarebbe stato denunciato dalla madre.

Dopo il trattamento subito al Ministero, Massimo afferma di aver recuperato il ricordo di questi episodi. Nel complesso, si tratta di rievocazioni che utilizzano modalità oniriche — soprattutto la messa in scena sotto forma di immagini - per porre in luce le vicissitudini dei bisogni fondamentali. Della ‘polverina’ abbiamo già parlato. Gli altri due episodi alludono chiaramente al bisogno di opposizione, che si è espresso, a 5 anni, sotto forma di fantasia di fuga e di sottrazione alla famiglia vissuta come effetto di forze oscure e malvagie, e, a 15 anni, sotto forma di fantasia di dare alla madre una giusta lezione, ferendola nel suo punto debole: l’essere, nonostante la severità e la durezza, una donna riservata, timorosa del mondo e moralmente ineccepibile.

La verità comunicata a Massimo di essere figlio di W. Reich è, se possibile, ancor più densa di significato. Massimo sa che Reich è stato il sostenitore della liberazione della sessualità, che doveva funzionare come una minaccia di una liberazione globale delle energie umane. Ma sa anche che egli è morto in carcere, accusato di essere un folle criminale. Nell’attribuirsi la paternità, è come se egli denunciasse di avere nel sangue il desiderio di una liberazione totale e, al tempo stesso, la paura (e ovviamente il bisogno) della repressione.

2. Storia sociale e microstoria

Sembra assurdo che le vicende umane, in ambito psichiatrico, vengano ricostruite, integrate e gestite senza tener conto degli eventi storici, dello sfondo su cui esse si definiscono. Il metodo microstorico — com’è ormai noto - cerca di sopperire a questa lacuna metodologica, andando al di là del livello biografico inteso in senso stretto. La storia di famiglia di Massimo è, da questo punto di vista, di estremo interesse.

Il paese di origine dei genitori, nelle Marche, è stato occupato per un anno dai nazisti, che hanno duramente represso alcuni nuclei di resistenza partigiana. Entrambi i genitori di Massimo hanno risentito di quest'esperienza. Dimessa dal collegio in questo periodo, la madre — signorinetta e graziosa - è vissuta occultata in casa per la paura della nonna che potesse subire violenze. Il padre è stato deportato in un campo di concentramento in Germania ove è rimasto due anni in una tragica situazione al limite della sopravvivenza. Ha visto morire di fame molti compagni. Tenendo conto di questi dati, non sarebbe arduo comprendere perché entrambi hanno sviluppato una concezione tragica della vita. Ma il determinismo in senso stretto non spiega nulla. I genitori di Massimo hanno infatti elaborato la loro esperienza, giungendo ad una soluzione rassicurante ma nel contempo mortificante. La vita ai loro occhi si è configurata come una guerra che riconosce come unica lsalvezza la condizione piccolo borghese, immunizzata, in virtù di un totale conformismo, da ogni rischio di conflitto con il mondo. A questo progetto di vita conservatore, incentrato solo su bisogni elementari di sopravvivenza e di decoro, la cui soddisfazione postula l’investimento di tutte le energie vitali nel lavoro e nel dovere, essi si sono piegati e hanno tentato di piegare i figli. Nell’educazione di questi, la loro visione del mondo si è espressa reprimendo ogni opposizione cercando di dare ad essi coscienza del loro ruolo subordinato — di piccoli in rapporto ai grandi -, soffocando ogni attività non rivolta all’inserimento lavorativo ‘impiegatizio’(dagli interessi sportivi e artistici alla scelta universitaria) e contestando con estremo rigore le prese di posizione politiche ‘rivoluzionarie’ assunte da Massimo all’epoca della contestazione studentesca. Per inculcare nei figli una visione del mondo piccolo-borghese, sancita e riscattata al tempo stesso dalla fede religiosa, i genitori di Massimo hanno usato senza riserve il loro potere di grandi. L’effetto paradossale dell’educazione, evidente nella struttura di esperienza di Massimo, è stato quello di indurre una visione del mondo scissa in due ruoli incompatibili: l’essere piccoli, oppressi, deboli e impotenti per un verso, e il diventare grandi, oppressori e soprafattori per un altro. Il modo di essere di Massimo, bloccato ma insensibile e impenetrabile ad ogni emozione, rappresenta una mediazione passiva, non dialettica, di questi due ruoli. Con la sua corazza caratteriale, è un ‘nazista’ che non fa male a nessuno, tranne che a se stesso. Ch’egli non riesca a cogliere il senso di un’esperienza di vita totalmente bloccata, non toglie che essa ha un senso: è come la negativa di un modello che ha impressionato la sensibilità di Massimo, ma che, per gli aspetti orribili e paurosi che ne deriverebbero, non può e non deve essere sviluppata.

Quanto detto riguardo Massimo e la sua famiglia, può ritenersi valido in termini generali. La storia sociale della famiglia fornisce l’ordito su cui i membri tessono, con i loro processi di significazione e di ideologizzazione, la trama dell’esperienza soggettiva. L’ordito e la trama sono intersecati al punto che si confondono, ma non sono la stessa cosa. Senza l’ordito, poi, la trama diventa incomprensibile.

3. Genetica e disagio psichico.

Una famiglia con un padre suicida e due figli su tre diagnosticati schizofrenici potrebbe facilmente figurare in un qualunque trattato di psichiatria come una prova dell’incidenza dei fattori genetici nell'eziologia della malattia mentale. Gli alberi genealogici hanno, però, un difetto in comune: essi riducono le persone a cerchietti minuscoli che definiscono solo l’identità sessuale e il grado di parentela: cerchietti bianche per i normali, neri per i malati e metà bianche e neri per i sospetti. La torre d’avorio della genetica è difficile da smantellare, poiché se è agevole tabulare alberi genealogici con cerchietti neri — utilizzando, peraltro, criteri diagnostici oggettivanti - non è agevole storicizzare le vicende di gruppi familiari. Della famiglia di Massimo, però, qualcosa si può dire.

Per quanto è stato possibile ricostruire, i genitori di Massimo non hanno né ascendenti né collaterali affetti da malattia mentale. Il dato è singolare, poiché tre cerchietti nei su cinque distribuiti solo in un ramo dell’albero genealogico fanno pensare, più che all’incidenza di fattori genetici in senso proprio, ad una mutazione o ad una maledizione. Questa specificità sembra poter essere spiegata in altri termini.

Nel contesto della famiglia allargata, i genitori di Massimo hanno sopportato, nel corso delle fasi evolutive e della giovinezza, le prove più dure: la madre è stata l’unica ad aver subito un internamento in collegio e, uscitane, un isolamento sociale pressoché totale durato fino all’epoca del matrimonio; il padre è stato l’unico a subire la deportazione in Germania. Queste esperienza sembrano avere inciso pesantemente sul carattere di entrambi: la madre descritta dai parenti come una bambina vivace e socievole, all’epoca del matrimonio appariva come una donna incupita e rassegnata; il padre, esuberante e scapestrato da giovane, al ritorno dalla Germania appariva insicuro, apprensivo, ipocondriaco e, per anni, è stato affetto da insonnia e incubi notturni.

Solo i genitori di Massimo, tenendo conto della famiglia allargata, hanno scelto di inurbarsi, trasferendosi a Roma, per assicurare un avvenire ai figli. Per più aspetti, questa scelta è risultata rovinosa. La nuclearizzazione della famiglia ha esasperato il peso dell’allevamento dei figli e, per molti anni, reso precario il bilancio economico sostenuto solo dal magro stipendio paterno. Tutti i parenti rimasti nel paese di origine hanno raggiunto uno status socioeconomico più elevato rispetto alla famiglia di Massimo. Le trasformazioni socioculturali avvenute nel contesto urbano, soprattutto a partire dagli anni ’60 hanno prodotto un irrigidimento e un radicale isolamento del nucleo familiare, chiuso nella sua corazza perbenista. L’avvenire dei figli, infine, è stato ostacolato da un progetto di inserimento piccolo-borghese frustrante: Luca, che manifestava notevoli qualità artistiche, è rimasto disoccupato; massimo si è arreso ad accettare il posto al ministero per motivi di sopravvivenza; la sorella, che ha conseguito una buona laurea in medicina, si è adattata al ruolo mediocre —di medico fiscale- in una U.S.L.

Questi elementi non provano inconfutabilmente l’importanza delle circostanze ambientali rispetto ai fattori genetici. Ma comportano l’ipotesi che la storia funzioni come uno schiacciasassi di potenzialità umane: trascurare questo è rendere un cattivo servizio alla verità.


4. PATRIZIA

Nel gennaio del ’79, quando la conosco, Patrizia ha 20 anni ed è reduce da un ricovero in una clinica psichiatrica, ove le è stata diagnosticata una psicosi mista — una schizofrenia su fondo distimico. La gravità dell’episodio, associata alla tendenza di Patrizia a rifiutare la ‘cura’, ha indotto gli psichiatri a formulare una prognosi negativa, e a colpevolizzare i parenti che avrebbero per anni, dall’adolescenza in poi, chiuso gli occhi sull’evoluzione di un processo (organico) esitato in una catastrofe psichica difficilmente rimediabile.

La ricostruzione dell’episodio critico dice molto di più di ciò che gli psichiatri sono riusciti a capire e cogliere con i loro pregiudizi ideologici. Nel periodo immediatamente precedente il ricovero, Patrizia, sentendosi perseguitata da un’ansia intollerabile, ha fatto ricorso contemporaneamente alla cocaina e al Tavor ad alte dosi. Con il Tavor, in una circostanza, ha tentato, per l’ennesima volta, di suicidarsi. Ha espresso il suo disagio ai familiari, affermando di aver paura di stare per perdere la ragione e di sentirsi spinta a suicidarsi da forze intollerabili. Ha chiesto essa stessa di essere ricoverata, ed è giunta in clinica sofferente ma lucida. Non ha avuto neppure la possibilità di parlare con i medici, che l’hanno sottoposta ad un massiccio intervento farmacologico, bloccandola a letto con fleboclisi a permanenza. In segno di protesta, sentendosi sfidata repressivamente più che curata, Patrizia ha cominciato a rifiutare il cibo e l’acqua, e a razionalizzare il progetto di suicidarsi. La sfida è raccolta dagli psichiatri che aumentano i dosaggi farmacologici, la minacciano di nutrirla con la sonda e la pongono in isolamento totale, impedendole di telefonare e di ricevere amici.

Nonostante la sedazione, Patrizia si ribella, si esalta, comincia a rompere oggetti e scagliarsi contro le finestre. Si ricorre alla contenzione; Patrizia regredisce in uno stato delirante confusionale nel corso del quale contenuti mistici si alternano a parolacce, bestemmie e volgarità oscene. Questa condizione dura per due settimane; nei rari momenti di lucidità, Patrizia protesta per la violazione dei suoi diritti. Di fronte all’inefficacia delle cure psicofarmacologiche, gli psichiatri propongono — come estrema ratio - un trattamento di ESK. I familiari esitano, e coinvolgono Patrizia nella decisione. Magicamente, Patrizia si reintegra da un giorno all’altro, ricominciando a nutrirsi, a curarsi e a parlare ordinatamente. Esce, dopo quasi un mese di ricovero, con il progetto di separarsi dall’ambiente familiare. Quando si rivolge a me, il progetto, condiviso dai genitori, sta per essere realizzato. Ma Patrizia è in uno stato d’animo estremamente angosciato, che cerca di alleviare con le sigarette, l’alcool e i tranquillanti.

L’episodio critico contiene una serie di tematiche strutturali. Patrizia ha paura di albergare dentro di sé un’incontrollabilità che potrebbe farla impazzire e spingerla a togliersi la vita. In conseguenza di ciò, avverte il bisogno di essere protetta e curata, e cioè controllata dall’esterno. Se il controllo, però, come è accaduto nel corso del ricovero, si traduce in una brutale repressione, Patrizia diventa di fatto incontrollabile. Paradossalmente, l’essersi configurato il controllo come una minaccia di annientamento (con proposta di ESK) ha sortito l’effetto di reintegrare l’identità. E’ evidente che l’esperienza di Patrizia riconosce due confini angosciosi, uno identificabile con la libertà; l’altro con la costrizione, e che, per quanto questa attivi una ribellione estrema, essa appare necessaria al fine di permetterle di recuperare un equilibrio minimale.

In altri termini, è in virtù della repressione che Patrizia sembra potersi riappropriare della libertà come un bene, a tenere freno la minaccia di incontrollabilità che, in difetto di repressione, ad essa si associa.

Propongo a Patrizia di tener conto di questa necessità strutturale, finchè non sarà possibile, chiaritone il senso, di muovere verso una libertà autentica, e cioè una libertà il cui potenziale di rischio possa essere vissuto consapevolmente.

Nell’immediato, il conflitto tra libertà e repressione anima il progetto di allontanarsi dall’ambiente familiare. Patrizia non tollera più di stare in famiglia, ma, nel contempo, ha paura di andare a vivere da sola. Non vuole più sentirsi costretta e controllata dai genitori e dai fratelli, ma teme l’assoluta libertà di cui giungerebbe a disporre vivendo da sola. Evidentemente, non c’è che una soluzione: convivere con qualcuno. Ma con chi? Patrizia ha un’infinità di amici e amiche, ma non sente di poter dividere la vita con nessuno di essi.

Per alcuni giorni, l’angoscia — legata alla necessità di prendere una decisione (un appartamento è già stato affittato dalla famiglia) - aumenta. Poi Patrizia prende un tubetto di Optalidon, e finisce in un reparto di rianimazione di un ospedale civile. Si riconsegna insomma nelle mani dei suoi, scongiurandoli di non ricoverarla più in clinica. Per fortuna, i genitori — critici nei confronti degli psichiatri che hanno emesso avventatamente, a loro avviso, una diagnosi impietosa - decidono di tenerla a casa e di accelerare i tempi del trasloco. C’è da decidere anche il che fare riguardo agli studi, ché Patrizia ha conseguito il diploma di maturità da alcuni mesi. Patrizia si iscrive ad un corso parauniversitario per tecnici di rieducazione neuromotoria. Va a vivere da sola. L’appartamento è nel centro storico, in un ambiente che pullula di emarginati (drogati e prostitute). Lo ha scelto Patrizia, con l’intento di dedicarsi al loro recupero. Ciò che accade era prevedibile. Affidata a se stessa, Patrizia si mette sotto controllo: comincia a sentirsi perseguitata, nel contempo, dagli spacciatori, che non gradiscono la sua ingerenza, e dalla polizia, che sospetta che essa sia coinvolta nel traffico della droga. Le forze del disordine e quelle dell’ordine tessono intorno a lei una trama invisibile ma implacabile. Patrizia si fa forza abusando di alcool e di tranquillanti, sempre più spesso torna in casa dai suoi. Nel momento in cui avverte di non tollerare più i controlli persecutori, prende a viaggiare, spostandosi al Nord e avendo come punti di riferimento parenti, amici di famiglia e amici personali. A Verona incontra una coetanea studentessa in medicina. Si frequentano, scoprono di amarsi reciprocamente e decidono di convivere. Per un lungo periodo, la coppia fa la spola tra Roma e Verona, in compagnia di un cane raccolto da entrambe moribondo e allevato come un bambino.

Quando a Roma, Patrizia non manca di venirmi a trovare. Il rapporto di coppia sembra aver scongiurato i propositi di suicidio, ma il malessere di Patrizia persiste sotto forma di una cronica depressione con spiccate componenti inibitorie. Patrizia riesce a mala pena a frequentare il corso e a preparare superficialmente gli esami. Per il resto, vive chiusa nel rapporto di coppia, letteralmente aggrappata a Camilla (la sua compagna) e timorosa di qualunque interazione sociale. In uno dei rari incontri mi riferisce di un sogno di grande interesse.

E’ in casa dei suoi. Litiga violentemente con il padre e si allontana. Dalla finestra di un appartamento vede che Erba (il suo cane) tagliando la strada ad un automobile, sulla quale sono presumibilmente i suoi genitori, provoca un incidente mortale. Patrizia vede nella stanza in cui sta una donna con la faccia di strega. Poco dopo, Erba entra dalla porta e procede verso di lei. Le pone le zampe sulle spalle e si trasforma in Camilla.

Il sogno è reso comprensibile dalla storia di Erba. Patrizia l’ha raccolta che aveva pochi giorni e l’ha allevata con estrema cura. Erba ha sviluppato nei suoi confronti un attaccamento profondo, ma, nel carattere, è rimasta segnata dalle carenze materne. E’ estremamente diffidente e aggressiva nei confronti di tutte le persone che non conosce. Ma anche Patrizia e Camilla devono trattarla con circospezione, poiché facilmente morde.

Nel sogno, Erba rappresenta l’oggetto delle paure di Patrizia: l’aggressività. Nella misura in cui questa attacca il legame con i genitori, e lo distrugge, Patrizia si ritrova faccia a faccia con la sua cattiveria, con i suoi poteri malefici, rappresentati dalla strega. Cosa può proteggerla dal pericolo che questa cattiveria si rivolga contro di lei spingendola al suicidio, se non il mettersi sotto la protezione affettuosa di Camilla? L’interpretazione del sogno è avallata da alcune circostanze biografiche.

La strega ha il volto di un’amica con la quale Patrizia ha tentato di stabilire un legame, associandosi a lei in un viaggio in Brasile avvenuto dopo il ricovero. Con essa, che aveva un carattere duro e autoritario, Patrizia ha avuto uno scontro furibondo che, facendole vivere la sua solitudine nel mondo, l’ha costretta a riprendere l’aereo e a rientrare precipitosamente in famiglia, in uno stato d’animo persecutorio che la spingeva al suicidio. E’ solo in virtù del rapporto con Camilla, che ha potuto mantenere la separazione dalla famiglia ed evitare il ‘risucchio’. Camilla è tenera e affettuosa ma anche rigida e severa nei principi. La sua ‘aggressività’, temperata dall’amore, funziona ottimamente nel proteggere e nel tenere Patrizia sotto controllo. Patrizia, insomma, riversa nel rapporto con Camilla il suo bisogno di repressione che le riesce tollerabile poiché si esercita all’interno di un legame d’amore. Ciò naturalmente lascia pensare che il rapporto sia forte, per le valenze affettive, e esposto agli attacchi, qualora il demone della libertà si rianimi in Patrizia.

Nel sogno, ci sono poi delle allusioni alla storia familiare che meriterebbero una ricostruzione accurata. Patrizia, di fatto, non ha mai litigato con il padre, ma lo ha sempre vissuto rabbiosamente come il rappresentante di un potere maschilista volto a reprimere la libertà delle donne. Questo suo vissuto, che mirava a sancire la necessità di un’alleanza con la madre contro il padre e i quattro fratelli maschi, è stato sempre confermato. La madre ha sempre difeso la leadership del marito, al quale ha affidato la guida della famiglia (nel sogno, come nella realtà, il padre è al volante dell’auto).

Ma in che cosa consiste l’aggressività di Patrizia, che nelle vesti di Erba rischia di essere investita, se non nell’opporsi ad una direzione di marcia decisa univocamente dal padre? C’è, in questo, l’allusione ad un progetto di vita, ispirato dal padre, che Patrizia deve aver vissuto come incompatibile con i suoi bisogni. Di cosa si tratta? E, infine, l’aggressività di Patrizia, nel sogno, non va al di là dell’ostacolare quel progetto. Da cosa discende dunque la sua cattiveria se non dalla reazione dei suoi che, pur di non farle del male, si fanno del male? Sembra che il sogno alluda ad un contesto familiare autoritaristico e, nel contempo, permissivo: ad un contesto atto ad attivare repressivamente la rabbia di Patrizia, ma anche debole ed indeciso nel reagire ad essa. La necessità di stare lontana dalla famiglia sembra riconoscere dunque una doppia paradossale motivazione: così come non ne tollera l’autoritarismo, Patrizia sembra non sopportare neppure il permissivismo. Non sorprende, dunque, che il rapporto con Camilla, che è affettuosa e rigida al tempo stesso, abbia permesso a Patrizia di ritrovare un equilibrio minimale. Il disagio persistente sotto forma di depressione lascia pensare che non possa trattarsi di un equilibrio definitivo. Onestamente, dico a Patrizia che, nella sua storia familiare e personale e nella configurazione dei suoi bisogni, ci sono molti nodi ancora oscuri da chiarire, e che il tragitto verso la libertà autentica, e soprattutto il riappropriarsi del bisogno di repressione sotto forma di bisogno di autoregolazione, non potrà prescindere dall’affrontare momenti critici. Ciò che è importante è non avere paura di questo altrimenti il disagio che vive — e il conflitto tra la libertà e repressione che lo sottende - rischia di ‘cronicizzare’.

Nonostante si sia instaurato un ottimo rapporto interpersonale — Patrizia mi definisce il ‘salvatore’ e mi accredita la volontà di liberarla dal dolore senza far violenza né a lei né alla famiglia - la risposta è che Patrizia scompare per alcuni mesi, trasferendosi a Verona con Camilla. Di lì mi telefona alcune volte per comunicarmi che la sua angoscia cresce proporzionalmente al crescere delle inibizioni. Vive in casa incapace di muoversi senza avere accanto a sé Camilla, terrorizzata da qualunque interazione sociale. Più volte, nel corso dei mesi, affiorano vissuti persecutori che pongono in relazione il suo essere agli arresti domiciliari con una rete di controllo poliziesco invisibile e implacabile. Sporadicamente, chiede un aiuto farmacologico.

A distanza di un anno dalla prima crisi, Patrizia torna a Roma con Camilla. E’ una larva: paurosamente smagrita, vuota di energia, incapace quasi di parlare. Non nutre propositi suicidi, poiché non vuol dare un dispiacere a Camilla e ai suoi. Ma è tormentata dall’angoscia di una condizione orribile —i n quanto del tutto priva di libertà - contro la quale sente di non poter fare alcunché. E’ il senso della sua esperienza che le sfugge del tutto, tranne che per un aspetto: la sua volontà — costi quel che costi - di non tornare in famiglia. Mi riferisce un sogno.

E’ da sola in una grande sala cinematografica al buio, ove sta per iniziare la proiezione di un film. Repentinamente, si accorge che nella sala c’è un intruso. Lo insegue per farlo uscire.

Si tratta di un sogno tipicamente strutturale, che basta da solo a far capire il circolo vizioso di cui è preda Patrizia. Il buio della sala e l’assoluto isolamento —i n pratica l’immersione in una cupa depressione con perdita di contatto con il mondo - sono le condizioni ottimali perché si sprigioni un fascio di luce colorata che realizzi il desiderio di vivere sotto forma illusionale. La mortificazione depressiva risulta insomma funzionale al fine di attivare l’eccitamento, la gioia di vivere a colori. La presenza dell’altro — l’intruso, indubbiamente, sono io - rappresenta un fattore di impedimento del viraggio dalla depressione all’eccitamento. In ultima analisi, Patrizia esprime un bisogno di autorepressione così profondo da diventare insopportabile: è solo un eccesso di mortificazione che può permetterle di lasciarsi andare alla gioia di vivere. Giustamente, nel sogno essa risulta spettatrice: la struttura nella quale si trova intrappolata non le consente altra attività che non sia quella di assecondare gli squilibri adialettici, soffrendo orribilmente per potersi abbandonare all’illusione dell’eccitamento. Il senso di questa struttura di esperienza è depositato in un luogo invisibile. C’è una macchina da proiezione e delle pellicole che sono state impressionate e montate. In breve, c’è il materiale microstorico, al quale però non è concesso di accedere se non quando esso viene proiettato sotto forma di eccitamento delirante. Patrizia, nel sogno, esprime il suo essere stata espropriata e il suo espropriarsi della possibilità di agire quel materiale. Essa può solo subirne l’organizzazione strutturale, che è adialettica.

Nel giro di un anno, e di pochi, sporadici incontri sembra che non si sia fatto molto. Si è individuata però la struttura nella quale Patrizia si è intrappolata: una struttura ossessiva, animata da un sentimento anarchico di libertà, che postula la repressione e ad essa si oppone. Struttura che Patrizia intuitivamente asseconda trasformandola in una struttura maniaco-depressiva, tale che l’autorepressione e la mortificazione risultano funzionali ad attivare una liberazione sotto forma di eccitamento. Questo, con i vissuti deliranti persecutori che evoca, chiude il cerchio, togliendo a Patrizia ogni libertà. La genesi della struttura rimane del tutto oscura: ciò che appare certo è che la sua dinamica comporta il prevalere costante del bisogno di repressione.

Per circa due anni, Patrizia, che sembra aver assimilato il discorso sulla sua struttura d’esperienza, non fa altro che tentare di mantenere un equilibrio minimale e precario. Il rapporto con Camilla, che ha autentiche valenze affettive, funziona come un’armatura di sostegno e di controllo. Patrizia non si separa mai da lei. La libertà si esaurisce in una serie continua di spostamenti e di viaggi. Le motivazioni sono oggettive: Camilla frequenta l’università a Verona, ove risiede la famiglia, Patrizia il corso a Roma. Ma, al di là delle motivazioni oggettive, traspare un’irrequietezza profonda, che si rende evidente, con le contraddizioni, nei viaggi e nelle vacanze: Camilla e Patrizia, che vivono in fusione e in una condizione di relativo isolamento sociale, si dirigono sempre verso luoghi appartati, solitari, un po’ selvaggi. E’ come se entrambe, cercando la libertà dai lacci del quotidiano, dovessero ripararsi da qualche oscuro pericolo identificabile nella socialità.

Nel corso di questi due anni, Patrizia intrattiene con me un rapporto singolare. Quando è a Roma, mi viene a trovare sempre, quando è fuori mi telefona spesso. Il ruolo che mi assegna è di colui che, simbolicamente, la protegge dal rischio di impazzire. Ma, continuando ad avvertire questo pericolo come reale e fondato sugli squilibri che regolano la sua vita interiore profonda, esclude, di fatto, un lavoro di storicizzazione. Il tema dell’intruso sembra essersi rovesciato: Patrizia non tollera intrusioni nella sua intimità non tanto per rimanere totalmente libera, quanto piuttosto per il timore di mettere in gioco l’equilibrio precario conseguito in virtù di una sostanziale rinuncia alla libertà.

Accetto il ruolo che Patrizia mi assegna, senza esimermi dal farle presente che la sua ‘scelta’ di chiudersi in un rapporto fusionale che la protegge dal mondo nella misura in cui la isola e inibisce l’esercizio della libertà, mi sembra comprensibile ma riduttiva in rapporto alla globalità dei suoi bisogni. In pratica, Patrizia sopravvive, ma non vive. Dopo aver portato a termine il corso di studi, non studia più, non lavora, non ha interessi, non fa progetti, non frequenta nessuno (ad eccezione di un ristrettissimo numero di amici comuni a Camilla). La sua esperienza sembra rivolta unicamente a mantenere un equilibrio statico e presumibilmente precario. Nel mentre rispetto la paura che Patrizia ha di impazzire e non nego che sia lecito organizzare la vita a partire da questa paura, suggerisco che, se l’equilibrio dovesse venir meno, Patrizia dovrebbe accettare che i suoi bisogni non possono essere vincolati all’infinito ad una scelta di vita mortificante. In occasione di un incontro, Patrizia mi riferisce un sogno molto breve.

Vede Erba nel freezer, congelata ma con gli occhi ancora vivi e mobili.

Nella realtà, Erba, per quanto amata e curata da Patrizia e Camilla come un bambino, è assoggettata ad un controllo severo. Per un verso, è necessario evitare che degli estranei le si accostano, per il rischio che essa, spaventata, tenti di mordere. Per un altro verso, nei periodi in cui è in calore, occorre confinarla in casa, perché, portandola fuori, c’è il pericolo che essa strappi di mano il guinzaglio e si perda.

La condizione di Erba è la stessa in cui vive Patrizia. Il congelamento è dovuto alla paura dell’aggressività e alla paura del desiderio. Gli occhi vivi e mobili di Erba, nel sogno, lasciano pensare all’inadeguatezza delle difese: in rapporto a Patrizia, al non essersi essa arresa ad una repressione totale.

Nel sogno, con un’evidenza straordinaria, la struttura ossessiva appare trasformata in una struttura maniaco-depressiva completa. Che Patrizia si trovi in pericolo, è restituito da un evento reale. Qualche tempo prima del sogno, in occasione di una trasferta a Verona, Patrizia aveva lasciato a Roma il frigorifero in funzione. Nel corso della assenza, è avvenuto un guasto: tutto ciò che era contenuto nel frigorifero è marcito.

Nell’estate del ’83, il ‘guasto’ avviene nella realtà. Camilla, da alcuni mesi, manifesta un elevata insofferenza per l’immobilismo e la dipendenza di Patrizia, che impediscono ad entrambe di avere una vita di relazione sociale più aperta. Vanno a trascorrere insieme a pochi amici un breve periodo di vacanze in una villa al mare. Camilla manifesta provocatoriamente un qualche interesse per un ragazzo. Patrizia reagisce in maniera furibonda. Torna a Roma da sola, si chiude in casa, distrugge gran parte dell’arredo e si blocca a letto votandosi a morte per inedia. Per tre giorni, Camilla, che l’ha raggiunta, non riesce a farle assumere altro che pochi sorsi d’acqua. Patrizia è bloccata catatonicamente, ma esplode ogni tanto in crisi clastiche. I genitori, informati della situazione, decidono di assisterla nella loro casa. Patrizia non oppone resistenza, si lascia trasportare come un manichino.

Quando la vado a trovare, è bloccata sul divano in salotto; è smagrita, disidratata, stralunata. I genitori sono angosciati, poiché l’infausta prognosi degli psichiatri sembra confermata dai fatti. Ho i miei motivi per pensarla diversamente. Patrizia non comunica, ma fa intendere che si lascerà fare tutto ciò che si riterrà opportuno fare. Interpreto il suo blocco come un’espressione di opposizione che postula la repressione terapeutica. Le faccio rilevare anche qualcosa che balza agli occhi. Da quando non è nella sua casa, le crisi clastiche si sono orientate verso oggetti insignificanti: cuscini, coperte, giornali, pacchetti di sigarette, cioccolatini, ecc. sul tavolino accanto al divano ci sono un’infinità di oggetti preziosi — giade, ceramiche, ecc - che essa non ha toccato. Nel salotto c’è poi una collezione preziosissima di fossili, e altri oggetti di arredo — vasi cinesi, statuette indiane- di grande valore. Patrizia, che ha devastato la sua casa, non ha osato toccare nulla nella casa dei suoi. La sua opposizione sembra, in ultima analisi, infinitamente rispettosa dei valori familiari. Il modo in cui la esprime poi, postulando la repressione, sembra mirare a ricomporre un equilibrio che annulli la sua identità in ciò che essa ha di rabbioso e di distruttivo. L’alternativa è che provveda da sola, morendo di inedia, e cioè utilizzando l’opposizione come uno strumento di esecuzione dell’autocondanna.

Per alcuni giorni, Patrizia si fa alimentare con fleboclisi, assume dosi modeste di Tavor e di Melleril. Poi ricomincia a mangiare, a curarsi, a comunicare. Si sente umiliata di essere tornata al punto di partenza, nella casa legata ad una serie interminabile di tristi ricordi. Il vissuto rievocativo si incentra sulla repressione maschilista delle donne. Ciò permette di capire che la crisi cui è andata incontro non è stata una crisi di gelosia. Patrizia pensava che il rapporto con Camilla si fondasse su di un’alleanza volta contro il potere dell’uomo. Nel momento in cui Camilla ha manifestato una debolezza, la corazza protettiva nei confronti di quel potere è venuta meno. Piuttosto che accettare la sua identità di donna e di assoggettarsi ad un uomo, Patrizia è pronta a morire. Il suo disagio, per la prima volta, appare incentrato sulla protesta contro un ordine di cose che si è presentato ai suoi occhi come fisso e immutabile: un ordine che vede nella donna un essere vulnerabile e incontrollabile al tempo stesso, e che assegna all’uomo il compito di proteggerla e di reprimerla. Per quanto rifiutato, quest'ordine di cose ha ancora un potere enorme nella struttura profonda di Patrizia, che, convinta di essere vulnerabile e incontrollabile, postula la repressione e la protezione.

Dopo due settimane, Patrizia si reintegra. Ma la guerra d’indipendenza — la seconda (metafora che l'affascina) - non è finita. Patrizia non può stare più nella casa dei suoi, ma non la se la sente di tornare a convivere con Camilla. Decide di sperimentare la sua autonomia facendo un viaggio da sola in Marocco. Nessuno è d’accordo ma nessuno la ostacola. Patrizia parte alla ricerca di libertà. Dopo alcuni giorni da ‘incubo’ — vedremo poi perché - si ‘scompensa’: prende un aereo per la Spagna, all’aeroporto di Madrid aggredisce un gendarme che vuole ispezionare i bagagli, viene ricoverata in O.P. Il padre, informato dall’ambasciata, vola a riprenderla, e la riconduce a Roma. Patrizia è nuovamente bloccata, ma da un delirio incentrato su una persecuzione da parte dei fascisti che l’hanno seguita nel viaggio, ai quali è riuscita a sottrarsi per casa, e che aspettano che si muova per ucciderla. Il nucleo del delirio si è definito dopo due giorni di permanenza in Marocco: colà Patrizia è venuta a sapere che a Malta un gruppo di terroristi di destra aveva sequestrato un aereo sul quale c’erano dei bambini handicappati, e si è sentita investita dal dovere di fare il possibile per ottenere il rilascio. Ha contattato le autorità locali, l’ambasciatore italiano, ma poi, sentendosi ormai minacciata dai complici dei terroristi, ha dovuto desistere, e mettersi in salvo.

Nel giro di una decina di giorni, protetta dalle mura domestiche, e assumendo solo del Tavor, l’angoscia sfuma. Rimane la convinzione di essere tenuta sotto stretto controllo dai fascisti, che hanno rinunciato a sopprimerla, a patto che essa non assuma più atteggiamenti eversivi. Può ricominciare, insomma, ad uscire, consapevole che la sua libertà è vigilata. Torna a stare con Camilla, e regredisce nell’isolamento.

Dopo circa due mesi, i vissuti persecutori si estinguono. L’esperienza critica, con il materiale affiorato nel corso del viaggio, ha fornito a Patrizia la consapevolezza che il suo mondo interiore è strutturato in maniera tale da funzionare, ogni volta che si lancia verso la libertà, come una ‘bomba’ ad alto potenziale. Ma la paura di albergare la follia non ha più una connotazione misteriosa. Patrizia sa che il suo desiderio di libertà riconosce come limite un bisogno di repressione, e che, nella misura in cui essa si allea ciecamente con quel desiderio, affiora il suo ‘handicap’ sotto forma di controllo dall’esterno. Decide di fermarsi a Roma per tutto il tempo necessario a ricostruire la sua storia personale, familiare e sociale.

Un dato di immediato interesse riguarda il fratello, Piero. Il disagio di Patrizia è affiorato poco dopo la soluzione della drammatica carriera di quegli. Piero, che ha due anni più di Patrizia, è stato sempre un ragazzo difficile, contestatore, ribelle e anarchico fin dall’adolescenza. Al liceo, la contestazione assunse un carattere politico: Piero cominciò a militare in una formazione extraparlamentare e, rapidamente, si spostò su posizioni sempre più radicali. Un episodio vale per tutti: in reazione ad un ingiusto rimprovero di un docente, dette fuoco ai banchi della scuola. Evitò l’incarcerazione per l’interessamento dei suoi. Ma la sua carriera politica continuò con un coinvolgimento sempre più inquietante in frange estremistiche ai margini del movimento brigatista. Minacciato da gruppi neofascisti e sorvegliato dalla polizia, sicuramente sarebbe finito male se non avesse deciso repentinamente di partire per gli Stati Uniti. Colà, in virtù di un cambiamento sorprendente e clamoroso, è divenuto un manager perfettamente integrato nel sistema e si è sposato.

Patrizia — ed è sorprendente - non ha mai visto le analogie tra la sua esperienza e quella di Piero, poiché la sua ribellione verte essenzialmente sulla repressione della sua libertà in quanto donna. Risulta evidente che il bisogno di opposizione deve essere stato frustrato in tutti i figli. La conclusione è avvalorata dal fatto che gli altri tre fratelli, due maggiori e uno minore di Patrizia, pur non avendo mai dato problemi, hanno avuto e continuano ad avere delle carriere di studio estremamente lente e stentate. Nelle sue aspettative, esplicitamente incentrate sul dovere di studiare e di lavorare, la famiglia è stata tradita e, quindi, attaccata da tutti i figli. Perché?

Sul piano personale — Patrizia non ha difficoltà a riconoscerlo - i genitori hanno delle qualità eccezionali. Sono cattolici progressisti, rigorosi nei principi ma di ampie vedute, impegnati da sempre in attività assistenziali a favore di handicappati e tossicodipendenti. La loro dedizione ai problemi sociali non li ha mai indotti a trascurare la famiglia. I figli sono stati tutti desiderati ed allevati con cura. L’atteggiamento partecipe che hanno avuto sia in rapporto alle vicissitudini di Piero sia in rapporto alle crisi di Patrizia attesta la loro capacità di coinvolgersi e il loro rifiuto di provvedimenti emarginanti e repressivi. Quanto a Patrizia, la madre, addirittura, ha denunciato i suoi sensi di colpa, e, in occasione del ricovero in clinica, ha chiesto più volte agli psichiatri che le dicessero con chiarezza gli errori commessi, al fine di riparare. Tutto ciò vale a comprendere, in parte, i sensi di colpa che Patrizia nutre quando attacca il legame con la famiglia. Il problema sta nel capire l’intensità sconsiderata della sua ribellione nei confronti dell’ordine familiare. Avanzo l’ipotesi che questa ribellione non possa essere spiegata in rapporto ai genitori in quanto persone, bensì debba essere posta in rapporto con i codici culturali da essi veicolati.

Un sogno aiuta a confermare quest'ipotesi.

Nel sogno Patrizia è in una chiesa ove, alla presenza di tutti i membri della famiglia allargata, si officia un rito in memoria del nonno. Ad un certo punto, Patrizia lascia il suo posto e avanza verso l’altare in atteggiamento di protesta. Il vescovo, che officia, il rito, la guarda con severità. La madre, con gli occhi e con i gesti, la redarguisce vigorosamente. Patrizia si accorge di aver smarrito la borsa, e si agita inconcludentemente per ritrovarla.

Per alcuni aspetti, il sogno è realistico. La famiglia di Patrizia nasce dalla confluenza di due ceppi nobiliari — siciliano quello paterno, emiliano quello materno - di illustri tradizioni. Almeno una volta l’anno, tutti i membri della famiglia si raccolgono per commemorare, con un rito religioso, il nonno materno, figura prestigiosa di industriale e uomo politico che, accumulando una colossale fortuna sotto il fascismo, si dissociò dal regime il 25 luglio e, fervente cattolico, continuò a mantenere intatto il suo prestigio nel dopoguerra, trasformandosi infine in promotore di attività culturali e in beneficenza. In occasione degli incontri, Patrizia avverte un vivo disagio per il culto — ipocrita, a suo avviso, per quanto riguarda molti membri della famiglia - di un mito che a lei è sempre apparso un po’ ambiguo, in virtù della confusione tra valori reali — il denaro - e valori religiosi. Attaccando il mito, però, come avviene nel sogno, essa si scontra con la madre, che lo coltiva religiosamente, e smarrisce la borsa con i suoi valori, e, ovviamente, i documenti che attestano la sua identità.

Nella famiglia di Patrizia, in effetti, quei valori si sono trasformati in un carico di responsabilità oltremodo pesante. I genitori di Patrizia — c’è da tener conto che anche il padre proviene da una famiglia molto ricca -, pur non osando rinunciare al patrimonio, hanno sempre vissuto la ricchezza — in accordo con i valori della fede - come un ingiusto privilegio che essi e i figli dovevano scontare con una vita esemplare e costantemente rivolta all’espiazione sotto forma di dedizione agli umili, ai poveri, agli emarginati. La logica del dovere e del sacrificio di sé, rafforzata dal senso di colpa per la ricchezza, ha pesato come un incubo su tutti i figli: da bambini, si richiedeva loro di meritarsi quel privilegio con una dedizione totale allo studio: da grandi li si è sollecitati a scelte di lavoro e di vita orientate a fini sociali.

Tutta l’economia psicologica della famiglia, nel suo complesso, sembra aver risentito di questa contraddizione irrisolta tra ricchezza e ascetismo. Assorbiti completamente nel loro lavoro assistenziale, per lunghi periodi, i genitori apparivano ai figli logori ed estenuati, vere vittime di un dovere da assolvere senza risparmio; poi si concedevano, con i figli, brevi periodi di vacanze esaltanti, di solito bruscamente interrotte da rigurgiti di rimorso.

Per Patrizia, l’approccio ai problemi sotto il profilo microstorico funziona come un’illuminazione. Numerose contraddizioni che hanno caratterizzato la sua esperienza dall’adolescenza in poi — soprattutto l’alternarsi incessante di periodi di violento ‘egoismo’ e di periodi di totale dedizione agli altri e di ascetismo religioso -, vissute come gravi incoerenze, cominciano ad assumere un senso. A posteriori, anche la trama della recente esperienza delirante — che ha vincolato il suo viaggio verso la libertà alla missione di liberare dal sequestro dei bambini handicappati - riesce comprensibile. Come pure la struttura profonda della sua esperienza, che subordina alla mortificazione e al dolore la possibilità di godersi ‘freneticamente’, e per un breve periodo, la vita.

Ma c’è di più. Come in tutte le famiglie di tradizioni nobiliari, in quella di Patrizia, sia da parte materna che paterna, alcuni rami sono decaduti per via dei ‘vizi: donne, cavalli, gioco. La famiglia ristretta di Patrizia è stata ed è ossessionata da un estremo rigore moralistico, vedendo in esso l’unica difesa contro una minaccia vissuta come intrinseca all’agiatezza. Ciò spiega il fatto che essa ha reagito in maniera ottimale alla ‘malattia’ di Patrizia, ma ha sviluppato un vero panico quando ha saputo che Patrizia ‘fumava’ attribuendo la crisi all’uso della droga, e instaurando riguardo a questo un controllo piuttosto rigido esercitato sull’erogazione di denaro.

L’ossessione moralistica della famiglia è, naturalmente, il filo conduttore di una ricostruzione microstorica che giunge alle radici dell’esperienza di Patrizia. Nel suo rigore, essa ha investito anche l’uso paradossale degli spazi abitativi della dimora familiare. Quando Patrizia era ancora piccola, la famiglia ha acquistato un’enorme villa di tre piani. Nonostante la disponibilità di spazio, la villa è stata ristrutturata in maniera singolare. Il piano terra è un ambiente totalmente comunicante, che riconosce l’epicentro in un enorme salone. Al primo piano sono state ricavate, in uno spazio angusto, le camere da letto, strutturate in maniera tale da essere incastrate l’una dentro l’altra e comunicanti. Tutti gli altri ambienti sono stati adibiti a depositi di libri, documenti schedari, cimeli di famiglia. In pratica, in una villa enorme, nessuno dei membri ha potuto mai godere di un minimo di intimità! L’ossessione del controllo sembra aver avuto la meglio anche da questo punto di vista.

C’è, inoltre, un ulteriore elemento biografico di interesse. L’impegno sociale dei genitori ha sempre richiesto la presenza in casa di governanti per i figli. Per alcuni anni, l’avvicendamento, dovuto alla insoddisfazione dei genitori, è stato frequente. Quando Patrizia aveva 4 anni, si è insediata a casa una governante che è rimasta per oltre 10 anni. Si trattava di una slava di mezza età, figlia di nobili all’epoca dell’impero austro-ungarico, deceduti dopo la prima guerra mondiale, coltissima, ma di stampo educativo ‘tedesco’.

Affascinati dalla sua proterva sicurezza, i genitori di Patrizia le hanno affidato in toto l’educazione dei figli, lasciandosi esautorare. La governante, presumibilmente gonfia di rancori per il ruolo umiliante cui la sorte l’aveva costretta, ha instaurato su Patrizia e sui fratelli un vero e proprio regime di terrore, con regole severissime, e, in caso di trasgressioni, ricorso a punizioni fisiche. La dedizione ‘maniacale’ ai suoi doveri di istitutrice ha indotto i genitori a minimizzare le proteste dei figli. Nel loro intimo, come hanno poi confessato, non erano affatto d’accordo sui principi e sui metodi repressivi dell’istitutrice. Ma, consapevoli della loro sostanziale debolezza di carattere nei confronti dei figli, ritenevano che quella donna potesse funzionare come un giusto contrappeso. Si sono ricreduti solo quando uno dei figli, adolescente, ha cominciato a reagire ingaggiando con l’istitutrice dei corpo a corpo furibondo, che resero necessario il licenziamento.

Terminato così il regime del terrore per tutti i figli, cominciò per Patrizia, che si era appena sviluppata, il regime del controllo ‘maschilista’, affidato ai fratelli che, a turno, dovevano vigilare su di lei. Questa precauzione, giustificata dalla precoce avvenenza di Patrizia e dal ceto sociale, affonda le sue radici in una singolare preoccupazione materna. Il padre di costei si era, infatti, unito in matrimonio con un'attrice, la cui fama era legata a ruoli di donna fatale, romantica e ‘dannunziana’. Nonostante il matrimonio prestigioso, che segnò la fine della carriera artistica, l’ombra di una vita non immune da sregolatezze rimase incombente su tutta la famiglia. Patrizia con la sua precocità e la sua irrequietezza, ha risvegliato nella madre fantasmi di perdizione mai sopiti. I suoi tentativi di avviare esperienze sentimentali sono stati sistematicamente ostacolati e interrotti con il richiamo alla giovane età e ai doveri.

A 17 anni, Patrizia, rinunciando agli affetti mondani, si lancia in un’avventura mistica. Si appassiona a letture bibliche, frequenta comunità cristiane, stabilisce rapporti con teologi progressisti. Riceve l’approvazione dei sui finché non appare chiaro che anche questa passione esprime un difetto di misura e di equilibrio, una sorta di sregolatezza costituzionale. E, peraltro, al culmine di questo tentativo di controllo ascetico che Patrizia comincia ad aver paura di impazzire.

La ricostruzione microstorica consente a Patrizia di vedere su quale ordito — estremamente complesso e contraddittorio - si è organizzata la trama delle sue esperienze, la cui struttura è mantenuta in equilibrio da un compromesso adialettico tra istanze repressive e istanze oppositive. Patrizia deve vivere nella riservatezza, nella mortificazione, nella dipendenza e nell’ipercontrollo; in virtù di questa rinuncia alla libertà, che tutela la sua vulnerabilità, essa può opporsi al destino tradizionale della donna, che si subordina all’uomo per esserne protetta e repressa. Ogni tentativo di cambiare questo equilibrio è esitato in una catastrofe, perché Patrizia, attaccando i controlli parentali e i controlli superegoici, si è sempre sentita minacciata dall’esposizione al mondo della sua vulnerabilità. La sua coscienza critica, addirittura esasperata nella percezione della repressione, è venuta sempre ad urtare contro un ostacolo insormontabile: la convinzione, profondamente radicata dentro di lei, che la donna di fatto è un essere vulnerabile, insufficiente e sregolato. Tutti i tentativi di liberazione, realizzatisi sotto la spinta della rabbia, non hanno fatto altro che confermare questo nucleo ideologico.

Due sogni confermano queste conclusioni.

Nel primo, Patrizia sta a letto con Camilla in un atteggiamento di intimità. Avverte dei rumori che provengono dalla finestrella della cucina. Si sporge da questa e vede un poliziotto. La chiude, certa che di lì non si può penetrare. Va a controllare che anche la porta d’ingresso blindata sia chiusa. Ma, nel salotto, vede il padre, ed è preda della rabbia e della confusione. Da dove può essere entrato? L’intimità di Patrizia, nonostante le difese adottate che avrebbero dovuto renderla impenetrabile, è, dunque, sotto controllo sempre. E si tratta di un controllo ‘maschilista’, veicolato dalle sue istanze superegoiche, tale che se essa rifiuta di assoggettarsi all’uomo, non può comunque lasciarsi andare agli affetti e all’erotismo. Deve comunque vivere in uno stato di allarme.

Nel secondo sogno, la protagonista è di nuovo Erba, che ha subito una radicale trasformazione. E’ inerte ed inerme, ha lo sguardo spento e vagamente impaurito. Sorprendentemente, si lascia avvicinare da estranei senza dare alcun segno di reazione. Patrizia pensa che Erba sia stata sottoposta a lobotomia.

Non ci vuole molto a capire che il sogno denuncia e drammatizza gli effetti dell’esperienza terapeutica. Patrizia ha concesso ad un uomo di accedere nel suo mondo interiore, e sente che ciò ha prodotto dei cambiamenti radicali, restituendole un desiderio di socialità prima mortificato dal mantenere in atto delle difese molto aggressive. In conseguenza di ciò, si sente però nuovamente inerme e manipolabile, incapace di reagire. E’ un bene o un male, dunque, ciò che le è accaduto? Evidentemente, è un bene nella misura in cui le restituisce il bisogno di una relazione più partecipe ed intima con il mondo; un male, nella misura in cui Patrizia pensa di non poter né dover esercitare alcun bisogno di opposizione, necessario a difendere la sua identità.

Il problema, ora, è di integrare il bisogno di socialità con il bisogno di individuazione, lavorando, nella pratica della vita, su di un’alienazione che ormai è evidente nella sua genesi. L’incubo della follia è scomparso. Una struttura di esperienza adialettica, statica e minacciata dal rischio di una repressione sempre più radicale è stata resa potenzialmente evolutiva, dinamica, e ciò è avvenuto in virtù di una presa di coscienza irreversibile.

Patrizia sa che la sua rabbia nei confronti del sistema di valori inculcatole dalla famiglia aveva ed ha le sue ragioni; sa anche che queste non bastano a produrre un autentico cambiamento se non vengono usate dialetticamente, e cioè se non danno luogo ad un diverso modo di essere nella pratica della vita.

Considerazioni teoriche sull’esperienza di Patrizia

1. Il falso problema della diagnosi

Il revival neoprichiatrico ha prodotto, tra l’altro, una sorta di rilancio del tecnicismo diagnostico. Diagnosi, etimologicamente significa riconoscere attraverso. La nosografia psichiatrica sembra aver preso alla lettera l’etimologia: il suo sforzo è tutto orientato ad individuare il nucleo psicopatologico, che, naturalmente, non coincide mai con le apparenze. In un certo qual modo, si potrebbe affermare che la neopsichiatria ha assimilato il codice psicodinamico ideologizzandolo entro il suo sistema di riferimento. La conseguenza di ciò è che le diagnosi risultano ormai sempre più serie rispetto alle apparenze. E’ come se non esistessero più criteri diagnostici elementari: ciò che appare — i vissuti, i sintomi e i comportamenti - è ricondotto a ciò che non appare; e ciò che non appare è sempre un processo organico estremamente insidioso, al limite dagli esiti imprevedibili. Fare degli esempi non è difficile: in tutte le condizioni nevrotiche si coglie, ormai, un nucleo disforico, e cioè delle valenze depressive; in molte condizioni nevrotiche giovanili si colgono elementi atipici atti ad integrare il progetto diagnostico di una sindrome border-line; tutti gli episodi acuti danno luogo alla diagnosi di un processo psicotico irreversibile. In un certo qual modo, rispetto alla tradizione psichiatrica — che comportava una classificazione nosografia in tre grandi categorie (psicosi organiche, psicosi endogene, modi di essere abnormi nevrotici e psicopatici) - è avvenuta, a livello neopsichiatrico, una sorta di drammatizzazione diagnostica che comporta il sospetto di valenze ‘psicotiche’ in ogni esperienza psicopatologica. Non è arduo capire il significato storico e ideologico di questa drammatizzazione.

Ad essa hanno concorso tre diverse circostanze correlate tra loro: in primo luogo, l‘impotenza terapeutica, attestata dal fatto che l’intervento neopsichiatrico, efficace solo e non sempre sugli episodi acuti, non sembra mai in grado di modificare l’evoluzione delle sindromi; in secondo luogo, la necessità di convalidare in ogni caso — a fini di cura, prevenzione e mantenimento - l’uso degli psicofarmaci, esaurendosi il potere neopsichiatrico nella prescrizione di questi; in terzo luogo, l’esigenza di tutelare un prestigio professionale ancora elevato (la corporazione psichiatrica è, purtroppo, la categoria medica che gode ancora il maggior credito popolare…) in virtù di previsioni prognostiche negative, che si realizzano nonostante gli interventi terapeutici.

Detto ciò, bisogna aggiungere che ogni aggiustamento ideologico deve pur corrispondere a dei processi reali che non possono essere più contenuti negli schemi ideologici preesistenti. C’è da chiedersi, dunque, quale sia il referente reale della drammatizzazione diagnostica e prognostica neuropsichiatrica. Rispondere a questo quesito, significa cogliere un aspetto paradossale ma di grande interesse. I cambiamenti sociali e culturali intervenuti negli ultimi decenni hanno di fatto allentato le gabbie reali e incrementato le gabbie mentali. In altri termini, la normalizzazione è sempre più affidata al controllo interpersonale, agli occhi della gente, e sempre meno a istituzioni manifestamente repressive.

L’esperienza di Patrizia, da questo punto di vista, è esemplare: fino a qualche decennio orsono essa sarebbe stata affidata a vita ad un’istituzione psichiatrica (casomai privata); negli anni ’70, la famiglia preferisce affidarla al controllo sociale, liberarla dalla famiglia ed inserirla nella società. Decisione inconsapevolmente ragionevole: nell'interazione con contesto sociale, Patrizia sviluppa un vissuto persecutorio che funziona come un potente ipercontrollo.

Quale è la conseguenza di quest'aumento della libertà individuale a livello psicopatologico? La conseguenza è che le persone che soffrono di un disagio psichico più facilmente si destrutturato criticamente e più facilmente si ristrutturano. In concreto: una crisi psicotica può reintegrarsi nel giro di alcuni giorni, una nevrosi — per esempio isterica - può sconfinare nel tempo dal primo al secondo livello. La nosografia — con i suoi schemi classificatori cartesiani — non ha letteralmente più senso: essa si confronta con un universo, quello psicopatologico, dinamico e comunicante. Da ciò non possono discendere che due conseguenze: o si rinuncia al concetto tradizionale di malattia o lo si radicalizza, fino al punto di ammettere valenze psicotiche di origine genetica sottostanti ogni esperienza di disagio. E’ ovvio che l’ideologia neopsichiatrica ha optato per questa seconda alternativa. Ciò che a livello teorico, non viene esplicitato, risulta dalla pratica: dopo un solo episodio psicotico — distimico o delirante - vengono proposte terapie preventive o di mantenimento con il Litio o con la fenotiazine ad azione ritardata; il Litio viene prescritto praticamente in quasi tutte le depressioni; psicofarmaci maggiori — Serenase, Nozinan, Anatensol, Melleril, ecc.- si associano ormai comunemente agli ansiolitici e agli antidepressivi nelle forme nevrotiche.

La neopsichiatria si sente letteralmente perseguitata dalla sua impotenza a lungo termine, e reagisce proiettando i suoi fantasmi ideologici sulle esperienze di disagio psichico.

Non sorprende, pertanto, che, nell’esperienza di Patrizia, l’eccitamento delirante sia indotto dal brutale approccio clinico, e sia oggettivato come prova di una malattia già troppo avanzata per essere adeguatamente curata.

La neopsichiatria è una ‘scienza’ singolare: l’unica che insiste a pensare che l’intervento su di un fenomeno — nel caso particolare, l’entrare nel campo della psichiatria - non comporti alcun cambiamento del fenomeno stesso. Si può solo contestare questa arretratezza epistemologica della neopsichiatria rispetto a tutte le altre scienze, ma addirittura argomentare il contrario: e cioè che essa cristallizza, e rende spesso irreversibile, una situazione dinamica che pretende di curare.

L’esempio più chiaro è rappresentato dalla psicosi maniaco-depressiva, che è il cavallo di battaglia della neopsichiatria. Si tratta, anzitutto, di una clamorosa falsificazione dei dati psicopatologici. Gli episodi sono momenti di destrutturazione di una struttura psicopatologica che è sempre riconoscibile, ma che, essendo di tipo ossessivo, può essere facilmente equivocata come normalità. Nei periodi intervallari, caratterizzati secondo la neopsichiatria da una completa assenza di sintomi, è per l’appunto quella struttura che si reintegra. La ciclicità degli episodi distimici è, dunque, un epifenomeno: sia sul versante depressivo che su quello maniacale, essa rappresenta solo il vicolo cieco cui si destina una struttura soggettivamente instabile vissuta come normalità. Infine, da un punto di vista psicopatologico, non esistono forme pure di psicosi maniaco-depressiva: nelle fasi maniacali è sempre ricostruibile un ‘delirio’ di sregolatezza, e cioè un delirio che identifica la libertà con la trasgressione; nelle fasi depressive, altresì, è sempre ricostruibile un ‘delirio’ di colpa, che identifica la purificazione con l’estinzione dei bisogni vitali. La dinamica delle psicosi maniaco-depressive verte su di un ipercontrollo, subendo il quale si va verso la morte, attaccando il quale si va verso l’ esclusione sociale. E, dato che la morte è meno terribile dell’esclusione sociale — della morte civile -, l’orientamento soggettivo, che diviene evidente nei periodi intervallari, è di confermare la repressione, di frustrare la libertà e, in ultima analisi, di giungere a rinunciare ad essa come fosse un vizio o una droga. Questo progetto non coincide mai con il livello di coscienza, ma risulta sempre trasparente nell’organizzazione della vita, e, in particolare, negli intervalli tra le fasi critiche. E’ dunque il dramma di una libertà irriducibile e, nel contempo, vissuta come un male da estirpare il leitmotiv di ogni esperienza maniaco-depressiva.

La neopsichiatria appare del tutto inconsapevole di questo dramma: essa oggettiva le crisi — depressive e maniacali - come espressione di uno squilibrio del sistema biochimico che regola il tono dell’umore, che ha un significato univoco quale che sia la polarità nella quale si esprime. Ma, nei fatti, data la pericolosità sociale dell’eccitamento maniacale, l’orientamento terapeutico è sostanzialmente repressivo. Esso, cioè, va nella stessa direzione del progetto soggettivo. Il paradosso è che, nella misura in cui questo progetto viene ad essere confermato e si pretende realizzarlo dall’esterno — riproducendo cioè oggettivamente la situazione che ha prodotto l’alienazione del bisogno di libertà -, esso forza il soggetto a difendersi identificando la sua libertà con la libertà alienata. In altri termini, l’intervento terapeutico, nella sua insensatezza, cristallizza il soggetto in un vicolo cieco dal quale non può più uscire.

L’esperienza di Patrizia è significativa a riguardo. Essa entra in clinica depressa e minacciata da un delirio di colpa che la induce a togliersi la vita; assoggettata ad una brutale repressione, la situazione psicopatologica vira repentinamente in un eccitamento delirante il cui obiettivo è di infrangere le catene che le sono state poste. All’ingresso, Patrizia esprime un vissuto molto vicino alla verità strutturale: essa ha paura della libertà, la vive come una minaccia autodistruttiva e vuole essere protetta dall’esterno, non avendo alcuna fiducia nella sua capacità di autoregolazione. Quando esce dalla clinica, Patrizia è lontana dalla verità: è orientata verso una libertà che postula la separazione dall’ambiente familiare protettivo e repressivo e il venir meno di ogni controllo relazionale. Occorreranno anni per ricondurre Patrizia là dove essa era già arrivata: a prender coscienza della sua paura della libertà e ad interrogarsi su di essa.

2. La famiglia come sistema microstorico

L’insistenza sul tema del rapporto tra disagio psichico e sistema familiare non deve sorprendere. Se ci si affranca da un’ideologia organicista — che assume la famiglia solo come pool genetico, e cioè come sistema di trasmissione di predisposizione ereditarie -, il nodo della famiglia come ambiente all’interno del quale si costruisce interattivamente la personalità diventa imprescindibile. Ovviamente, considerare, in particolare oggi, la famiglia come un sistema chiuso o come l’unica istituzione pedagogica che determina la struttura della personalità è arbitrario. Già alcuni decenni or sono uno storico scriveva che i figli sono figli più del loro tempo che dei genitori. Non si vede oggi come si possa ignorare l’incidenza dell’istituzione scolastica, del gruppo dei coetanei, dei mass-media, del quartiere, ecc. Cionostante, rimane inconfutabile il peso e l’incidenza dell’ambiente familiare sulla strutturazione della personalità, e pertanto il suo porsi come un nodo essenziale per qualunque teoria del disagio psichico non riduttivamente organicista.

La famiglia può essere considerata da vari punti di vista, ovviamente ideologici. Nella storia della psichiatria, se ne possono definire almeno quattro:

1) il punto di vista freudiana è sorprendentemente ingenuo e preda delle apparenze. In tutti i casi freudiani, i genitori risultano identificati dal loro status socio-culturale. Sono univocamente ottime persone, talora addirittura straordinarie (Schreber padre). E’ superfluo aggiungere che quest'ingenuità, che esprime un cieco conservatorismo, incide su tutto il sistema teorico freudiano, costringendo le intuizioni rivoluzionarie entro schemi meramente psicologismi.

2) il punto di partenza neofreudiano che, valorizzando il determinismo culturale riferito strettamente all’ambiente familiare, si pone alla ricerca di tipologie genitoriali patogene. Arieti, che è l’estremo rappresentante di questo punto di vista, riconduce ogni forma di schizofrenia ad una costellazione familiare specifica. Esisterebbero dunque padri paranoidogenetici, madri ebefrenizzanti, ecc.

3) il punto di vista sistemico oggettiva la famiglia come un contesto comunicativo che funziona o no, nel senso di promuovere o meno la crescita e la differenziazione individuale, a seconda che esso rispetti o non rispetti le leggi universali della comunicazione pragmatica. Il limite di questo punto di vista è duplice: anzitutto, esso enfatizza i temi della crescita e del cambiamento ma in rapporto ad un modello di normalità che sembra ridursi all’acquisizione di una buona capacità comunicativa nel mondo così com’è; in secondo luogo, esso sembra interessato solo alla forma delle comunicazioni e non ai codici —e cioè ai sistemi di valore- che rappresentano lo specifico della comunicazione interpersonale.

4) il punto di vista antipsichiatrico radicale, mutuato da molte correnti sociologiste, vede nella famiglia solo un’istituzione persecutoria votata univocamente a reprimere la libertà dei figli al fine di agevolarne l’integrazione adattiva alla società o di imporre ad essi, come valore supremo, l’onore della famiglia.

Il difetto comune a questi punti di vista, pur diversi tra loro, è di cogliere, ciascuno, un aspetto parziale dell’organizzazione familiare e di teorizzarlo. Un maggior rispetto alla complessità del reale impone di adottare un punto di vista diverso: di assumere cioè la famiglia come un agente storico il cui fine — la produzione culturale di individui - si realizza in virtù di rapporti interpersonali sovrastrutturati dalle memorie familiari e dai codici ideologici normativi adottati dai genitori.

Questo punto di vista non è riduzionista, nel senso che esso non porta né ad ignorare né a misconoscere i livelli psicologici dei rapporti familiari — intersoggettivi e comunicativi -, ma impone di tener conto sia della microstoria familiare, depositata sotto forma di memoria più o meno organizzata, sia dell’appartenenza della famiglia ad un contesto storico, attestata dal sistema di valori e, dunque, dalla visione del mondo che essa veicola.

La complessità tridimensionale — microstorica, storica e psicologica - del sistema familiare rende comprensibile il fatto che nessun nucleo familiare può pervenire all’autocoscienza e può risultare immune da contraddizioni: posto ciò, è chiaro che il grado di mistificazione di un sistema familiare è direttamente proporzionale alla confusione delle diverse dimensioni che lo animano, e che il sistema più mistificato è quello che tende ad unidimensionarsi psicologicamente, quello cioè che tende ad imbrigliare la coscienza dei membri nello spazio psicologico interpersonale.

L’esperienza di Patrizia è esemplare di questa confusione, tanto più che i livelli microstorici e storici del sistema familiare hanno un’evidenza inoppugnabile.

In che cosa consiste, infatti, la follia di Patrizia al suo esordio, quando essa si pone come una ‘mania’ suicida? Patrizia vive il sistema familiare come un regime così oppressivo e persecutorio dal non vedere altro modo di affermare la sua libertà che quello di sottrarsi ad esso autodistruggendosi. Ma i genitori di Patrizia, in quanto persone, non sono né tirannici né persecutori: sono genitori disponibili, affettuosi e liberali. Patrizia, evidentemente, confonde tre dimensioni: l’essere concreto dei genitori, la logica della vita come sacrificio e donazione totale di sé agli altri che discende dalla microstoria familiare, e, in particolare, da una condizione di agiatezza vissuta come un privilegio da espiare, e la visione del mondo elaborata dai genitori incentrata sulla tendenza dei forti a sopraffare i deboli, che li ha portati a schierarsi dalla parte di questi ultimi. Questa visione del mondo ha determinato un rapporto protettivo con i figli e l’organizzazione di una vita familiare tale che la libertà dei figli, per essere tutelata dal rischio di esporsi a sopraffazioni, è stata costantemente sotto controllo. Ma la logica sacrificale ha comportato una contraddizione insolubile: come donarsi infatti totalmente agli altri senza correre il rischio di essere manipolati? La soluzione adottata dai genitori è stata quella di votarsi a coloro che, per essere deboli e bisognosi di assistenza, non possono sopraffare. Ma è proprio questo modello di vita che risulta persecutorio per Patrizia, poiché esso postula la donazione non lo scambio, il sacrificio non l’esercizio della libertà, la carità — come espressione della propria forza - non l’investimento degli affetti, come una manifestazione di un bisogno.

E’ uno strano modello adultomorfo che trae alimento dalla debolezza degli altri con cui si è in relazione. E', infine, un modello costrittivo, poiché esso, così come impone di accettare la logica del potere nelle relazioni umane, in conseguenza della quale, laddove c’è relazione, c’è chi domina e chi è dominato, ne fornisce una versione che la umanizza senza risolverla in virtù della quale, nonché sopraffare, i forti possono assistere i deboli e questi, noché vivere nella frustrazione e nella rabbia, possono vivere nella gratitudine.

L’esigenza di Patrizia di affrancarsi dalla famiglia va riferita meno ai genitori in quanto persone che non alla loro singolare visione del mondo nella quale è confluita — indubbiamente ‘nobilitandosi’ - una logica sacrificale maturata microstoricamente. Ma è evidente la trappola ideologica nella quale si è cacciata l’esperienza di Patrizia: se essa attacca il legame con la famiglia e investe la sua libertà nella relazione con il mondo, cosa potrà proteggerla dalla logica di potere che è la legge della relazione?

Sacrificarsi, diventando forte, a favore dei deboli, degli emarginati, dei devianti. Ma se la vita non è altro che sacrificio, donazione di sé, perché non giungere alle estreme conseguenze? Perché non sciogliersi da quest'inferno con un solo gesto risolutivo, che condensi la libertà e il sacrificio?

Se un sistema familiare induce in un figlio questa tragica soluzione, può esso non essere vissuto come persecutorio? Sarebbe vano, però, tentare di ricavare deterministicamente questa soluzione dei livelli intersoggettivi, interesperienziali e comunicativi. Patrizia,in virtù della sua esperienza, elabora una tematica propria della visione del mondo familiare e giunge ad una soluzione personale, paradossalmente ‘creativa’: una variazione sul tema, com’è proprio di ogni esperienza umana, che cerca di dare significato al mondo a partire da come esso è significato, e che ripropone sempre i bisogni di libertà individuale e di giustizia nei rapporti tra le persone in termini la cui drammaticità misura la frustrazione di quei bisogni.


5. ALESSANDRA.

(La psicoterapia di Alessandra è stata portata avanti dalla dott.ssa Elvira Rossi, amoca e allieva, alla quale ho fornito la supervisione)

Come spesso accade, anche per Alessandra, il primo episodio critico cui va incontro è una ‘ouverture’ che contiene già tutte le tematiche su cui si svolgerà l’esperienza successiva: e sono tematiche strutturali attraverso le quali traspare, condensato sul registro di un conflitto insolubile tra bisogni, un passato drammatico.

Alessandra, la cui carriera di vita si è svolta sino a quel punto all’insegna della docilità, dell’obbedienza, della diligenza, del rispetto dei valori tradizionali (studio, riservatezza), un ruolo insomma di ‘brava ragazza’ di buona famiglia, una sera, pochi giorni prima del suo diciottesimo compleanno, esce di casa in vestaglia e va ad offrire il suo amore e la sua disponibilità ad un ragazzo che conosce appena, ma di cui si è infatuata.

Ricondotta a casa dal padre, Alessandra si spoglia, gira per casa completamente nuda sporcando tutto con le sue mestruazioni e opponendosi violentemente ai tentativi dei genitori di rivestirla. Non riuscendo in alcun modo a contenerla, i genitori sono costretti a ricoverarla al S.Filippo, in T.S.O. presso il servizio di diagnosi e cura.

Il primo giorno di ricovero, Alessandra è contenuta a letto, completamente nuda, chiede che le si porti lì Stefano per fare l’amore con lui e scaccia con sputi e parolacce i suoi familiari.

E’ particolarmente aggressiva con la madre che accusa di non credere in Dio e di non fare l’amore con il marito, e con la sorella Camilla, di due anni maggiore di lei, verso la quale ha un atteggiamento duro e distaccato; dice che non è sua sorella e che deve andare in galera.

Nei giorni successivi, i sintomi di Alessandra regrediscono e dopo dieci giorni viene dimessa dall’Ospedale, con il consiglio di continuare una terapia familiare nell’ambulatorio del CSM.

In breve tempo, Alessandra riprende la sua vita di prima, torna a scuola e dopo circa 5 mesi la famiglia decide di concludere la terapia in quanto non è più necessaria. Alessandra è guarita, si è trattato solo di una brutta esperienza che è meglio dimenticare.

Già in questa prima crisi sono presenti tutte le dinamiche dell’esperienza successiva di Alessandra:il volersi liberare dell’habitus di brava ragazza in cui è stata insaccata fino allora e nel quale non c’è posto per l’espressione del suo bisogno d’amore e di relazione con il mondo, e il rivelarsi agli occhi della gente come un essere senza controllo sugli affetti e sull’esterno, totalmente disponibile e dunque vulnerabile, senza difese.

Alessandra vuole liberarsi dell’abito monacale che ha costituito finora una corazza difensiva contro il mondo esterno, ma nel momento in cui sente questo desiderio di libertà non può che mettersi a nudo dinnanzi a tutti rivelando il suo modo di vivere la femminilità come qualcosa di sporco.

In questa drammatica dicotomia tra un modello di vita ascetico e il concedersi a tutti come un essere debole e privo di qualsiasi potere, non è un caso che Alessandra usi le sue mestruazioni, segno certo dell’appartenenza alla categoria degli esseri deboli e penetrabili, per attaccare gli altri, contaminandoli e sporcandoli, trasformando quindi la sua debolezza in forza.

I genitori di Alessandra sono entrambi originari di un paesino della Toscana in provincia di Grosseto. All’età di vent’anni, subito dopo essersi fidanzati, lasciano il paese per venire a lavorare a Roma. La madre va a servizio presso una famiglia mentre il padre lavora prima in un negozio di fruttivendolo poi in un bar come garzone.

Dopo cinque anni prendono in affitto un appartamento di una stanza al centro della città e si sposano.

Continuano a lavorare duramente e in due anni di sacrifici riescono ad accumulare una discreta somma. Chiedono poi dei prestiti ai genitori riuscendo così a mettere insieme la cifra necessaria per comperare un appartamento di due stanze in periferia.

Poco dopo, nasce la prima figlia, Camilla; la madre riferisce un’esperienza drammatica sia rispetto al parto sia rispetto ad una grave intolleranza al latte della bambina che viene ricoverata per un periodo in ospedale.

In questo periodo muore il nonno materno di Alessandra. La nonna, restando con un figlio adolescente (nato a distanza di 18 anni dalla madre di A.) si trasferisce a Roma a casa della figlia con la motivazione apparente di far studiare il figlio, ma in realtà per un suo sentirsi inadeguata ad occuparsi da sola di lui.

Dopo un anno la madre di Alessandra è di nuovo incinta; è preoccupata per l’esperienza avuta con Camilla, piange spesso e vive tutta la gravidanza con una grossa angoscia, come una calamità alla quale purtroppo non può sottrarsi.

Il parto invece risulta molto semplice e Alessandra non crea nessun problema, è una bambina buonissima, mangia regolarmente e cresce bene, non dando alcuna preoccupazione alla mamma.

Dal momento in cui è nata Camilla, la madre inizia a lavorare in casa come sarta; la nascita di Alessandra costringe la madre ad una riduzione della sua attività lavorativa dovendosi occupare contemporaneamente di due bambine piccole.

Dopo cinque anni, nasce un altro figlio e poco dopo essendo diventata la casa troppo piccola (due stanze per sette persone), la nonna con il figlio torna al paese.

Continuando a lavorare il papà di Alessandra come autista in una ditta dolciaria privata e la madre come sarta, riescono a raggiungere un livello di vita appena decoroso mantenendo i loro tre figli agli studi.

I parenti che sono rimasti al paese, continuando a lavorare la terra, sono invece riusciti a raggiungere una certa agiatezza anche in seguito ad una divisione non equa della eredità.

Traditi dai familiari, deluse le loro aspettative di fare fortuna in città, i genitori di Alessandra si trovano a vivere una realtà sociale in continua evoluzione di cui non condividono i valori e cercano di sopravvivere rinchiudendosi nel nucleo familiare e facendosi scudo della loro unione contro le minacce del mondo esterno.

Un presunto tradimento del marito avvenuto tre anni prima della crisi di Alessandra sconvolge questo sistema familiare andando ad intaccare uno dei suoi valori fondamentali, "l’onore.

C’è da pensare che:

1) la ‘buona’ famiglia sia un microsistema il cui equilibrio si fonda, sostanzialmente, sulla paura degli occhi della gente, e quindi su di un assoluto conformismo;

2) il ruolo di brava ragazza assunto da Alessandra sia l’effetto di un rigido ipercontrollo instaurato sui suoi bisogni personali; ipercontrollo funzionale a soddisfare le aspettative della famiglia e a farla sentire forte ed equilibrata in rapporto al mondo esterno;

3) i bisogni personali di Alessandra, assoggettati ad una lunga frustrazione ambientale e soggettiva, siano giunti a configurarsi come bisogni la cui realizzazione postula la perdita di controllo, la trasgressione e lo scandalo; come bisogni, dunque, alienati che, per essere soddisfatti, richiedono che Alessandra si violenti, esponendo senza difesa la sua vulnerabilità, e violenti sia l’onore che le regole sociali.

Si intuisce che la struttura di esperienza di Alessandra è adialettica. Essa riconosce infatti solo due ruoli: il ruolo della brava ragazza di buona famiglia dipendente dai suoi e riservata; e quello di donna che si apre alla relazione con il mondo senza riserve.

Dopo un anno circa dalla prima crisi (che si era conclusa con l’esplicitazione da parte di Alessandra del suo progetto: rinunciare all’amore e tornare a sacrificarsi riassumendo il ruolo di brava ragazza) il giovedì grasso, dopo essere stata con un’amica a vedere all’uscita dalla scuola il ragazzo a cui l’anno prima aveva dichiarato il suo amore, ha una discussione con la madre riguardo al suo desiderio di uscire in strada mascherata.

Alessandra vorrebbe confezionarsi una maschera ma riesce solo a farsi un cappello bianco che la madre trova sconveniente (da ‘pazza’) e le suggerisce di mascherarsi con la solito camicia da notte.

Alessandra rinuncia alla maschera, esce, e dopo aver telefonato a casa, avvisando i genitori, passa la notte fuori; rientra alle due del mattino accompagnata da un ragazzo che, come Alessandra stessa riferisce, ha conosciuto a Piazza Navona e vedendola da sola e disorientata l’ha accompagnata a casa in taxi.

Agli operatori del C.S.M che si sono recati a casa sua, Alessandra riferisce che lei non può fare nulla, contrapponendo il suo essere rigidamente controllata dalla madre alla libertà concessa alla sorella che ha solo due anni più di lei.

Aprendo il suo armadio, mostra i vestiti confezionati dalla madre sarta e dice che non ha nulla da mettersi, che lei non ha vestiti, che nell’armadio non c’è nulla di suo e la tuta da ginnastica che indossa è del fratello.

Alessandra esprime drammaticamente il suo essere stata insaccata dalla madre in abiti che non sente suoi e che la costringono in un ruolo che non le permette di esprimere i suoi bisogni personali e nei quali si sente come una bambola.

Ed è in questo senso che evolve la crisi di Alessandra che si blocca non reagendo più a nessuno stimolo esterno e regredendo in una condizione di grave catatonia.

Viene quindi ricoverata al Servizio di diagnosi e cura, ancora in T.S.O.

Non tollerando la cattiveria che sente dentro di sé, nel momento in cui si oppone ai suoi familiari, ribellandosi al ruolo sacrificale che fino ad allora si era imposto, Alessandra si difende dall’emergere del desiderio di vivere con l’unica modalità a lei nota, l’anestesia affettiva nei confronti della famiglia e del mondo esterno.

Il blocco psicotico aggravato da un’intolleranza ai neuroelettici porta Alessandra ad uno stato di come al risveglio dal quale ella riafferma di non avere abiti suoi da indossare ma accetta al contempo le minestrine che la madre le imbocca e indossa come una bambola le camice da notte che la madre confeziona per lei.

Alessandra alterna atteggiamenti caricaturali da burattino in cui esprime il suo lasciarsi manovrare dagli altri (soprattutto in presenza dei familiari) ad una richiesta di aiuto rispetto al suo bisogni di individuazione e di cominciare a camminare con le sue gambe.

Con questo conflitto irrisolto tra bisogni, Alessandra riprende la sua vita di ragazza nomale sbalordendo tutti con la sua improvvisa ‘guarigione’. Per una seconda volta, pur mantenendo una velata opposizione nei confronti della madre, Alessandra sacrifica se stessa (per gli altri) rifugiandosi in un falso adattamento alla famiglia e al mondo esterno.

Intravista la possibilità per Alessandra di una evoluzione al di là di quella che possono permettersi i suoi genitori, si ritiene utile offrire uno spazio individuale, oltre la terapia familiare già esistente.

Pur essendo sempre puntuale agli appuntamenti, Alessandra tenta a volte di interrompere il rapporto terapeutico dicendo che ormai sta bene e pensa di non averne più bisogno.

Riesce a reinserirsi nella scuola, è promossa e d’estate fa un viaggio in Spagna con alcuni professori e compagni di classe; va poi al campo estivo degli scouts e al ritorno riferisce che per la prima volta non ha avuto la nostalgia dei suoi e si è sentita integrata nel gruppo degli amici.

Nell’anno successivo, Alessandra riesce ad aprirsi di più a scuola, intervenendo spesso in classe durante discussioni, guadagnando la stima dei professori e dei suoi compagni. Riesce a superare brillantemente gli esami di maturità e ciò rappresenta per lei l’ennesima prova delle sue capacità e di come lei possa uscire dall’ombra e aprirsi al mondo esterno.

Pochi giorni dopo gli esami Alessandra parte per la Grecia con un’amica del gruppo degli scouts; dall’inizio del viaggio comincia ad avere atteggiamenti disinibiti e provocatori nei confronti dei ragazzi.

Quando giunge all’aeroporto di Atene, vede tutte le navi che bruciano; di notte ha sognato che a Roma c’era il terremoto e i suoi genitori morivano, è molto angosciata, si blocca e viene ricoverata in un ospedale a Patrasso. Alessandra dopo poche ore si sblocca e decide di continuare il viaggio; dopo alcuni giorni, si separa dall’amica dicendo che ha bisogno di fare esperienze da sola. Incontra dei ragazzi che le danno da mangiare e da bere e si concede ad uno di essi; sulla via del ritorno, ad Atene denuncerà alla polizia la ‘violenza’ subita, sulla nave si blocca di nuovo e viene ricoverata nel servizio psichiatrico di Brindisi.

Ai genitori che vanno a riprenderla dice che sta bene, ma appena giunge a Roma chiede di andare al centro diurno del nostro CSM dove era già stata inserita due anni prima.

Dopo alcuni giorni, Alessandra regredisce in una condizione psicotica, caratterizzata da forti ambivalenze nei confronti dei familiari, soprattutto della madre e della sorella e da comportamenti ‘incomprensibili’ posti in atto all’interno del C.D. stesso.

Alessandra ha un atteggiamento estremamente selettivo: per alimentarsi deve attuare dei rituali che mirano a distinguere ciò che è commestibile da ciò che va scartato.

L’altro comportamento riguarda le feci: per un certo periodo, Alessandra ha frequentemente la necessità di svuotarsi di imbrattare il bagno. Poi, il rituale si organizza più compiutamente: deve svuotarsi ossessivamente, raccogliere le feci in un sacco dell’immondizia e andarle a depositare nel secchio dei rifiuti.

Nel complesso, i rituali fanno riferimento ad un bisogno che Alessandra esplicita: il bisogno di mantenersi integra, mettendo dentro solo cose buone. Se fossero veramente buone, però, queste dovrebbero risultare completamente assimilabili, e non trasformarsi in rifiuti. Selezionando accuratamente il cibo e svuotandosi ossessivamente delle feci — che non ci dovrebbero essere (come ella sostiene) - Alessandra esprime un vissuto che è, nel contempo, intensamente rievocativo e progettuale.

Rievoca la sua condizione originaria di recipiente nel quale le cose buone ricevute dall’esterno dovevano essere custodite, assimilate completamente e non trasformate in rifiuti. Si progetta ostinatamente come un contenitore, che riceve e trattiene tutto. Tra le rievocazioni e il progetto c’è solo un elemento differenziale: il potere selettivo che Alessandra esercita sul cibo, scartando ciò che non ritiene commestibile. Il potere di opposizione che, originariamente, non è sempre possibile esercitare sul piano della realtà, nella relazione con le persone da cui si dipende e che ci alimentano, e che, pertanto, si esercita interiormente, sotto forma di rifiuto. E’ su questo registro che evidentemente Alessandra ha esercitato quel potere, ma con la conseguenza di giungere a sentirsi piena di cattiveria e di cose sporche. Il progetto di opporsi sul piano di realtà, a livello della comunicazione tra esterno e interno, è pienamente ragionevole. Irragionevole, in quel progetto, è il pensare che dentro l’organismo —il corpo, la mente- non debba avvenire alcun processo di selezione, di opposizione e di trasformazione; o, in altri termini, che l’assimilare tutto sia la prova della bontà e dell’integrità soggettiva.

Il comportamento di Alessandra, che mira alla fusione del buono interno e di quello esterno in virtù dello scarto di ciò che non è commestibile e della negazione di dover sottoporre ciò che si riceve ad un processo selettivo interno, ci restituisce allusivamente una serie di verità rievocative elaborate in maniera tale da renderle sterili.

La rievocazione è accreditata da dati inerenti la storia familiare. Alessandra è nata a due anni di distanza dalla sorella: troppo presto — e sarebbe il meno -, ma soprattutto inutilmente, dato che il ruolo della femmina era già occupato dalla sorella. La madre non nega di aver rifiutato visceralmente la gravidanza, e di non essere riuscita a interromperla solo per remore morali. Comprensibilmente, nega di aver rifiutato Alessandra dacché è nata. Non c’è dubbio, però, che Alessandra sia stata allevata in un regime carenziale: affettivo, dovendosi la madre da sola dedicare a due figlie piccole, ed economiche, essendo le condizioni familiari appena sufficienti al mantenimento e rese più precarie dall’aver dovuto la madre allentare un’attività lavorativa domestica (di sarta). Alessandra, insomma, è nata con il piede sbagliato: in quanto altra ‘bocca da sfamare’ ha attivato fantasmi di precarietà già presenti nel vissuto familiare. E si è dovuta, pertanto, accontentare delle briciole: meno forse sul piano alimentare - per quanto pare vero che la madre pretendeva che non rifiutasse nulla-, che sul piano affettivo. C’è da chiedersi come Alessandra abbia interagito con questo regime carenziale. La risposta appare ovvia: riducendo, per un verso, la quota dei suoi bisogni, delle richieste, e, per un altro, cercando precocemente di meritarsi ciò che le veniva dato. In pratica, scontando come una colpa il suo essere di peso. Cos’altro può avere significato questo se non assumere un atteggiamento completamente passivo e accondiscendente nei confronti delle aspettative parentali — della madre, soprattutto - rinunciando ad ogni opposizione e, dunque, all’individuazione? Alessandra ha tentato di prendere dentro di sé, come buone, queste aspettative e di assimilarle, conformandosi ad esse per assicurarsi, come un’elemosina, un po’ d’amore. E deve esserci riuscita, se è vero che è giunta ad assumere, per la madre, il ruolo di figlia prediletta. Ma a che prezzo? La riposta non può prescindere dall’analisi delle aspettative materne. A questo punto, il discorso non può procedere che in virtù di indizi.

In un altro contesto storico e culturale, il destino di Alessandra, figlia inutile, in soprannumero e di peso, sarebbe stato quello di essere avviata al convento. Nel suo contesto, è stata avviata ad un modo di essere ascetico, incentrato sul rifiuto del mondo, sulla rinuncia ad ogni piacere, sul culto della virtù, della modestia.

La prova di ciò non è fornita solo dal suo modo di vivere — tra casa, chiesa e scuola- sino all’epoca della crisi. C’è un indizio più importante. La madre, sarta, le ha sempre confezionato degli abiti ‘monacali’, nei quali Alessandra si è insaccata senza protestare. E’ un caso che, lanciandosi verso l’amore, nella notte che ha inaugurato la storia della malattia, Alessandra si sia spogliata, uscendo in vestaglia?

Come tante donne tradizionali, la madre di Alessandra ha vissuto il matrimonio — e i rapporti coniugali - come un dovere e una costrizione. Non ha mai provato piacere, bensì solo l’ignomia di doversi concedere ogni tanto al marito, di doversi far penetrare. Alessandra, ai suoi occhi, è stata colei che doveva riscattarla — e riscattare il ruolo subordinato e infelice delle donne sposate -, rimanendo impenetrabile ai desideri e agli affetti. Il tradimento del marito, che ha sconvolto la vita familiare due anni prima che Alessandra si ammalasse, nonché essere stato colto come una denuncia del rapporto coniugale insoddisfacente, ha funzionato come un’ulteriore conferma della natura infida e sostanzialmente incline all’immoralità degli uomini: conferma, dunque, della necessità di guardarsi da essi e di non cedere mai ai loro desideri. Ammalando, Alessandra ha abbandonato di colpo il suo ruolo di ‘manichino’ e ha espresso un bisogno di opposizione lungamente covato, nei confronti di un destino e di un ruolo che non le hanno mai concesso di aprirsi ai suoi bisogni.

Ma il modo critico e sconsiderato, in cui si ribella a quel destino, le si ritorce addosso sotto forma di colpa: il suo comportamento attesta, ai suoi stessi occhi, che tutto ciò di buono che le è stato dato e che essa ha tentato di assimilare, dentro di lei si è trasformato in un’orribile sporcizia.

La struttura di esperienza di Alessandra non comporta che due modi di porsi in relazione con il mondo esterno: il modo passivo, ricettivo e assimilativo — che la integra nel sistema familiare al prezzo della rinuncia alla sua identità personale (come un sacco vuoto) - e il modo oppositivo — distruttivo, che la scioglie dai legami familiari ma la espone al mondo in una condizione di totale penetrabilità e vulnerabilità, riempiendola rapidamente di sporcizia. La adialetticità della struttura, che si riflette o nell’essere indifesa rispetto alla famiglia o nell’essere indifesa rispetto al mondo, si fonda sull’alienazione del bisogno di opposizione, che, per effetto delle condizioni ambientali, è giunto a configurarsi in termini meramente distruttivi: di conseguenza Alessandra non può che o rinunciare ad esso o soddisfarlo attaccando i legami familiari e la sua vulnerabilità, violentandosi.

L’evoluzione di questa struttura di esperienza è legata al recupero, da parte di Alessandra, del bisogno di opposizione come bisogno fondamentale che permette di definire la propria identità sia in rapporto al sistema familiare che al mondo, e di tutelarla senza che ciò necessariamente passi attraverso la distruttività, la trasgressione e la colpa.

In pratica, questo significa orientare Alessandra verso la percezione delle manipolazioni parentali da cui deve difendersi a verso la percezione della propria vulnerabilità, che segna un confine nella relazione con il mondo che non può essere superato d’emblée.

Sottrarsi all’opposizione familiare mettendosi letteralmente in balìa di chi capita è un rimedio peggiore del male; è una soluzione astratta poiché significa, per Alessandra, cadere dalla padella alla brace.

Un sogno strutturale

Tutti i sogni sono strutturali, nel senso che essi utilizzano categorie di significazione — i simboli - che esprimono la visione del mondo interno ed esterno di un soggetto maturata nel corso della sua esperienza microstorica. I sogni codificano il mondo dal punto di vista di un’esperienza vissuta. Risalire dai sogni alle strutture d’esperienza è un problema di decodifica, che postula l’adozione di codici esplicativi non acquisiti dal soggetto. Rendere fruibili soggettivamente i sogni impone, dunque, di interpretare i codici che essi adottano e di spiegare questi codici facendo riferimento ad altri codici.

Se tutti i sogni sono strutturali, alcuni lo sono in maniera trasparente. Un solo sogno strutturale può essere, dunque, la chiave di un intervento terapeutico dialettico, nel senso di mettere in luce una visione del mondo inadeguata alla realizzazione dei bisogni fondamentali e di lasciare trasparire i cambiamenti che devono intervenire, perché la struttura d’esperienza si riorganizzi mettendosi al riparo dai rischi che essa comporta.

Un sogno esemplare, da questo punto di vista, è il seguente.

Alessandra sogna l’edificio dell’ONPI, un pensionato per anziani, adiacente al CSM che frequenta quotidianamente. Negli scantinati, ci sono delle sguattere che lavano i panni sporchi e dei cani lupo in gabbia che la guardano.

I riferimenti realistici sono evidenti. Dopo il viaggio in Grecia, nel corso del quale Alessandra ha perduto ogni controllo ‘sporcando’ se stessa e l’onore familiare, si è prodotto una crisi ‘psicotica’ che dura ormai da mesi e che, essendo caratterizzata da comportamenti poco compatibili con la vita sociale, postula una protezione. Alessandra trascorre il suo tempo al Centro Diurno e nello spazio domestico; il padre l’accompagna al Centro in macchina e torna a prenderla dopo il lavoro.

La familiarizzazione di Alessandra con gli operatori del C. D. permette di comprendere che la ‘gestione’ della crisi si possa identificare con un lavare i panni sporchi in famiglia. Il C.D. è istallato in maniera tale rispetto all’edificio dell’ONPI da poter essere facilmente identificato per uno scantinato. In esso, infine, convivono pazienti che hanno perduto capacità di difesa in rapporto al mondo e operatori che funzionano, nel senso migliore del termine, da ‘cani da guardia’ (tant’è vero che Alessandra associa ad essi un infermiere).

L’ONPI e il Centro Diurno sono colte, nel sogno, come due istituzioni deputate ad assistere esseri vulnerabili e non autonomi: i vecchi e i ‘malati di mente’. Nel Centro Diurno non si eroga, però, solo protezione: c’è anche un’attività rivolta a pulire i panni sporchi, a risolvere le crisi.

Ciò che è importante è cogliere la matrice del sogno nell’identificazione di una categoria — di esseri vulnerabili - che non può avere un rapporto diretto, autonomo con il mondo, e quindi postula spazi istituzionali protettivi.

Da ciò è agevole risalire al significato strutturale del sogno, tenendo conto della microstoria di Alessandra. Il pensionato di vecchi, è, nel contempo, la famiglia di Alessandra, con la sua visione del mondo ‘antiquata’, fuori del tempo e poco vitale, spenta dall’esigenza prevalente di un rapporto formale con il mondo, e la personalità che Alessandra ha costruito introiettando quella visione del mondo: una personalità rigida e formale, ipercontrollata negli investimenti relazionali, assoggettata ad un codice di valori antiquato e, dunque, spenta e inetta a vivere.

Questa visione del mondo mortificante, nonostante la sua rigidità, non si mantiene, data la pressione incessante dei bisogni ‘vitali’, se non in virtù di un perpetuo e logorante impegno di pulizia interiore rivolto ad estinguere quella ‘sporca’ pressione. Ciononostante, basta un allenamento della mortificazione a provocare un rigurgito di vitalità e a produrre panni sporchi da lavare in famiglia: il tradimento del padre, la perdita di verginità di Alessandra.

Quanto ai cani da guardia, non c’è dubbio che essi alludono ai bisogni alienati. Bisogni originariamente di apertura relazionale, sia pure sul registro della dipendenza — il cane è l’essere radicalmente bisognoso dell’uomo - che, in virtù dell’addestramento familiare, si sono orientati verso una difesa dell’identità personale e familiare esitata in una sorta di territorializzazione psicologica che ha reso Alessandra impenetrabile e ostile al mondo esterno.

Il tentativo che Alessandra ha operato, nel corso del viaggio in Grecia, di restituire ad essi il loro significato originario, è esitato in delirio persecutorio, nel riproporsi cioè del controllo dall’esterno.

La gabbia rappresenta, pertanto, l’inesorabile restaurarsi del regime superegoico, che intrappola sia i bisogni di integrazione sociale alienati in meri bisogni di libertà sessuale, sia i bisogni di individuazione, alienatisi in una opposizione distruttiva ai valori familiari.

L’attacco alla visione del mondo mortificante familiare ha indotto in Alessandra una esposizione relazionale esitata in una catastrofe. Ciononostante, per sottrarsi ad un destino che le impone di vivere da vecchia, Alessandra deve ripercorrere lo stesso tragitto liberatorio del viaggio in Grecia, con maggiore consapevolezza di doversi opporre alle pressioni superegoiche, che si identificano con l’introiezione della visione del mondo familiare, e nel contempo di dover tutelare la sua identità.

Considerazioni teoriche su Alessandra

1. I limiti della terapia relazionale

L’esperienza di Alessandra rende evidenti i limiti della terapia relazionale, e consente dunque di parlarne criticamente, senza alcun intento polemici. La buona fede (ideologica) e le capacità ‘tecniche’ dei terapeuti sono fuori discussione.

Sono i dati stessi a parlare: le crisi nelle quali incorre Alessandra dopo la prima, che è stata trattata, dopo il ricovero, con un intervento terapeutico familiare di alcuni mesi, esprimono le stesse tematiche strutturali e dinamiche di quella. Che cosa significa questo se non che l’intervento relazionale è valso a restaurare degli equilibri preesistenti senza riuscire ad indurre una presa di coscienza sul significato degli stessi?

Certo, non si può escludere che, venendo meno la terapia relazionale, la famiglia — e, in essa, ogni singolo membro - si sia ricomposta in maniera tale da votarsi ciecamente ad una nuova crisi. La tendenza soggettiva e microsociale a ‘regredire’ in modi di essere apparentemente normali ma potenzialmente a vicolo cieco è così costante che appare ingenuo sottovalutarla. Non è detto che la terapia relazionale li ha sottovalutati: la teoria cui essa fa riferimento è fin troppo suggestiva forse in rapporto ai circoli viziosi comunicativi entro i quali i soggetto si intrappolano. Il problema è che la teoria, per le limitazioni ideologiche che accetta come presupposto della sua scientificità — l’hic et nunc, la soggettività come scatola nera, ecc. -, illumina degli aspetti della relazione interpersonale che sono meramente fenomenici, e, di conseguenza, si traduce in una pratica che non può non esaurirsi in un riaggiustamento di quelli.

E’ evidente, di conseguenza, che l’intervento relazionale è efficace nella misura in cui gli aspetti fenomenici sono evidentemente squilibrati — quando cioè il mantenimento di certi equilibri coincide con la produzione di crisi -, ma perde efficacia via via che gli squilibri diventano potenziali, e cioè strutturalmente e non fenomenicamente evidenti.

In altri termini, l’ottica del cambiamento mantiene la sua validità prassica quando si confronta con squilibri strutturali — individuali o microsociali -, mentre risulta inadeguata quando si confronta con squilibri strutturali. Assumendo questi come causa di quelli, i limiti della terapia relazionale risultano evidenti. Ed è evidente anche la diversità degli intenti della terapia relazionale e della prassi terapeutica dialettica, la quale utilizza un criterio valutativo che va al di là degli aspetti fenomenici investendo l’essere o meno adeguati gli equilibri e gli squilibri strutturali alla soddisfazione dei bisogni fondamentali.

Metacomunicazione e presa di coscienza dialettica non solo la stessa cosa: si metacomunica su di un sistema, si prende coscienza di una struttura. E’ quasi superfluo citare ancora una volta Levj-Strauss: una struttura è un sistema che si conserva nonostante le trasformazioni apparenti. La struttura, insomma, ha un’inerzia che è propria di tutti i prodotti storici:senza tenere conto della storia — intesa nelle sua molteplici dimensioni (sociale, familiare, individuale) - è vano tentare di capire il senso di quell’inerzia. Ci si deve arrendere a ciò che appare:il sistema, appunto, che è nulla più che uno dei possibili ‘artifici’ in virtù dei quali la struttura, nel contempo si manifesta e si cela.

En passant, non è possibile esimersi da considerazioni di ordine più generale.

Teoria e pratica sistemica si stanno diffondendo, non solo in Italia, con tale celerità da lasciar pensare che esse debbano rispondere ad una qualche domanda sociale. Occorre capire il significato di questa domanda e correlare ad esso il potere della risposta. Quanto alla domanda, appare ovvio che essa esprime un vissuto d'impotenza degli esseri umani nei confronti di situazioni conflittuali — a livello familiare, scolastico, negli ambienti di lavoro - che sembrano sfuggire ad ogni controllo. La teoria sistemica interpreta questa domanda come espressione del cattivo impiego delle risorse umane dovute all’adozione di schemi comunicativi inefficaci e/o paradossali. Essa dà per scontato la possibilità che quelle risorse vengano investite diversamente, e cioè in maniera più coerente in rapporto a leggi della comunicazione universali.

La fiducia della teoria sistemica non è infondata: le potenzialità della coscienza umana di leggere la realtà in maniera diversa, più concreta, sono, se non illimitate, elevate. Ma che l’uso ‘cattivo’ di quelle potenzialità sia riconducibile solo all’adozione di uno schema interpretativo fondato sulla casualità lineare, e non sulla interazione circolare, è francamente ridicolo. Intanto, c’è da chiedersi perché gli esseri umani adottino più comunemente quello schema, o, in altri termini, se si tratti di una tendenza propria della mente umana o di una determinazione culturale. In secondo luogo, c’è da chiedersi se l’oggettivazione delle risorse umane possa essere ricondotta al ‘tradimento’ di leggi comunicative universali (e quindi astratte), o non debba essere interpretata concretamente in rapporto ad una logica di potere che, refluendo negli spazi microstorici, rivela la sostanziale impotenza degli esseri umani nei confronti di un macrosistema che, alienandoli, li riduce a patetici manichini.

Il nostro punto di vista è che la tendenza all’oggettivazione della coscienza sia una determinazione culturale, la cui intensità attesta il grado di alienazione del macrosistema entro cui gli uomini vivono, dibattendosi per acquisire un potere sulla realtà di cui avvertono, in maniera drammatica, la mancanza.

Se ciò è vero, la teoria e la pratica sistemica, quali che siano i risultati (parziali) che può promuovere e conseguire, non solo non risolvono il problema dell’alienazione, ma lo esasperano, fornendo agli uomini degli strumenti che li illudono di avere più potere senza che ciò corrisponda ad un processo reale, che passa attraverso la presa di coscienza dell’alienazione. Se si considera, infine, che quest'illusione è promossa da tecnici che. per produrla, richiedono agli uomini un atto di fede ne loro potere, il cerchio di chiude. E si capisce, infine, la contraddizione in virtù della quale la stessa teoria che si affanna ad aprire spazi comunicativi vivibili per i disagiati, possa tranquillamente essere usata anche, nelle aziende, per l’efficienza dei dirigenti e dei funzionari, dando loro il potere di stratagemmi comunicativi che possano promuovere il massimo rendimento dei dipendenti.

Tutti i sistemi - è un postulato della teoria - possono essere migliorati; ma il miglioramento sembra passare sempre e solo attraverso un cambiamento comunicativo che o è indifferente o addirittura esaspera l’alienazione delle coscienze.

2. Sul concetto di crisi

Si ricorderà, forse l’insistenza con cui, nel corso dei seminari sulla prassi terapeutica dialettica, è stata riportata una citazione: "lo stato di cose esistente contiene in sé le ragioni di un suo possibile cambiamento". C’è da temere che questa citazione, che pure allude al punto su cui fa leva la prassi terapeutica dialettica — l’essere le esperienze umane, anche le più apparentemente dissociate e incoerenti, sempre strutturate dalla tensione tra bisogni fondamentali, le cui potenzialità dialettiche appaiono azzerate in conseguenza dell’alienazione dei bisogni stessi -, sia rimasta alquanto in sospeso per quanto riguarda il suo valore euristico. La terza crisi di Alessandra, con i suoi contenuti apparentemente del tutto psicotici fornisce un’occasione preziosa per verificare il significato di quella citazione.

La crisi di Alessandra si articola su due livelli: il primo, attuale, concerne immediatamente gli spazi sociali e le persone con cui Alessandra è in contatto; il secondo, rievocativo e strutturale, esprime i suoi modi di relazione con il mondo resi contraddittori dal conflitto adialettico tra bisogni che anima la struttura profonda della personalità.

Il primo livello, non immune, ovviamente, da contraddizioni, comporta un’aperta ostilità nei confronti dei familiari - soprattutto della sorella e della madre -, una qualche ostilità nei confronti degli ospiti e degli operatori del centro diurno, e un'insistente tendenza a ricercare il rapporto con un uomo assumendo il ruolo di seduttrice e cacciatrice. A questo livello, tanto Alessandra sembra, per un verso intenzionata a chiudersi, a difendersi e ad aggredire su un fronte relazionale — che associa famiglia e persone verso le quali Alessandra sembra non provare altro che fastidio -, quanto disposta, per un altro, ad aprirsi affettivamente, a esplorare ossessivamente l’ambiente e a catturare un partner. Già a questo livello appare chiaro che la possibilità di aprirsi ad una relazione significativa postula una forza che Alessandra ricava dall’ostilità rivolta contro i legami familiari e contro relazioni che, per non essere significative, sono vissute solo come ingombranti. La sua chiusura al mondo familiare e sociale e la sua apertura alla ricerca di un rapporto univocamente duale appaiono ampiamente squilibrate. Da una parte c’è un mondo che minaccia, ostacola, infastidisce, ingombra; dall’altra una possibilità di amore duale la cui realizzazione postula il venir meno di ogni difesa e di ogni ritegno, l’abbandono cieco al sentimento. Nel momento stesso in cui Alessandra esprime, con la chiusura e l’ostilità, il dramma di un’identità che non può definirsi che in virtù della distruttività, essa si orienta a porre in gioco totalmente e senza riserva quell’identità in un rapporto duale d’amore. Ovviamente, questa contraddizione è azzerata, nel vissuto di Alessandra, dall’aspettativa che l’altro, l’amato, non approfitti in alcun modo del suo offrirglisi in una condizione inerme e indifesa. Ma è proprio quest'aspettativa — di porsi in balia di qualcuno che non fa male in quanto ama -, che passa attraverso l’annullamento della propria identità e la delega all’altro di un potere totale, di vita e di morte, a rendere irrealizzabile il progetto.

E’ al secondo livello che verificheremo l’irrealizzabilità del progetto, che mortifica il bisogno di identità orientandolo verso una temibile fusione. Al secondo livello, la relazione di Alessandra con il mondo è restituita in termini elementari, nei termini di uno scambio tra ambiente e organismo attivato dal bisogno di ricevere dall’esterno ciò che manca, il cibo.

Il progetto di Alessandra traspare, qui, sotto forma di una fantasia astratta in quanto fusionale: la pretesa di Alessandra di funzionare come un contenitore, che ricevendo solo il cibo buono, lo assimila totalmente e non produce rifiuti. Pretesa che postula che nel cibo non ci sia nulla da scartare e che l’organismo funzioni solo assimilando e non trasformando. Pretesa assurda anche sul piano della metafora, poiché fa capo ad un rapporto tra ambiente e organismo univoco. E che tale infatti risulta anche a livello soggettivo: Alessandra è costretta, infatti, a selezionare accuratamente il cibo prima di ingerirlo e, per un certo periodo di tempo, usa i rifiuti per imbrattare e sporcare le pareti e il pavimento del bagno. La fantasia fusionale appare dunque arginata da un bisogno di opposizione insormontabile, che Alessandra vive senza rendersi conto del suo significato. Il modo di relazione fusionale, nel quale sembra progettarsi, rievoca dunque un’esperienza che Alessandra ha vissuto ma sul registro della mortificazione: il credito sulla totale bontà e assimilabilità di ciò che le veniva offerto dall’ambiente familiare mirava, infatti, ad estinguere ogni opposizione, ed era avallato dall’assenza di opposizione. E’ come se Alessandra riproponesse a se stessa, come modello ottimale, una relazione buona che, di fatto, è stata solo illusionale, e la cui bontà era pagata da lei stessa al prezzo di un sacrificio impossibile. Nessuna relazione autentica tra persone si dà se non passando attraverso l’opposizione, poiché nessuna relazione —neppure quella tra i genitori e figli- nasce affrancata da una logica di potere che gli affetti possono risolvere o mistificare. Questo Alessandra lo sa ‘visceralmente’: deve solo prendere coscienza, e accettare la dialettica dei bisogni come matrice di un nuovo modo di relazionarsi al mondo che la affranchi dalla duplice paura di annullare la sua identità per ricevere amore o di distruggere i legami per affermare la sua identità.


6. TIZIANA

Sono le esperienze soggettive che, da una condizione di assoluta normalità, precipitano in un disagio psicopatologico a offrirci dei criteri importanti per valutare l’organizzazione della coscienza in rapporto ai bisogni fondamentali.

A 41 anni, Tiziana, che è apparsa sempre una donna sicura e realizzata, comincia ad avvertire una apatia inconsueta. Trascorre molto tempo a letto, trascura se stessa e la casa, appare nervosa e intrattabile. Soffre di emicranie e mal di schiena. Tutto viene ricondotto, incautamente, ad una modica (e fisiologica) artrosi della colonna cervicale e lombare. Le cure non sortiscono alcun effetto. Nel frattempo, Tiziana comincia ad avere dei ‘sintomi’piuttosto inquietanti: quando esce di casa, dopo poche centinaia di metri, è preda di capogiri, palpitazioni e un senso di malore che la costringono a rientrare rapidamente; quando è in casa, la situazione è ancora più angosciosa. In presenza della suocera, che trascorre il pomeriggio a casa sua, avverte dei ‘violenti impulsi omicidi’ nei suoi confronti, che la inducono a tenersi a distanza e a non maneggiare né uncinetti, né formici né coltelli. Quando sta da sola, di mattina, passando vicino alla finestra, ha paura di essere colta da un ‘raptus’ e di precipitarsi giù. Non riesce a riferire al suo medico questi ‘sintomi’: gli dice solo di avvertire confusione, irrequietezza e strane idee. Consulta un neurologo, il quale emette diagnosi di depressione nevrotica e le prescrive un trattamento farmacologico. Tiziana desidera curarsi, ma se non prendendo gli psicofarmaci sta male, prendendoli sta peggio. Le cure vengono cambiate invano ogni mese per un semestre. Alla fine, il neurologo si arrende: dice a Tiziana che le cure sono inefficaci perché lei non collabora, e la invia da me per capire queste ‘resistenze’. Nel frattempo, le fantasie omicide e suicide si sono attivate a tal punto che Tiziana ha sviluppato la convinzione di essere irreversibilmente malata di mente e destinata a finir male.

Quando la vedo, è una donna duramente provata. Non ha alcuna remora nel riferirmi tutto ciò che le passa per la testa, poiché è sicura che io confermerò quanto essa pensa: essere affetta da una malattia mentale ereditaria. Il padre era un alcolizzato, una zia materna è morta nel manicomio di Trieste. Come e perché la ‘tara’ si sia manifestata a 40 anni, repentinamente e mettendo in gioco una normalità addirittura invidiata dalle amiche è ‘pane’ per gli scienziati. In pratica, non manifesta alcun interesse per una situazione dalla quale non può aspettarsi altro che ‘parole’. Non mi affanno a ricostruire la sua storia. Vado al nodo della questione: il senso della sua struttura d’esperienza e la congiuntura che l’ha fatta affiorare.

Il senso è chiaro: la struttura esprime l’urgenza di un cambiamento impossibile. Tiziana non può più rimanere chiusa negli spazi domestici e familiari, non può più vivere ritualmente secondo il ritmo annoso di abitudini. Gli impulsi omicidi e suicidi segnalano null’altro che la configurazione claustrofobica e mortificante di quegli spazi e di quelle abitudini e la necessità di uscirne a qualunque costo. Nel contempo, quando Tiziana esce di casa, e si sottrae alla protezione soffocante della casa, si imbatte nella paura del venir meno di un controllo su di sé che la espone ad una brutta figura e a oscuri pericoli.

La sua struttura di esperienza attesta dunque che è necessario cambiare l’organizzazione della vita, ma che ogni cambiamento è impossibile. C’è quanto basta per impazzire. Ma la malattia non è la causa della struttura d’esperienza, può essere l’effetto di problemi vissuti come insolubili.

Naturalmente, Tiziana ribatte che è sempre vissuta nel modo in cui vive, che in passato non solo non le pesava bensì la gratificava e che non aveva alcuna paura di muoversi da sola. Qualcosa di patologico deve dunque essere accaduto. Quello che è accaduto è invece semplicemente una congiuntura: un ciclo della vita, incentrato soprattutto sul ruolo di madre, si è compiuto. Il figlio unico ventenne è partito arruolandosi in un’Accademia militare.

A 40 anni, ancora giovane, desiderosa di vivere e bella, venendo meno il figlio, la vita si è configurata come un’inerte attesa di una vecchiaia ancora lontana, come un dovere ripetitivo senza senso.

Tiziana oppone a quest’interpretazione un dato di realtà: tante donne che lei conosce vivono allo stesso modo, si trovano nella stesa situazione congiunturale — di essere ancora giovani con figli autonomi -, e continuano a tirare avanti tranquille. Perchè a lei è accaduto di ammalare? A mio avviso, due sono i motivi possibili: il primo riguarda la qualità più o meno soddisfacente delle relazioni familiari e dello scambio che la famiglia intrattiene con il mondo; il secondo concerne la coscienza che ha della propria condizione.

Ci sono donne che vivono claustrofilicamente — dentro spazi familiari e di abitudini - senza avere alcuna coscienza di ciò, soddisfatte dall’identità espressa e configurata in quegli spazi; altre che, dopo essere vissute per anni allo stesso modo, intuiscono un difetto di autonomia, di libertà e di capacità di interagire con il mondo al di là dei confini consueti.

Questa presa di coscienza, meramente emozionale, si traduce spesso in esperienze psicopatologiche. Il problema è di dare ad essa un carattere dialettico: di capire perché quei confini sono, nel contempo, intollerabili e insuperabili. O, in altri termini, perché una quota di bisogni, la cui soddisfazione postula il oro superamento, si traduce in una minaccia di morte.

Posto in questi termini, il problema viene recepito da Tiziana. Si avvia un lavoro di ricostruzione microstorica, che non mi sembra il caso di restituire nei dettagli, ma a grandi linee.

A 18 anni, Tiziana abbandona la sua famiglia originaria per venire a Roma. Giovane e avvenente, scopre rapidamente il pericolo di essere esposta come preda agli uomini. Rinuncia a studiare, si lega ad un uomo buono, tranquillo, ma un po’ spento — abitudinario, insicuro, vagamente pauroso del mondo -, si chiude nella claustrofilia dei ruoli tradizionali; a 40 anni, esaurito il ciclo della maternità, scopre il desiderio di investire le sue risorse in nuove esperienze. Progetta di riprendere gli studi, prende contatto con associazioni culturali e assistenziali, ecc. Ma, non appena comincia a muoversi fuori degli spazi consueti si ripropone il problema originario. Una donna sola, ancora giovane e avvenente, non può non sentirsi preda delle attenzioni maschili. La lunga frustrazione ha prodotto anche una minaccia interna: un bisogno di ricevere conferma dall’esterno, di essere amata che potrebbe indurre, anche in assenza di pericoli esterni, un cedimento, una sbandata, un perdere la testa in cui Tiziana legge il crollo della sua identità e una minaccia per i valori in cui crede. Se non vuole rinunciare a vivere e a perseguire dei progetti di cambiamento, Tiziana, deve, anziché negare, prendere atto che quei pericoli sono reali. E’ vero, e non illusorio, che c’è una cultura maschilista che individua in una donna sola una preda potenziale. E’ vero che una donna giovane, benché sposata e madre, non cessa pertanto di essere oggetto di desiderio.

Per non confinarsi in spazi claustrofilici, tali pericoli vanno affrontati: ma, la premessa perché ciò avvenga, è la consapevolezza che promuova un agire dialettico che miri ad integrare il bisogno di tutelare l’identità personale e il bisogno di aprirsi e di interagire con il mondo. Nel giro di pochi mesi, la ‘crisi’ è superata, i sintomi scompaiono, e, con essi, la convinzione di essere affetta da una malattia mentale. Tiziana si riapre al mondo, organizza una vita autonoma relazionale e sociale, riprendendo, tra l’altro, a studiare. Il risveglio di primavera investe anche il marito, che riesce ad affrancarsi egli stesso dal letargo delle abitudini.

L’interesse di questa esperienza, per alcuni aspetti abbastanza banale, non inerisce la prassi quanto la teoria.

Da un punto di vista pratico, essa attesta la necessitò di un intervento attivo, che fornisca alla coscienza strumenti culturali atti a decodificare dialetticamente la condizione alienata in cui vive e l’esperienza microstorica che ha prodotto l’alienazione.

Da questo punto di vista, la prassi terapeutica dialettica è concretamente innovativa, poiché non si costringe né a ricondurre il disagio su di un registro fantasmatico — le paure di Tiziana hanno un fondamento reale -, né a definirlo come espressione di una condizione oggettiva di oppressione familiare e culturale — la condizione oggettiva, infatti, risulta adeguata al bisogno alienato di protezione dell’identità personale.

Al di là della prassi, l’esperienza permette di affrontare un problema teorico di estremo interesse: il rapporto tra coscienza normale, coscienza psicopatologica e coscienza dialettica.

Tiziana vive in una condizione di normalità, soggettiva e socialmente convalidata, sino a 40 anni. Poi, in rapporto ad un evento prevedibile — la separazione dal figlio - precipita in una condizione psicopatologica che tende progressivamente ad aggravarsi. Cos’è accaduto sul piano dinamico? L’allontanamento del figlio determina di fatto un aumento della libertà personale di Tiziana, una disponibilità di tempo libero sino ad allora inesistente. Tiziana deve ristrutturare la sua esistenza in rapporto a questo: ma, dato che l’organizzazione preesistente era di tipo claustrofilico, essa non può far altro che tentare di chiudersi negli spazi consueti: la casa, il rapporto con il marito e la suocera. E’ questo rinchiudersi ulteriormente, non più giustificato oggettivamente, a far affiorare un prepotente bisogno di libertà sotto forma di angosce claustrofobiche. Non si può assumere questo fatto in termini casuali o meccanicistici: non c’è una costrizione che, in sé e per sé, determina un moto di liberazione. Il nesso è stabilito dalla coscienza, sia pure in maniera confusa e oggettivata, nella misura in cui essa non si è radicalmente normalizzata (nell’alienazione), e cioè ha mantenuto un qualche rapporto con i bisogni fondamentali. La crisi psicopatologica attesta il fallimento di una normalizzazione totalmente mortificante: questo fallimento postula un dato di fatto — la pressione dinamica dei bisogni fondamentali - e un dato soggettivo — uno spiraglio rimasto aperto tra coscienza e bisogni.

Se ciò è vero, occorre ricavare due conseguenze significative. La prima è che la normalità non esiste che in forma dialettica, essendo attestata da un continuo lavoro di adattamento del mondo ai propri bisogni (e non viceversa: l’adattamento dei bisogni al mondo così com’è, è tutt’al più una ‘premessa’ di normalità, che rimane comunque da costruire). La seconda è che l’alienazione dei bisogni dà luogo a conseguenze diverse a seconda che l’organizzazione della coscienza sia più o meno normalizzata. C’è indubbiamente un limite al di là del quale quell’alienazione non può produrre che modi di essere psicopatologici. Ma, all’interno di questo limite, l’organizzazione della coscienza appare decisiva nell’assicurare o compromettere una pseudonormalità. Tiziana va in crisi perché non si arrende a vivere così come vivono molte altre donne, nella logica del sacrificio, del dovere e della rinuncia.

La coscienza psicopatologica non è una coscienza dialettica; ma, in una certa misura, è aperta alla dialettica dei bisogni più di una coscienza normalizzata. Questo significa che la coscienza psicopatologica rappresenta una rottura irreversibile con la normalizzazione. Sul piano della prassi, ciò postula l’esigenza di aiutare una coscienza psicopatologica ad acquisire ciò che ad essa manca: una visione storica e dialettica del suo tragitto esperienziale. Le alternative non sono che o le mistificazioni tecniche o la repressione in una pseudonormalità sempre esposta al rischio di destrutturarsi.


7. MICHELE

Nell’estate del 1975, si rivolge a me un docente universitario per sottopormi il problema del figlio Michele che ha sedici anni. Da due anni, Michele ha abbandonato la scuola, e si è chiuso in casa, aggrappandosi disperatamente ai suoi. Vive in una perpetua angoscia di morte, dovuta ad un assedio di sintomi psicosomatici. L’angoscia gli impedisce praticamente di muoversi: riesce a uscire, di rado, solo in compagnia del padre o del fratello. Questo grave impedimento rende Michele intrattabile e aggressivo: da due anni, il padre e il fratello sono soggetti a continue violenze, che Michele giustifica sostenendo che essi sono colpevoli di non aiutarlo adeguatamente o che è giusto che essi condividano le sue sofferenze. E’ stato consultato uno psicoanalista che, dopo alcuni colloqui, si è elegantemente defilato, a detta del padre, spaventato dalle potenzialità distruttive di Michele.

L’occasione dell’incontro con me è fornita da un problema urgente. Michele ha deciso di fare un viaggio in Inghilterra con il fratello, ma, avvicinandosi la data della partenza, ormai imminente, ha sviluppato un’angoscia intollerabile sia soggettivamente che per i familiari. Egli li tiene praticamente sequestrati in casa giorno e notte per valutare i rischi che può correre viaggiando e le conseguenze psicopatologiche di cedere alla paura e di rimanere in casa.

In pratica, la situazione è omologabile a quella d’un animale ‘selvaggio’in gabbia, cui si offre la possibilità di evadere, e che teme, se esce, di poter essere ferito a morte, e, se non esce, di accettare lo stare in gabbia come un destino.

Il primo colloquio con Michele non presenta difficoltà. E’ evidente che egli, pur sostenendo che le paure vanno affrontate di forza, non cerca altro che una conferma del fatto che il rimandare il viaggio non segna la sua condanna a dover rimanere per sempre chiuso nella situazione in cui è. Non ho alcuna difficoltà a dirgli che sfidare le paure, quando esse sono intense, è segno certo della paura di aver paura, e che occorre coraggio a riconoscere d’aver paura. Il coraggio, tra l’altro, permette anche di parlarne. Michele appare confortato ma perplesso: che diavolo c’è da dire sulla paura di perdere la pelle quando la vita è ancora tutta davanti a sé? Potremmo — è quanto suggerisco - capire perché essa muta a seconda delle circostanze, talora ‘irragionevolmente’. Quando ha deciso di fare il viaggio, evidentemente contava sulla presenza del fratello: che cosa, soggettivamente, è intervenuto a rendere questa presenza, solitamente rassicurante, inadeguata? A malincuore, Michele riconosce che, oltre alla presenza dei parenti, è lo spazio domestico a fornirgli la massima protezione. Ciò è vero, ma è pur vero che proprio in questo spazio si verificano le crisi più angosciose, che Michele riesce a scongiurare solo scaricando la sua rabbia sulle persone e sulle cose. In ultima analisi — è l’ipotesi che avanzo - sembra che, indipendentemente dal vissuto di morte imminente, l’angoscia di Michele sia una medaglia che si presenta, a seconda delle circostanze, con una sola faccia. Considerandola nel suo insieme, essa allude a due confini esperenziali lambendo i quali Michele sperimenta terrore: un confine, che provoca le crisi domestiche, è il sentirsi chiuso in una gabbia senza scampo, costretto a dipendere e privo di ogni libertà di movimento; l’altro confine, che provoca le crisi fuori casa, è il sentirsi solo, esposto, vulnerabile e privo di controllo. Il primo confine attiva una rabbia smisurata, il secondo un panico che induce Michele a rifugiarsi tra le pareti domestiche. L’esperienza di Michele sembra oscillare, senza tregua, tra una condizione di schiavitù e una condizione di libertà terrificante.

Rivedo Michele dopo circa un mese. Ha rinunciato al viaggio, e ha recuperato una serenità sorprendente. Ha riflettuto su quanto è stato detto, e sarebbe orientato ad avere con me un rapporto continuativo, al fine di uscire dal ‘tunnel’ in cui è finito. Stigmatizza però il linguaggio che ho adottato, giudicandolo troppo drammatico. Non pensa, in fin dei conti, di essere tanto ‘malato’, e teme che mettere in discussione i suoi problemi possa danneggiarlo, generandone altri che non ha. Discutiamo su quello che intende per malattia. Michele si attiene, con evidenza, ad un metro di misura clinico e convenzionale: da questo punto di vista, avere delle paure è qualcosa di diverso dall’avere una malattia di mente. Gli fornisco il mio metro di misura: la salute mentale è rappresentata dal potere reale che un soggetto ha sul mondo interno e su quello esterno.

Un difetto di potere, quale che sia, non definisce pertanto una malattia, bensì un processo di vita che, per motivi diversi, non è pervenuto all’acquisizione di quel potere. Michele esprime, in risposta, un vissuto abbastanza singolare: se egli non è libero di godersi la vita come vuole, ciò non dipende minimamente da lui, bensì da un ‘delinquente’ che, insediatosi nella sua testa, lo minaccia costantemente di morte producendo una valanga di sintomi psicosomatici ogni qualvolta egli tenta di ribellarsi e di vivere.

L’ideologia coscientemente libertaria, anarchica e sfrenata cui Michele si è votato lascia intuire che il ‘delinquente’ è il bisogno di autoregolazione alienatosi in bisogno di repressione. Non mi sembra il caso di mettere in discussione questa concezione, perché Michele appare del tutto inconsapevole di avere paura di una libertà giunta a identificarsi con la sregolatezza e la trasgressione.

Egli mena vanto dell’anarchia che è riuscito a realizzare nei limiti imposti delle paure: rifiuta ogni forma di apprendimento, la cultura e il lavoro; mangia a crepapelle nelle ore più impensate (e, comunque, mai a tavola con i suoi); sta su la notte sino alle 4 ad ascoltare musica rock, e dorme di giorno; si masturba ossessivamente per ore e ore sul filo di fantasie sempre più oscene e violente. L’unica libertà di cui non si vanta è la tendenza a terrorizzare e a picchiare il padre e il fratello; ma meno per motivi morali che egoistici: se facesse loro veramente del male, non potrebbe più servirsene.

E’ chiaro che Michele vuole farsi passare per un duro, un cinico, un contestatore ad oltranza, un eroe negativo, che, pur temendo la morte, preferirebbe morire piuttosto che mettere la testa a posto e ‘imborghesirsi’. Ed è anche chiaro che questa protervia anarchica, che pure deve avere un senso, se gli permette di mantenere un’identità coerente, lo terrorizza. Se venissero meno i freni della paura, come finirebbe Michele?

Non tanto male, forse, come egli pensa. Il ritorno del fratello dall’Inghilterra, con i puntuali resoconti sulla condizione giovanile, offrono il modo di capire meglio la struttura dell’esperienza di Michele. Il viaggio del fratello era un viaggio di studi: le rare incursioni nei pubs gli hanno dato modo di rilevare la diffusione a livello giovanile dell’alcool e delle droghe, leggere e pesanti. Michele, che ovviamente non nutriva alcun interesse culturale, si sarebbe recato in Inghilterra solo per immergersi in quegli ambienti e cercare delle esperienze. Ciò che lo ha paralizzato — diventa infine chiaro - è una vera e propria fobia nei confronti di tutte le droghe, dall’alcool all’eroina. Per mantenere la sua integrità psicofisica, Michele non beve né vino né liquori e non fuma.

Come accordare questa fobia con un progetto di vita radicalmente anarchico, se non pensando che essa pone in luce la paura di una libertà che, sfuggendo di mano, diventa incontrollabile? E qual è la conseguenza di una libertà incontrollabile se non quella di azzerare il potere di un individuo sulla realtà, esponendolo al rischio di poter cadere in balia di qualcuno? Non è dunque un caso che i disordini cui Michele si abbandona avvengono in un contesto domestico e privato, e che i suoi rari rapporti con il mondo esterno sono caratterizzati da un ipercontrollo marcato, che impone una tensione tale da indurre il vissuto di un crollo imminente e, dunque, la necessità di ritirarsi dalla situazione.

La struttura dell’esperienza di Michele è, dunque, sufficientemente delineata. Il problema è che il livello di coscienza di Michele appare del tutto rovesciato rispetto alla struttura: egli è ciecamente alleato di una libertà alienata che, almeno a livello sociale, non potrà mai esercitare, poiché essa lo esporrebbe al rischio di essere escluso o catturato (vedremo poi come questo rischio assumerà connotazione precise); e, viceversa, è fieramente ostile ad ogni forma di autoregolazione, perché la vive come una rinuncia al piacere di vivere e perché essa gli è restituita intollerabilmente dai sintomi psicosomatici.

Un diverso livello di coscienza potrebbe muovere solo da una ricostruzione microstorica della genesi della struttura d’esperienza di Michele. Ma, assillato com’è dal problema della sopravvivenza quotidiana, Michele non appare affatto disposto a parlare della sua storia personale, familiare e sociale.

E’ chiaro che l’intervento terapeutico deve accettare le condizioni che Michele pone: sono — né più né meno - le condizioni di una guerra di trincea.

C’è, tra l’altro, in famiglia un dramma maturato un anno prima, che sta evolvendo verso una tragica conclusione. La madre di Michele è stata operata di un tumore maligno in fase avanzata. Le metastasi sono comparse dopo pochi mesi dall’intervento. Allettata, ospite dei genitori, essa si va spegnendo. Michele, che è stato tenuto all’oscuro della verità, la va a trovare raramente e non manca mai di rimproverarla di essersi lasciata andare, giungendo a schernire la sua debolezza. L’evidente sofferenza della madre rende incomprensibile quest'atteggiamento cinico. Non essendo Michele un ‘mostro’ di insensibilità, rimane da pensare solo che egli abbia una fobia della debolezza che lo induce a negare ciò che ha sotto gli occhi.

Questa interpretazione è confermata dagli atteggiamenti che Michele ha nei confronti del padre. Quando ‘sta male’, lo terrorizza verbalmente; poi, quando vede la paura balenargli negli occhi, si incattivisce e lo picchia. La motivazione cosciente è di metterlo alla prova, di verificare che, nonostante la paura, il padre sopporta stoicamente i colpi che gli vengono inflitti. Paradossalmente, è una sorta di cura ‘ricostituente’ che restituisce a Michele il padre come un uomo forte e capace di tollerare ogni dolore.

C’è però una contraddizione sulla quale non si può sorvolare. Michele aggredisce anche Lino, il fratello, ma per motivi opposti. Lino ha un atteggiamento piuttosto freddo e controllato, non si lascia travolgere dalle angosce di Michele, e talora addirittura ironizza su di esse. Non riuscendo a scalfire la sua impassibilità, Michele diventa violento, Lino oppone una stoica resistenza passiva e l’aggressività di Michele giunge a livelli abbastanza pericolosi.

E’ su queste sequenze relazionali che si articola la prima interpretazione. Michele sembra non tollerare né la debolezza del padre né la fermezza impassibile del fratello. Riversando su di loro le sue angosce incontrollabili egli sembra cercare un contenimento: ma se lo esasperano sia il cedimento del padre che la stoica fermezza del fratello, cosa può significare questo se non che egli teme sia un difetto che un eccesso di controllo? In altri termini, Michele tiene a confermare la propria incontrollabilità, ma, per un verso, ne ha paura, per un altro, non tollera che essa vada ad urtare contro un ostacolo insormontabile. La fobia della debolezza — rappresentata dal padre - si associa dunque alla fobia di una forza caratterizzata dall’opposizione passiva e dall’impassibilità — rappresentata dal fratello. E’ l’atteggiamento di perpetuo attacco di Michele, dunque, a rafforzare la debolezza paterna e a scalfire la fredda impassibilità del fratello. Dando a questo duplice attacco il significato di una oggettivazione, sembra di poter concludere che Michele percepisce dentro di sé due livelli di personalità intollerabili: per un verso, una debolezza associata alla paura di un urto traumatico con la realtà, per un altro, una corazza di insensibilità che, se lo pone al riparo da un cedimento, lo anestetizza. Attaccando entrambi i livelli nei suoi familiari, Michele conferma il suo progetto di vita incentrato sullo stabilire con il mondo una relazione intensa, partecipe, aperta ed affrancata dalla paura. Il problema, per ora, è che egli vuole costringere il padre vulnerabile e il fratello impassibile a realizzare quel progetto, e, per quanto riguarda se stesso, continua a vivere in un universo privato di sregolatezza, senza alcun contatto significativo con il mondo extrafamiliare.

Per due anni, in pratica, non si riesce a fare alcun passo avanti. Coscientemente, Michele si attesta su una posizione di rigida e intransigente difesa del suo progetto di vita. La sua protervia nel rivendicare il diritto alla sfrenatezza, il disordine crescente della sua vita interiore e privata, la rabbia cieca contro i sintomi vissuti come mezzi di contenzione arbitrariamente impostogli dal ‘delinquente’, l’aggressività esplosiva rivolta sui familiari lasciano presagire un destino catastrofico. Michele appare tanto radicalmente immerso in una guerra privata con ‘fantasmi’ persecutori senza sbocco da apparire indifferente alla morte della madre e al declino depressivo del padre. Nel corso degli incontri, frustra ogni tentativo di incursione nel suo ‘privato’. Nonostante quest'atteggiamento estremamente rigido, che lascia trasparire la paura di essere giudicato pazzo, qualche dato microstorico affiora.

Michele è stato un bambino difficile. Estremamente ribelle per un verso, bisognoso di protezione e pauroso per un altro. Gli atteggiamenti ribelli risalgono all’età di 5-6 anni, e vengono riferiti a ‘costrizioni’ educative familiari che Michele riteneva eccessive e/o ingiuste, alle quali reagiva urlando, scagliando oggetti e rivoltandosi contro i genitori. Le costrizioni vertevano, quasi sempre, sull’eccessiva esuberanza di Michele, che si esprimeva sotto forma di una smodata voglia di giocare. Dall’età scolare in poi, esse si sono esercitate contrapponendo al gioco il dovere dello studio.

Quanto alle paure, esse si rivelavano nei periodi estivi, durante i quali Michele, con il fratello, veniva inviato in una colonia. Nonostante la sua buona volontà, manifestava, dopo alcuni giorni, un'incontenibile angoscia di separazione dalla famiglia, che costringeva i suoi ad andarlo a riprendere.

Da questi dati sarebbe facile ricavare la conclusione di una predisposizione ad interagire negativamente con le frustrazioni: le costrizioni e le separazioni. Michele stesso, sia pure in maniera reticente, inclina a pensare che dentro di lui ‘qualcosa’ possa aver funzionato male sin dagli inizi.

L’ipotesi della predisposizione è, in effetti, la più semplice, e basterebbe a spiegare tutto. Essa, tra l’altro, è avvallata dal riconoscimento di Michele che la famiglia che gli è toccata in sorte è tra le migliori. Verità inconfutabile, confermata e dalla partecipazione del padre e del fratello al dramma di Michele e dalla loro volontà di capire.

Il contributo di Lino consiste nel dire come egli si è organizzato per sopravvivere. Precocemente ha capito che la sensibilità e le emozioni sono solo una debolezza che espone al rischio di soffrire. A 7 anni — è un ricordo cosciente -, ha deciso di chiudere i conti con questa parte di sé, liberandosene come un inutile residuo infantile. Si è anestetizzato e corazzato rispetto alla famiglia e al mondo, privilegiando lo studio e un approccio esclusivamente razionale ai problemi della vita. La soluzione ha funzionato: Lino ha avuto una brillante carriera scolastica, e si è dedicato, giovanissimo, al giornalismo, conseguendo rapidamente un'eccellente successo professionale. Ha rinunciato al divertimento e a ogni forma di abbandono sentimentale. Vive la sua vulnerabilità come una chiusura e, dunque, come un problema. Ma, razionalistimente, i vantaggi assicurati dal suo modo di essere gli appaiono di gran lunga superiori ai sacrifici. Posto di fronte alla stessa legge di vita, che postula l’esser forti per sopravvivere, Michele, secondo Lino, ha operato la scelta opposta. Ma Michele — e Lino dice ciò con una penosa partecipazione - è un perdente, un emarginato, un deviante.

Il padre di Michele è un uomo tanto lucido criticamente quanto angosciato dalla situazione del figlio, che gli sembra irrecuperabile. Egli sa intuitivamente che Michele ha le sue ragioni, ma non vede come egli possa rivendicarle se non votandosi ad una catastrofe personale e sociale. Ma quali sono le ragioni di Michele? Michele è nato in un periodo difficile per tanti aspetti. I genitori, entrambi di nobili origini, politicamente marxisti e professori universitari, vivevano una condizione di angosciosa precarietà: relativamente isolati dai rami familiari in conseguenza delle scelte politiche, fuoriusciti dal partito comunista nel ’56 in seguito alla denuncia dello stalinismo, ostacolati, nonostante le loro qualità, nelle rispettive carriere universitarie per motivi ideologici, si erano dovuti adattare all’isolamento e all’emarginazione. A entrambi, nonostante il loro valore e un eccellente curriculum, erano state assegnate sedi universitarie "punitive" in piccole città di provincia.

Non intendendo venir meno al loro impegno politico, accettando una comoda carriera al prezzo di una ‘conversione’, vivevano in pratica una sorta di esilio permanente: tre giorni a settimana in viaggio l’uno, tre giorni l’altra. I bambini rimanevano affidati alla nonna materna, una donna buona ma di idee molto tradizionali, e alle governanti. Il rapporto personale con i figli, nei momenti disponibili, era tenero, affettuoso e partecipe. Ma le esigenze dell’insegnamento, della ricerca e dello studio riducevano al minimo quei momenti. Solo nel corso delle vacanze estive, il nucleo familiare si ricomponeva, sperimentando una grande armonia. Ma si trattava di una breve pausa che illudeva tutti di poter vivere serenamente.

A posteriori il padre di Michele riconosce altri ‘errori’ inevitabili. In rapporto alla comune esperienza di vita, sia egli che la moglie hanno privilegiato un modello pedagogico incentrato sull’autonomia precoce, sul senso del dovere, sul rispetto delle regole, sulla dedizione allo studio. Un modello che il padre di Michele riconosce ibrido. Per metà ‘illuminista’, per metà calvinista.

Le difficoltà di Michele di conformarsi a questo modello e le sue ribellioni sono state drammatizzate e assunte come indizi di una devianza da stroncare in ogni modo.

Ma l’errore decisivo, espressione di una contraddizione irrisolta tra tradizione e cambiamento, viene riconosciuto nella scelta di una scuola d'élite privata: scuola a tempo pieno d’impostazione ‘tedesca’, nella cui colonia estiva Michele e Lino trascorrevano gran parte delle vacanze estive.

La matrice ambientale dell’esperienza di Michele è, dunque, sufficientemente delineata. C’è da pensare che Michele abbia interagito con le accelerazioni imposte dall’ambiente in due modi: per un verso, oppositivamente, rivendicando con la paura della separazione i suoi diritti a dipendere, ad essere curato e protetto dalla famiglia; per un altro, umiliato progressivamente nel suo ‘ridicolo’ infantilismo, progettando la sua crescita nei termini di un gigantismo atto a riscattarlo. In conseguenza di ciò, la sua personalità si è organizzata su due livelli; l’uno, reale, di dipendenza rivendicativa, l’altro, progettuale, di onnipotenza.

Non appena i dati sulla storia familiare sembrano sufficientemente ricchi, li comunico a Michele, poiché egli, che ne ha subito gli effetti, non può evidentemente rendersi conto delle cause.

La reazione è una viva sorpresa, ben presto mascherata dall’indifferenza. Il problema è che Michele continua a vivere giorno per giorno, confrontandosi con un’angoscia ‘claustrofobica’ che non ha sbocco se non nei frequenti acting-out domestici. Sull’orizzonte, poi, si profila una minaccia reale, che ingombra la mente di Michele: l’obbligo del servizio di leva.

Michele ha paura dell’impatto con un’istituzione che limita la libertà personale, ma ancor più paura dell’esonero per motivi psichiatrici, poiché pensa che esso sanzionerebbe ufficialmente il suo stato di disagio. Il tentativo di indurre in Michele l’accettazione delle sue difficoltà non come un handicap irreversibile, bensì come presupposto del suo aprirsi al mondo viene rifiutato. L’interessamento del padre e del fratello gli consentono di svolgere l’addestramento a Roma, con la certezza di essere adibito, dopo un mese, ad un servizio presso un ministero. Ciononostante, durante il mese di addestramento, in caserma, Michele, un giorno, sviluppa una violenta crisi claustrofobia, che lo induce a disertare. L’intervento del fratello, che ottiene l’interessamento di un generale, vale ad evitare l’incarcerazione. Michele ottiene un periodo di convalescenza, dopo il quale viene inserito in un ministero. Mi fa sapere che, per tutta la durata delle leva, intende sospendere gli incontri, perché, dovendo investire tutte le sue energie in quell’impresa, non può permettersi di rischiare una qualche crisi. Il messaggio implica la raggiunta consapevolezza di dover fare i conti con la propria storia.

Dopo un anno, il rapporto riprende. Michele mi comunica una grave delusione. Per anni, ha pensato che fosse lo scoglio del servizio militare a frenare la sua sete sfrenata di libertà. Superatolo, ha scoperto invece che nulla è cambiato. Vive in un’angoscia totale, praticamente recluso in casa, assillato dalla paura di impazzire. Quando esce di casa, in compagnia del padre o del fratello, insorgono poi una serie di disturbi psicosomatici — in particolare l’oppressione respiratoria e le palpitazioni - che lo costringono a rientrare. Non può fare sport, né frequentare degli amici, non ha una ragazza né un avvenire, non può viaggiare. E, naturalmente, la sua rabbia continua a scaricarsi in famiglia con effetti disastrosi: ha fratturato una mano al padre, ha inferto con una lametta un taglio sulla coscia del fratello. Ce l’ha a morte con me, perché mi attribuisce il progetto di volerlo normalizzare sul registro della mediocrità. Preferisce morire come un gigante incarcerato, come un eroe negativo piuttosto che cedere.

E’ giunto il momento di dirgli quello che penso.

Non ho alcun progetto adattivo, né avrebbe senso averlo. Lo considero infatti fin troppo adattato ad un modello di normalità adutomorfa, che, vietando inesorabilmente una qualunque manifestazione di umana debolezza agli occhi degli altri, lo obbliga ad astenersi da ogni interazione significativa con il mondo, e, nei casi in cui si dà relazione, ad una perpetua tensione mirante a tutelare la sua identità sotto la maschera di un assoluto conformismo. Imponendosi l’onnipotenza, egli si esclude dal mondo, e deve compensare quest'esclusione con fantasie vieppiù trasgressive il cui effetto è di criminalizzarlo. Penso che egli abbia ereditato dalla famiglia una rabbia elevata contro l’ordine di cose esistente, che i suoi hanno tenuto a freno con un estremo rigore e una rigida autodisciplina: rigore e autodisciplina che egli ha introiettato sotto forma di invivibili costrizioni, contro le quali si è ribellato finendo in un vicolo cieco. Il vicolo cieco è caratterizzato dal fatto che, a livello sociale, egli non può esprimersi né sul registro degli affetti, poiché teme di svelare la sua debolezza e di intrappolarsi in rapporti di dipendenza, né sul registro della rabbia, poiché teme una cattura istituzionale. In conseguenza dello scarso controllo che egli si attribuisce sugli affetti e sulla rabbia, deve rimanere in una condizione di protezione familiare e di repressione soggettiva. Il ‘delinquente’ innicchiato nella sua mente, al quale attribuisce il progetto di impedirgli di lanciarsi nella vita, vincolandolo alla paura e ai sintomi, mira solo a proteggerlo dal perdersi nel mondo, in un carcere affettivo o in un carcere reale.

Se Michele vuole vivere, la via è obbligata: deve riconoscere la pericolosità della rabbia cieca, dare ad essa un senso e investirla in maniera tale che la sua libertà sia preservata e non perduta.

La risposta di Michele è un sogno, il sogno del lager, che è stato riferito ed analizzato nel corso di un seminario, al quale si rimanda. In esso risulta evidente che la dissidenza di Michele, benché portata agli estremi dell’emarginazione e del congelamento, ha un significato umano. Il paradosso per cui il ‘sistema stalinista’, ricusato dai genitori, si è riprodotto nel regime familiare, a difesa di valori minacciati dal mondo, e nella personalità di Michele, a difesa della sua identità, è denso di significato.

Ma Michele è e tiene ad essere un ‘osso duro’. Ha capito che, sul piano dell’apertura al mondo, la sua rabbia è molto meno temibile, come minaccia alla libertà, della cecità dei suoi affetti. Sviluppa, pertanto, una nevrosi cardiaca che, in virtù di ricorrenti crisi extrasistoliche, lo fa vivere per un anno intero nell’angoscia meno di una morte che di un handicap che porrebbe un limite inesorabile alla sua voglia sfrenata di vivere. Il ‘mistero’ si chiarisce via via che Michele coglie il rapporto tra le interminabili masturbazioni cui si abbandona e il sopravvenire delle crisi extrasistoliche, che, terrorizzandolo, lo inducono a desistere. E’ null’altro che l’umana debolezza del suo cuore, che postula un referente reale, a interagire su fantasie strumentali che lo allontanano progressivamente dalla realtà. Ma è proprio quella debolezza, che gravita verso una relazione, che Michele non può ammettere, poiché essa interferisce con il modello maschilista onnipotente con il quale egli continua a identificarsi.

La soluzione di questa nuova fase è singolare. Esasperato dall’angoscia, Michele chiede infine un intervento farmacologico. Gli prescrivo una dose minima di Tavor (1 cp. da 2,5. mattina e sera). L’effetto è clamoroso: fin dalla prima assunzione, le crisi extrasistoliche e l’angoscia si vanificano. Come spiegare l’effetto di una dosa non massimale su un’angoscia giunta a livelli destrutturanti?

Il farmaco, soprendentemente, fornisce l’occasione di avviare il discorso sul bisogno di autoregolazione. Alienatosi nei fantasmi di una libertà totale che dovrebbe servire a sancire la sua onnipotenza relazionale — la capacità di godere totalmente del mondo - estinguendo il pericolo di rimanere intrappolato - con il rischio che affiori la vulnerabilità e la manipolabilità -, Michele non può ammettere alcuna autoregolazione poiché pensa che essa lo renderebbe impotente e debole. La necessità dell’autoregolazione si trasforma pertanto in bisogno di repressione dall’esterno: il farmaco risponde pertanto ad un bisogno autentico mistificandolo. E’ evidente che esso attiva potenzialità autoregolative proprie di Michele: ma, per la barriera ideologica opposta da un codice astratto di libertà, quelle potenzialità non possono essere utilizzate direttamente, e postulano un’oggettivazione. Il farmaco permette a Michele di oggettivare un bisogno e la risposta al bisogno stesso.

E’ questa mistificazione che, paradossalmente, apre la coscienza di Michele alla verità. Il venir meno repentino delle angosce e dei sintomi psicosomatici lo costringe a chiedersi perché debba vivere in una condizione di isolamento pressoché totale, cosa lo costringa veramente in una sorta di fatale claustrofilia domestica e familiare.

Sentendosi alle corde, costretto cioè a riconoscere che il progetto di vita adultomorfo serve solo a rimandare il venire alla luce nella pratica della vita di un io che Michele sente drammaticamente come debole, vulnerabile, influenzabile, manipolabile e catturabile, e che quindi il progetto veicola, contaminandolo ideologicamente, un bisogno di opposizione e di individuazione realizzato mortificando e rimuovendo il bisogno di relazione, Michele gioca d’azzardo. Richiede se sono d’accordo che egli parta in compagnia di un amico d’infanzia, che considera come un fratello, per un breve viaggio. Non ho motivo di criticare, ancora una volta una decisione già presa.

Il ‘breve’viaggio è una fuga in macchina verso il nord di mille chilometri, al termine della quale Michele e l’amico, come d’accordo, si dividono. E’ evidente che, organizzando il viaggio, Michele era intenzionato a violentare le sue paure, per ‘crescere’ di colpo. La conseguenza dell’azzardo è un rientro precipitoso a Roma e un nuovo rintanarsi dentro casa.

Lucidamente Michele riconosce di aver tentato di fare il furbo, ‘spazializzando’ il problema. Che non consiste nel dimostrare di poter arrivare in capo al mondo, ma, più semplicemente, nel provare a esporre se stesso al mondo fuori della porta di casa, e, soprattutto, nel provare a sperimentarsi non in una dimensione di astratta libertà ma nelle relazioni interpersonali.

Michele comincia dunque a tentare di costruirsi socialmente, secondo due direttive: l’inserimento lavorativo e la pratica degli affetti e della sessualità.

Quanto all’inserimento lavorativo, l’aiuto del padre, è essenziale: Michele, nel 1982, viene assunto in una fondazione culturale a tempo parziale come addetto alla biblioteca. Il contatto con studenti e ricercatori è vivificante. Michele, che ha sempre disprezzato la cultura, si destreggia tra i libri con una disinvoltura sorprendente. Comincia a leggere e ad appassionarsi ad alcune tematiche storico-sociologiche. Nonostante disponga solo di un titolo di scuola media inferiore, riesce a farsi passare per uno che sa. E, naturalmente, se da ciò ricava una conferma che lo induce ad acculturarsi, sia pure percorrendo tragitti di lettura singolari, per un altro verso sviluppa una paura piuttosto intensa di un ‘incidente’, che potrebbe mettere in luce il vuoto culturale che egli maschera e far crollare il personaggio che riesce a recitare di giovane scapestrato, che ama la vita e le donne, ma non disdegna la cultura. E’ quasi superfluo sollecitarlo meno alla finzione culturale, cui di fatto corrisponde una ‘cultura’, che non alla finzione edonistica.

E’ sul piano dei rapporti con le donne che Michele, infatti, incontra le maggiori difficoltà, poiché sperimenta l’astrattezza dei suoi codici mentali. Egli, intanto, a livello affettivo, trascura del tutto le sue esigenze di libertà, cercando insistentemente rapporti totalizzanti, fusionali. E’ evidente che vuol mettere alla prova la sua capacità di amare e soddisfare un bisogno di ricevere amore lungamente frustrato. Ma la conseguenza di questo modo di porsi in relazione è duplice: per un verso, Michele, per non sentirsi intrappolato dai suoi stessi affetti o dall’ altra persona, deve mantenere un ruolo dominante, teso, allarmato, che si traduce in una tendenza a sopraffare l’altra persona; per un altro verso, più egli si obbliga a rimanere dentro e quindi esposto alla relazione, più cresce la sua paura che, da un momento all’altro, si realizzi un crollo della sua identità potente, e che, di conseguenza, affiori il suo ‘vero’ io dipendente e vulnerabile. Questa contraddizione, che gravita verso una relazione fusionale, comporta una tensione relazionale estrema che induce Michele a stringere i tempi per verificare se la partner corrisponde alla configurazione ritenuta necessaria per lasciarsi andare. L’esito, ovviamente, è lo scioglimento.

Dato che il modello fusionale, sotto le false sembianze di un modello romantico e passionale, appare a Michele l’espressione della libertà totale, occorre non poco tempo a indurre la presa di coscienza che ciò che ostacola la realizzazione di quel modello è proprio un bisogno di libertà che Michele reprime, intendendo integrarsi in una relazione duale non individuandosi — e cioè rivelando se stesso - bensì occultandosi.

Molti elementi microstorici, interpretati a partire dal modo di porsi in relazione di Michele, concorrono a disalienare il bisogno di individuazione dalla trappola di una radicale vergogna. L’io vero, debole, vulnerabile e catturabile, che Michele ostinatamente cela agli occhi degli altri — ai quali attribuisce un metro di misura severo e spietato, che è il suo stesso occhio superegoico che viene oggettivato come occhio sociale - è null’altro che il residuo della percezione che Michele ha avuto di sé — della sua sensibilità, del suo bisogno di protezione e d’amore - in termini di nanismo. Percezione dovuta all’angoscia di una famiglia che ha dovuto affrontare difficoltà gigantesche — scontrandosi con l’ostilità congiunta di parenti e del mondo -, e che ha tentato di mettere i figli al riparo dalla sofferenza proponendo loro un modello di crescita adultomorfa, fondato sulla repressione di ogni debolezza. Michele, sentendosi rifiutato e preso in giro per la sua dipendenza e le sue paure ‘irrazionali’, ha introiettato quel modello, incattivendosi, celando il suo vero io e ripromettendosi di non farlo mai più venir alla luce. Ma quell’io è ancora vivo con il suo carico di bisogni radicali — riconducibile al rifiuto di accettare la vita come una guerra per la sopravvivenza -, e Michele, ormai intuisce che, nonché tentare di estirparlo, il problema è di affrancarlo dal pregiudizio superegoico che grava su di esso e farlo venire alla luce entro un contesto relazionale.

Significativamente, lo stesso problema investe la sessualità, dando luogo ad un paradosso che la coscienza di Michele non può non vedere. A questo livello, il modello adultomorfo si realizza evidenziando i suoi limiti. A contatto di una donna, Michele sviluppa un’erezione perpetua definita ‘priapismo’. Nel far l’amore, scopre però di essere affetto da un eccesso di potenza — segnalata dal fatto di non riuscire a raggiungere l’orgasmo - e da un difetto di sensibilità — ch’gli stesso definisce frigidità.

Sessualmente, insomma, Michele non è che una macchina capace di prestazioni interminabili ed estenuanti, ma incapace di provare piacere. Naturalmente, la partner, dopo un iniziale entusiasmo, registra il problema. La conseguenza è che Michele, dopo aver lottato per anni contro un ridicolo nanismo, giunge a provar vergogna di una potenza ostentata ma fredda, che sfugge al suo controllo. E’ chiaro, finalmente, che egli si è alienato nell’onnipotenza, e che, per godersi la vita, deve riumanizzarsi, attaccare la corazza di rigidità e di gelo che gli impedisce di abbandonarsi e di sentire.

E’un’impresa dura, che procede lentamente e investe tutti gli ambiti della relazione di Michele col mondo. L’occhio superegoico, che ha imposto a Michele di vergognarsi del suo io vero, inducendo una dissidenza anarchica di estrema violenza, continua ad essere in agguato. Ma, ormai, Michele sa qual è il nemico. Il più è fatto.