Prassi Terapeutica Dialettica (89-90)


Introduzione alla lettura

Questo saggio è il terzo tentativo di delineare l’applicazione della teoria struttural-dialettica sul terreno della psicoterapia. Si tratta, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, di un testo molto denso sotto il profilo concettuale, che, a posteriori, rivela i limiti di un’elaborazione teorica dialettica in linea di principio, ma di fatto unilaterale, in quanto vincolata al presupposto del primato dinamico del Super-Io.

Questa unilateralità appare ancora più sorprendente se si considera che, nel testo, risulta già la distinzione tra il Super-io formale, la cui matrice è da ricondurre al bisogno di appartenenza/integrazione sociale, e il Super-Io culturale, vale a dire strutturato dall’interazione con un determinato contesto ambientale. Questa distinzione avrebbe dovuto indurmi già all’epoca a capire che la psicopatologia riconosce due ambiti: il primo è caratterizzato di fatto dal primato del Super-io culturale, che, nella misura in cui è incompatibile con il bisogno di individuazione, lo frustra e lo mortifica, colpevolizzandolo e criminalizzandolo; il secondo, viceversa, è vincolato alla pressione dinamica dell’Io antitetico che, per opporsi ai valori superegoici alienati, può giungere a rimuovere o a reprimere la matrice che ne ha favorito l’interiorizzazione, vale a dire la sensibilità sociale e il bisogno di appartenenza.

Si dà, insomma, una patologia legata alla pressione dinamica del Super-Io e un’altra legata a quella dell’Io antitetico.

Pur trasparendo in molti punti del saggio, questa verità risulta un po’ oscura.

La circostanza è significativa di come procede una ricerca nell’ambito delle scienze umane. Il saggio porta alle estreme conseguenze la teoria del Super-Io messa a fuoco in precedenza, ma proprio in conseguenza di questa messa a fuoco, esso minimizza qualcos’altro: il ruolo potenzialmente patogeno dell’Io antitetico quando esso si struttura sulla base di un opposizionismo radicale e, per effetto di una lunga frustrazione, assume una configurazione ridondante.

Il pensiero dialettico, estraneo al modo consueto di funzionare della mente umana, che è lineare, è una conquista, mai peraltro definitiva.

I limiti del saggio cui ho fatto cenno sono ancora più significativi se si tiene conto che, a partire dai primi anni ’90, la conflittualità psicopatologica, in particolare a livello giovanile, è evoluta manifestando con sempre maggiore evidenza il potenziamento del bisogno di opposizione/individuazione, tal che oggi si può ritenere che un discreto numero di giovani siano affetti da una patologia dell’Io antitetico.

E’ banale ritenere che questo dato segnali il tramonto del Super-Io. Il Super-io culturale gerarchico, conservatore e perbenista indubbiamente sta perdendo vigore in rapporto ai cambiamenti della struttura sociale e della mentalità. Il Super-io formale, viceversa, in quanto universale, continua ad agire e a fare il suo mestiere, che è quello di alimentare nell’individuo il riferimento all’appartenenza e ai doveri sociali.

Nonostante la densità del testo, la lettura è consigliabile soprattutto per quanto riguarda l’abbondanza di esperienze cliniche ricostruite e analizzate alla luce della teoria struttural-dialettica.


Indice

 

PRIMA PARTE: Teoria dell'intervento dialettico

1. Introduzione

2. Obiettivi e metodologia della prassi terapeutica dialettica

3. Il paradosso dialettico

4. L'oggettivazione della struttura psicopatologica

5. L'oggettivazione delle interazioni

6. La dinamica strutturale

7. L'oggettivazione dell'immagine interna

8. La prospettiva microstorica

9. L'oggettivazione della funzione superegoica

SECONDA PARTE: Dinamica dell'intervento dialettico

1. La definizione del rapporto terapeutico

2. Il contratto terapeutico

3. La traduzione dialettica

4. La ricostruzione genetica

5. La struttura del campo d'esperienza

Finale


Prima Parte

Introduzione

Dopo aver delineato il sistema teorico ne "La politica del Super-Io", e averlo ampliato in "Psicopatologia strutturale e dialettica", rimane da affrontare il problema dell'uso che se ne può fare, e cioè della sua traduzione in termini di intervento terapeutico o, se si vuole, di tecnica terapeutica. E' superfluo dire che si tratta di un compito arduo, per ragioni che sono intrinseche alla teoria. Più volte si è sottolineata la differenza tra strutture ed esperienze psicopatologiche.

Le strutture sono modelli che, data la matrice conflittuale univoca che le genera e le sottende, possono essere descritti tenendo conto dei gradienti strutturali e delle trasformazioni che a questi fanno capo, del tutto indipendemente da concrete esperienze individuali. In altri termini, sono oggetti di teoria, la cui modellizzazione può prescindere dal livello empirico, che è quello esistenziale.

Le esperienze psicopatologiche, viceversa, sono concrete vicende esistenziali di soggetti che vivono un disagio psichico, ciascuno con il proprio corredo psicobiologico, con la propria storia personale, microsistemica e sociale, e con i propri ruoli.

Tanto le strutture sono astratte, dunque, quanto le esperienze psicopatologiche sono concrete, particolari e irripetibili, corrispondendo ai tragitti individuali i più vari in uno spazio sociale comune a tutte per alcuni aspetti e diverso per altri. In quanto contestuale, l'intervento terapeutico dialettico si confronta con situazioni, soggettive e microsistemiche, specifiche, il cui fattore in comune, oltre al disagio psichico, è l'appartenenza dei soggetti ad un sistema sociostorico dato. Tale sistema, però, anche ricondotto ai limiti di una nazione, è una realtà complessa, che condensa derive molteplici di storia sociale, di culture regionali e locali, di tradizioni comunitarie e familiari, e di ideologie. Realtà complessa, che nessuno conosce in maniera esauriente, e della quale, nonostante i contributi della storia, dell'antropologia culturale e della sociologia, non si dà una mappa. Realtà, infine, in movimento, che, ristrutturandosi continuamente ai suoi diversi livelli, con tempi di scorrimento diversi, produce nuovi assetti economico-sociali, nuove ideologie, nuovi modelli di normalizzazione e nuovi meccanismi di alienazione. Tenendo conto di questa complessità, un intervento terapeutico dialettico, se con ciò si intende un intervento che promuova la presa di coscienza dei rapporti tra storia sociale ed esperienze soggettive, appare letteralmente utopistico.

Per fortuna, parafrasando Rousseau, si può sostenere che non è necessario che gli uomini si trasformino in filosofi per diventare semplicemente persone, e cioè esseri capaci di partecipare alla vita sociale e nel contempo di mantenersi fedeli a se stessi, individuandosi.

Per quanto riguarda le esperienze psicopatologiche, intrappolate in strutture che sacralizzano il primato dell'integrazione sociale alienata sull'individuazione, il cambiamento si fonda sulla presa di coscienza che l'opposizionismo il più spesso inconsapevole, che sottende quelle esperienze e che, per effetto della colpevolizzazione superegoica, viene pagato (e anche, purtroppo, fatto pagare) a caro prezzo, contiene il potenziale energetico che può essere utilizzato per sormontare dialetticamente i sistemi di valore superegoici, introiettati ma non assimilati, e dei ruoli sociali assunti in nome della sottomissione ad essi e a coloro che li hanno trasmessi. Tale superamento non può avvenire che in conseguenza di una riabilitazione soggettiva del bisogno di opposizione/individuazione, che postula l'oggettivazione critica di quei sistemi di valore, delle interazioni interpersonali in virtù delle quali sono stati introiettati e delle dinamiche soggettive che, nonostante una ribellione viscerale, ne hanno mantenuto il potere all'interno della personalità.

In ciò che ha di essenziale, l'intervento terapeutico dialettico si riduce a questo. Ma non è chi non veda quale mole di problemi si nasconde dietro una formulazione così sintetica. Tenterò, in questo saggio, di affrontarli e di discuterli nei limiti in cui ciò oggi appare possibile. Due di quei problemi necessitano, però, di essere affrontati preliminarmente, a livello di introduzione.

Il primo concerne i limiti dell'intervento dialettico. Intendo con ciò non far riferimento ai limiti intrinseci, dovuti al potere della teoria e della tecnica, bensì a quelli estrinseci, reali e sociali, che vanno riconosciuti per non rischiare di dare all'intervento dialettico un significato mistificante. Tali limiti sono rappresentati dalle esperienze di disagio psichico che, pur riconoscendo dinamiche soggettive e interpersonali, si definiscono in rapporto a condizioni oggettive di vita poco o punto tollerabili.

Adottando un punto di vista astratto, si può discutere della relatività di ciò che è tollerabile o meno in rapporto alle capacità individuali di adattamento. Occorre, però, riconoscere, pur a rischio di semplificare il problema, che c'è una soglia di sicurezza sociale - legata al reddito di cui si dispone, alle condizioni alloggiative, alla precarietà e/o alla durezza del lavoro, alla solitudine e all'isolamento, ecc. - al di sotto delle. quale è estremamente probabile che si produca nell'individuo una rabbia cieca, rivolta contro tutto e contro tutti, che, per effetto dei meccanismi di colpevolizzazione, non può non dar luogo a conseguenze psicosomatiche o psichiche. E' ovvio che in tali situazioni, 1'intervento terapeutico dialettico può, tutt'al più, servire a rimuovere i livelli di autoinganno soggettivo che confinano il problema in un ambito medico e/o psichiatrico, e, di conseguenza, a promuovere una domanda di cambiamento delle condizioni oggettive che va indirizzata verso le istituzioni sociali deputate a risponderne.

La medicalizzazione e la psichiatrizzazione del disagio psichico sono incompatibili con l'approccio dialettico, il cui oggetto sono le vicende umane caratterizzate da sacrifici inutili di bisogni e di opportunità sociali, determinati da dinamiche soggettive e microcontestuali.

Il secondo problema concerne, per l'appunto, una definizione dello "specifico" psichiatrico da un punto di vista dialettico.

Il problema è importante, e ineludibile, sotto due profili: sotto il profilo teorico, per sormontare dialetticamente vuoi le antitesi deterministiche - il biologismo, lo psicologismo, il micro e il macrosociologismo - vuoi le impostazioni più recenti, multifattoriali, che sono del tutto astratte; sotto il profilo pratico, per fondare l'intervento terapeutico su una rete concettuale che, senza voler chiudere i conti astrattamente con la realtà, possa anticipare le difficoltà che s'incontrano, e in particolare lo scarto tra comprensione soggettiva dei problemi e tempi e modi di soluzione, la cui espressione è la coazione a ripetere.

Essenziale, a tal fine, è il concetto di struttura psicopatologica, intesa come forma di esperienza la cui matrice conflittuale, riconducibile all'alienazione dei bisogni, è prodotta dall'interazione con l'ambiente, ma che, data quella matrice, è intrinsecamente determinata dal Super-Io che, in quanto forma a priori emozionale, significa in termini di colpa soggettiva ogni conflitto con il gruppo di appartenenza e, in quanto istanza che veicola sistemi di valore socio-storicamente determinati, mira ad assicurarne il rispetto in nome del debito di fedeltà che ogni soggetto deve riconoscere nei confronti di coloro che li hanno trasmessi. Il senso di colpa, legato alla ribellione opposizionistica, e la necessità che ad esso consegue di riparare determinano costantemente, sia pure in forme diverse, un'economia di vita il cui bilancio deve, sempre e comunque, soddisfare un bisogno alienato di normalizzazione/punizione. La determinazione intrinseca della struttura psicopatologica, che, per effetto della pressione del bisogno di individuazione, può evolvere solo in direzione psicopatologica, è comprovata dalla sua tendenza a conservarsi e ad autoalimentarsi in virtù delle interazioni ambientali, e cioè a privilegiare quelle che la rinforzano positivamente, comportando il rischio di una trasformazione strutturale, e ad inattivare quelle che la rinforzano negativamente. In altri termini, un'esperienza soggettiva chiusa in una struttura psicopatologica, lo voglia o no, e quale che sia il suo rado di consapevolezza a riguardo, deve interagire con l'ambiente in maniera tale da mantenere l'omeostasi riparativa e punitiva prescritta a livello superegoico, nonostante i pericoli di trasformazioni strutturali connessi a questa.

Se si tiene conto di ciò, non sorprende affatto che le interazioni microsistemiche si configurano come giochi senza fine, che vedono tutti i membri impegnati, in misura diversa, ad interagire rinforzando positivamente la struttura psicopatologica. Parlare di patologia familiare non ha senso in riferimento a queste modalità interattive, che sono complementari e conniventi, bensì in rapporto ai sistemi di valore alienanti che determinano le interazioni. Questa distinzione non è di poco conto: essa porta a ritenere possibile, ma non certo, che ad una struttura psicopatologica manifesta corrispondano strutture psicopatologiche latenti in altri membri della famiglia.

Una struttura si definisce, infatti, a partire da una matrice conflittuale irriducibile. Nulla vieta di pensare che tale matrice precipiti in un soggetto e non negli altri, la cui alienazione può mantenersi nell'ambito della normalizzazione. Perciò, l'intervento terapeutico dialettico ha come oggetto le esperienze strutturate e prescinde dal presupposto ideologico secondo cui un cambiamento soggettivo può avvenire solo in conseguenza di un cambiamento sistemico. Nonchè ideologico, tale presupposto risulta anche pernicioso nei casi in cui esso rafforza la convinzione del soggetto disagiato di poter cambiare solo se gli altri cambiano o, al limite, che siano solo gli altri a dover cambiare. Siffatta convinzione fa capo alla prescrizione di dover essere autorizzato o subordinato agli altri nel cambiare.

La determinazione intrinseca alla struttura superegoica riesce poi massimamente evidente allorché il soggetto, entrando in rapporto con ambienti sociali diversi rispetto a quello familiare, tende a confermare questi alle sue esigenze strutturali, e cioè a produrre ex novo sistemi di interazione che le rinforzano positivamente. Ciò permette di comprendere, tra l'altro, anche i rapporti di coppia patologici, che sono determinati non già dai moduli comunicativi, bensì da un'economia strutturale covalente, e cioè dalla messa in comune di conflitti personali.

L'economia di scambio propria di una struttura psicopatologica è, dunque, quale che sia l'ambiente, più o meno rigidamente vincolata alle prescrizioni riparative e punitive superegoiche, che escludono ogni possibile cambiamento. Ciò, per quanto giustifica l'assunzione della struttura psicopatologica come oggetto dell'intervento terapeutico dialettico, non significa che quell'economia sia statica. Fatta eccezione per i casi in cui l'assoluta prevalenza di una motivazione/espiatoria determina un comportamento quasi esclusivamente masochistico, per cui i soggetti si votano ad un incessante maltrattamento di sé e ad attivare interazioni interpersonali e sociali di rifiuto, di ostilità e di disprezzo, si tratta di solito di un'economia dinamica, protesa ora a scongiurare un eccesso di frustrazioni, che potrebbero far precipitare nella disperazione, ora ad invalidare gratificazioni, che, data l'immeritevolezza e il senso di indegnità soggettiva, conseguirebbero l'effetto di aumentare i sensi di colpa. Questo carattere dinamico dell'economia strutturale psicopatologica è, sotto il profilo pratico, fuorviante: in primo luogo, poiché esso può facilmente ingannare, inducendo il misconoscimento della rigidità della struttura e una sopravalutazione della sua plasticità alle influenze ambientali; in secondo luogo, poiché esso comporta fluttuazioni critiche positive, apparentemente spontanee o dovute a cambiamenti ambientali, che facilmente possono essere scambiate come conseguenza di modificazioni strutturali.

La strutturazione psicopatologica, che, a nostro avviso, non è stata sinora adeguatamente considerata, rappresenta dunque uno spartiacque, al di qua del quale si danno situazioni di conflitto tra bisogni fluide e dipendenti dalle interazioni ambientali, e al di là del quale la matrice conflittuale soggettiva, ponendosi come irriducibile si "autonomizza" rispetto all'ambiente, eccezion fatta per le interazioni che la rinforzano positivamente. Ciò induce a ipotizzare una soglia critica, legata all'intensità dei bisogni frustrati in nome dell'integrazione sociale, al di là del quale l'attivazione della forma a priori emozionale superegoica, che dà all'appartenenza un carattere di legge, produrrebbe una catastrofe strutturale.

E' superfluo, forse, sottolineare che tale ipotesi non comporta alcun cedimento nei confronti del determinismo soggettivo. Nonchè il ruolo delle pulsioni asociali o amorali, quella catastrofe mette in luce, drammaticamente, il carattere imperioso, iscritto nel corredo della natura umana, della socialità. Tale carattere imperioso giunge, in ambito psicopatologico, a produrre delle "testimonianze" la cui evidenza, inconfutabile sul piano clinico, stenta ancora ad essere valutata sotto il profilo teorico.

Cito, dalla letteratura recente sulla psicosi, un esempio suggestivo di tale scarto. In Alienazione e personificazione nella psicoterapia della malattia mentale, G. Benedetti, dopo aver rilevato che "i processi disorganizzativi della schizofrenia non si sviluppano in egual misura a carico delle tre provincie psicoanalitiche della psiche, ossia l'ES,, l'Io e il Super-Io", si pone. giustamente la domanda se la destrutturazione schizofrenica, studiata solitamente in rapporto all'Io, "affligge anche gli altri due sistemi". La risposta testimonia dell'onestà dello psicopatologo attento ai fatti: "stabilito che la destrutturazione della schizofrenia può andare avanti sino ad investire l'intera psiche, bisogna adesso completare questo concetto aggiungendovi l'osservazione che in diversi casi il Super-Io può mantenersi relativamente indenne, mentre la frammentazione dell'Io procede. Un'alternativa interessante del disfacimento schizofrenico mostra la coesistenza di un Io disintegrato con un Super-Io ancora altamente strutturato". Non solo: "anche l'ideale dell'Io sembra più resistente dell'Io reale e del sé comunicativo al processo di dissoluzione schizofrenica". L'interpretazione di questo acuto rilievo clinico è modesta: "poiché l'Io non esiste più... la coscienza individuale del paziente cerca di salvarsi rifugiandosi completamente all'interno di quella struttura superegoica, la quale sembra essere più resistente al processo di dissoluzione di quanto non sia l'Io del paziente".

Da dove muove, dunque, tale processo, è perché mai esso, almeno in alcuni casi di destrutturazione psicotica, non investe il Super-Io? Come spiegare l'immunità del Super-Io e le scarse resistenze dell' Io? L'ipotesi che ho elaborato della doppia identità, con i suoi correlati teorici, sembra fornire una risposta adeguata.

Il concetto di struttura psicopatologica promuove, dunque, una prassi terapeutica che si può definire dialettica poiché, senza dover mettere tra parentesi alcuna delle dimensioni proprie dell'esperienza umana - il biologico, lo psicologico, il microsistemico e il macrosistemico -, colte tutte sul duplice registro sincronico e diacronico, mira ad un obiettivo costante: affrancare i bisogni alienati dalla loro configurazione pulsionale, che postula un regime superegoico punitivo/riparativo, e restituire ad essi il loro significato autentico di vettori orientati verso l'organizzazione di una vita che abbia senso per il soggetto, sia pure nei limiti definiti dalla sua appartenenza ad un mondo sociostorico determinato. Nelle pagine successive parlerò dettagliatamente delle modalità tecniche per mezzo delle quali quell'obiettivo può essere perseguito e realizzato.

Non posso però concludere questa introduzione prescindendo da alcune riflessioni che si impongono. Fatta eccezione per il riferimento al corredo dei bisogni, che, adeguatamente sviluppato, dovrebbe confortare una concezione evoluzionistica e dialettica della natura umana in rapporto all'ambiente storico, sono consapevole di non aver detto alcunchè di nuovo. I dati che ho utilizzato sono noti, benché facciano capo al patrimonio di saperi diversi, dalla neurobiologia alla psicoanalisi, dalla teoria dei sistemi alla sociologia dinamica, dall'antropologia culturale alla storia.

La rispondenza delle ipotesi formulate alla realtà clinica può, inoltre, essere facilmente verificata da coloro che operano in ambito psichiatrico. C'è da chiedersi, dunque, perché questo paradigma non sia stato già proposto ed accettato. I motivi sono, presumibilmente, molteplici, ma a me preme sottolineare, come fattore che li unifica, una resistenza di ordine culturale che concerne due aspetti, uno generale - oserei dire antropologico -, l'altro particolare - riferito alla psicopatologia.

Quanto al primo, si tratta di riconoscere che la natura umana è a tal punto predisposta alla socialità che se ne può fare letteralmente ciò che, consapevolmente o meno, se ne vuole, benché il prezzo di questa plasticità, se essa viene usata per indurre e mantenere un'integrazione sociale alienata, consiste nell'attivare una protesta viscerale che può facilmente convertirsi in odio contro il mondo e contro di sé. Non cambia molto il discorso il considerare che quella stessa predisposizione sociale, integrando l'individuo in un gruppo e in un ordine socio-culturale storicamente determinato, può produrre l'estraneazione e l'odio rispetto all'altro, al diverso, al testimone di altre culture, più o meno alienate rispetto a quell'ordine.

Si tratta, in secondo luogo, a partire dall'ipotesi della doppia identità, di riconoscere che quella superegoica, con il suo carattere sociale e impersonale, dunque alienante, può, date certe circostanze ambientali, rendere impossibile la sua soppressione dialettica, momento necessario perché si dia la nascita di una coscienza morale critica, determinando una normalizzazione anonima o, quando si instaura un conflitto irriducibile tra Super-Io e bisogni alienati, una condizione di disagio psicopatologico.

Queste due asserzioni, che a me sembrano poco confutabili, introducono nella cultura lo sconcerto di dover tornare a riflettere sulla distinzione rousseauniana tra uomo e citoyen da un punto di vista più ampio, arricchito dalla scoperta freudiana del Super-Io, dalla riflessione filosofica sull'alienazione e dal riproporsi, a partire dalla neurobiologia, del problema della natura umana e, ovviamente, del rapporto natura/cultura.

L'esistenza di una forma a priori emozionale superegoica, che veicola come legge il bisogno di integrarsi al gruppo di appartenenza e di condividerne l'esperienza, e la possibilità che essa, modellata da contenuti culturali sociostoricamente determinati, si traduca in uno strumento di asservimento al mito gerarchico, come conferma la radicale vocazione sociale della natura umana, così pone in luce la potenziale pericolosità di ogni organizzazione sociale che, in nome di quel mito tende a conservare se stessa e le contraddizioni che alberga. Diversamente da quanto riteneva Freud, il Super-Io non attesta il potere della civiltà sulle pulsioni, bensì, nella sua forma, la predisposizione della natura umana alla civilizzazione, e, nei suoi contenuti, il potere dell'alienazione sociale sulle potenzialità dialettiche ed evolutive intrinseche al corredo psicobiologico di ogni individuo. La prassi terapeutica dialettica, rimuovendo questo potere attraverso la riabilitazione, emotiva e culturale, del bisogno di opposizione/individuazione, ha l'intento di restituire a quella predisposizione il suo significato dialettico di partecipazione attiva, critica e, possibilmente, gratificante alla vita sociale e alla storia.

Questo intento, come tenterò di illustrare, può essere perseguito tecnicamente ma mantenendo una tensione teorica, e etica, che trascende il livello dell'intervento sulla situazione concreta e, proprio per ciò, non ha bisogno di immeschinirsi nell'uso di scale diagnostiche computerizzate, nella esaltazione del potere degli psicofarmaci, nel cieco volontarismo missionario degli operatori votati al burn-out, nella ipocrita erogazione psicoanalitica di gratificazioni e frustrazioni controtransferali, nel gioco ormai ritualizzato delle prescrizioni e dei trucchi sistemici, o nel ricatto speculativo - denaro vs salute - delle proliferanti tecniche umanologiche. Ciò significa che la psichiatria dialettica, pur non ricusando il confronto con le altre pratiche sul piano puramente tecnico, non può prescindere, in nome della sua appartenenza al campo delle scienze che hanno come oggetto l'uomo nel tempo - biologico, storico, istituzionale, mi crosistemico, esistenziale -, da un atteggiamento critico nei confronti dello status quo. In altri termini, vincolata ai contesti in cui opera come la vanga ai terreni che sommuove ed esplora, esso ricava il suo senso dall'allentare e rimuovere sofferenze personali e familiari non meno che dal denunciare, portando prove, gli effetti alienanti del mito gerarchico, delle istituzioni che lo veicolano, riproducendolo, e delle ideologie che, facendo leva sul bisogno di appartenenza sociale, lo naturalizzano. Se, pertanto, affronterò in questo saggio, il problema della tecnica terapeutica dialettica, ciò non significa che, su questo piano, si esaurisce la prassi terapeutica, il cui fine ultimo è di concorrere, individuandole e denunciandole, a lottare contro le situazioni ambientali, macro e microsociali, che mortificandoli ed alienandoli, si oppongono alla realizzazione dei bisogni umani.

Da questo punto di vista, la soggettività psicopatologica può essere assunta come un prisma dell'alienazione sociale o, meglio, essa stessa come un'istituzione alienante: la più microscopica e, nel contempo, la più insidiosa poiché, nella sua struttura, la perversione superegoica del bisogno di integrazione sociale rivolge la cultura contro la natura, trasformando la vocazione ad una vita che abbia senso in un destino di dolore (per sé e, non di rado, per gli altri).


2. Obiettivi e metodologia della prassi terapeutica dialettica

In linea generale, la prassi terapeutica dialettica si propone tre obiettivi: a breve, medio e lungo termine. L'obiettivo a breve termine consiste nel promuovere nel soggetto la consapevolezza della struttura profonda della sua esperienza e dei livelli sovrastrutturali, o ideologici, che, mascherandola, lo orientano verso soluzioni irrealizzabili in quanto astratte. Tale obiettivo che la psicoanalisi pospone all'analisi delle resistenze e del transfert e la teoria sistemica ritiene insignificante, è, dal punto di vista dialettico, primario poiché permette di spiegare 1'economia della vita reale, soggettiva e relazionale, il suo determinismo intrinseco e l'inutilità delle strategie soggettive che mirano a cambiarla. Nonostante sia in gioco la struttura profonda dell'esperienza, tale obiettivo non è mai oltremodo difficile da perseguire, poiché, per quanto profonda in rapporto alla coscienza, la struttura è restituita sempre in superficie dall'economia della vita reale, e cioè dai vissuti, dai sintomi e dai comportamenti.

Si tratta, dunque, meno di farla affiorare che di renderla semplicemente evidente al soggetto, che, in un certo senso, ce l'ha già sotto gli occhi, poiché ci vive dentro, ma non la vede, perché, ideologizzandola, o mantiene rispetto ad essa un grado di libertà astratta che, di fatto, non ha, la oggettiva come determinata o resa necessaria dal sistema interattivo cui partecipa. Vedremo successivamente come sia possibile definire la struttura dell'esperienza a partire dal livello dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti. Per ora, basta sottolineare che è questo il primo obiettivo dell'intervento dialettico.

La definizione della struttura psicopatologica è però, imprescindibile da una valutazione dinamica della stessa atta a mettere a fuoco i limiti, più o meno rilevanti, che essa pone alla libertà soggettiva, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di soddisfare una quota di bisogni frustrati irrinunciabili, ma, nel contempo, colpevolizzati. Ciò serve a dare al soggetto la consapevolezza di questa quota di bisogni e a indurre una riflessione critica sulle valenze ideologiche, superegoiche, che gravano su di essa, negativizzandola. In virtù di ciò, riesce sufficientemente chiaro il carattere apparentemente difensivo ma sostanzialmente alienante della struttura psicopatologica: il fatto, cioè, che essa mantiene un qualche livello di integrazione sociale ad un prezzo che è la mortificazione delle potenzialità evolutive del soggetto, identificata con una più o meno radicale negatività vissuta come minacciosa per sé e per gli altri.

L'obbiettivo a medio termine consiste, per l'appunto, nell'analisi delle attribuzioni negative, indispensabili per permettere al soggetto di riappropiarsi delle potenzialità evolutive invalidate da quelle attribuzioni. In linea generale, quest'obbiettivo, per essere raggiunto, postula il far affiorare la fenomenologia pulsionale che sottende l'esperienza soggettiva, l'interpretarla in termini di bisogni alienati, il ricostruire la genesi primaria - interattiva - e secondaria - superegoica - dell'alienazione dei bisogni, il mettere a fuoco i sistemi di valore superegoici che la mantengono e le interazioni attuali che la alimentano. E' ovvio che, calato nella realtà, questo momento terapeutico non può ignorare la diversità delle situazioni, riconducibili a tre configurazioni.

La prima è caratterizzata dal fatto che le attribuzioni negative sono meramente soggettive, e cioè coincidono con un'immagine negativa di sé antitetica rispetto all'immagine sociale e alle conferme esterne; la seconda, dal fatto che la negatività è spesso vissuta e interagita a livello familiare, e smentita dal comportamento sociale; la terza, dal fatto che, ricusata a livello soggettivo, essa è attestata da comportamenti interpersonali e sociali che danno luogo a disconferme del più vario genere.

La prima configurazione chiude il soggetto in una maschera alienata che, pur confermata positivamente dagli altri, egli intuisce essere falsa; la seconda comporta una scissione improduttiva che, per quanto il soggetto possa essere confermato a livello sociale, lo pone di fronte alla sua cattiveria privata, microcontestuale, che raramente sfugge all'autoaccusa, o all'accusa da parte dei familiari, di vigliaccheria; la terza realizza la negatività a livello micro- e macrosociale e rende apparentemente incomprensibile l'apparente insensibilità morale del soggetto a riguardo.

E' ovvio che queste configurazioni pongono problemi diversi all'intervento dialettico, sui quali ci si soffermerà ulteriormente. In ogni caso, il problema consiste nell'indurre un atteggiamento critico nei confronti della categoria forte/debole, e delle possibili interazioni che essa comporta, che sottende la remissività, la scissione, e la difesa/sopraffazione.

E' un postulato della teoria dialettica che il disagio psichico, comunque esso si esprima, è sotteso da un bisogno viscerale di giustizia e di pari dignità tra gli esseri umani. Gli esiti paradossali di questo bisogno, quando viene ad urtare contro condizioni ambientali frustranti, non gettano alcun dubbio su quel postulato.

Ciò non significa che la comprensione dialettica debba dar luogo, da parte del terapeuta, ad un atteggiamento neutrale o giustificazionista. Come vedremo nell'ultima parte, laddove ci soffermeremo sull'etica dialettica, è proprio in nome di quel postulato che la sopraffazione del debole da parte del forte - e s'intendano pure queste categorie in senso relativo - promuove, comunque si eserciti, un giudizio negativo. Ciò significa che l'intervento dialettico, pur mirando alle analisi delle attribuzioni negative, non può trascurare i livelli interattivi reali. Quanto al diritto del terapeuta di emettere giudizi di valore, se ne discuterà nel capitolo dell'etica dialettica.

Il terzo obiettivo dell'intervento dialettico, conseguente alla scissione critica dell'Io rispetto ai sistemi di valore superegoici e alla percezione di potenzialità evolutive, riferibili a bisogni frustrati, invalidate dalle attribuzioni negative, consiste nell'indurre l'Io ad allearsi con i suoi irrinunciabili bisogni di opposizione/individuazione al fine di dare ad essi, nella misura in cui è oggettivamente possibile. una concreta espressione a livello di organizzazione della vita personale, affettiva e sociale. Si tratta, come è intuibile, dell'obiettivo più arduo da realizzare, e che richiede più tempo per due motivi.

Il primo è dovuto alle interazioni ambientali, e particolarmente a quelle microsistemiche, la cui inerzia, in rapporto agli sforzi che il soggetto fa per cambiare, rischia continuamente di farlo regredire sul piano di giochi interattivi improduttivi ma emozio-nalmente densi di significato. In questa fase, più ancora che nella precedente, può essere importante, d'accordo con il soggetto, intervenire sul contesto familiare, soprattutto per promuovere una significazione positiva, in termini di evoluzione, di un processo di cambiamento che spesso viene significato negativamente. Ma, nonostante questo intervento, rimane il fatto che è pur sempre il soggetto a doversi difendere dalle tentazioni di regredire.

Il secondo motivo è più complesso. La scissione critica dell'Io rispetto al Super-Io, e ai sistemi di valore che esso veicola, è un momento essenziale sul piano della comprensione e dell'orientamento comportamentale, ma, ovviamente, non azzera l'attività superegoica né il potere che il Super-Io mantiene su di una parte dell'Io, che continua ad essere connivente. Ciò significa che la ristrutturazione dell'esperienza di vita sia a livello soggettivo che comportamentale, non può avvenire linearmente, bensì conflittualmente, attraverso crisi e regressioni che attestano univocamente la persistenza dell'attività superegoica sia per quanto concerne l'automatismo della forma a priori sia per quanto concerne i sistemi di valore introiettati.

In questa fase, l'intervento dialettico non è solo di sostegno: esso, infatti, alla luce della teoria cui fa riferimento, mira costantemente ad accrescere la consapevolezza del soggetto sulle dinamiche invalidanti e mortificanti del senso di colpa e, soprattutto, sul grado di connivenza che una parte dell'Io mantiene con il Super-Io. In altri termini si può dire che, in questa fase, il soggetto sperimenta e tocca con mano ciò che, in precedenza, può avere acquisito solo a livello di comprensione. La sorpresa, la frustrazione e la rabbia che ne ricava, adeguatamente elaborata, si traducono in un potente rinforzo del bisogno di individuazione, e di una pratica di vita rivolta verso l'autorealizzazione.

Questi tre obiettivi fanno dunque capo ad un progetto univoco, mirante, in virtù di una presa di coscienza, ad invalidare e sovvertire il potere - emozionale e culturale - del Super-Io: presupposto indispensabile ai fini della costruzione di una identità personale e sociale motivata dai bisogni, rinforzata dalla loro realizzazione e dotata di una coscienza morale critica. Siffatto progetto, comune a tutte le tecniche terapeutiche solo per quanto riguarda il fine ultimo - l'autorealizzazione del soggetto nel mondo -, postula per essere perseguito dialetticamente, una metodologia specifica di cui occorre render conto soprattutto per quanto riguarda gli aspetti che la differenziano rispetto alle altre tecniche.

Anzitutto, l'insistenza sulla presa di coscienza non è un flatus vocis. Essa implica un certo grado di consapevolezza sulle determinazioni intrinseche - sulla struttura della personalità -, un certo grado di consapevolezza sulle determinazioni estrinseche - sulla struttura del mondo -, e una tensione costante, dovuta ai bisogni, orientata ad adattare la personalità al mondo, e cioè ad integrarla, e ad adattare il mondo alla personalità, e cioè a differenziarla.

Definita in tal senso, è evidente che l'Io è una funzione della coscienza o, meglio, del campo di coscienza: è la figura di cui essa rappresenta lo sfondo. Ora, il concetto di alienazione concerne e non può concernere che la coscienza, sia in senso infrastrutturale - definendo la povertà del suo campo in rapporto alla ricchezza del capitale di eesperienza che l'ha prodotta -, sia in senso sovrastrutturale definendo l'astrattezza, in rapporto a quel capitale, dei sistemi di valore - emozionali, cognitivi e ideologici - che danno ad essa coerenza. La psicopatologia è l'ambito in cui 1'alienazione della coscienza raggiunge i livelli più intensi drammatici, poiché essa, che impone di vivere secondo la ragione degli altri o nella colpa del tradimento, urta contro l'incoercibile resistenza del bisogno di opposizione/individuazione.

La presa di coscienza, che è in pratica una disalienazione, consiste nel restituire al soggetto il capitale della sua esperienza concreta nel mondo e nel permettergli di organizzarla alla luce del sistema dei bisogni e di sistemi di valore dialettici. Non è in questione, ovviamente, una verità assoluta, bensì una verità approssimata, che permetta al soggetto di affrancarsi dalla persecuzione superegoica, che, per mantenerlo integrato e fedele al gruppo di appartenenza, rischia di annullare la sua identità e le sue potenzialità evolutive. Ma qual'è, in termini dinamici, il significato dell'alienazione? Occorre, per necessi-tà, affrontare il problema del rapporto tra coscienza e inconscio.

Il punto di vista dialettico prescinde da problemi indecidibili - quali l'essere l'inconscio primario o secondario rispetto alla coscienza, l'essere esso un caotico serbatoio di energie pulsionali o viceversa il riconoscergli una struttura o una logica, ecc. - e si riconduce ad un solo principio, operativamente verificabile: quello per cui la coscienza può arricchirsi dei contenuti inconsci solo se essa dispone di una attrezzatura emozionale e culturale che possa permettere di dare ad essi nuovi significati rispetto a quelli che già hanno e che necessitano la rimozione. Ciò non ha nulla a che vedere con un processo di razionalizzazione, poiché la significazione dialettica si esercita e non può esercitarsi che su emozioni negative - di rabbia, odio e vendetta - che sono l'espressione del bisogno di opposizione/individuazione.

Dovendo, però, l'intervento dialettico, ai fini di promuovere la presa di coscienza, utilizzare una serie di concetti - quali quelli di bisogni autentici e bisogni alienati, di forme a priori superegoiche e di sistemi di valore superegoici, di alienazione primaria e secondaria, di doppia identità e di scissione dell'Io, ecc. - che, pur descrivendo aspetti reali inerenti la genesi sociale della personalità, la sua strutturazione e la sua economia intrinseca e relazionale, non sono di dominio comune, è chiaro che esso non può prescindere dal fornire al soggetto dei parametri culturali o, meglio, un'attrezzatura critica che consenta alla coscienza di destrutturarsi nella sua rigidità e di ristrutturarsi attra-verso una nuova significazione dei bisogni e delle scissioni che la sottendono. La necessità di un apprendimento, quando non è riconosciuta teoricamente, è, di fatto, recepita da tutte le tecniche terapeutiche, ma, di solito, non viene esplicitata. L'intervento dialettico, invece, la riconosce e la sancisce come un momento sine qua non si dà cambiamento trutturale. Nella pratica, ciò significa che, nel corso di un intervento dialettico, ogni concetto teorico viene introdotto e offerto alla riflessione del soggetto via via che la sua esperienza postula interpretazioni che ad esso fanno riferimento.

Ciò non deve indurre a pensare che la psicoterapia dialettica funzioni come una pedagogia mascherata o un processo di indottrinamento ideologico. Anzitutto, il soggetto è sollecitato a mantenere un atteggiamento critico, a non concedere alcun credito ai concetti teorici che vengono illustrati (proposti) finchè non ne verifichi praticamente l'efficacia esplicativa e il grado di approssimazione alla verità. Ciò significa che la prima "istruzione", necessaria al fine di indurre una scissione, dell'Io rispetto al Super-Io, consiste nell'analizzare e nel superare dialetticamente l'atteggiamento - emozionale e culturale - di affidamento cieco o di radicale diffidenza - con cui il soggetto si pone in rapporto al terapeuta.

In secondo luogo, egli viene esplicitamente informato che i concetti teorici illustrati rientrano in un corpus teorico in via di evoluzione, e che, di conseguenzza, essi non hanno la pretesa di spiegare tutto, ma solo quanto, allo stato attuale, è possibile. Con ciò, diventa chiaro che l'esperienza in atto è anche una ricerca, che non esclude da parte del soggetto un contributo creativo. Se egli è d'accordo, o lo desidera, il corpus teorico già organizzato gli viene dato in lettura. Le conseguenze di questa esperienza - emotiva e culturale - sono di grande interesse, sia che il soggetto si riconosca in tutte le strutture e le storie cliniche sia che egli difenda l'irriducibilità della sua vicenda umana.

Complementare all'apprendimento, è un altro strumento che, a differenza di ogni altra tecnica, la psicoterapia dialettica utilizza sistematicamente: la scrittura. Via via che il processo terapeutico procede e l'orizzonte interpretativo si allarga, il terapeuta dialettico provvede a mettere sulla carta le ipotesi che sono state avanzate e a commentare il grado di verità che esse sembrano avere in rapporto ai dati già noti dell'esperienza del soggetto. Nonchè rimanere ineffabile, empatico e frammentario, il lavoro svolto, in tutti i suoi aspetti, viene periodicamente documentato, valutato e commentato, assu-mendo il carattere di work in progress, con le necessarie revisioni che si impongono.

Indipendentemente dal fatto che tale metodologia è intrinsecamente coerente con l'approccio dialettico, a me sembra che essa, a tutti i livelli di assistenza psichiatrica, dovrebbe essere adottata, o forse anche imposta per legge, come garanzia di etica professionale importante al meno come il training. Oltretutto, nonchè fornire una documentazione su vasta scala delle situazioni psicopatologiche e degli stili di intervento, essa potrebbe permettere di valutare oggettivamente l'efficacia degli interventi terapeutici e - cosa non meno importante - di riflettere sugli insuccessi. Da quanto detto, risulta chiaro che l'intervento dialettico rifugge sia dall'utilizzare il rapporto terapeutico per indurre, come avviene in ambito psicoanalitico, una regressione, alla quale sola si attribuisce il potere di produrre, in virtù dell' insight, un riconoscimento delle dinamiche profonde; sia dal dare al rapporto un significato tecnicistico, che persegue, con i più vari stratagemmi, messi a punto in particolare dalla teoria sistemica, il cambiamento per il cambiamento.

La regressione, tentazione alla quale non sfugge alcun soggetto disagiato, se promossa o incentivata dal terapeuta, è un vicolo cieco al fondo del quale, nonché la verità, si trova ciò che è scontato: la fenomenologia pulsionale, sia in termini di investimeto erotico che aggressivo, che è un prodotto dell'alienazione dei bisogni. Assumere quella fenomenologia come l'aspetto più profondo delle esperienze soggettive, e come causa del disagio, significa dedicarsi ad un rafforzamento o ad una ricostruzione dell'Io che lascia il tempo che trova, eccezion fatta per ii vantaggio che il soggetto può trarre dal sostegno emozionale offerto dal terapeuta. Viceversa, indurre cambiamenti attraverso strategie che si riducono ad istruzioni comportamentali, oltre a porre il problema, ideologico o etico a seconda dei punti di vista, della manipolazione terapeutica, significa ignorare il carattere strutturato delle esperienze psicopatologiche che o induce il rifiuto delle istruzioni o tende coattivamente a ripetersi dopo apparenti cambiamenti.

L'intervento dialettico anziché indulgere all'incontro empatico e transferale o alla somministrazione di istruzioni strategiche la cui astrattezza è attestata dall'essere ripetute pedisseuqamente in tutte le situazioni, mira a instaurare tra terapeuta e soggetto, una tensione emozionale e critica permanente il cui obiettivo, che attiene, sia pure in misura diversa, entrambi, è la disalienazione dei bisogni, presupposto indispensabile per il riorganizzarsi di una vita che abbia senso, e cioè sia in grado di mediare dialetticamente integrazione sociale e individuazione.

E' ovvio, dunque, che l'intervento dialettico, come accresce la consapevolezza del soggetto sulla struttura della sua personalità, sul determinismo intrinseco che la governa, sulla genesi della struttura e sul suo significato mirante a mantenere un'integrazione sociale coatta e alienata, così promuove un atteggiamento critico nei confronti dell'ambiente socioculturale, dei processi di socializzazione, del sistema familiare e delle interazioni cui il soggetto partecipa. Questo atteggiamento è, ovviamente, positivo solo se si associa all'oggettivazione delle introiezioni superegoiche, che costringono il soggetto a vivere, e spesso ad amplificare, le contraddizioni ambientali, in particolare del gruppo di appartenenza. Ciò non mette al riparo il soggetto, impegnato a ristrutturare la sua espe-rienza alla luce dei bisogni disalienati, dal dover talora interagire conflittualmente con l'ambiente. Ma la consapevolezza che egli acquisisce intorno all'alienazione della coscienza, riduce tale conflittualità al livello di quanto è necessario per individuarsi.

Per quanto centrata sul soggetto, inoltre, la psicoterapia dialettica, pur non ritenendo necessario il coinvolgimento degli altri membri familiari, non lo esclude pregiudizialmente. In qualunque fase dell'intervento, previo il consenso del soggetto, gli altri membri possono partecipare agli incontri. Talora, ciò serve a mettere a fuoco delle interazioni che rinforzano positivamente la struttura psicopatologica. Più spesso, tali incontri consentono, attraverso la ricostruzione della storia sociale e personale, a illuminare una normalizzazione alienata che è stata subita, ma, in qualche modo, rifiutata.


3. Il paradosso dialettico

Gli aspetti metodologici su cui ci si è soffermati nel capitolo precedente, per quanto differenzino in modo netto la psicoterapia dialettica da tutte le altre tecniche, non sono sufficienti a dar conto del suo carattere radicalmente innovativo. Non utilizzo a caso questi termini, essendo consapevole della risonanza semantica negativa che essi possono, attualmente, produrre. Il loro autentico significato, destinato, forse, a smorzare queste risonanze, è riconducibile al paradosso che sottende l'intervento dialettico. E' superfluo specificare che, nell'ottica dialettica, il termine paradosso va inteso nell'accezione sua propria, di "idea contraria all'opinione comune, e apparentemente illogica, la cui validità è invece dimostrabile". Tale paradosso afferma che la capacità di odiare criticamente tutto ciò che, nella struttura sociale, nella cultura, nell'organizzazione dei rapporti interpersonali e nella propria personalità. tende, ad alienare l'uomo, orientandolo verso un adattamento passivo o una protesta distruttiva, è essenziale ai fini della costruzione di un'identità capace di stabilire (o ristabilire) rapporti autentici e significativi con gli altri e con il mondo. Più causticamente, si potrebbe dire che, in quanto esosa, l'alienazione va ripagata della stessa moneta. Ma, al di là dei giochi linguistici, ciò che importa è la logica del paradosso che subordina - e in ciò consiste la sua dialetticità rispetto all'ortodossia - la capacità di amare a quella di odiare criticamente

Per odio critico si intende il rifiuto radicale dei valori superegoici che, in nome dell'appartenenza sociale, mirano a sottomettere l'uomo ad un ordine di cose esistente che egli ha sperimentato e sperimenta come alienante; il rifiuto, dunque di pagare un debito il cui prezzo è la rinuncia all'individuazione. E' evidente che l'odio critico non ha nulla a che vedere con l'aggressività. Esso, piuttosto, ha rapporto con il bisogno di opposizione, e esprime la necessità di soddisfarlo anche quando - come è proprio delle esperienze psicopatologiche - esso è stato e continua ad essere frustrato dai vincoli affettivi con il gruppo di appartenenza attraverso i quali sono trasmessi i valori superegoici. L'odio critico dà alla visceralità originaria del bisogno di opposizione una compiuta realizzazione dialettica, arricchendolo di categorie culturali che promuovono l'accettazione della propria appartenenza ad un sistema, ad una storia sociale e a un gruppo specifico, il riconoscimento del debito di appartenenza e del prezzo che esso comporta in termini di alienazione e il superamento dialettico dell'alienazione in nome del bisogno di individuazione. In breve, l'odio critico ratifica il diritto, iscritto nella natura umana, di lottare contro quanto, nella realtà storica, a tutti i livelli - macro, microsociali e soggettivi -, impone, in nome del mito gerarchico, un sacrificio inutile di bisogni umani. Illuminato dalla ragione dialettica, quel diritto diventa, paradossalmente, fruizione di vita, rivendicazione, per sé e gli altri, di una vita che abbia senso, e cioè che consenta ad ogni uomo, nonchè di sottomettersi passivamente alla realtà storica, di prendere posizione rispetto ad essa.

Questo paradosso, la cui densità filosofica richiederebbe un discorso ben più articolato, trova, in rapporto alle esperienze psicopatologiche, chiuse entro strutture che sanciscono il carattere irrimediabilmente colpevole delle emozioni negative - l'odio, la rabbia, la vendetta - prodotte come protesta viscerale nei confronti dell'alienazione, un ambito ottimale di applicazione. Esso investe, anzitutto, la struttura della soggettività, promuovendo il riconoscimento della funzione superegoica, dei valori che essa veicola, dell'alienazione dei bisogni che ha prodotto e di cui si alimenta, e delle contraddizioni - soggettive e comportamentali - dovute alla scissione dell'Io. L'odio critico, sul piano terapeutico, produce dunque, anzitutto, l'oggettivazione della propria condizione alienata: presupposto indispensabile affinchè l'Io, alleato dei bisogni, rifugga da ogni vittimismo, giustificazionismo e determinismo ambientale, e si rivolga, sia a livello di autocoscienza che di pratica della vita, a contrastare l'attività superegoica per sostituire ad essa una coscienza morale critica.

Via via che procede l'integrazione dell'Io, e la assunzione di libertà e di responsabilità, per effetto della scissione rispetto al Super-Io, quell'odio non può non promuovere un rapporto critico con la realtà interpersonale e sociale, e cioè un rapporto di ostilità e di conflitto con le valenze - emozionali e culturali - dei sistemi micro- e macrosociali che, in nome dell'appartenenza, sollecitano la sottomissione, e, viceversa, un atteggiamento tollerante e comprensivo nei confronti delle persone normalizzate e alienate. Questa lettura dialettica della realtà umana che dà all' ambivalenza affettiva propria di ogni esperienza psicopatologica un carattere realistico ed evolutivo, è massimamente efficace a livello di rapporti microsistemici, poiché induce a recuperare, quando è possibile, un autentico rapporto tra persone. Per essere tale, quel rapporto deve essere sancito dalla condivisione di un destino comune o di un comune sistema di valori.

Non è, forse, superfluo aggiungere che l'odio critico, per essere liberatorio, va adottato anche sul piano autocritico. La scissione che esso promuove dell'Io rispetto al Super-Io è un momento tattico che, se affranca il soggetto da imputazioni che fanno capo al suo non essere adeguato agli ideali superegoici, non lo affranca dalla responsabilità morale dei suoi comportamenti, nella misura in cui questi, pur essendo reattivi alla persecuzione superegoica, si pongono come rimedi peggiori del male. E' questo il caso degli acting-out ossessivi quando essi sono agiti nei confronti di persone, e delle forme di terrorismo psicologico e fisico che alcuni. soggetti, confinati dalle angosce sociali nello spazio domestico, adottano, come vendetta, nei confronti dei parenti.

La distinzione tra comprensione dei comportamenti umani, in quanto motivati, e giustificazione, e cioè sospesione del giudizio morale o razionalizzazione degli stessi, è un caposaldo della psicoterapia dialettica, che rende lecito l'esercizio dell'odio critico.

Quanto detto non vale, forse, a fugare i dubbi sull'utilità o anche semplicemente sulla necessità metodologica, a fini terapeutici, di tale esercizio. I capitoli successivi dovrebbero risultare convincenti. Ma non ignoro che la proposizione dell'odio critico come strumento terapeutico viene ad urtare contro resistenze culturali di ordine diverso, il cui denominatore comune è la invalidazione ideologica del conflitto dialettico, e cioè del bisogno - da me ritenuto geneticamente determinato nella sua matrice viscerale - che l'uomo ha di opporsi all'ordine di cose esistente per diventare, sul piano personale e collettivo, produttore e non fruitore passivo, e cioè alienato, di storia.

Due di quelle resistenze onnipresenti a livello superegoico nelle esperienze psicopatologiche, meritano di essere discusse. La prima, cui si è fatto cenno, vede nella rabbia e nell'odio l'espressione di una cieca distruttività. Questa ideologia non si può di certo attribuire storicamente alla psicoanalisi, per quanto Freud, con l'ipotesi dell'istinto di morte, la propone nella sua versione la più radicale, e, per di più, le attribuisce un valore scientifico. La contrapposizione tra Eros e Thanatos, posta in termini categorici e non dialettici, tradisce i dati psicopatologici, che attestano spesso le valenze mortificanti dei vincoli affettivi, quando essi impongono di condividere l'alienazione, e, viceversa, le potenzialità umanizzanti della rabbia, quando essa, affrancandosi dai sensi di colpa, produce la risoluzione o, meglio, la morte simbolica dei modi di appartenenza alienanti, che orienta il soggetto verso l'assunzione di una piena resposnabilità inerente le scelte di vita. Le fantasie distruttive, che sottendono spesso le esperienze psicopatologiche, e solo di rado si traducono in comportamenti socialmente lesivi, misurano, nonchè l'aggressività, l'impotenza dei soggetti, nei confronti delle costrizioni superegoiche e ambientali. La criminalizzazione della rabbia e dell'odio, che ignora le potenzialità liberatorie di queste emozioni quando esse sono esercitate criticamente, è un nodo costante che la psicoterapia deve risolvere. Si può sostenere che quella criminalizzazione corrisponde, in parte, all'automatismo della forma a priori superegoica, che, in sé e per sé, impone l'armonia sociale. Ma già si è detto che il compito dei processi di socializzazione e della cultura dovrebbe essere di permettere il superamento dialettico di quella forma, e non di usarla per ritorcere contro il soggetto le ragioni della sua protesta contro l'integrazione alienata.

La seconda resistenza è da ricondurre al mito gerarchico che nella sua multiforme fenomenologia sociale, sacralizzando il potere, assegna una sorta di immunità a chi lo detiene o lo esercita. In conseguenza del mito gerarchico, la rabbia di chi dipende non significa altro che irrazionale ribellione, ingratitudine e colpa. Né la secolarizzazione del potere né la laicizzazione della cultura hanno scalfito, se non formalmente, quel mito. L'investitura divina, negata ai re, ha permeato la struttura sociale, trasferendosi alle autorità civili ed educative. Il rispetto dell'autorità in quanto sacra, e non in quanto degna e capace di di fornire prova del suo valore, è, ancora oggi, il caposaldo ideologico di tutte le istituzioni deputate alla produzione di uomini. Il bisogno di opposizione, già minacciato dall'interno della forma a priori superegoica, viene ad urtare costantemente contro questa barriera. Non sorprende pertanto che, nelle esperienze psdicopatologiche, i sensi di colpa, quando sono vissuti come irreparabili, tendono a configurarsi in termini di sacrilegio. Nel corso di ogni intervento terapeutico dialettico, ci si imbatte, attraverso l'analisi dei sensi di colpa, in questi due ostacoli, veicolati costantemente a livello emozionale e non di rado a livello culturale, da un Super-Io che, alienando la rabbia e l'odio, impone la sottomissione in nome dell'armonia sociale. Le tecniche terapeutiche che condividono ideologicamente la criminalizzazione di quelle emozioni, e, al contrario, le tecniche che prescrivono acriticamente la reattività aggressiva nei confronti dei membri familiari, quali che siano i risultati che possono produrre, non promuovono un superamento dialettico, il quale può avvenire solo integrando e alimentando con la rabbia e l'odio una ragione dialettica capace di mantenere i legami interpersonali in ciò che essi hanno di signitificativo e nel contempo di rifiutare senza remore l'alienazione che, in virtù di essi, si produce e si mantiene.

Questo paradosso, che autorizza a vivere la realtà - personale, interpersonale e sociale - nei termini scissi e ambivalenti umanizzanti e alienanti da cui essa è strutturata, differenzia radicalmente la psicoterapia dialettica da qualsivoglia altra tecnica terapeutica. Non ignoro, affermando questo, che esistono teorie e pratiche terapeutiche che fanno riferimento ad un'"aggressività positiva" che intendono riabilitare. Ma il riferimento, sia pure solo linguistico, all'aggressività è ideologicamente fuorviante, poiché porta a misconoscere il bisogno di opposizione/individuazione che ha un significato ben più rilevante. Il concetto stesso di aggrressività positiva intesa come energia posta al servizio della difesa e dell'affermazione dell'individuo, è riduttivo. Benché il più spesso il processo di individuazione coincide con la realizzazione delle potenzialità individuali, il bisogno che lo sottende trascende di gran lunga il 'sano egoismo' cui fanno riferimento quelle teorie. Esso postula, in circostanze peraltro eccezionali, il sacrificio dell'individuo in nome di valori in conflitto con quelli dominanti che egli vive come irrinunciabili per sé e per altri, e che pertanto assumono un significato sovraindividuale. Nella storia della nostra civiltà, è con il daimon di Socrate che la coscienza morale critica ha protestato il suo diritto di opporsi all'etos comunitario.


4. L'oggettivazione della struttura psicopatologica.

Adottato come strumento terapeutico, l'odio critico comporta la scissione dell'io rispetto al Super-Io e alle dimensioni alienanti dei rapporti interpersonali e della vita sociale come premessa di un superamento dialettico della struttura psicopatologica. La scissione dell'io rispetto al Super-Io di cui tratteremo in questo capitolo, postula l'acquisizione, da parte del soggetto, della capacità di oggettivare la propria condizione esistenziale, e cioè di mettere a fuoco la struttura psicopatologica che la sottende, la matrice conflittuale che l'alimenta e l'economia di vita che essa prescrive.

Oggettivare il determinismo intrinseco all'esperienza psicopatologica significa andare alla radice del problema: riabilitare il bisogno di opposizione nella sua funzione elementare che consiste per l'appunto nel porre in tensione l'io rispetto ai valori superegoici introiettati e al sistema di relazione di cui fa parte che gli impone di condividere quei valori. In altri termini, l'oggettivazione non fa altro che riproporre alla coscienza i termini di un conflitto che la struttura psicopatologica cristallizza per mezzo della criminalizzazione dell'opposizione e che vanno rielaborati criticamente e risolti dialetticamente.

La capacità di oggettivazione è intrinseca alla coscienza umana o, meglio, ne fonda il carattere autocosciente, ma è inattivata, nelle esperienze psicopatologiche, da un bisogno di coerenza intrinseca e di appartenenza sociale, che, dando luogo ad una sovrastruttura ideologica, impedisce al soggetto di prendere atto delle scissioni attestate dal suo modo di essere e di porsi nel mondo. In un certo qual modo, tali scissioni sono sempre sotto gli occhi del soggetto, poiché determinano - sia a livello soggettivo che comportamentale - la sua esperienza di vita, ma letteralmente non vengono viste in nome di un ideale dell'io astratto.

L'oggettivazione implica dunque, la scissione dell'io rispetto all'ideale dell'io ed è, in pratica la presa di coscienza di una condizione di vita alienata intrappolata entro una struttura che mortifica il bisogno di indivituazione. Per quanto profonda e distante dalla coscienza possa essere la struttura, essa, da un punto di vista dialettico, ha sempre una corrispondenza in superficie, a livello di modo di essere e di porsi del soggetto nel mondo. Tale corrispondenza non è puntuale, dato che l'esperienza esistenziale non coincide, se non eccezionalmente, con il determinismo strutturale, ma, almeno a livello indiziario, non può mai difettare del tutto. Perciò, l'intervento dialettico mira, anzitutto, a definire la struttura dell'esperienza e a permettere alla coscienza di oggettivarla: l'oggettiivazione, in ultima analisi, è una diagnosi strutturale proposta dal terapeuta, che ha valore solo nella misura in cui viene verifica e fatta propria dal soggetto. La verifica consiste nel ricondurre alla struttura una serie di aspetti esperienziali - a livello di vissuti, di sintomi e di comportamenti interpersonali e sociali - le cui apparenti contraddizioni sono risolte immediatamente in riferimento alla matrice conflittuale che sottende la struttura stessa.

L'acquisizione dell'ipotesi strutturale, però, non può non comportare un atteggiamento che, qualora difetti, viene sollecitato: un atteggiamento critico, mirante a falsificare quell'ipotesi. L'oggettivazione della struttura psicopatologica prescinde dal ricorso all'introspezione, eccezion fatta per un'onestà interiore che è presupposto indispensabile affinchè un soggetto oggettivi la propria esperienza e cioè la valuti per quello che essa appare essere.

Pur configurandosi come il primo momento dell'intervento dialettico, l'oggettivazione, una volta acquisita come capacità della coscienza, può e deve essere utilizzata in altri momenti dell'intervento. Essa vale come una messa a fuoco della situazione dinamica in cui il soggetto si trova e, talora, come una conferma di quanto può essere stato compreso ma non verificato. Fornisco, a questo riguardo un esempio.

S., che ha ventotto anni, è impegnato da sei anni a contrastare un delirio persecutorio, incentrato sulla minaccia di una vendetta destinata ad essere realizzata da persone o parenti di persone cui egli avrebbe fatto, sia pure inintenzionalmente, del male. Da tre anni già ha capito che la persecuzione potrebbe rappresentare l'espressione di sensi di colpa di antica data. Ma il carattere realistico dei vissuti, per quanto gli consenta di recuperare in tempi sempre più rapidi l'angoscia che ne segue, e di evitare, come in passato, di difendersi con l'isolamento domestico, mantiene a livello soggettivo uno stato d'animo dubitativo. E' stata già anche avanzata l'ipotesi che la persecuzione rappresenti l'espressione di un bisogno di controllo dall'esterno dovuta ad una persistente convinzione superegoica di distruttività. Tant'è che essa è insorta a seguito di un periodo nel corso del quale, per effetto del ricorso all'alcol, S., pur senza commettere del male, era divenuto, per la prima volta nella sua vita, sia in famiglia che fuori, reattivo e litigioso.

Ma quell'ipotesi non ha ricevuto alcuna conferma soggettiva. A seguito dei progressi, S. giunge finalmente a sperimentare per alcuni giorni una totale cessazione dei vissuti persecutori. Il sentimento di liberazione, non disgiunto da una vaga euforia, dura poco, poiché S., sentendosi sicuro di sé, alza la testa nei confronti del datore di lavoro e rivendica fermamente, ma senza alcun eccesso di misura, dei diritti mai riconosciuti. Sopravviene un contrasto con il datore di lavoro, che, apprezzando l'opera di S., non vuole perderlo, ma non intende cedere a quello che definisce un ricatto. Subito dopo questa discussione, S. comincia nuovamente a sentirsi minacciato. Ma la minaccia assume una configurazione distinta: sono le forze dell'ordine a tenerlo sotto controllo, per via di fantasie brigatiste che S. ha coltivato intorno ai venti anni. Posta la capacità acquisita da S. di oggettivare la sua esperienza, l'ipotesi del bisogno soggettivo di controllo, atto a mantenerlo nella sottomissione all'ordine costituito ( giusto o ingiusto che sia), non può non essere acquisita.

Ritornerò ulteriormente sulla validità di questa metodologia nel corso del processo terapeutico. Per ora, è sufficiente illustrarne l'importanza come primo momento dell'intervento. Ciò significa definire i criteri che, permettendo di individuare gli indizi di una struttura psicopatologica., possono promuoverne l'oggettivazione. Tali indizi, in pratica si riducono a tre insiemi fenomenologici: le minacce interne, le limitazioni della libertà i comportamenti riparativi. Tali fenomeni si possono presentare isolati o associati tra loro in molteplici combinazioni. Le minacce interne si configurano secondo gradienti che vanno dall'ansia episodica agli attacchi di panico, e comportano, come possibili strutturazioni, le fobie, i rituali, le regressioni isteriche e gli insabbiamenti psicotici. Queste minacce possono essere quasi sempre agevolmente ricondotte a tre pericoli - di morire, di impazzire e di abbandonarsi a comportamenti asociali o antisociali - la cui temuta realizzazione ha come denominatore comune l'esclusione dal contesto sociale, e, dunque, la peggiore punizione che possa toccare ad un essere umano. Per scongiurare tali pericoli, vengono poste in atto delle strategie difensive di vario genere, che comportano univocamente un aumento della dipendenza del soggetto, e cioè un ricomporsi del legame con il sociale inteso in senso lato (reale o simbolico: aggrapparsi ad un familiare, rivolgersi ad un medico o ad un pronto soccorso, dipendere da un farmaco non fa differenza). Il carattere riparativo delle difese permette di comprendere che le minacce interne muovono da sensi di colpa riferiti ad una presunta distruttività.

Con ciò riesce chiaro che la struttura psicopatologica impone di mantenere lo status quo alienato e criminalizza il bisogno incoercibile di cambiamento che si è animato visceralmente nel soggetto.

L'oggettivazione comporta il mettere a fuoco la condizione alienata di vita e, nel contempo, la proscrizione di cambiarla, attestata dalla minaccia di esclusione sociale. Se ciò è sempre importante, e possibile, è addirittura indispensabile in rapporto alle crisi di angoscia che sopravvengono a ciel sereno e avviano un disagio psicopatologico.

G., una signora di quarantasei anni, con un marito e due figli grandi, è stata sempre bene finchè un giorno, mentre accudiva alla casa, non è stata folgorata da una crisi di '"angoscia mortale". Da allora, la sua vita è cambiata: quando è in forze, e cerca di tornare a comportarsi come prima, sopravvengono le crisi di angoscia; quando, periodicamente, si sente svuotata di ogni energia, e quasi incapace di muoversi dal letto, le crisi scompaiono. Ma, allora, G. si sente in colpa nei confronti del marito e dei figli, poiché la casa rimane abbandonata a se stessa. Il modo totalmente sacrificale in cui G. ha vissuto il suo ruolo di casalinga non lascia alcun dubbio sulla rabbia che deve aver covato nel corso degli anni.

Ma c'è un dato di realtà importante, che aiuta a capire la catastrofe strutturale sopravvenuta. Due mesi prima della crisi, la madre di G., vedova ormai da molti anni, di rigorosissima osservanza religiosa, si è trasferita dal Veneto in un appartamentino situato nello stesso condominio in cui abita la figlia. Da allora, G., che si era sentita sempre soddisfatta del suo modo di vivere, ha cominciato ad avvertire la presenza della madre, che trascorreva il pomeriggio a casa sua, come un implacabile controllo, che la costringeva ad accentuare, a livello domestico, il suo già esasperato perfezionismo. Quanto prima le appariva un'espressione di libertà, ha cominciato a risultarle penoso e intollerabile. Pochi giorni prima della crisi di angoscia, G. ha cominciato ad avvertire, nell'anima e nel corpo, un'irrequietezza mai provata in precedenza. E come se - riferisce - cogliendo la sua condizione di vita dall'esterno come quella di una "monaca di clausura" ne avesse repentinamente misurato la patetica miseria. Quasi immediatamente, è sopravvenuta la fantasia di ribellarsi, di mandar tutto e tutti - casa, madre, marito, figli - a quel paese, e di fuggire verso una trasognata libertà.

Più difficile risulta l'oggettivazione nelle esperienze caratterizzate da un solo sintomo, vissuto come disturbante in rapporto ad una normalità apparentemente acquisita.

A ventidue anni, D. è soddisfatto di sé: lavora come progettista in un'azienda informatica, ha, davanti a sé, prospettive professionali esaltanti. Può contare, per la sua socievolezza, su un numero di amici e di amiche rilevante. Si sente, insomma, avviato verso la realizzazione del modello yuppi. Per ii lavoro, a partire dall'adolescenza, ha posto tra parentesi il problema degli affetti. Quando incontra, nel corso di una vacanza, una ragazza apparentemente molto consonante, instaura un rapporto brillante e invidiato da tutti, che sembra avviarsi speditamente verso il matrimonio.

Ma D. scopre, solo allora, di essere impotente. Non ne fa neppure un problema: consulta dei medici, sicuro che ci debba essere un rimedio al sintomo, che contrasta con l'intensità del suo affetto. Dopo varie cure farmacologiche, accetta il suggerimento del medico curante di affrontare qualche colloquio psicoterapeutico. Lo fa con l'aria di chi deve sbrigare, perdendo tempo, una pratica burocratica. E' questo stesso atteggiamento che apre uno spiraglio all'oggettivazione.

D. è totalmente infatuato di un modello di normalizzazione a tappe forzate che si è imposto, nonostante un passato adolescenziale soggettivamente e culturalmente piuttosto irrequieto. Il successo economico, il matrimonio rappresentano, per lui, null'altro che status symbol di una raggiunta, e invidiabile, normalità. Per il raggiungimento di tali obbiettivi, ha messo completamente da parte i travagli dell'adolescenza - incentrati sul senso della vita, il significato della libertà, l'adattamento e la diversità, ecc., e, accettando le regole del gioco, si è imposto una rigida disciplina di vita. Ma in nome di che? Dei suoi bisogni, pare. Non ci vuoi molto,però, a capire che, sentendo urgere dentro di sé la stessa irrequietezza di un padre che, benché di qualità superiori alla media, non è riuscito mai ad affermarsi nella vita, ed è rimasto esposto ai giudizio, implicito ma severo, di uomo fallito da parte di una moglie superefficiente nel lavoro extradomestico e domestico, D. ha "scelto" di scampare a quel giudizio e di soddisfare le aspettative materne. Si è calato, insomma, nello stereotipo dello yuppie per scampare al fallimento, messo in relazione alla sua irrequietezza, e per normalizzarsi secondo un codice culturale contemporaneo, che privilegia le apparenze.

Con ciò, si è messo in gabbia, soffocando la sua sete di libertà.

L'impotenza assume, dunque, molteplici significati: è la sua inconsapevole protesta contro il doversi ficcar dentro un modello di normalizzazione adottato per paura o, in un certo qual modo, contro una madre che, con le sue minacciose aspettative, lo ha castrato di ogni libertà di scelta; è, nel contempo, la punizione di quella protesta, che mette a nudo la sua inadeguatezza se egli si sottrae al dovere costrittivo di essere all'altezza delle situazioni. D. deve, dunque, prender coscienza che, nella misura in cui si è costretto a provar piacere adottando un modello scelto solo per paura di diventare un fallito, egli si ribella a quella costrizione con l'impotenza. La quale lo punisce della sua ribellione, per quanto, paradossalmente, mantiene la sua libertà astratta. Ma come può, infine, D. oggettivare d'emblèe senza uno scavo introspettivo, questa dinamica?

Nel modo più semplice: prendendo coscienza che quanto è accaduto di fatto nel rapporto con la donna, avviene costantemente a livello di fantasia in rapporto al lavoro. Egli è soddisfatto e gratificato, prova piacere e si sente potente: ma ciò avviene reprimendo costantemente la fantasia di spogliarsi del suo ruolo, e della maschera di yuppi cui esso lo costringe, e di andarsene in giro per il mondo, trovando qualche angolo in cui sia concesso di vivere da buon selvaggio. Ciò che lo frena, ovviamente, è la consapevolezza che il prezzo di tale libertà è il doversi riconoscere un "fallito".

Nell'esperienza di D., le minacce interne, riconducibili ad una matrice conflittuale, non sono mai state vissute soggettivamente, se si fa eccezione per un periodo di turbamento adolescenziale nel corso del quale egli era assillato dalla paura di essere inadeguato e di non riuscire a realizzarsi. Esse si sono realizzate d'emblèe sotto forma di limitazione della libertà personale o, meglio, di inibizione della volontà. Ciò accade costantemente in conseguenza degli attacchi di panico, le cui conseguenze però investono una sfera più ampia della libertà. I confini insormontabili delineati dagli attacchi di panico sono indizi strutturali inequivocabili, che non è quasi mai difficile oggettivare.

R. ha avuto un'adolescenza e una prima giovinezza travagliate. Dopo essere stata una bambina buona e diligente, molto dipendente dalla madre e poco incline alla socializzazione, a quindici anni è andata incontro ad una inquietante trasformazione di carattere e di comportamento. Ha preso a frequentare i ragazzi, e ha scoperto di provare piacere nel sedurli e nel farli soffrire, distaccandosi freddamente da essi dopo averli conquistati. A diciassette anni il "gioco" è diventato più complesso, poiché R. ha cominciato ad usare la disponibilità sessuale, apparentemente disinibita, come strumento di seduzione, concedendosi a chiunque manifestasse desiderio nei suoi confronti pur senza provare alcun piacere, tranne quello "sadico" di tradire e far soffrire, passando ostentatamente da un ragazzo all'altro. Non ha provato alcun dolore allorché uno di questi, da lei abbandonato, si è tolto la vita, forse, a detta degli amici, a causa sua. A diciannove anni R. incappa in un incidente rimane incinta .La decisione di abortire è repentina e razionale. Ma, altrettanto repentinamente e sorprendentemente, in R. si attivano scrupoli morali e religiosi, sensi di colpa e una vergogna infinita associata alla possibilità che i suoi venissero a sapere il fatto. Questa vergogna la induce ad abortire soffocando i sensi di colpa. Ma la conseguenza è una nuova e radicale trasformazione di carattere e di comportamento. R. si isola, non frequenta più nessuno, si vota al lavoro e a una vita da "monaca". Nell'ambiente di lavoro, conosce un giovane di carattere autoritario ed estremamente tradizionalista. Si mette insieme a lui, e ne subisce la gelosia "morbosa", che si traduce in percosse per un nonnulla.

R. è in trappola: rassicurata dal brutale controllo che il fidanzato esercita su di lei, per quanto senta ogni tanto affiorare nelle viscere un moto di ribellione, che la indurrebbe a troncare il rapporto, sa di non poterlo fare se non a rischio della vita: la minaccia, da parte del fidanzato, è esplicita, dopo che R. ha ceduto alla tentazione di confessargli il suo passato). Si avvia al matrimonio con uno stato d'animo di disperazione. Dopo due anni di vita insopportabile, nonostante la nascita di un figlio amato e teneramente allevato, R. sente nuovamente affiorare dentro di sé l'istinto di ribellarsi, costi quel che costi. Decide di cominciare ad uscire da sola il pomeriggio, affidando il figlio a una vicina, per frequentare amici e amiche, per tornare a vivere da persona giovane. La prima volta, però, che si azzarda ad uscire di casa è colta, sulla soglia del portone, da una crisi di panico. Come spiega la sua paura di morire se ha deciso consapevolmente di sfidare la rabbia, potenzialmente micidiale, del marito? Di fatto non ha paura di morire, ma di dover soffrire dopo: in breve, di andare all'inferno e di dover scontare le sue colpe per tutta l'eternità. La violenza del marito le è ormai indifferente; contro i sensi di colpa, invece, è assolutamente impotente. Essi la obbligano a vivere nell'inferno e danno a questo inferno un significato espiatorio, che, forse, riuscirà a salvarle l'anima. Il confine della libertà di R., segnato dagli attacchi di panico, non è né fisico né sociale, bensì trascendente: è il confine al di là del quale, la libertà coincide con la dannazione eterna. La struttura dell'esperienza appare, per ciò, ancorata agli incubi religiosi e moralistici trasmessi dalla madre e dagli istituti religiosi dove ha studiato, che l'hanno indotta a comportarsi come un angioletto sino al periodo in cui, nell'adolescenza, il "demonio" si è impossessato della sua anima.

allorché le minacce interne si strutturano sotto forma fobica, l'entità delle limitazioni della libertà personale variano a seconda del contenuto fobico. Per quanto complessi possano esserne i significati, le fobie sono sempre indizi strutturali di grande importanza, che consentono l'oggettivazione. Ciò risulta evidente soprattutto nei casi in cui una singola fobia esprime una minaccia interna, limita totalmente la libertà personale e comporta un'economia di vita riparativa ed espiatoria.

M. manifesta a sedici anni dei rituali piuttosto banali di abluzione. Tranne la perdita di tempo che comportano, essi non incidono in alcun modo sulla sua vita: frequenta la scuola, gli amici, pratica degli sports e ha interessi culturali piuttosto vivaci, nonostante il milieu familiare piuttosto semplice, che riconosce come unici valori l'onestà, il decoro e la rispettabilità. Vivendo in un ambiente di borgata, la famiglia si aspetta dai figli (M. ha un fratello) una riuscita modesta, ma, soprattutto,che essi non finiscano male. M. ha grandi ambizioni, una prepotente sete di cultura e una viva sensibilità sociale. Ha ereditato dalla famiglia un orientamento ideologico e politico di sinistra: ma, via via che cresce, non vede alcuna coerenza tra quell'orientamento, la mentalità piccolo borghese dei suoi e i pregiudizi "razzisti "nei confronti dei diversi: gli emarginati, i barboni, i drogati, i criminali. Giunge senza molte difficoltà all'università e al servizio militare, che non rimanda per toglierselo dai piedi.

Il suo ribellismo estremistico, mascherato dai comportamenti un po' manierati e ritualizzati da bravo ragazzo, viene ad urtare disastrosamente contro la struttura gerarchica della caserma. Dopo tre mesi, nel corso dei quali manda giù la rozza stupidità dei caporali e il malessere per il disordine e la sporcizia dei bagni, M. si abbandona ad un acting-out. Avendo appreso di un prossimo trasferimento punitivo di un gruppo di "lavativi" in Sardegna, e ritenendo di essere uno di loro, per via di un rimprovero toccatogli nel corso di un turno di guardia, M. coglie una sera l'occasione di essere rimasto da solo nello spaccio per vergare sui muri con un pennarello rosso scritte inneggianti alle brigate rosse. Solo il giorno dopo, in rapporto allo scalpore suscitato dall'episodio e alla previsione di un'inchiesta, si rende conto della gravità di ciò che ha fatto. Repentinamente, i rituali di abluzione si intensificano fino alla coazione incessante. Decide di sottoporsi a visita medica, e viene inviato all'ospedale militare in osservazione nel reparto neurologico. Colà, M. vive il doppio panico della detenzione e del contatto intollerabile con alcuni commilitoni che danno evidenti segni di squilibrio mentale. Torna a casa riformato, ma certo di essere stato contaminato e di contaminare l'ambiente domestico. I suoi comportamenti si ritualizzano: per evitare ulteriori contatti con gli oggetti di casa e con i familiari che ha toccato al ritorno dall'ospedale, si riduce a vivere come un automa, praticamente sempre in piedi durante il giorno e sdraiato per terra nella sua camera di notte.

Non esce più di casa, e non uscirà per due anni per la fobia, che si struttura in pochi giorni, di incontrare un qualunque rappresentante di una categoria sociale che, oltre ai malati di mente, contiene tutti gli emarginati: barboni, drogati, poveri, ecc., che potrebbe ulteriormente contaminarlo. Dopo due anni, il medico di famiglia riesce a portarlo quasi a forza in uno studio di psicoterapia, ove M. non ha difficoltà ad aprire gli occhi su una struttura drammaticamente evidente.

Le difficoltà maggiori al metodo dell'oggettivazione sono offerte dalle esperienze giovanili che si manifestano sotto forma di insabbia"`menti e di lente, benché continue, regressioni. In tali casi, gli effetti invalidanti dei sensi di colpa risultano evidenti, ma gli indizi strutturali, atti a promuovere l'oggettivazione, vanno ricercati con cura.

M. sta male da tre anni, dacchè ha concluso faticosamente un corso di studi medi superiori, conseguendo un mediocre diploma. Il suo star male è vissuto nei termini di un'angoscia catastrofica di impazzire, che si attiva in ogni situazione di esposizione sociale.

Per qualche tempo, tale angoscia poteva essere sormontata in compagnia di un familiare. Poi è divenuta paralizzante. M. vive in casa, senza fare alcunchè. Trascorre il giorno chiuso in camera, spesso al buio, talora leggendo dei fumetti, chiamando ogni tanto chi è in casa per accertarsi della sua presenza. La notte è preda di incubi confusi, che lo costringono ad andare a dormire nel letto dei suoi, mano nella mano della madre. Ha una ragazza che condivide con la famiglia il peso della sua dipendenza, e che lo ama profondamente, ma è turbata, e resa incerta del futuro, dallo stato di "istupidimento infantile" in cui versa il fidanzato. Tra i tanti comportamenti che attestano questo istupidimento, ce n'è uno affatto singolare. M. recusa nella maniera più assoluta di porsi di fronte allo specchio. Ha preteso che venissero rimossi, tranne che in bagno - ove è sicuro di non potersi trovare casualmente di fronte alla sua immagine -, tutti gli specchi della casa. Ha voluto inoltre che venissero nascoste tutte le sue fotografie incorniciate.

Urtando contro un vissuto di testa "vuota", che fa affiorare come unico contenuto l' angoscia di star lì lì per impazzire, l'intervento dialettico si appunta, ovviamente, su questo unico comportamento attivo e indiziario. M. sostiene che odia l'immagine del proprio volto perché si vede come "un bamboccio, tonto e senza personalità". Sul piano attuale, tenendo conto della regressione in atto, tale vissuto ha una dimensione realistica. Riferito alle fotografie, in cui appare sereno, sorridente e con una luce di bontà negli occhi, quel vissuto appare invece incomprensibile. Ma sono proprio le fotografie che M. odia di più, perché allo specchio ci si può sottrarre, mentre quelle sono implacabili. Cosa c'è in esse che non va?

M. vi si vede del tutto falso: appariva normale, buono, sereno, e, dentro, non lo era affatto. Come possono gli altri essere rimasti ingannati da quella maschera, e non aver capito che, dietro di essa, c'era solo rabbia e odio contro tutto e contro tutti? Con ciò, il rifiuto di specchiarsi assume un significato strutturale, che M. riesce a confessare: ha infatti paura di vedere riflesse la sua inettitudine e stupidità, ma, non di meno, di vedere la sua immagine trasformarsi e lasciar trasparire il "mostro" che alberga. Non si tratta solo di un fantasma. M. rievoca un vivido ricordo infantile. A sette anni, solo nella sua camera, si pose di fronte allo specchio, e, spinto da una strana inquietudine, cominciò a fare delle smorfie, a digrignare i denti, ad ampliare minacciosamente la fronte e a sbarrare gli occhi incattiviti, fino ad avere una crisi di terrore.

Gli esempi addotti sono, a mio avviso, sufficientemente esplicativi di come si rilevano gli indizi strutturali. E' fuor di dubbio che si cerca qualcosa alla luce di una teoria preesistente. In breve, si cerca una matrice strutturale che rende conto della scissione, sempre evidente, dell'io, del conflitto tra come egli deve essere, vedersi, apparire e comportarsi e un bisogno di individuazione colpevolizzato la cui pressione determina effetti più o meno catastrofici. L'oggettivazione consiste nell'aiutare la coscienza a prendere atto di questo conflitto nella misura in cui esso è evidente a livello di vissuti, di sintomi e di comportamenti. Ritengo che ciò sia sempre possibile. Ma non si possono ignorare alcuni problemi teorici che pone l'oggettivazione.

E' chiaro, anzitutto, che ciò che si oggettiva, e si sollecita ad oggettivare, non è mai una struttura formale, bensì una struttura i cui contenuti conflittuali sono inscindibili dalle esperienze soggettive. La paura di specchiarsi, per es., è un indizio che consente sempre di ipotizzare uno scarto drammatico tra immagine apparente e immagine interna. Ma, nell'esperienza di M., questo indizio assume un significato particolare, essendo egli angosciato sia da come appare che da come si vede dentro. La teoria strutturale, dunque, orienta la ricerca, ma ciò che si trova, si oggettiva e viene proposto alla coscienza del soggetto ha sempre dei contenuti specifici, riferiti alla sua esperienza. E' ovvio, dunque, che l'oggettivazione avendo di mira il mettere in luce una matrice conflittuale che ha un significato sincronico nel senso che determina, in misura più o meno rilevante, l'economia di vita del soggetto e incombe, con la potenzialità coattiva, sul suo futuro, è praticabile, sul piano terapeutico, solo adottando un punto di vista genetico, solo cioè tenendo conto che quella matrice con i suoi contenuti specifici, rappresenta la cristallizzazione delle microstorie individuali.

Per esempio, per quanto riguarda R., la fenomenologia dell'attacco di panico evidenzia strutturalmente una minaccia superegoica mortale che incombe sull'esercizio della libertà personale. Ma che questa rappresaglia evochi, al di là del ricordo di un esercizio sadico della libertà e della paura della violenza del marito, una punizione paralizzante - la dannazione all'inferno - diventa comprensibile solo in rapporto a un sistema di valori superegoico introiettato, e - com'è evidente - -visceralmente rifiutato, in passato. L'oggettivazione come primo momento dell'intervento dialettico postula, dunque, nonchè il riferimento alla teoria strutturale, l'adozione di un punto di vista diacronico, microstorico.

La psicoterapia dialettica verte, costantemente, in tutte le sue fasi, sull'oggettivazione strutturale, che mette in luce la matrice conflittuale che determina l'organizzazione del mondo interno e che, per effetto del Super-io, si pone sempre causa sui, e sull'interpretazione microstorica o genetica, che riconduce la struttura psicopatologica alla fenomenologia dei bisogni, alienati dalle interazioni con l'ambiente, ai sistemi di valore superegoici, che mantengono e alimentano l'alienazione, e all'economia di vita prescritta da quei sistemi.

Come si vedrà nel capitolo seguente, il riferimento al determinismo strutturale intrinseco non esclude affatto il ruolo delle interazioni ambientali, sia sul piano diacronico - della genesi - sia su quello sincronico - del rinforzo positivo. Esso consente di oggettivare, per alcuni aspetti, essenziali sul piano terapeutico, la struttura del mondo interno con una metodologia che identifica l'introspezione con la presa di coscienza. La novità di questo approccio richiede una breve e, forse, somO. riflessione.

Il termine introspezione è una metafora che identifica l'autocoscienza con la capacità di vedersi e di vedere dentro di sé. L'autocoscienza è un dato immediato di ogni esperienza soggettiva; ma in cosa consiste il vedere dentro di sé che la fonda? Se si rimane alla metafora, occorre ammettere che l'autocoscienza è null'altro che un teoria, del proprio modo di essere e di porsi nel mondo che il soggetto elabora in virtù dei dati - memorie, emozioni, pensieri, comportamenti, interazioni, categorie culturali - di cui dispone. Il grado di verità di questa teoria consiste nella sua corrispondenza a quel modo di essere o di porsi. Ma, per valutare tale corrispondenza, la verifica è insignificante, essendo dimostrato che la vita reale di un soggetto può conformarsi ad un ideale dell'io astratto. Decisiva, invece, è la falsificazione, e cioè l'affiorare, a tutti i livelli dell'esperienza soggettiva, di indizi che confutano l'immagine di sé, e fanno riferimento ad una quota di bisogni irriducibili ad essa. Le esperienze psicopatologiche sono falsificate dal disagio stesso che le anima, a livello di vissuti, sintomi e comportamenti. L'oggettivazione non è dunque, che la presa d'atto di una falsificazione già evidente. Perciò essa postula un minimo di introspezione: quanto basta alla coscienza per adottare una nuova prospettiva nel suo essere e porsi nel mondo.


5. L'oggettivazione delle interazioni.

Per quanto ogni struttura psicopatologica implichi una genesi, l'oggettivazione della struttura concerne un livello sincronico: essa, in altri termini, mira a mettere a fuoco la matrice conflittuale così come si esprime nell'hic et nunc Tale metodo non avrebbe senso se si prescindesse dal fatto, già rilevato, che, per quanto profonda rispetto ai livelli di coscienza, quella matrice è sempre rappresentata dal modo di essere e di porsi del soggetto nel mondo, determinando l'economia interiore, comportamentale e relazionale. La sfera delle relazioni, però, non è mai riducibile alla struttura psicopatologica, se non, nei casi in cui questa ha un elevato grado di coerenza, per quanto riguarda i significati che il soggetto riceve dalle relazioni. Per esempio, data un'immagine radicalmente negativa di sé, non c'è situazione relazionale dalla quale il soggetto non riesca a ricevere conferma della sua negatività, anche agendo attivamente comportamenti che danno luogo, da parte degli altri, ad interazioni negative.

Ciò detto, sarebbe assurdo, e incompatibile con i dati della realtà, sostenere un determinismo soggettivo radicale. Tranne i casi, rari e di solito corrispondenti a lunghe evoluzioni, in cui, come ha rilevato Benedetti, la realtà soggettiva sembra quasi ridursi ad un Super-Io altamente strutturato, l'esperienza soggettiva non coincide mai con la struttura psicopatologica che la sottende: essa dunque comporta delle potenzialità relazionali il cui investimento, che può retroagire positivamente o negativamente sulla struttura dipende dai sistemi interattivi di cui il soggetto fa parte e dall'attrezzatura culturale di cui dispone.

Da un punto di vista dialettico, le relazioni tra soggetto e ambiente non si riducono all'interazione comunicativa: esse concernono la comunicazione, la significazione soggettiva delle interazioni e il quadro di valori, comune o meno, che presiede alle comunicazioni e alle significazioni. Qui si pone la differenza tra approccio dialettico, e approccio sistemico. Da un punto di vista sistemico, le interazioni significative - quelle che avvengono in contesti interpersonali motivati da vincoli affettivi e di lunga durata - sono caratterizzate da regole omeostatiche, solitamente vantaggiose per qualcuno a danno di qualcun altro - il paziente designato -, mascherate sotto forma di valori - affettivi, morali, religiosi, culturali. Da un punto di vista dialettico, è vero il contrario: sono i valori superegoici, alienati ma vissuti come funzionali alla coesione del microsistema e alla sua appartenenza sociale, sotto forma di immagine del gruppo e di rappresentanza da parte dei singoli membri, a sovrastrutturare le interazioni e a finalizzarle al mantenimento di un'omeostasi, che non è vantaggiosa per nessuno dei membri, anche se può essere più dannosa per uno di essi. Ma per questa via non si giunge al paradosso di definire quell'omeostasi vantaggiosa solo per i valori che la determinano, e che postulano, da parte degli agenti microsistemici, un inutile sacrificio di bisogni?

Il paradosso si risolve se si tien conto che quei valori, per quanto astratti, sono storici: rappresentano, in breve, sia una o più tradizioni ereditate per trasmissioni interpersonali, introiettate e matenute dal culto, più o meno inconsapevole, degli avi, sia il sistema sociale totale cui il gruppo appartiene e ai cui codici di normalizzazione esso si sente tenuto a da conto. I valori superegoici alienati che strutturano le interazioni microsistemiche postulano dunque che si tenga conto non solo sul piano dei principi, ma a livello di pratica terapeutica dell'appartenenza diacronica e sincronica dei microsistemi L'oggettivazione delle interazioni consiste, di conseguenza, nel mettere in luce le strategie comunicative - ciò che di fatto avviene nei microsistemi interpersonali - ma, soprattutto, nel rilevare il quadro di valori, più o meno coerente, cui esse fanno capo e che le determinano. Posto poi che quei valori, in quanto alienati, si rafforzano, a livello superegoico, nei soggetti animati da un bisogno di opposizione viscerale irriducibile, ciò che importa, a livello interattivo e microsistemico, è mettere in luce il grado di responsabilità degli agenti nell'assicurane l'omeostasi. In uno dei frammenti di esperienza riferiti nel capitolo precedente, c'è, a riguardo, un esempio interessate.

M. ha sicuramente introiettato il sistema di valori familiari, scisso tra una confusa protesta contro l'ordine di cose esistente - attestato, sia da parte paterna che materna, da una tradizione comunista, cui i genitori sono rimasti fedeli - e un bisogno di appartenenza sociale e di affrancamento dalla vergogna della miseria comprovato da uno stile di vita piccolo-borghese, totalmente incentrato sulla rispettabilità, sul sentirsi inappuntabili agli occhi della gente. L'introiezione di quel sistema di valori ha scisso l'esperienza di M., determinando una maschera sociale di bravo ragazzo sotto la quale urge un ribellismo antiautoritaistico e anticonformistico inibito dal debito di gratitudine nei confronti dei genitori. L'acting-out che sopravviene nel corso del servizio militare promuove una severa rappresaglia superegoica M. scampa alla paura di un processo, regredendo nel ruolo, socialmente meno disonorevole rispetto a quello di criminale, di malato di mente. Con ciò egli, però, si disonora e disonora la famiglia. La riparazione si esprime sotto forma di arresto domiciliare. Ma non basta: per cancellare la colpa, M. deve dare anche prova di buona condotta. L'isolamento e i rituali attestano la sua volontà di non aver nulla a che fare con i diversi, gli emarginati, i ribelli, i trasgressori. Nel contempo, egli instaura in famiglia un regime dittatoriale che mira ad imporre un ordine infinitaente più severo di quello imposto dal padre, che è un "maniaco" dell'igiene. Ogni tentativo dei parenti - padre, madre, fratello - di ribellasi a regole arbitrarie, la cui esecuzione li fa sentire dei manichini, dà luogo, da parte di M., a reazioni violente pressochè incontrollate. Perseguitato dal sistema di valori superegoici trasmesso dalla famiglia, M., in breve, oltre che vittima, è anche un persecutore. In questo caso, l'oggettivazione della struttura psicopatologica è agevole. La scissione tra immagine sociale, superegoicaente prescritta, e anarchia interiore è affiorata a livello comportamentale, e si realizza, dopo l'actingout, nello spazio domestico. M. impone. a se stesso e a tutti in casa un ordine perfetto; ma la sua camera è uno spazio franco, ove nessuno può entrare e nella quale M., ritenendola contaminata, non osa toccar nulla. Vige di conseguenza in essa un disordine totale (polvere, laniccia, pile di riviste, coperte sporche, ecc.) che deve rimanere tale per riprodurre la mortificazione dell'esperienza interiore di M. sino al sopravvenire dell' acting-out: quel disordine, in pratica, è ordine se esso rimane immobile.

Ma come può proporsi l'oggettivazione delle interazioni? Nel modo più semplice. Il disordine della camera, insopportabile per il padre, che la definisce la camera di un barbone, espone M. a continue critiche, rimproveri e giudizi sprezzati. Al disprezzo, M. reagisce imponendo delle regole comportamentali che, per la loro rigida assurdità, danno luogo regolarmente a degli acting-out da parte dei failiar". La madre, perennemente controllata da M. in cucina, fa spesso volare i piatti, il fratello si mette a vedere il televisore allungando i piedi sul tavolo di cucina, il padre viene scoperto mentre urina nel lavabo. Le liti violentissime che spesso sopravvengono mettono a rumore l'intero palazzo.

L'oggettivazione delle interazioni mette a fuoco che un eccesso di ordine, ispirato a rigidi criteri di rispettabilità formale, può indurre un infinito disordine interiore e comportamentale, e promuovere degli acting-out. Ma chi, se non M., deve riprendere il cammino verso l'individuazione, affracadosi da un superio che, nell'intento di normalizzalo, lo sta rendendo folle?

E chiaro, da questo esempio, che il metodo dell'oggettivazione, applicato alle interazioni, adotta il punto di vista sincronico e diacronico cui si è fatto cenno nel capitolo precedente. In quanto avvengono nell' ambito di relazioni di lunga durata le interazioni significative hano una storia e un livello attuale di realizzazione, l'hic et nunc. L'oggettivazione dialettica promuove la presa di coscienza dell'hic et nunc, di ciò che di fatto avviene a livello interattivo, e, nel contempo, sollecita la messa a fuoco dei valori che determinano le interazioni e il grado in cui essi sono rappresentati superegoicamente negli agenti sistemici. Il metodo può essere semplificato facendo riferimento all'esperienza di R., ricostruita nel capitolo precedente.

Dopo l'esperienza trasgressiva vissuta in età giovaile, tutta incentrata sul bisogno di dimostrare a se stessa (e agli altri) di essere moralmente insensibile e cattiva fino al sadismo, R., per effetto dei sensi di colpa, regredisce nell'isolamento domestico e nella dipendenza dai familiari. Sembra, dunque, aver messo la testa a posto. Ma, nonostate i sensi di colpa, R. non può assegnare alla famiglia un significato repressivo in rapporto a temibili ulteriori perdite di controllo comportamentale. Nonostante il loro rigoroso moralismo, infatti, i genitori si sono dimostrati inetti e rassegnati in rapporto alle sue provocatorie trasgressioni. Cos'altro fare, dunque, per sconfiggere il demone di una malvagia volontà che urge, se non produrre un sistema interattivo rassicurante, e cioè repressivo e temibile? La scelta dell'uomo giusto da questo punto di vista è ottimale.

Ma a R. non basta la gelosia morbosa, il controllo incessante, la repressione fisica. Essa desidera inconsapevolmente un sistema totale di controllo. Accetta pertanto, dopo il matrimonio, di andare ad abitare in un appartamento limitrofo a quello in cui abita la suocera, la cui mentalità "ultratradizionale" le è ben nota. Non solo: il pomeriggio, quando il marito non è in casa, è lei stessa a proporre alla suocera di stare in compagnia. Con ciò, R. realizza un sistema di interazioni che la costringono non già solo nel ruolo di brava moglie, madre e nuora, bensì in quello di donna priva di ogni libertà e costantemente sotto controllo. Ma dove può portare questa strategia difensiva e espiatoria se non al riattivasi del demone di una libertà anarchica? Lanciando una sfida al marito, e alla sua mentalità repressiva, rinforzata dall'essere venuto egli a conoscenza dei trascorsi della moglie, R. oggettiva sì le interazioni ma su un piano meramente sincronico. Esse invece, come attesta l'attacco di panico che la invalida, traggono il loro pieno significato dal piano diacronico: sono i sensi di colpa e il bisogno di repressione ad essi associato che hanno indotto R. a mettersi in un sistema interattivo insopportabile e opprimente. Per affrancasene, R. deve oggettivare, oltre che quelle del marito, le sue "responsabilità" interattive, e cioè il bisogno di repressione che anima la sua esperienza.

E' chiaro, dai due casi illustrati, che l'oggettivazione delle interazioni microsistemiche concerne il più spesso o un gruppo legato da vincoli di sangue o un gruppo, sia pur esso rappresentato.da una coppia, legato da vincoli acquisiti. Ma, adottando un punto di vista strutturale e dialettico non c'è alcun bisogno di esaurire l'analisi delle interazioni a livello di hic et nunc failire. Spesso quest'analisi è efficace, e cioè promuove l'oggettivazione, solo quando si rivolge ad altri livelli interattivi e scopre nell'hic et nunc gli indizi di un conflitto strutturale che permette di comprendere il presente alla luce del passato e il passato alla luce del presente.

Questo risulta chiaro dall'esperienza di F., la cui fenomenologia psicopatologica sembra fare riferimento ad una situazione interattiva specifica: il rapporto diretto, faccia a faccia, con i superiori nell'ambiente di lavoro, che scatena una crisi di angoscia associata a fantasie coatte di comportamenti i più strani e disdicevoli - ruttare, dire parolacce, grattarsi i genitali, scaraventare per terra degli oggetti. L'unica difesa dalla temuta perdita di controllo che, facendolo passare per pazzo, comprometterebbe la sua carriera, è l'impulso a scappare repentinarente: difesa, ovviarente, irrealizzabile perché realizzerebbe proprio il pericolo che F. intende scongiurare. Dato che i rapporti con i superiori sono pressochè quotidiani, la situazione psicologica diventa rapidamente insostenibile. F. si riduce a vivere alla giornata, nell'angoscia perpetua di stare lì lì per perdere il controllo, acquietato, solo, la sera dello scampato pericolo che però si profila all'orizzonte del nuovo giorno.

L'hic et nunc è denso di significati. F. è di ceto sociale umile: la famiglia, nel cui "romanzo" c'è una mitica supremazia a livello di paese di origine, è vissuta sempre di alti e bassi. In breve una miseria neppure decorosa, con i creditori spesso sull' uscio di casa. Nonostante ciò F. ha manifestato sempre particolari attitudini allo studio, eccellendo fino a livello di scuola media superiore. Poi, preso atto che le sue ambizioni rivolte all'università urtavano contro il suo dovere di primogenito di darsi da fare per aiutare la famiglia, ha ceduto nell'applicazione nel corso dell'ultimo anno conseguendo una licenza piuttosto mediocre. Arrabbiato visceralmente contro il mondo, ha preso a militare in un gruppo extraparlamentare, alimentando fantasie eversive di ogni genere. Dopo due anni, ha capito che, con quella militanza, nonchè riscattare la condizione familiare, avrebbe finito con il comprometterla. Di punto in bianco, si converte politicamente, iscrivendosi ad un partito di maggioranza e sottomettendosi a coloro che riteneva i peggiori nemici di classe: i proprietari terrieri. Data la sua intelligenza e le qualità manageriali, viene cooptato nella loro confederazione nazionale e fa carriera. Diventa da rivoluzionario potenziale, un servizievole burocrate che deve compensare, con la sottomissione, le origini sociali e il difetto della laurea. La facilità con cui consegue l'integrazione e il successo sociale lo induce a rivedere i giudizi viscerali del passato: giunge a pensare che il padre, come tutti gli indigenti, in fondo, si è meritato la sua condizione, e non ha fatto alcunchè per cabiarla.

Giunge ad un passo dall'integrazione ideologica, corroborata da un ruolo e da uno status invidiabili, e proprio allora, sviluppa i vissuti ossessivi. L'hic et nunc, l'agoscia che lo attanaglia in presenza dei superiori - quasi tutti proprietari terrieri, di ascendenze nobiliari e dotati di titoli accademici - condensa due diversi sensi di colpa. Nella misura in cui si vergogna, agli occhi di quelli, delle sue origini miserabili, e intende nasconderle, egli risulta, in rapporto alla famiglia, un traditore che va smascherato, e cioè ricondotto all'appartenenza, per mezzo di comportamenti volgari; ma, per un altro verso, celando ai superiori i suoi trascorsi estremistici e il persistente disprezzo nei confronti dei potenti per nascita, egli è ugualmente un traditore, che merita di perdere i privilegi conseguiti con un ingannevole servilismo. L'hic et nunc è, dunque, un condensato di storia personale e sociale che, in nome del valore superegoico della sottomissione ai superiori - categoria che comprende di diritto il padre e di fatto i datori di lavoro -, impone a F. di pagare il prezzo di una duplice ribellione colpevolizzata.

Ancor più chiara risulta la necessità di integrare il punto di vista sincronico con quello diacronico nei casi in cui le interazioni interpersonali sono sovrastrutturate da valori superegoici che nel soggetto disagiato vanno incontro ad una trasformazione ideologica per cui nonchè alienati, sembrano apparire suoi propri.

G., a ventiquattro anni, vive chiusa in un delirio religioso che, facendola sentire costantemente a contatto e in comunicazione con Dio, la obbliga a lottare contro una natura malvagia, demoniaca che alligna nella sua anima. Il delirio fa capo ad una visione del mondo estremamente articolata. Per G. il mondo è un sistema organismico il cui equilibrio, dovuto alla benevolenza divina, si mantiene per via dei giusti che, espiando le colpe di coloro che vivono nel peccato, riescono a far prevalere, nel bilancio del rapporto del mondo con Dio, il bene sul male. In conseguenza di questa visione religiosa, G. si sente obbligata a vivere nell'espiazione e nel terrore di commettere colpe che qualcun altro dovrebbe pagare. La volontà di mantenersi nella schiera dei giusti, e cioè di coloro che si sacrificano per il bene comune e portano sulle spalle la croce dei peccati altrui, è minacciata da una seconda natura che G. percepisce sotto forma di strani sintomi psicosomatici - formicolii, fascicolazioni muscolari, contratture alla nuca, irrequietezza alle gambe, ecc.) - che si associano a fantasie istintuali di ogni genere (aggressive, erotiche, bulimiche, ecc.).

Quando G. non riesce ad arginare questa minaccia, si abbandona a raptus nello spazio domestico, che la portano a distruggere tutto ciò che ha sotto mano. Il benessere repentino che riceve da tali esplosioni si converte rapidamente, non appena rientra in sé, in un acuto senso di colpa che accentua l'espiazione. In questo caso, l'oggettivazione strutturale non ha immediatamente spazio alcuno, poiché i poli del conflitto sono connotati ideologicaente: l'anima di G. è un territorio conteso da Dio e dal diavolo. L'oggettivazione delle interazioni, adottando un punto di vista diacronico, è invece del M. interesse.

Originari di una provincia povera del Lazio, i genitori di G. si sono inurbati subito dopo la sua nascita per assicurarle l'avvenire. Dovendo lavorare entrabi come bestie da soma - il padre come portiere e uomo tuttofare, la madre come domestica - G. è rimasta affidata ai parenti del paese e si è ricongiunta con i genitori solo all'età di sei anni. Dacchè ha raggiunto l'età della ragione, per ripagae i suoi dei loro sacrifici, G. si è comportata come una figlia perfetta, sostituendo la madre nell'espletamento dei lavori domestici e dedicadosi anima e corpo allo studio, con risultati brillanti sino alla licenza superiore. Dotata di una spiccata attitudine filosofica, raffinata dagli studi classici, G., confrontando la sua condizione con quella delle coetanee, si è sempre posta dei problemi sui diversi destini che toccano alle persone. Ma l'esempio dei suoi, e la necessità di aiutarli, ha sempre frapposto un velo alle sue inquietudini. Tale velo si è squarciato allorché, a dicianove anni, G. prende atto di una raggiunta sicurezza economica: i suoi posseggono ormai quattro appartamenti e due negozi, tutti in affitto. Ma allora perché continuao a vivere come bestie da soma, senza concedersi mai un giorno di riposo?

La conclusione cui G. giunge è impietosa: nonchè miserabili per nascita, i suoi lo sono anche nell'anima. Pensano (ed è vero) che il destino degli umili sia quello di lavorare e soffrire: nonostate la rabbia che hanno in corpo nei confronti dei padroni, e che spesso viene esplicitata, essi vivono la loro condizione come ingiusta ma irrimediabile: in breve, amano servire, farsi sfruttare e mantenersi nel ruolo di servi riconoscenti. L'angoscia di precarietà vanifica i frutti del loro lavoro: nonchè agiati, continuano a sentirsi sospesi ad un filo e a pensare che solo gli altri, quelli cui è toccato in sorte di non nascere miseri, possono godersi la vita.

Quando giunge a queste conclusioni, G. va incontro ad un periodo di viscerali ribellioni che esita in una serie di strani comportamenti: rifiuta lo studio e i lavori domestici, spende e spande per vestiti e cosmetici, frequenta dei ragazzi e si abbandona all'esercizio della sessualità. Ciò che l'arresta repentinamente, inducendo un viraggio verso la religione, è una tormentosa riflessione sui privilegi di cui ella gode, che la pongono dalla parte degli egoisti, indifferenti alla sorte dei poveri e degli, e dunque degli ingiusti. Questa riflessione esita in un acuto senso di colpa: il suo egoismo dovrà essere pagato da qualcun altro sulla faccia della terra, per confermare la benevolenza divina. Non potendo sopportare il senso di colpa, G. passa di nuovo dalla parte dei giusti e rientra nel sistema masochistico dei valori familiari, senza rendersene conto. Non può essere che il diavolo, infatti, a farla sentire gonfia di odio e di rabbia quando si trova faccia a faccia con i suoi, e legge nei loro corpi i segni di una precoce vecchiezza e nei loro sguardi l'avvilita soddisfazione di chi ha fatto e fa il proprio dovere nel ruolo che la sorte gli ha dato.

L'oggettivazione delle interazioni, quado si tenga conto dei livelli sincronici e diacronici, porta, dunque, sempre alle stesse conclusioni.

Immersi in microsistemi originali o acquisiti sovrastrutturati da valori superegoici alienati in rapporto ai bisogni umani i soggetti che a quei valori, visceralmente o coscientemente si ribellano, rimagono intrappolati dai sensi di colpa che muovono dalla legge superegoica impone di condividere quei valori in nonedella fedeltà al gruppo di appartenenza. Il livello della comunicazione interpersonale non spiega, come sostengono i tecnici del sistema familiare, questa trappola. Esso, piuttosto, serve ad oggettivare che i valori trasmessi sono spesso vissuti contraddittoriaente da chi li trasmette: è, in breve, una ribellione maturata a monte che si esprime a valle, e precipita sotto forma di struttura.

Ma ora, oggettivata la trappola microsistemica e quella soggettiva, si tratta di capire se e come sia possibile uscirne.


6. La dinamica strutturale

La struttura psicopatologica è una trappola che limita, in nome di un'appartenenza sociale alienata, la libertà del soggetto di evolvere verso l'individuazione, verso un modo di sentire, pensare e agire corrispondente ad un sistema di valori assimilato. La trappola strutturale corrisponde univocamente ad una criminalizzazione del bisogno di opposizione/individuazione, la cui matrice è la forma a priori superegoica che si attiva in rapporto ad interazioni conflittuali con l'ambiente.

Questa formulazione generica non serve granchè sotto il profilo terapeutico: primo, poiché quel bisogno, geneticamente determinato, ha una fasicità complessa nel periodo evolutivo della personalità e persiste anche al di là di essa; in secondo luogo, poiché gli ambienti evolutivi e sociali, sono estremamente diversificati nella loro capacità di significare negativamente il bisogno di opposizione/individuazione. La relativa invarianza delle forme strutturali psicopatologiche fa sì che la stessa forma corrisponda matrici conflittuali le più diverse in rapporto alluepoca in cui si determinano e alleinterazioni con l'ambiente che le producono.

L'oggettivazione della struttura e delle interazioni attuali tra soggetto e ambiente assume, pertanto, un significato terapeutico solo se si riesce a valutare la dinamica strutturale e cioè, nel contempo, la sua genesi, il significato dell'equilibrio - riparativo e/o punitivo - che essa determina, con il sacrificio di una quota più o meno rilevante di bisogni, e infine le sue potenzialità evolutive. Occorre, a tal fine, proporre dei criteri oggettivi, verificabili e falsificabili non solo sul piano epistemologico ma soprattutto sul piano terapeutico: criteri, in altri termini, che possano essere verificati e falsificati dai soggetti interessati, e diano luogo di conseguenza ad una liberazione - emozionale, culturale e pratica - del bisogno di individuazione criminalizzato.

Tali criteri sono ricavabili dall'omeostasi prescritta dalla struttura psicopatologica. Il carattere omeostatico dei fenomeni psicopatologici è stato rilevato sia dalla psicoanalisi che dalla teoria sistemica, e interpretato in termini di difese. Il pericolo è però significato diversamente: per la psicoanalisi, esso concerne un Io fragile e vulnerabile, sostanzialmente infantile, minacciato dall'interno da pulsioni istintuali liberamente fluttuanti e dall'esterno da una realtà alla quale non è in grado di far fronte; per la teoria sistemica, viceversa, il pericolo concerne il microsistema, il cui equilibrio, globale o riferito a qualcuno dei membri, si mantiene grazie al disagio del paziente designato. L'omeostasi difende, per la psicoanalisi, l'identità personale; per la teoria dei sistemi, l'identità del gruppo. Nei casi più gravi, che determin no una catastrofe del soggetto e, non di rado, del microsistema familiare, le difese risulterebbero inadeguate. Ma, con ciò, si ricade nell'ambito dell'arbitrio epistemologico

A mio avviso, l'omeostasi strutturale restaura e tende a mantenere un equilibrio riparativo/punitivo che costringe il soggetto a condividere, a qualunque prezzo, l'esperienza del gruppo di appartenenza alienata dai valori superegoici. Più precisamente, la struttura psicopatologica restaura l'equilibrio preesistente l'affiorare del bisogno di opposizione/individuazione in termini di attacco colpevole al legame con il gruppo di apparterienza. L'omeostasi superegoica, in altre parole, costringe il soggetto, nella totalità della sua esperienza di vita o per qualche aspetto importante, a regredire nel modo di essere che gli era proprio immediatamente prima che, a livello vissuto o comportamentale, il bisogno di opposizione/individuazione si ponesse in termini di conflitto irriducibile, e dunque colpevole, con il gruppo di appartenenza e con i valori superegoici da esso veicolati.

Quell'omeostasi fornisce, dunque, un indice genetico di grande im-portanza e precisione, che consente di determinare oggettivamente il periodo in cui si è definita la matrice strutturale Se si vuole utilizzare, a riguardo, il concetto di difesa, occorre far riferimento solo ai sensi di colpa: la riparazione, che è l'espressione immediata dell'omeostasi strutturale, serve unicamente a scongiurare la paura dell'esclusione sociale (sotto forma di morte, internamento manicomiale o repressione giudiziaria) associata al bisogno di opposizione criminalizzato. La regressione imposta dalla struttura restaura in pratica l'equilibrio minacciato dal bisogno di opposizione, e lo restaura così come era all'epoca in cui è affiorata la minaccia. Essa omeostatizza l'esperienza del soggetto nel modo di essere che egli, più o meno visceralmente, ha avvertito incompatibile con la sua individuazione.

A me sembra che questa sia una vera e propria legge psicopatologica, che si potrebbe definire, forse, di riparazione strutturale. Prima di approfondirne le conseguenze teoriche e pratiche, occorre documentarla. Per alcuni aspetti, essa già appare evidente nelle esperienze riferite.

R., volendo uscire da sola di casa per sottrarsi al controllo coniugale, rivendica la stessa libertà che, a livello adolescenziale, ha prodotto uno scatenamento comportamentale perverso e una sequela di colpe. L'attacco di panico, impedendole di varcare il portone, riproduce l'equilibrio che vigeva nella sua vita quando ella non era in grado di muoversi da sola.

M., il cui acting-out attesta il suo odio cieco nei confronti di ogni autorità repressiva, e quindi la sua tendenza a passare dalla parte dei fuorilegge - inesorabilmente emarginati - si pone agli arresti domiciliari e restaura in casa la dittatura che gli ha permesso di rimanere nell'ordine finchè egli, per paura, ha accettato la visione scissa del mondo veicolata soprattutto dal padre.

M., regredendo nella dipendenza e nell'istupidimento, torna ad essere l'angioletto che era prima che lo specchio gli desse la percezione della rabbia che covava dentro.

Nelle esperienze che seguono, il significato riparativo dell'omeostasi strutturale dovrebbe risultare ancora più evidente.

Nel corso dell'ultimo anno di liceo classico, A. comincia ad accusare violenti mal di testa. Per sedarli assume degli antalgici, e sperimentando l'allentamento di tutte le ansie con le quali convive da anni, giunge ad abusarne. Dopo tre mesi, insorge una grave anemia da intossicazione. A. fa presente ai medici e ai familiari che un eventuale proscrizione degli antalgici la spingerebbe ad un gesto disperato. Le vengono accordate delle dosi compatibili con l'emopoiesi. L'assuefazione induce A. alla trasgressione, ma l'effetto dei farmaci è ormai modesto sia sul mal di testa che sull'ansia.

Superato a mala pena l'esame di licenza, A. si chiude in casa, rinuncia ai progetti universitari e alla vita sociale. Risulta però chiara la sua incapacità di limitare un abuso, che mette a repentaglio la sopravvivenza. Deve arrendersi a farsi controllare dal padre, con il quale deve contrattare le singole dosi. Cade in uno stato di cronica depressione. La dipendenza dal padre è penosa poiché A. sostiene di odiarlo da sempre e di essere vissuta nell'attesa di diventare grande per liberarsi di lui. L'odio si fonda su di una serie di implacabili accuse: il padre ha costretto la madre ad abbandonare il lavoro per dedicarsi ai figli (A. ha un fratello minore), rendendola infelice e nevrotica; ha imposto a lei di frequentare fino alla fine del liceo un istituto di suore, nonostante A. si dichiari da anni atea e ostile all'ipocrito perbenismo di quell'ambiente; ha cercato in ogni modo di condizionarla a vivere in nome di valori apparentemente elevati, che implicano, però, da parte della donna, l'accettazione della sua inferiorità e debolezza morale.

Tale condizionamento è stato sperimentato da A. alla fine della scuola media, allorché dopo un aspro conflitto con il padre, ottiene l'iscrizione ad un liceo statale. Nel nuovo ambiente, si sente a disagio, rifiutata e ridicolizzata per il suo modo di essere da "beghina", immodificabile nonostante l'irrequietezza libertaria e anticonformistica della sua anima. Costretta dal disagio a tornare all'istituto di suore, da allora l'odio nei confronti del padre si è associato al disprezzo per se stessa o, meglio, per la sua incapacità di liberarsi da una maschera comportamentale nella quale non si riconosce.

L'omeostasi strutturale restaura un legame di dipendenza con il padre necessario ai fini di una sopravvivenza minacciata dall'interno da una vocazione autodistruttiva; essa riproduce costrittivamente un cieco affidamento infantile, cui A. si è ribellata senza valutare i pericoli legati al suo essere nel contempo bisognosa di protezione e incapace di autocontrollo. In realtà, la matrice conflittuale risale a 7 anni, al primo periodo di opposizione manifesta. Sino allora, A. stravede per il padre, che, a sua volta, esalta il suo carattere docile ma indomito. A., di fatto, non ha paura di niente e di nessuno e apparie sorprendentemente matura rispetto ai coetanei. L'opposizione si manifesta in rapporto al rigido regime dietetico imposto dal p dre, che esclude ogni peccato di gola e comporta l'assunzione quotidiana di tavolette vitaminiche da succhiare, di sapore disgustoso. Il rifiuto di queste tavolette pone A. di fronte al carattere autoritario del padre.

L'episodio che fa precipitare nella sua anima un odio viscerale si riconduce ad un ricordo nitidissimo. Un giorno, in un giardino pubblico, ove era solito esibire il suo coraggio nei giochi con gli attrezzi, A. monta su di uno scivolo troppo alto per lei e viene bloccata sulla piattaforma da una reazione di terrore. Il padre, che deve aver tentato di dissuaderla dal tentare la prova, le impone però di superarla. Incurante della paura della figlia, la ridicolizza, la minaccia, e, infine, incollerito, sale sulla scaletta e la spinge giù brutalmente. Da quel giorno, il padre muore nel cuore di A.

La struttura psicopatologica, maturata nel corso degli anni, obbliga A. ad affidarsi nuovamente a lui che sa come "drogarla" e come "svezzarla".

Fino a 11 anni, G. è un bambino buono, sensibile, socievole, amante della natura e degli animali. Alle soglie dell'adolescenza, comincia a manifestare un'incontenibile "vivacità": pretende in pratica di stare per starda con gli amici, nel pomeriggio, dopo aver fatto i compiti. Il quartiere nel quale abita è popolare e un po' malfamato. Il padre - un fascista dichiarato di vecchio stampo -, non può accettare che il figlio frequenti ragazzi di strada.

Non trovando altro rimedio, egli tenta di mantenerlo sulla retta via con le minacce e le punizioni fisiche. Infinite volte, G., immerso già nel sonno, viene preso di peso dal padre che, informato dagli amici di aver visto il figlio in compagnia di ragazzi che egli dovrebbe assolutamene frequentare, lo fa inginocchiare sul pavimento e lo frusta con la cinghia dei pantaloni. G. non emette mai un lamento, né implora pietà. Si lega al dito questi soprusi e medita vendetta. Le fantasie di vendetta si riducono nel continuare a vivere come pare a lui e a rimandare alla maggiore età la rivendicazione esplicita di questo diritto. Nonostante le percosse, egli non giunge mai coscientemente a nutrire odio per il padre, sia perché la cultura di cui è impregnato glielo impedisce, sia perché, via via che cresce, prende atto del fatto che il padre, in fondo, vuole il suo bene, e si costringe ad una durezza che non coincide con quello che sente dentro. Continua, infatti, regolarmente a picchiarlo, ma, prendendo atto che sta diventando un ometto, e prevedendo un futuro da criminale, spesso, dopo averlo picchiato, scoppia a piangere, gli chiede perdono e lo implora di cambiare per non costringerlo ad essere così cattivo. G. finisce con il piangere egli stesso, ma, nel suo intimo, disprezza il padre meno per la sua durezza che per la debolezza.

A 16 anni comincia a lavorare e a 19 anni è del tutto autonomo. L'etica del lavoro e del rispetto del padrone lo rendono un dipendente perfetto. Per il resto, G. vive come pare a lui. Nel quartiere è un "duro" rispettato da tutti, amico con gli amici e temibile per i nemici. Dotato di grande personalità, tratta le ragazze, che ne subiscono il fascino, come cose: ne lascia una e ne prende un'altra. Non sperimenta mai un innammoramento ed è "allergico" ai legami. Tra le tante ragazze, una gli sta dietro da quattro anni, subendo una serie di umiliazioni, che culminano nell'essere ridicolizzata quando gli chiede di sposarla. In seguito a ciò, la ragazza sviluppa una grave depressione, si chiude in casa e rifiuta il cibo. Suo padre chiede a G. spiegazioni del suo comportamento: per la prima volta, nel corso della vita, G dimentica il rispetto che si deve ai grandi e lo maltratta. Diventa inquieto, ansioso e comincia a temere che il suo modo di vivere "a ruota libera" possa procurargli, un giorno o l'altro, qualche guaio. Reagisce confermandosi nel diritto di seguire il suo "istinto" e di non tenere conto degli altri. Si dà al gioco con i videopokers e rapidamente diventa come un "drogato": lavora in pratica per pagarsi questo vizio. In un anno "brucia" trenta milioni. Si rende conto che sta sbagliando, ma non riesce a controllarsi. Dopo la messa al bando dei videopokers, continua a giocare in una bisca clandestina. Viene fermato dalla Polizia e imputato di reato.

Le tristi previsioni paterne sembrano avverarsi. Va in vacanza al mare, incontra una ragazza e viene folgorato dall'amore. La ragazza lo respinge e scompare. G. scopre di non potersela togliere dalla testa: il dolore che sperimenta, insopportabile, lo induce a pensare all'eroina come rimedio. Sa che è una strada senza ritorno. Non lo arresta, però, la paura ma un singolare delirio. G. si convince che la ragazza che lo ha ammaliato è stata inviata a lui da qualcuno per fargli comprendere qualcosa di misterioso. Egli. pensa ad una vendetta per il male che ha fatto. Comincia a leggere negli sguardi, nei gesti, negli oggetti una serie di confusi messaggi che lo riguardano. Infine, il delirio si struttura: G. avverte nella sua mente una presenza che, espropriandolo della libertà, lo guida verso un nuovo modo di essere. G. è costretto da questa presenza a ripercorrere criticamente la sua vita, e, laddove si renda conto di aver commesso delle colpe, a riparare, contattando le persone interessate, spiegando i motivi del suo comportamento, chiedendo scusa e invocando perdono. Ogni volta che G. sente di aver riparato le colpe e di aver recuperato piena libertà, il delirio insorge nuovamente. Dopo tre anni, la struttura del delirio si completa: è Dio stesso che si è impossessato della sua anima per riportarlo ad essere un bravo figlio. G. non oppone più resistenza: si riavvicina alla Chiesa, alla religione, rinuncia a vivere di testa sua e giunge ad accettare la possibilità che la sua vita possa rimanere vincolata per sempre al registro della riparazione. Si sente intimamente sereno e riappacificato con il mondo. Questa trasformazione, che restaura l'equilibrio preesistente lo scatenamento prepuberale della sua incontenibile ribellione al padre, ha prodotto però un effetto paradossale: G. ha perso ogni vitalità, ogni interesse, lavora e fatica e con scarso rendimento, rifugge dalle relazioni, e tende sempre più ad isolarsi in un suo mondo di ruminazioni e di letture a carattere religioso.

Qual è il senso di questo ripiegamento su di sé? G. riesce a confessarlo: dacchè si sente in pace con tutto il mondo, il "demonio" ha trovato un altro modo per attaccarlo, attivando nella sua mente fantasie orribili (e indicibili) di aggressione nei confronti del padre.

Occorre, ora, interrogarsi sul significato di questa legge sul piano teorico e su quello pratico. Sotto il profilo teorico, essa sancisce indubbiamente il primato del bisogno di integrazione sociale sul bisogno di opposizione/individuazione. Nella misura in cui questo, in una qualche fase evolutiva della personalità (ma anche successivamente), si attiva mettendo in crisi l'armonia relazionale preeesistente, viene significato in termini univocamente negativi. Ciò dipende dalla forma a priori superegoica, dal sistema interattivo e, soprattutto, dai valori superegoici propri di quel sistema e introiettati - che impongono, in nome dell'armonia, il sacrificio - più o meno rilevante - di una quota di bisogni. La riparazione strutturale, promossa dal Super-Lo, sancisce la necessità di questo sacrificio inducendo una regressionene che invalida la ribellione e cristallizza l'esperienza soggettiva nella sua totalità o per alcuni asptti nel modo di essere preesistente la ribellione stessa. La regressione prodotta dalla struttura psicopatologica è, dunque, un indice immediato e fedele della fase oppositiva che è andata incontro ad un processo di criminalizzazione.

Se ciò è vero, occorre ammettere che una matrice strutturale conflittuale non può prodursi che in seguito all'attivarsi del bisogno di opposizione, che, come è noto, si manifesta solo a partire dai 18 mesi, quando cioè l'io raggiunge un minimo di integrazione. Retrodatare, per esempio al primo anno di vita, la genesi della matrice strutturale psicopatologica è un arbitrio epistemologico.

Con ciò non intendo sostenere che quella matrice risalga sempre alla prima fase di opposizione: essa, infatti, può prodursi in una qualunque fase di opposizione, dai 18 mesi all'adolescenza. La legge di riparazione strutturale consente di risalire alla genesi della matrice conflittuale con estrema precisione, anche quando il disagio psicopatologico insorge in età adulta. L'esperienza che segue è, da questo punto di vista, esemplare.

A 39 anni, A., ogni qualvolta si trova esposta alla luce solare, accusa dei malesseri singolari: brividi, pelle d'oca e senso di svenimento. L'imprevedibilità di tali crisi, l'angoscia di morte che ad esse si associa, e l'inefficacia delle cure chiudono A. nel l'ambiente domestico e la precipitano in una disperazione sottesa da una rabbia furibonda. Da appena pochi mesi, A. ha conseguito un pensionamento anticipato dalla scuola. Nei suoi progetti, il pensionamento doveva segnare la fine di un ciclo di vita caratterizzato da ruoli e scelte nelle quali A. non si è mai riconosciuta. La presa di coscienza del suo modo di essere nell'alienazione risale all'età di 30 anni, allorché, per effetto di un'intima infelicità e di meditate letture sulla condizione delle donne, arricchite dal confronto con alcune amiche femministe, A. apre gli occhi. Si rende conto di essere stata allevata in un regime di costrizione totale della sua libertà, di aver scelto un corso di studi e un lavoro per imposizione del padre, che riteneva solo l'insegnamento compatibile con il ruolo di donna; di aver mantenuto rispetto alla madre una dipendenza infantile che la obbliga ad emulare il suo modello di donna completamente schiava dei suoi doveri, di aver sposato, senza amore, per bisogno di sentirsi protetta, un uomo di 10 anni maggiore con il quale, dopo la nascita di due figli, non ha più contatti sessuali, di intrattenere con i figli un rapporto di completa disponibilità che la obbliga ad una dedizione totale e le toglie ogni pur minima libertà.

Questa presa di coscienza non ha prodotto alcun cambiamento: intrappolata nei suoi ruoli, sotto il vigile controllo della madre che vive con lei, nel corso degli anni A. ha oggettivato sempre più lucidamente la sua alienazione senza trovar mai il coraggio di ribellarsi. E' giunta anche a capire che il cambiamento è invalidato da acuti sensi di colpa che incombono sulle sue fantasie oniriche.

A 38 anni l'esasperazione di vedersi vivere come un automa produce repentinamente una sorta di anestesia affettiva e morale. A. chiede il pensionamento, si libera dalla madre, che riesce a mettere fuori casa, affronta il marito rimproverandogli di voler mantenere un rapporto mistificato solo per gli occhi della gente, e intreccia una relazione con un altro uomo, con il quale scopre di non essere frigida. Sorprendentemente, non avverte alcun senso di colpa. Sono le crisi legate ai sintomi "fisici", infatti, che la invalidano e la costringono nelle mura domestiche. Esasperata da questa situazione, che frustra i suoi progetti e si configura senza scampo, A. pone in atto un tentativo di suicidio.

E' evidente che l'anestesia cosciente, affettiva e morale, che ha permesso ad A. di ribellarsi ad una condizione di vita pressochè totalmente alienata, non ha inattivato affatto i sensi di colpa. Ma quale equilibrio ha restaurato l'omeostasi riparativa? Occorre risalire all'adolescenza. Allora, in conseguenza dello sviluppo puberale, A. viene sottoposta a restrizioni della libertà maggiori che nel corso dell'infanzia. Essendo divenuta "signorina", non può più uscire di casa per giocare con i coetanei. Vive in una città di provincia con la nonna e con la madre, ossequiose di una tradizione rigidissima. A. esce da casa solo per andare a scuola accompagnata dalla madre. Il resto del tempo deve starsene chiusa a studiare o a far compagnia alla nonna e alla madre. Non può né deve accostarsi alle finestre, le cui persiane sono quasi sempre accostate, perché la gente pensa male di una signorina che dà prova di essere curiosa del mondo. A. sente il peso di questo dover vivere nell'ombra.

Quando poi la scuola si chiude, all'inizio dell'estate, nell'attesa delle vacanze al mare, il suo stato d'animo diventa disperato. La chiusura in casa diventa totale, tranne che per la frequentazione della chiesa e per la spesa. A. sente che per la strada i ragazzi e le ragazze si incontrano, giocano, si corteggiano. Nonostante la soggezione alla nonna e alla madre, non può impedirsi di produrre fantasie di evasione e di fuga: verso il sole e la gioia di vivere o verso la morte. Questo tumulto percorre la sua anima adolescenziale durante gli anni delle medie. Poi A. "matura": capisce che il suo destino è di condividere l'esperienza della nonna e della madre, tremendamente rassegnate al loro ruolo di donne e, soprattutto, che essa non deve far nulla che possa farle soffrire. L'identificazione con la madre è totale, il rapporto tra loro rimane fusionale, e A. dipenderà totalmente dall'approvazione di quella sino al'uetà di 30 anni. La riparazione strutturale, dunque, non fa altro che riprodurre l'ibernazione dei suoi desideri adolescenziali di venire alla luce.

Le due ultime esperienze consentono di ricavare dalla legge di riparazione strutturale una legge dinamica ancora più importante, che si potrebbe definire di regressione strutturale. Come si è visto, la matrice conflittuale rimane latente sino a che il soggetto si adatta a vivere nel modo prescritto dai valori superegoici. G. crede di vivere come gli pare: in realtà vive nel rispetto sacro dei superiori - il datore di lavoro, i "padri" - e adotta, in tutte le altre relazioni, la legge del più forte, che è propria dell'ideologia paterna. Tant'è che cade in crisi quando osa maltrattare un uomo anziano. La matrice conflittuale si traduce in esperienza psicopatologica, e cioè si traduce in una sintomatologia quando si attiva o si riattiva una ribellione nei confronti dei valori superegoici e dell'economia di vita (compresi i livelli interattivi) che essi prescrivono Ciò può avvenire dopo periodi di latenza i più vari rispetto al prodursi della matrice conflittuale.

Invariabilmente, l'esperienza psicopatologica restaura l'equilibrio preesistente l'avvento del conflitto e dunque riproduce, attraverso i vissuti, i sintomi e i comportamenti, l'omeostasi della struttura in cui è esitato quel conflitto.

A partire da ciò si danno tre possibilità evolutive. Il conflitto può estinguersi o, meglio, ridurre la sua penetranza sino a divenire latente se il soggetto si normalizza di nuovo, e cioè torna a vivere nellu alienazione. Esso può rimanere attivo e cronicizzarsi, comportando come conseguenza un prezzo da pagare, in termini di riparazione/punizione, più elevato rispetto alla fase di latenza, e cioè un disagio psichico stabile o modicamente fluttuante. Infine, il conflitto può intensificarsi, di continuo o fasicamente, per la pressione incoercibile del bisogno di opposizione/individuazione che rimane però vincolato ad una significazione superegoica negativa. In tal caso, la dinamica strutturale dà luogo a regressioni riparative/punitive sempre più gravi.

L'importanza delle leggi che ho illustrato sotto il profilo teorico è evidente. Il nesso tra precocità dei conflitti, fenomenologia clinica e decorso dell'esperienza psicopatologica deve, alla luce di quelle leggi, essere formulato in termini nuovi rispetto alla tradizione psicopatologca. La fenomenologia clinica, al suo esordio, è un indice di precisione pressochè assoluata della fase evolutiva in cui la matrice conflittuale si è prodotta. Ma il decorso dell'esperienza psicopatologica dipende meno da questa fase che non dalla dinamica strutturale, dall'attrezzatura culturale di cui il soggetto dispone, dai ruoli sociali maturati nel periodo di latenza, e dai sistemi interattivi che rinforzano positivamente quei ruoli e, di conseguenza, l'alienazione.

Sotto il profilo pratica, l'interesse della valutazione della dinamica strutturale è elevato. Sinteticamente, si può dire che da una struttura psicopatologica si esce per la stessa via per la quale ci si entra, e cioè affrancando la quota di bisogni intrappolata nella struttura psicopatologica dalla significazione negativa superegoica, dando ad essa una nuova significazione e, infine, utilizzandola per promuovere l'individuazione e cioè un modo di essere ispirato alla realizzazione di valori assimilati e fedele ad essi.

Come si vedrà, si tratta di un tragitto tutt'altro che lineare, che comporta, per effetto dell'attività superegoica, non solo uno stato d'animo, incessante o ricorrente, di dubbio sulla possibilità di stare commettendo degli errori irreversibili, ma soprattutto una coazione a ripetere che ripropone l'economia riparativa e/o punitiva come unica difesa dalla minaccia dell'esclusione sociale. Il punto di vista dinamico è, dunque, importante per porre il soggetto, ogniqualvolta se ne ripropone l'occasione, di fronte alla necessità di scegliere tra 1' accettare consapevolmente quell'economia o lottare contro di essa.

Nell'ottica dialettica, come non è lecito proporre ai soggetti degli obiettivi astratti di liberazione dalle trappole strutturali, così non è necessario sollecitarli ad accettare i limiti segnati da quelle trappole. Normalizzarsi o individuarsi ricade totalmente nell'ambito della responsabilità soggettiva La terapia dialettica favorisce questa assunzione di responsabilità aumentando, attraverso la presa di coscienza, il grado di libertà del soggetto, senza alcuna pretesa di determinarne l'esercizio.


7. L'oggettivazione dell'immagine interna

Una matrice conflittuale psicopatologica si genera, dunque, quando l'ondata destabilizzante del bisogno di opposizione/individuazione non può produrre i suoi effetti evolutivi in conseguenza di un processo di significazione negativa che stigmatizza quel bisogno in termini di attacco e tradimento del legame di fedeltà con il gruppo di appartenenza e dei valori superegoici da esso veicolati e rappresentati. Il processo di significazione negativa si realizza con modalità diverse a seconda della fase oppositiva incriminata, del livello di integrazione - emozionale e culturale - della personalità, del sistema interattivo di cui il soggetto fa parte e dei valori in gioco. E ovvio, per esempio, che una fantasia di fuga dall'ambiente familiare sortisca effetti diversi a seconda che si attivi a cinque anni (circostanza rara ma possibile e, talora, memorizzata), nel corso dell'adolescenza o in età adulta. L'angoscia di morte che ad essa segue nel primo caso è realistica, facendo riferimento allo scarto tra fantasia di fuga e sopravvivenza, nel secondo, pur potendo riconoscere delle valenze realistiche, fa capo il più spesso al senso di colpa sul registro dell'ingratitudine nel terzo è pressochè sempre associata alla paura di un giudizio sociale negativo. E anche evidente che nel primo caso, l'angoscia è viscerale, corrispondendo essa all'attivarsi della forma a priori superegoica, mentre negli altri le componenti viscerali sono sovrastrutturate da sistemi di valore culturali ben identificabili.

Il processo di significazione negativa, ponendo fuori gioco una quota di bisogni di opposizione/individuazione determina una scissione dell'io destinata ad amplificarsi ogniqualvolta quella quota di bisogni preme per integrarsi nella struttura della personalità.

Il definirsi di una matrice conflittuale psicopatologica, però, eccezion fatta per le esperienze infantili, nelle quali la componente interattiva è assolutamente prevalente, non coincide con l'affiorare fenomenologico di un'esperienza di disagio psichico. Il periodo di latenza più o meno lungo, corrisponde ai tentativi di organizzare un equilibrio interiore e un'economia di vita fondati sulla scissione che mirano alla soluzione del conflitto attraverso l'eliminazione di una delle polarità. allorché, per motivi di economia intrinseca o estrinseca, tali tentativi falliscono, la matrice conflittuale affiora sotto forma di vissuti, sintomi, comportamenti. Attraverso questi, è sempre possibile oggettivare un'immagine interna negativa che l'omeostasi strutturale psicopatologica, sia essa riparativao punitiva, tende a mantenere sotto controllo. In linea generale, a seconda che il bisogno di opposizione/individuazione sia stato significato in termini tali da indurre la rimozione o la repressione, l'immagine interna si definisce rispettivamente sul registro della "debolezza" o della "cattiveria". In altri termini, la rimozione disarma il soggetto mantenendolo in una condizione amorfa e indifferenziata la repressione, viceversa, funziona come una diga dietro la quale, più o meno consapevolmente, il soggetto avverte la pressione di pulsioni caotiche, amorali e asociali. E' ovvio che queste due condizioni a livello dinamico si implicano vicendevolmente: la debolezza serve a riparare la cattiveria, e questa ad arginare la minaccia di annullamento dell'identità che si associa alla debolezza.

L'oggettivazione dell'immagine interna mira, dunque, a porre in Iuce la scissione dell'io come problema da risolvere. Si tratta di un momento terapeutico essenziale nell'ottica dialettica, la cui realizzazione è resa difficoltosa dalla varietà dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti attraverso cui si esprime la scissione dell'io e degli ideali superegoici che alimentano tale scissione. Dal punto di vista dialettico, diversamente da quanto teorizzato dalla psicoanalisi tradizionale, l'oggettivazione dell'immagine interna è preliminare rispetto all'analisi delle resistenze, che vanno ricondotte ai codici di significazione e agli ideali superegoici adottati dal soggetto. Talora la scissione dell'io è evidente già a livello di sintomi, benché questa evidenza sfugga alla coscienza.

A diciannove anni, cominciando a frequentare l'università, M. comincia a sperimentare la paura di poter arrecare del male agli altri toccandoli o anche solo sfiorandoli. Rapidamente, questa paura si estende alle situazioni sociali più varie, assumendo una configurazione partico-lare; essa, infatti, si attiva ogniqualvolta M. incontra per la strada degli esseri vulnerabili - donne, vecchi e bambini. Egli deve arrestarsi in preda al panico e rievocare minuziosamente i suoi gesti per essere certo di non aver indotto, direttamente o indirettamente, dei danni. Talora, il dubbio e l'angoscia ad esso associata lo attanagliano per giorni e giorni: come, per esempio, dopo una frenata con la macchina che lo induce a pensare di aver provocato in una donna incinta uno shock che avrebbe procurato un aborto. Per scongiurare la fobia di essere distruttivo, M. assume un atteggiamento interattivo ipercontrollato, misura i gesti e le parole, e, continuando a sentirsi in colpa, avverte l'esigenza di espiare la distruttività. A tal fine, egli si inserisce nella comunità giovanile della parrocchia, dedita ad attività di volontariato, e pratica in maniera rigorosa e radicale la morale evangelica della disponibilità e dell'annullamento di sé a favore degli altri,. i deboli e i bisognosi.

Dopo due anni, affiora però un'altra fobia. M. comincia a temere che, allentandosi il controllo della coscienza, una volontà estranea possa impossessarsi della sua e indurlo inconsapevolmente a farsi prete. Da questa fobia riesce a difendersi solo evocando dentro di sé fantasie blasfeme, immorali e ciniche, che, facendolo sentire un criminale, lo rassicurano in rapporto alla sua capacità di opporsi all'influenzamento divino. La struttura fobica lascia così trasparire compiutamente la scissione dell'io: all'io buono, schiavo della virtù della disponibilità totale nei confronti degli altri, e dunque influenzabile e alienabile, si contrappone l'io cattivo, la cui insensibilità è attestata da un totale cinismo nei confronti degli altri, dei valori morali e delle norme civili. L'esperienza di M. oscilla di continuo tra queste polarità scisse: per difendersi dall'una, M. deve spostarsi verso l'altra, ma, avvicinandosi a questa, la soluzione si configura come un rimedio peggiore del male. La perpetua oscillazione tra i due nuclei fobici, mantenendo una tensione angosciosa costante, fa sì che M. non vede il rapporto dinamico tra i due modi di essere antitetici. Ma la trasparenza della scissione è tale che l'oggettivazione, una volta proposta, viene recepita agevolmente.

Più difficile è l'oggettivazione dell'immagine interna di S., al cui delirio persecutorio si è già accennato. I persecutori si dividono in due gruppi. Il primo è costituito da agenti del servizio segreto che, avendo le prove della sua adesione alle brigate rosse - prove che si riducono all'aver egli parlato una volta con un giovane succesivamente processato come brigatista - intendono arrestarlo e prendono tempo nella speranza che egli possa fornire delle indicazioni sulla colonna cui apparterrebbe. Il secondo gruppo è costituito da zingari che vogliono eliminarlo ritenendolo responsabile, sia pure indiretto, della morte di una nomade quattordicenne. Pur considerando infondati entrambi i motivi, S. attende con rassegnazione la punizione. Il delirio persecutorio si intreccia infatti con un delirio di colpa, in conseguenza del quale S. si rimprovera di aver causato danni a infinite persone. La sua distruttività gli è dunque dolorosamente nota. Ma la storia dl disagio di S. non è iniziata sul registro del delirio, bensì della vergogna. Venuto a Roma dal paese natale per portare a termine gli studi superiori e separarsi da una famiglia perennemente conflittuale, S. si è bloccato per via di un incontrollabile rossore del volto che si è associato alla paura di poter essere giudicato un omosessuale. Nella '"cultura" di S., ovviamente, l'omosessualità non è solo una pratica sessuale bensì la spia di una personalità debole, effeminata, senza controllo sulle emozioni. Con ciò, è possibile porre S. in grado di prendere coscienza della scissione dell'immagine interna: indipendentemente dalla persecuzione, è egli stesso, infatti, che si vede alternativamente come un pericolo sociale e come una '"femminuccia" incapace di sostenere il rapporto faccia a faccia con gli altri.

Paradossalmente l'oggettivazione dell'immagine interna pone le maggiori difficoltà nei casi in cui la scissione dell'io, essendo agita, non comporta apparentemente alcun simbolismo: nelle esperienze caratterizzate dall'alternarsi di due personalità, e nelle psicosi maniaco-depressive bipolari.

Dacchè si è sposata per sottrarsi all'oppressione della famiglia originaria, V. intrattiene con il marito un singolare rapporto. Per lunghi periodi, assediata da sintomi psicosomatici che evocano la paura di morire, essa gli si aggrappa, regredendo in una patetica dipendenza. In tali periodi, V. sente di amare profondamente il marito e di nutrire nei suoi confronti una stima profonda. allorché le angosce di morte si allentano, e V. recupera una qualche autonomia, lo disprezza e assume nei suoi confronti atteggiamenti aggressivi e provocatori. Dopo alcuni anni di matrimonio, la scissione dell'io diventa ancor più manifesta. Nei periodi di benessere, V. prende a tradire il marito. Ma lo fa nel modo più crudele: scegliendo, di solito, come partner un comune amico, e parlando di queste esperienze con le amiche. Si rende conto che, al di là del tradimento, ciò che le arreca una sadica soddisfazione è di esporre il marito al ridicolo. Ciò nondimeno, non si sente in colpa e non prende mai in considerazione la possibilità di separarsi. Essa sa che, periodicamente, è destinata a imboccare il tunnel delle angosce di morte, e che in tali circostanze solo il marito rappresenta un sicuro punto di riferimento. Non si tratta di un legame meramente strumentale: quando sta male, e il marito la assiste senza mai manifestare impazienza, V. sente di volergli veramente bene. Sorprendentemente, essa non vive drammaticamente questa ambivalenza, poiché ritiene che i diversi periodi che attraversa rappresentano espressione di bisogni diversi. Si decide, infatti, a chiedere un aiuto psicoterapeutico per i sintomi psicosomatici, che diventano sempre più dolorosi e invalidanti. Nonostante una vivacità intellettuale fuori del comune non è facile farle prendere coscienza che la sua esperienza è determinata dinamicamente da un io debole, dipendente e vulnerabile, e da un io pseudoadulto, la cui autonomia postula la sfida ai valori tradizionali e una pressochè completa anestesia morale.

A venti anni, L., che ha già alle spalle una carriera di bambino difficile e di adolescente aggressivo, va incontro ad un primo episodio di eccitamento maniacale, che lo mette in rotta con i genitori e gli abitanti della cittadina natale. Lentamente, L. comincia a sentirsi perseguitato, ma, ritenendosi invulnerabile, non ha paura. Per dimostrare la sua potenza, infine, si lancia dalla finestra di casa per volare. Sopravvive, ma, dopo l'uscita dall'ospedale, regredisce in una condizione di vergogna sociale che lo blocca in casa per alcuni mesi e lo induce ad assumere comportamenti estremamente infantili. Ma, più che come un bambino, L. si vede come un nano: un essere inferiore e inadeguato che non ha più alcuna speranza di crescere. Nel giro di cinque anni, gli episodi di eccitamento e di depressione inibita si succedono di continuo, ma ogni fase è vissuta nel flusso di emozioni ad essa proprie, senza alcuna capacità di oggettivazione. Occorre non meno di un anno perché L. colga la scissione dell'io che sottende la sua esperienza, e in particolare la necessità di mascherare con l'onnipotenza un vissuto profondo di ridicolo nanismo.

In molte esperienze, però, la scissione dell'io non è immediatamente evidente a livello di vissuti, di sintomi e di comportamenti. L'oggettivazione dell'immagine interna postula, pertanto, da parte del terapeuta, una maggiore creatività. Ciò è vero sia quando la "cattiveria" è totalmente rimossa, sia quando essa è drammaticamente denunciata dal soggetto, che vede in essa la sua unica vera natura.

R. è continuamente impegnata a contenere una paura pressochè perpetua di impazzire e/o di morire. Il suo rapporto con il mondo interiore è un rapporto fobico: quando è sola, la mente di R. è attraversata da fantasie ossessive di ogni genere che si traducono repentinamente in sintomi funzionali (mal di testa, soffocamento, formicolio agli arti, ecc.). Vive in una pressochè totale dipendenza dalla madre e dal fidanzato, le uniche persone in grado di rassicurarla. La sua carriera di figlia, studentessa e ragazza è stata così costantemente caratterizzata da un comportamento ottimale e adattivo, vissuto con naturalezza, da escludere, ai suoi occhi, ogni ipotesi di coercizione.

La dinamica strutturale è chiara: R. è precipitata repentinamente in crisi la prima volta che, per liberarsi da una vaga oppressione, ha tentato di concedersi una vacanza al mare da sola. Rimane il fatto però che, a livello cosciente, non riesce a produrre alcun contenuto che faccia riferimento ad una rabbia anarchica che le fobie indicano come estremamente intensa. L'oggettivazione dell'immagine interna è favorita da un episodio apparentemente banale. Una sera, mentre scende dalla macchina con il fidanzato, davanti a casa sua, R. è sfiorata da un gatto, che le lacera la calza e le procura un graffio superficiale. Nonostante il buio, R. riconosce il suo gatto. Ma trascorre una notte particolarmente inquieta, e, il mattino seguente, si sveglia convinta di aver contratto la rabbia. Porta il gatto dal veterinario che la rassicura, e poi si reca in ospedale ove riesce a farsi somministrare il vaccino. Ciononostante, nei giorni successivi, la paura si ingigantisce e chiude R. in una disperazione totale. Essa, nella fantasia, si vede condannata a morire negli spasmi, con i denti digrignati e la bava alla bocca. Affannosamente tempesta i medici di telefonate per essere rassicurata quanto al fatto che gli esseri umani affetti da rabbia non possono divenire pericolosi per gli altri. Si chiude poi nell'attesa della morte, vigilando il gatto per cogliere in esso i segni della malattia. Ma il gatto ? una femmina castrata - continua a godere ottima salute, eccezion fatta per la consueta pigrizia sonnolenta. Dopo tre mesi di "psicosi ipocondriaca", R. è costretta ad oggettivare questa esperienza. Si rende conto dell'identificazione con la gatta, della castrazione culturale cui è stata sottoposta e che ha accettato supinamente, e della rabbia tremenda che ha covato vivendo per anni in un'apparente quiete domestica. La fantasia vivissima sul modo in cui sarebbe morta le hanno posto sotto gli occhi l'immagine interna del suo essere perversa e malvagia, nonostante le apparenze sempre conformi allo stereotipo di donna angelicata. L'oggettivazione è confermata dal terrore che R., studentessa di lettere, ha sempre provato nei confronti di testi letterari incentrati sul tema della diabolica doppiezza femminile. Uno di questi - Janet la storta, di Stevenson - l'ha sempre attratta, benché non sia mai riuscita a superare la paura di leggerlo.

Anche F., di cui si è già parlato, adotta una potente rimozione: come accade ad R., il suo rapporto con il mondo interno si riduce a registrare minacce di morte e di follia. La consapevolezza di aver provocato l'incidente esitato in un trauma cranico la induce a pensare di avere nella mente qualcosa che vorrebbe eliminare ad ogni costo. Ma questa intuizione rimane sterile, finchè non affiora un vissuto che la riempie di contenuto. Nonostante le cure ossessive che dedica all'aspetto esteriore, al trucco e all'abbigliamento, F. ha un rapporto fobico con la luce e lo specchio. Nella sua camera vige sempre la penombra e, nonostante l'amore per l'ordine e la pulizia, F. da tempo non deterge lo specchio, che di conseguenza è velato dalla polvere. Ha vietato, inoltre, alla madre di entrare nella sua camera per evitare che questa la pulisca. L'esigenza di offrire agli altri un'immagine sempre perfetta si associa dunque alla tendenza ad evitare di porsi di fronte a se stessa in piena luce. La penombra e l'opacità dello specchio implicano, dunque, un'immagine negativa che F. ha di sé ma che non può oggettivare. Sollecitata a ricordare il periodo in cui ha cominciato a sperimentare questo vissuto fobico, F. non ha difficoltà a risalire al periodo in cui il suo corpo è andato incontro alla trasformazione puberale.

Rispetto alle due precedenti, l'esperienza di M. è antitetica: essa ha sempre percepito se stessa in termini negativi. Da bambina era brutta per via di un magrezza quasi patologica dovuta ad un rifiuto pressochè costante del cibo, chiusa in uno stato d'animo cupo e refrattario alle comunicazioni, affetta da mali di ogni genere. Si sentiva inoltre cattiva in conseguenza di un'ostilità sorda nei confronti dell'ambiente familiare. Questa rabbia è cresciuta con lei, fino a configurarsi, nell'adolescenza, come una cieca volontà vendicativa contro tutto e contro tutti. La religione l'ha salvata dalla catastrofe, permettendole di oggettivare la presenza del Maligno dentro di sé. Questa oggettivazione ha indotto un cambiamento radicale nel suo modo di essere ma solo apparente. M. si trasforma in una ragazza giudiziosa, dedita allo studio, affettuosa nei confronti dei familiari, e sollecita nell'imboccare la via dell'autonomia lavorativa per essere di aiuto alla famiglia, che versa in condizioni economiche precarie. Al di sotto delle apparenze, il riferimento, vissuto coscientemente, ad una radicale negatività persiste. Per scongiurare l'esito terrificante di una repentina manifestazione di "follia criminale", M. si costringe a vivere su di un registro di totale disponibilità riparativa nei confronti degli altri e si sottopone ad una pratica religiosa che ha un evidente significato espiatorio. Il matrimonio, la nascita di due figli, la dedizione assoluta all'assolvimento dei doveri inerenti i suoi molteplici ruoli - di figlia, moglie, madre, casalinga e lavoratrice - non fanno altro che rimandare una resa dei conti che M. sente sempre come imminente. Cade in uno stato di panico allorché la resa dei conti si configura nei termini di una prova inconfutabile della sua "follia criminale": sotto forma di fantasia coatta di aggredire e fare a pezzi il suo secondo figlio. L'oggettivazione sdrammatizza questo vissuto ponendo in luce la scissione tra io distruttivo e io riparativo, sollecitando M. a prendere coscienza che la riparazione di colpa presunta è giunta di fatto a realizzare un'economia di vita del tutto innaturale, espiatoria e masochistica.

L'oggettivazione dell'immagine interna non ha, ovviamente, alcun potere immediatamente terapeutico in rapporto al disagio psichico. Essa pone in luce una scissione dell'io che è il problema da risolvere riorganizzando la visione di sé e la vita reale, e che il soggetto si affanna a risolvere alla luce di ideali superegoici che, costantemente, risultano essere un rimedio peggiore del male. Affinchè si avvii un cambiamento occorre affrontare due nodi importanti: la genesi dell'immagine interna e il sistema di valori superegoici che l'hanno prodotta e la alimentano.


8. La prospettiva microstorica

L'immagine interna si pone, a livello soggettivo, come una definizione realistica del proprio modo di essere o della propria natura. Il credito che, più o meno inconsapevolmente, il soggetto accorda ad essa, determina il suo modo di porsi nel mondo, che corrisponde ad una mascheratura, a una rivelazione o ad un ibrido intreccio dell'una e dell'altra. Quella definizione è null'altro che una teoria ricavata dall'interazione con l'ambiente, dalle vicissitudini dei bisogni, dall'attivarsi della forma superegoica e dall'evoluzione di sistemi di valore adialettici, il cui significato è ratificare una scissione dell'Io che, invece, va superata dialetticamente. Tale superamento postula che quella scissione, che si pone come ontologica, giunga ad essere storicizzata, e cioè compresa nella sua genesi e diversamente significata. Si tratta di un compito tutt'altro che facile, poiché comporta la ricostruzione del passato personale, familiare e sociale.

E' noto che, su questo problema, la psicoanalisi e la teoria dei sistemi si contrappongono radicalmente. Il valore determinante che la psicoanalisi assegna al passato esperienziale è inficiato dal riferimento alle distorsioni fantasmatiche: ciò che si ricostruisce non è un processo reale, bensì il modo in cui il soggetto ha significato la realtà alla luce dei fantasmi. Questa metodologia si espone alle critiche della teoria dei sistemi, che giudica arbitraria la ricostruzione del passato psicoanalitica, come una tra le tante possibili. Ma la stessa teoria, definendo indecidibile il passato, si riduce ad assegnare al piano sincronico dell'hic et nunc un significato euristico che esso, eccezion fatta per le esperienze psicopatologiche infantil io prepuberali, non può avere. L'hic et nunc infatti ricapitola per alcuni aspetti il passato, ma alla luce di un'immagine interna e di sistemi di significazione che, nell'intervallo diacronico, possono aver prodotto, e, di solito, hanno prodotto, una strutturazione soggettiva e interattiva che rivela il passato mascherandolo e il più spesso rovesciandolo nei suoi termini reali.

Io ritengo possibile il superamento di queste due ottiche riduzionistiche - il determinismo fantasmatico e il determinismo comunicativo - in virtù del ricorso alla teoria dei bisogni e ad una metodologia mutuata dalle nuove scienze storiche, il cui principio fondamentale è che il passato spiega il presente e il presente spiega il passato Ciò significa che il presente ricapitola il passato alla luce di sistemi di significazione superegoica che, costantemente, ne rovesciano i termini reali, e che, dunque, il passato può essere ricostruito tenendo conto di questo rovesciamento, riconducibile alla scissione dei bisogni e alla "criminalizzazione" del bisogno di opposizione/individuazione. Applicato a livello di vicende private, ricostruite in riferimento alla storia sociale che le attraversa e in esse si rifrange, tale metodo si può definire microstorico.

Con tale definizione, non si è detto gran che. Rimane il problema di come ricostruire il passato e di come individuare nessi genetici tra livelli esperienziali e livelli di significazione, condensati nella struttura psicopatologica. La ricostruzione del passato non può essere che testimoniale; essa si fonda sul racconto del soggetto (o dei soggetti coinvolti). Tale racconto offre sempre degli indizi fattuali, e cioè degli eventi, episodici o ricorrenti, di significato strutturale, atti cioè a determinare una scissione dei bisogni. Tali indizi, però, assumono il loro pieno significato strutturale solo se, per mezzo di essi, si giunge a definire lèalienazione dell'ambiente con cui il soggetto ha interagito e i modi, riconducibili all'attrezzatura emotiva e culturale, con cui il soggetto ha significato il conflitto tra i suoi bisogni e le risposte ambientali alienate.

Il metodo microstorico implica dunque il completare ciò che il soggetto sa - gli eventi memorizzati - con ciò che non sa: la dimensione alienata delle persone e delle istituzioni con cui ha interagito, il corredo di bisogni della natura umana, e l'attività del sistema di significazione superegoico.

Il carattere arbitrario delle interpretazioni strutturali e dialettiche, che mirano a ricostruire la genesi della scissione dei bisogni, è limitato dal fatto che il conflitto strutturale, che comporta un rovesciamento dei termini reali per cui esso si è determinato, si ripropone ricorrentemente nella storia del soggetto sino al presente. Una volta definito, esso può dunque essere reperito e verificato in molteplici momenti nodali dell'esperienza soggettiva, e può essere infine verificato nel presente.

Cercherò ora di documentare la validità del metodo microstorico, riprendendo due esperienze cui si è già fatto cenno.

Non è inopportuno, preliminarmente, far presente che la ricchezza del metodo non può che riuscire mortificata dalle esigenze di sintesi cui, inesorabilmente, occorre attenersi.

La fobia di contatto di M., come si è visto, insorge in concomitanza dell'avvio dell'esperienza universitaria. A tale esperienza, che lo pone per la prima volta in una condizione di socialità mista (avendo egli frequentato la scuola media in istituti maschili), egli ha associato, dopo il conseguimento del diploma superiore, delle aspettative affettive molto intense, che vengono vanificate dall'affiorare delle fobie.La conseguenza immediata dei vissuti fobici è la preclusione della socialità, e la costrizione ad investire le sue energie nell'unica attività da cui egli può ricavare delle conferme, lo studio.

Tale costrizione non corrisponde, coscientemente, ad alcuna motivazione personale. Pur avendo conseguito risultati sempre brillanti, M. non ha mai nutrito alcuna passione per lo studio. Egli si è impegnato come una "macchina" unicamente per sdebitarsi nei confronti dei genitori e per discolparsi dai privilegi sociali acquisiti, senza merito, in virtù dell'appartenenza ad una famiglia abbiente. Il vissuto di sdebitamento è precoce, coincidendo con l'avvio della scolarizzazione, ma è legato ad una circostanza traumatica. Pochi giorni dopo l'inizio delle elementari, il maestro, di un'implacabile severità, convoca la madre di M. e le fa presente che il figlio è distratto, troppo vivace e poco disciplinato. Per la madre, che ha abbandonato il lavoro per dedicarsi all'allevamento dei figli, i rilievi del maestro rappresentano un'onta. Essa redarguisce aspramente M., richiamandolo al dovere di comportarsi educatamente e di primeggiare nello studio per ripagarla dei sacrifici che lei e il marito fanno per lui. Sottolinea soprattutto i suoi sacrifici. M. viene così a sapere che la madre, dopo la sua nascita, ha abbandonato un lavoro cui teneva molto contro la sua volontà, su sollecitazione del marito e dei suoceri. Oscuramente, intuisce le sue responsabilità e le ragioni dello stato d'animo materno, ch'egli ha da sempre registrato come sofferente e, talora, disperato. Non di rado, in effetti, la madre di M. si è abbandonata, in presenza del figlio, a lunghi pianti convulsi.

Il rimprovero materno dà luogo ad un repentino insight. M. riordina il suo comportamento e si irrigidisce, a scuola, in un habitus di disciplina perfetta. Questo eccesso, che lo induce a porsi come un manichino immobile e silenzioso, lo espone agli attacchi ridicolizzanti dei compagni più vivaci. Ma, se la condotta risulta ottimale, il rendimento scolastico nel primo trimestre è scarsissimo. M. studia molto ma non sembra ritenere alcunchè Giudicandolo lento e poco dotato, la madre si sente in dovere di aiutarlo. In pratica, M. comincia a vivere inchiodato tutti i pomeriggi, sabato e domenica compresi, al tavolino, con la madre accanto perpetuamente esasperata dalla sua lentezza nell'apprendere.

A posteriori, riesce evidente il significato inconsciamente opposizionistico di questa lentezza. Ma, all'epoca, M. si sente solo disperato: odia lo studio, che è una tortura perenne e gli impedisce di dedicarsi al gioco e alle compagnie (ovviamente, non ha tempo di uscire di casa e di ricevere amici), odia se stesso rendendosi conto delle sue scarse qualità, odia (presumibilmente) anche la madre che lo tortura. Ma quest'ultimo sentimento è del tutto rimosso dal sentirsi sempre più in debito nei suoi confronti ed in colpa per il logorio cui la sottopone. Sono questi vissuti, infine, a prevalere: nonchè opporsi, M. fa propria la volontà materna. Comincia a studiare da solo e, impegnandosi allo stremo (chè l'opposizionismo persiste), riesce a conseguire un primato che manterrà fino alla fine degli studi. Lo fa per puro senso del dovere, senza alcuna partecipazione emozionale alle materie scolastiche. Ma, via via che cresce, il senso del dovere assume significati più ampi del debito di gratitudine ne iconfronti dei suoi. E' la famiglia stessa a suggerirgli infatti che egli deve essere degno dei privilegi di nascita che la Provvidenza gli ha accordato, concedendogli di partecipare ad una condizione di benessere. Tali privilegi, di cui tanti infelici sulla faccia della terra sono sprovvisti, vanno pagati. Tristi privilegi, il cui peso sulla storia familiare è già stato rilevante.

M. nasce infatti da un connubio di ceti sociali e di mentalità diverse. Il padre proviene da una famiglia borghese di antiche e rigorose tradizioni cattoliche, che gode di un'agiatezza ricavata da un'attività edilizia cooperativistica. Nonostante l'agiatezza, la famiglia ha uno stile di vita semplice, morigerato e alieno da ogni cedimento consumistico. La madre, viceversa, è di umili origini, e ha cominciato a lavorare da ragazza. benché cattolica, ama la vita mondana e signorile e, soprattutto, nutre una profonda vergogna delle proprie origini. Accolta con ritrosia dalla famiglia del marito, si rende ben presto conto che l'imparentamento che eleva la sua condizione sociale, comporta un debito da pagare sotto forma di accettazione di uno stile di vita tendenzialmente ascetico. Decide, pertanto, pur non avendone bisogno, di continuare a lavorare, poiché il lavoro di segretaria in uno studio professionale le consente di sentirsi giustificata nella cura dell'immagine.

Il disaccordo del marito e della suocera a riguardo si traduce in un ricatto "morale" quando essa rimane incinta di M. (il primo di due figli). Dopo la nascita di questi, contro la sua volontà, cessa l'attività lavorativa e, trovandosi chiusa nelle pareti domestiche e sotto il controllo dei suoceri, nevrotizza, cominciando ad essere angosciata dal pensiero ossessivo che il marito, di dieci anni maggiore di lei, possa morirre. Senza poter comprendere le ragioni delle sofferenze materne, M. è dunque cooptato in una reazione a catena di cedimenti di volontà. Il suo assoggettamento, persistendo l'opposizionismo, postula però una feroce autodisciplina. All'avvio della scuola media, con il sopravvenire della pubertà, M. comincia a temere di poter crollare da un giorno all'altro. Argina l'angoscia con un comportamento bulimico, ingrassa a dismisura e sperimenta come persecutoria l'unica sfera di socializzazione extrafamiliare, la scuola. Egli è il primo della classe per antonomasia: sempre preparato, disciplinato e lecchino nei confronti dei docenti; chiuso, isolato, introverso; inabile alla ginnastica e al calcio. Viene quasi regolarmente dileggiato dai compagni e appare incapace di ogni reazione. Nutre un odio cieco nei loro confronti, ma non può non disprezzare la sua "mollezza", l'inettitudine fisica e la vigliacca paura che lo attanaglia.

Soddisfatti dei suoi successi scolastici, che sbandierano con orgoglio di fronte alle famiglie degli amici, i genitori non recepiscono il suo dramma. M. comincia ad avere serie difficoltà di addormentamento, degli incubi notturni e fantasie coscienti di riscatto e di vendetta. Egli percepisce penosamente lo scarto tra come appare e il disordine tumultuoso che alberga nel suo intimo. I codici religiosi trasmessi dalla famiglia paterna lo orientano a leggere questo disordine in termini di tentazioni demoniache. Si sottopone, pertanto, ad un'autodisciplina ascetica, fondata sulla preghiera, sulla meditazione e su rituali di purificazione, sempre più rigorosa. Giunge ad identificare il suo ideale dell'Io nella figura di Gesù perseguitato e martirizzato, e pensa che il dovere del buon cristiano nel mondo è di perdonare e di soffrire, espiando le colpe degli altri. L'esplosione di fantasie sessuali sfrenate non serve ad altro che a rafforzare quell'ideale e le pratiche ascetiche.

Quando accede all'università, tutti i disordini interiori sembrano risolti in virtù di una strutturazione ossessiva della personalità rigidissima. Egli è pronto a pagare con la laurea il suo debito nei confronti della famiglia, e con una pratica missionaria del ruolo medico il debito nei confronti dell'umanità.

L'ambivalenza nei confronti degli esseri deboli e inermi sottende anche l'esperienza di O. L'anno precedente l'affiorare delle fantasie coatte distruttive nei confronti del figlio piccolo, essa vive un singolare delirio monotematico incentrato sulla convinzione di essere incinta, nonostante il regolare susseguirsi dei cicli mestruali. Il delirio la logora, poiché come è certa di non poter abortire in nome dei suoi principi religiosi, così sente che l'economia della sua vita non comporta alcuna possibilità farsi carico di altri pesi. E' evidente che le fantasie distruttive rappresentano una protesta viscerale nei confronti di una condanna riparativa al sacrificio totale di sé a favore degli altri. Questa condanna affonda le sue radici in una storia piuttosto complessa.

A differenza di M., nonchè privilegiata, O. nasce sotto una cattiva stella: sesta ed ultima figlia di una famiglia indigente, da genitori in età avanzata e perennemente affetti da disturbi psicosomatici. Non è stata desiderata - la madre, quando è grande, le confessa di aver pregato perché sopravvenisse un aborto spontaneo -, ma accettata in nome di principi religiosi. Come non bastasse, O. è brutta, cagionevole di salute e lamentosa. Sta sempre male, piange di continuo, rifiuta il cibo, è chiusa, cupa, introversa, e, via via che cresce, diventa anche dispettosa, capricciosa e insopportabile. Una croce, insomma, per una famiglia che ne ha già troppe. Si vive con il solo stipendio del padre operaio, che, periodicamente, si alletta. Si tratta, di fatto, di episodi neurastenici, mascherati da disturbi psicosomatici. O. vive l'infanzia nell'incubo che i suoi possano venir meno da un giorno all'altro. Comprende di essere di peso, di dar solo problemi, e legge, nella stanchezza dei suoi, l'effetto del suo essere nata "male". Giunge così ad odiarsi e a vedersi inutile e priva di ogni qualità. La scolarizzazione elementare per alcuni ani conferma questa immagine: O. rende poco, rimane piuttosto isolata, e comincia a rendersi conto del peso delle differenze sociali. Verso gli 8-9 anni, l'orizzonte vissuto si complica. O. prende a interrogarsi sulla sua condizione, sulla condizione familiare e sulle differenze sociali. La colpa di essere nata si converte nella responsabilità dei suoi, estesa al fatto di aver messo al mondo sei figli, senza poter offrire loro molto. Quanto ai fratelli e alle sorelle, due dei quali sono già sposati, essa coglie in loro, che hanno tutti abbandonato precocemente la scuola, la stessa rassegnata accettazione passiva dell'esistenza vigente in famiglia. Verso gli 11-12 anni, riposando in un letto accanto a quello dei genitori, decifra le loro schermaglie notturne cui assiste da anni. Il padre rivendica, con modi spesso bruschi, l'assolvimento del dovere coniugale da parte della moglie, che tenta sempre di schermirsi a ragione della sua stanchezza. L'esperienza induce in lei una rabbia incontenibile nei confronti del padre, che abusa della moglie, e di questa, che, pur recalcitrando, alla fine cede.

Nel giro di qualche anno, tutti i dati raccolti da O. si unificano in una visione del mondo che associa all'incontinenza la prolificità e la miseria, e a questa la pigrizia, la passività e la rassegnazione. Il disprezzo che si associa a questa visione del mondo consegue l'effetto di attivare in O. il progetto di sottrarsi alle sue origini, di differenziarsi e di ascendere socialmente. Scopre così di avere insospettate capacità di studio, e va avanti con enormi sacrifici, utilizzando le borse che riesce a conquistare. Intorno ai 16 anni avviene un radicale cambiamento. O. incontra emozionalmente il cristianesimo e prende a praticarlo con fervore. Le sue rabbie, profondamente colpevolizzate si dissolvono, e la sua visione del mondo si rovescia. Nonchè disprezzati, i deboli e gli oppressi, a partire dai suoi, vanno amati, curati, protetti. O. intuisce che essi sono vittime del caso e di ingiustizie sociali: ma questa intuizione non giunge mai a livello di analisi sociale. Per ciò, O. si impone un codice di carità, che è in effetti un codice riparativo, e diventa rapidamente una figlia e una sorella impareggiabile. Il progetto di riscatto sociale non viene meno, ma assume un significato radicalmente altruistico: O. si impone di migliorare il suo status per sopperire le difficoltà della famiglia. Consegue un diploma universitario e comincia a lavorare in ambito assistenziale. Incontra un uomo "quadrato", che le assicura un avvenire: lo sposa senza quasi tener conto della mentalità conservatrice di quegli, e si trasferisce a Roma (O. è di origini napoletane). Divide la sua vita tra la casa, il lavoro, la chiesa e frequenti viaggi dai suoi, ai cui bisogni sacrifica parte dei suoi stipendi.

La nascita di due figli a distanza di pochi anni ne esalta le virtù. O. sembra pervasa dalla necessità di esprimere la sua disponibilità caritatevole in tutte le direzioni ed ignora alcune inquietudine che cominciano ad attraversare la sua anima. Di fatto, il marito, un maschilista totalmente accecato dall'ambizione di far carriera, la tratta come una serva, imponendole, tra l'altro, continue e non gradite prestazioni sessuali.

I parenti, che la considerano "sistemata", avanzano richieste economiche sempre maggiori, e usano la sua casa di frequente per i più vari motivi. O. avverte ogni tanto, nel suo intimo, degli oscuri moti di ribellione. Ma, convinta com'è che la virtù della disponibilità per essere autenticamente cristiana, deve essere illimitata, e comportare il sacrificio totale di sé, li reprime. Essi rievocano il ricordo di una bambina cattiva e agitata dal demonio. Ma quei moti si traducono lentamente in fantasie ossessive di mandare a scatafascio il bell'ordine borghese che vige nella sua casa. O. comincia vagamente a temere che qualcosa nella sua mente non funzioni. Reagisce con la preghiera e con rituali incessanti di purificazione. Quando suo figlio ha un anno, non praticando altra tecnica contraccettiva che il coitus interrotto, si pone il problema del da fare in caso di una nuova gravidanza. Gravata da impegni che non la lasciano respirare, il suo cuore protesta l'indisponibilità. Ma ciò non significa, forse, che, nonostante le apparenze, è tornata ad essere cattiva come un tempo? Oserebbe, dunque, rivolgere la sua egoistica malvagità su di un'anima innocente? Per un anno, il delirio di essere incinta segna la vita di O, che, pervasa dai sensi di colpa, si arrende infine ad accettare l'ineluttabile. Quando la difficoltà sembra rimossa, nel nome di una disponibilità riparativa senza limiti e O. torna a sentirsi in pace con la sua coscienza, la "follia criminale" esplode nella sua inesorabile drammaticità.

Le due microstorie richiedono un breve commento. Comune ad entrambe è un'esperienza infantile vissuta, sia pure per diversi motivi, come una persecuzione da parte dei grandi. Comune, di conseguenza, è il definirsi del bisogno di opposizione/individuazione in termini di rabbia per il trattamento subito e di fantasie di fuga dalla situazione. I diversi contesti familiari spiegano il diverso articolarsi di queste fantasie: in M., costretto ad essere un bambino perfetto e a realizzare i valori dell'onesta borghesia cristiana, l'individuazione si pone nei termini di una regressione sociale, che esita nella figura del "criminale"; in O., costretta a vivere nella precarietà, nella miseria e nello squallore della promiscuità, l'individuazione comporta, viceversa, l'ascesa nella scala sociale.

In entrambi i casi, l'opposizione. colpevolizzata come tradimento e rifiuto di condividere l'esperienza del gruppo di appartenenza, si traduce in un'implacabile riparazione: M. deve continuare a vivere come un Prete, O. come una Grande Madre provvida di cure per tutti. Tutto ciò si può ricavare abbastanza agevolmente dalle circostanze, dai fatti e dai ricordi. In che senso dunque la microstoria va completata?

Il completamento concerne due livelli: il livello dell'alienazione familiare e il livello superegoico. M. non può capire, in base ai dati di cui dispone, che nella sua famiglia si sono sommate due alienazioni: quella della ricca borghesia cattolica, che estingue i sensi di colpa per i privilegi conseguiti con uno stile di vita mortificante, e quella dei non abbienti veicolata dalla madre, che, per effetto della vergogna delle origini, comporta un cieco bisogno di ascendere socialmente. O., a sua volta, non può capire che i suoi genitori sono crollati sotto il peso di valori religiosi che, imponendo loro di accettare passivamente tutto ciò che la Provvidenza manda (compresi i figli), li hanno resi neurastenici e intolleranti nei suoi confronti. Ma nessuno di loro due può, infine, capire come le loro rabbie viscerali, sostanzialmente fondate,si siano tradotte, per effetto dei sensi di colpa, in una riparazione paradossale. Essi, infatti, si sottopongono ad una rigidissima autodisciplina il cui fine è di renderli sempre più efficienti e soddisfare un ideale dell'Io radicalmente altruistico e sacrificale.

L'altro in questione è, nella realtà, il membro più debole del gruppo di appartenenza - in entrambi i casi la madre -, ma, per effetto di una generalizzazione esso si configura come la classe degli esseri deboli e bisognosi. L'identificazione con questa classe è rafforzata dalla drammaticità con cui sia M. che O. hanno sperimentato, nelle fasi evolutive, la propria debolezza e l'inermità. La riparazione serve a espiare l'odio nutrito nei confronti dell'altrui e della propria debolezza.

Ma l'invalidazione superegoica dell'odio, il cui oggetto non è la debolezza ma l'alienazione che impone sacrifici inutili, consegue l'effetto paradossale di disarmare la personalità, irrigidendola in un modo di essere totalmente votato alla logica del sacrificio "inutile" di sé a favore degli altri. L'opposizione/individuazione non può pertanto riproporsi che sotto la forma criminale di egoismo, cinismo, sadismo rivolta ad affrancare dal sacrificio al prezzo della eliminazione dei deboli. Per affrancare l'odio dalle connotazioni criminali che ha assunto, è necessario che sia M. che O., oltre a cogliere l'alienazione sociale che attraversa la storia familiare - una storia, in ultima analisi, di vittime di falsi valori - acquisiscano consapevolezza dell'attività superegoica, sia per quanto concerne la forma a priori emozionale - che comporta la sacralità del rapporto con il gruppo di appartenenza _- sia per_quanto concerne i valori culturali che l'hanno strutturata, e cioè gli ideali dell'Io.

Rimane, ora, da riflettere sugli aspetti epistemologici del metodo microstorico. Anzitutto, è evidente, si tratta di un metodo più storicista che psicologista. Eccezion fatta per la forma a priori superegoica, che filogeneticamente la mantiene, l'alienazione sociale ha un fondamento estrinseco rispetto all'esperienza psicologica, individuale e di gruppo. Essa, infatti, fa capo a sistemi di valore che, anziché favorire la maturazione di una coscienza morale critica, la impediscono, associando all'opposizione la colpa. Il carattere alienante di tali sistemi di valore consiste nel fatto che essi impongono, in nome del debito di fedeltà rappresentato dai legami affettivi, un debito nel contempo esistenziale e ideologico: il dovere, in breve, di condividere l'esperienza del gruppo di appartenenza o il dover di rispondere alle aspettative di altri membri (di solito i genitori, ma non solo, come è evidente nel caso di O.).

Se si tiene conto dell'alienazione sociale, e cioè di una condizione vissuta e partecipata psicologicamente ma non prodotta psicologicamente, riesce di solito agevole cogliere la matrice della scissione dei bisogni. L'analisi interattiva e psicodinamica assume senso a partire da questo. Essa infatti è indispensabile per ricostruire, nella concreta esperienza di vita di un soggetto, tre momenti o periodi fondamentali: il primo, caratterizzato dalla scissione dei bisogni; il secondo, dal definirsi di una matrice strutturale conflittuale; il terzo, dall'affiorare di vissuti, sintomi e comportamenti attestanti il disagio psicopatologico.

In linea generale, si può sostenere che il primo è localizzabile di solito nel corso dell'infanzia, il secondo nell'adolescenza, il terzo nella tarda adolescenza o successivamente, con intervalli di tempo che variano a seconda della tenuta, emozionale e culturale, degli ideali dell'Io.

E' evidente, dunque, che la prospettiva microstorica ha un interesse elettivo perl a totalità diacronica dell'esperienza soggettiva e interattiva, e mira a valorizzare i riaggiustamenti strutturali che periodicamente intervengono per porre rimedio alla scissione dei bisogni, e il cui esito univoco è di rendere quella scissione irridu-cibile.

Il metodo microstorico è, dunque, propriamente parlando, e per quanto concerne i livelli interattivi e soggettivi, un metodo struttural-genetico che, fermo restando il primato delle emozioni nello sviluppo della personalità, non può trascurare i livelli cognitivi ed ideologici in virtù dei quali il sentire si organizza e diventa, dall'adolescenza in poi, un progetto, più o meno alienato, di vita. Per questo aspetto, il metodo struttural-genetico supera l'antitesi tra teorie psicoanalitiche e teorie cognitive, in nome del principio per cui più ci si allontana dall'infanzia più un nuovo sentire, orientato all'integrazione dialettica dei bisogni scissi, non può realizzarsi che in virtù di un nuovo sapere sulla natura e sui fatti umani.

Il problema che rimane da affrontare è come questo nuovo sapere che implica la ristrutturazione dell'immagine interna negativa possa tradursi in una pratica di vita atta ad integrare e soddisfa"`re i bisogni umani.


9. L'oggettivazione della funzione superegoica

Essenziale a tal fine è l'oggettivazione della funzione superegoica nei suoi aspetti formali e nei suoi contenuti culturali Non si sottolineerà mai abbastanza l'importanza di distinguere questi due aspetti: quello formale o emozionale, che fa capo ad una forma a priori propria della natura umana, e si esprime nella necessità di mantenere, pena un'angoscia mortale, un legame sociale di appartenenza; e quello contenutistico o culturale, rappresentato da sistemi di valore sociostoricamente determinati che sanciscono, sotto forma di proscrizioni, prescrizioni, autorizzazioni, i comportamenti idonei, e dunque il prezzo da pagare al fine di mantenere quel legame.

Le esperienze psicopatologiche,infatti, riconoscono come. matrice comune il conflitto tra la forma a priori superegoica, e cioè il bisogno di appartenenza "viscerale" e una_quota di bisogni di opposizione/individuazione irrinunciabili ma incompatibili con i sistemi di valore superegoici. Tale incompatibilità, per effetto di quella forma, viene univocamente significata come ribellione colpevole, la colpa configurandosi nei termini di imputazioni conseguenti ai sistemi di valori superegoici.

La legge di regressione strutturale, di cui si è parlato in precedenza, è per l'appunto la prova più evidente di questa dinamica strutturale, che impone di restaurare, a livello reale e/o simbolico, il legame sociale nella forma di equilibrio preesistente all'affiorare del bisogno di opposizione/individuazione colpevolizzato. A tale dinamica i soggetti reagiscono o riconoscendo i valori superegoici come ideali dell'io atti a salvaguardare l'identità personale e sociale o negandoli in nome di ideali dell'io antitetici. Si tratta di due difese ovviamente inadeguate, chè, nel primo caso, non riescono ad eliminare le valenze oppositive, nel secondo le recepiscono sotto forme che, dato l'incremento dei sensi di colpa, rappresentano rimedi peggiori del male. La sottomissione ai valori superegoici, assunti come ideali dell'io, e la ribellione ad essi che esita nell'elaborazione di valori antitetici. e dunque non dialettici, esauriscono, tenendo conto delle possibili combinazioni tra le due difese, le forme in cui può organizzarsi un'esperienza soggettiva strutturata da una matrice conflittuale irriducibile. Ma l'irriducibilità non concerne mai le polarità conflittuali, che, in ultima analisi, rappresentano bisogni scissi, bensì il modo in cui, per effetto della forma superegoica e dei valori introiettati, esse vengono significate.

La possibilità di un'integrazione dialettica dei bisogni, e dunque di un superamento del conflitto, postula l'aggettivazione della funzione superegoica, nei suoi aspetti formali, che vanno trasformati in coscienza morale, e cioè nel riconoscimento di appartenenza ad una totalità sociale storicamente determinata, e nei suoi aspetti contenutistici, che vanno criticati per dar luogo all'assimilazione di un sistema di valori personale,adeguato ai bisogni individuali e nel contempo funzionale al mantenimento e alla produzione di un qualche tipo di legame sociale. Esemplifico questo discorso partendo dall'esperienza di M., ricostruita nel capitolo precedente.

M. introietta, nell'interazione con la madre, in nome di un indebitamento che esprime l'attività della forma a priori superegoica, il valore dell'obbedienza assoluta, e cioè dell'assoggettamento della propria all'altrui volontà . Il bisogno di opposizione, in conseguenza di questa introiezione, viene represso e "criminalizzato", dando luogo allo strutturarsi di una personalità totalmente rispondente alle aspettative perfezionistiche dei grandi (genitori, maestri), e quindi "debole" e disarmata a livello interattivo. Ciò lo espone, nel corso della carriera scolastica ad una serie di 'aggressioni' da parte dei coetanei. Intimamente M. si arrabbia, ma, non potendo tradire il ruolo di figlio e alunno perfetto, che lo rende diverso dagli altri, egli si aggrappa alla religione, e tenta, per mezzo dei codici che essa offre, di dare un senso positivo alla sua diversità e alla persecuzione che subisce in quanto testimone delle virtù cristiane. Egli continua, così, a pagare il suo debito nei confronti dei familiari, e giustifica il sacrificio della sua vita come pretao necessario da pagare at fine di scontare i privilegi di nascita. Nonchè ribellarsi, egli modella ulteriormente la sua sensibilità sul registro della carità, della donazione totale di sé agli altri, soprattutto a favore di coloro che soffrono. Ma più egli si identifica con i deboli, i poveri, gli oppressi, gli emarginati, e si sente in perenne debito nei loro confronti, più si indebolisce, si rende preda della volontà divina, e rimuove la consapevolezza di essere egli stesso un debole e un oppresso.

Le sue rivendicazioni, la rabbia e i sentimenti di vendetta, già criminalizzati, non pssono affiorare che in una forma drammatica: attaccando una sensibilità che lo rende schiavo della volontà divina, anestetizzandolo e inducendolo a vedere la salvezza in un ideale dell'io antitetico, egoista, cinico e criminale.

Non importa che questo ideale assume, nel corso degli anni, una vaga configurazione ideologica, promuovendo fantasie di estremismo terroristico e mettendo, dunque, in luce una viscerale ribellione contro le ingiustizie e contro il potere. Sotto il profilo superegoico, quell'ideale non attesta null'altro che il cedimento ad una "natura" posseduta dal demonio. La riparazione, dunque, torna a proporsi nei termini di una ancora più totale rinuncia a vivere per sé, rappresentata dal ruolo sacerdotale. E' evidente che questo ruolo non corrisponde affatto ai desideri e alle aspettative familiari, ma è una ovvia conseguenza culturale della scissione dei bisogni indotta dall'interazione con l'ambiente familiare e dal modellamento della sensibilità sul registro del debito, del dovere e del sacrificio, che ha prodotto, anche in virtù di un'elaborazione soggettiva, una criminalizzazione radicale del bisogno di opposizione. La volontà divina da cui M. si sente minacciato è dunque l'espressione della forma superegoica a priori, dei valori culturali introiettati e dell'elaborazione soggettiva e ideologica di tali valori.

L'esperienza di M. è esemplare per la sua trasparenza: l'oggettivazione della funzione superegoica è favorita dal vissuto di una potenza estranea alienante. Ma se si tiene conto di alcuni criteri teorici, l'oggettivazione risulta possibile in tutte le esperienze psicopatologiche. Un criterio, cui si è già fatto cenno, consiste nel distinguere la forma emozionale superegoica dai contenuti culturali che la sovrastru turano. Sotto il profilo formale, la funzione superegoica comporta costantemente la riparazione del legame sociale messo in gioco dal bisogno di opposizione/individuazione colpevolizzato.

I valori culturali superegoici determinano il tipo e il grado di riparazione prescritti. Il grado è definito dalla limitazione della libertà personale, che, nelle sue molteplici forme, caratterizza l'universo psicopatologico.

I tipi di riparazione sono molteplici, ma possono ricondursi alle seguenti categorie: la dipendenza, l'ipercontrollo comportamentale, l'autoinvalidazione, l'altruismo sacrificale, le minacce interne (di morire, impazzire, commettere crimini), la fobia di esposizione sociale, i vissuti persecutori.

L'oggettivazione della funzione superegoica concerne essenzialmente tali categorie, che è sempre possibile mettere in evidenza e interpretare come espressione di una parte della mente rivolta contro l'individuo in nome del gruppo sociale che essa rappresenta. Senza la pretesa di risultare esauriente, riferisco alcune esperienze che risultano sufficientemente esplicative.

A 30 anni, P. vive un eccitamento maniacale che, per effetto di ripetuti tradimenti, dà luogo alla risoluzione di un rapporto coniugale in crisi già da alcuni anni. P. ha incontrato il futuro marito a 17 anni e si è sposata a 20. Lo ha amato profondamente, finchè non ha "aperto gli occhi", scoprendo di essersi accoppiata ad un "burocrate" ossessionato dal mito della carriera. Contemporaneamente, ha preso coscienza delle sue potenzialità e, in virtù di una cultura femminista, del suo bisogno di vivere affrancandosi dal sistema di valori borghesi ereditato dalla famiglia originaria e condiviso dal marito. Per giungere a troncare il rapporto coniugale, ha dovuto però pagare un tributo pesante: un episodio di eccitamento, risoltosi nel giro di tre mesi, cui è seguita una depressione strisciante. Quando anche questa tende alla risoluzione, P. comincia a sentirsi finalmente viva, libera e indipendente. Comincia a frequentare un coetaneo, suo collega di lavoro, che l'attrae per un anticonformismo ideologico molto coltivato. Si avvia tra loro un rapporto intenso, vanamente ostacolato dalla famiglia di P. Dopo alcuni mesi, questa prende atto che dietro l'anticonformismo del partner, si cela un profondo disprezzo per la donna in quanto essere debole e dipendente e una volontà di dominio, attestata dalla determinazione di indurre P. a troncare i rapporti con la famiglia e con la figlia che ha avuto dal precedente matrimonio. P. si ribella; il rapporto diventa aspro e conflittuale. Il partner la provoca e la sfida a dimostrare la sua forza troncando la relazione. P. scopre, pur volendolo, di non poterlo fare. Più si arrabbia, più regredisce in una dipendenza umiliante, che non ha mai sperimentato coscientemente, e, con ciò, si espone agli attacchi del partner, che diventano brutali e manifestamente sadici.

A questo punto P. è costretta ad "aprire gli occhi" non solo sull'altro, che, sotto un apparente anticonformismo, vive il culto narcisistico della potenza maschile e un incoercibile disprezzo per la debolezza femminile, ma soprattutto sul suo mondo interiore scisso, dominato da un Super-io che frustra la sua volontà di autonomia imponendole di dipendere dal rappresentante di una classe, quella degli uomini, a cui essa attribuisce qualità di carattere - di forza, di controllo delle emozioni, di autosufficienza - estranea alla natura femminile, per quanto invidiate e ambite. Con questa consapevolezza umiliante, poiché impietosamente sottolineata dal partner, P. paga la ribellione al modello di assoggettamento "masochistico" vissuto e proposto dalla madre e l'insensatezza di una remota rivendicazione di pari dignità tra gli esseri umani.

Ma quel modello trascende, ovviamente, l'esperienza privata, e cioè l'identificazione originaria con la madre e la successiva protesta oppositiva. Esso affonda le sue radici in un'ideologia di antica data, che attribuisce alla natura femminile due serie di caratteristiche: la debolezza, la dipendenza e la vulnerabilità per un verso; e per un altro la tendenza allo squilibrio, alla perversione e alla malvagità. P., purtroppo, quest'ideologia, trasmessa dalla madre, l'ha sperimentata drammaticamente: è stata una buona figlia, completamente soggettaàlle aspettative genitoriali, finchè l'adolescenza non l'ha squilibrata, producendo un aspro conflitto con il padre; è stata una buona moglie e una buona madre, finchè il demone del tradimento non l'ha fuorviata; è stata ed è un'amante docile e masochista, che argina le sue rabbie nel timore che esse possano tradursi nuovamente in un episodio di eccitamento. Non ne ha abbastanza per accettarequell'ideologia, radicata dentro di lei, e arrendersi alla necessità di assoggettarsi ad un uomo per estinguere un desiderio "innaturale" di libertà e di parità?

A 15 anni, all'inizio delle scuole medie superiori, M. viene attraversato da una febbricitante sete di libertà. Fino ad allora, egli è rimasto letteralmente incarcerato in un ruolo estremamente penoso. Entrambi i genitori lavorano duramente (il padre è operaio) e fanno una "vita di inferno" per il bene dei figli (M. ha una sorella). Bambino buono e sensibile, M. ha accettato di frequentare le elementari e le medie a tempo pieno, anche se un'innata introversione gli ha reso oltremodo difficile accettare una socializzazione massiccia e forzata. Conscio dei sacrifici genitoriali, si è precocemente responsabilizzato, tentando di non creare problemi di sorta e di non pesare affatto su un menage contrassegnato da una costante esasperazione dei suoi.

Si è fatto sempre molte domande sull'ordine di cose esistente nel mondo, sul senso della prepotenza e dell'ingiustizia sociale. Le risposte le ha trovate nella fede religiosa inculcategli dalle suore alle elementari. Verso la fine della terza media, tale fede viene meno. M. si sente sbandare, comincia a pensare che i sacrifici dei suoi e il suo non abbiano senso; che, anziché vivere nell'infelicità, è meglio lottare o morire. Ma lottare contro chi? M. non lo sa. Sa solo di cominciare ad avvertire un incoercibile attrazione per gli emarginati, i drogati e i piccoli criminali che pullulano nella borgata in cui abita, rispetto ai quali i genitori lo hanno tenuto separato con la scuola a tempo pieno.

Scrive, di getto, un lungo racconto di guerra tra gli esseri umani e extraterrestri, che si conclude con la fuga di una coppia ibrida verso un nuovo mondo ove non sussiste la legge del più forte e, di conseguenza, le ingiustizie sociali. Mentre scrive questo racconto comincia a star male. I fenomeni psicopatologici si annunciano sotto forma di crisi di panico, nel corso delle quali M. vive la possibilità di una trasformazione radicale e negativea del suo essere sia sotto il profilo psichico che fisico. Egli intuisce il nesso tra questo pericolo e le fantasie di libertà cui si è abbandonato; fantasie che tendono a risolvere il debito di fedeltà nei confronti dei suoi e ad affrancarlo dalla logica del sacrificio.

Il terrore di perdersi e il senso di colpa di ferire mortalmente i suoi con una vita sciagurata vengono risolti dall'affiorare di rituali ossessivi che impongono un ordinamento comportamentale rigidissimo. Tali rituali concernono il cibo, la cui assunzione si riduce ad un livello minimale di sopravvivenza, producendo un notevole dimagrimento, e degli esercizi ginnici, che vanno eseguiti quotidianamente, secondo regole precise e senza alcuna infrazione. L'ordine si ricompone, restaurando l'aspetto che M. aveva all'avvio delle scuole medie, quando era un ragazzo ancora buono e docile.

Ma in nome di quali valori l'ordine si è restaurato? Il primo, e il più evidente, è il rispetto sacro della famiglia e dell'isolamento sociale in virtù del quale essa ha difeso il suo statuto onorato, differenziandosi dall'ambiente disordinato e pericoloso in cui è immersa. Ma c'è di più: i rituali identificano nel corpo una fonte di pericoli pulsionali, inerenti il piacere e l'aggressività, che vanno assoggettati ad un rigido controllo affinchè l'anima non ne risulti sconvolta. Alla luce dei valori religiosi introiettati, M. è stato indotto a leggere nella crescita del corpo, e non nell'esplosione della sua rabbia contro le costrizioni fisiche e morali subite, il fattore che ha squilibrato la sua innocenza infantile e lo ha orientato verso un modello di vita anarchico.

A 38 anni, F. giunge alla conclusione di un dramma personale, e, prendendo atto di non aver realizzato alcunchè nella vita, cade in depressione. Il dramma risale a vent'anni prima, allorché, nel clima sessantottino, F., che frequenta un Istituto tecnico, decide di iscriversi al liceo artistico, e di dedicarsi alla pittura. Con ciò, egli lancia una sfida a se stesso, ai valori familiari e al mondo, rivendicando, per sé e ideologicamente per tutti, il diritto di sviluppare le potenzialità individuali indipendentemente dalla nascita e dal censo. La famiglia di F. è di umili origini: entrambi i genitori si sono inurbati da ragazzi per lavorare, il padre come garzone in un negozio di alimentari, la madre come cameriera presso una famiglia agiata. Con immensi sacrifici, sono riusciti, dopo il matrimonio, ad avviare in proprio la gestione di un negozio di alimentari, e ad assicurare ai figli un tenore di vita decoroso ma non agiato. Segnati dall'esperienza personale, hanno entrambi mantenuto una mentalità "servile" e umile, fondata sull'accettazione del mondo diviso tra signori e poveri. Hanno fatto frequentare al figlio, letteralmente togliendosi il pane dalla bocca, una scuola privata signorile, con l'unico intento di tenerlo al riparo, dati i loro impegni di lavoro, dal frequentare ragazzi di strada.

Affinchè egli non si montasse la testa, gli hanno sempre predicato il loro "vangelo" fondato sull'umiltà, sul lavoro, sul decoro e sulla rassegnazione. Quando F. decide di cambiar vita (anche ideologicamente: da cattolico diventa comunista), essi, che hanno già soggezione della sua cultura (entrambi non avendo conseguito neppure la licenza elementare), non lo ostacolano: si limitano a rimanere perplessi. Il cambiamento di F. non è solo vocazionale. Egli nutre una rabbia profonda nei confronti delle ingiustizie sociali (soprattutto in riferimento al modo in cui sono stati trattati i suoi dai "padroni"). Intende riscattarli dalla condizione di vinti (inconsapevoli) in cui vivono, e dimostrare, attraverso l'arte, il suo valore, incompatibile con un orientamento piccolo-borghese. Sotto la spinta della rabbia riesce a superare l'handicap culturale: studia, apprende la tecnica, teorizza l'arte come strumento rivoluzionario, viaggia. La sua produzione, pur apprezzata dai critici, è però quantitativamente modesta. In 20 anni, F. riesce ad organizzare appena due mostre. I pochi quadri vengono venduti, ma, via via che passa il tempo, F. sperimenta una difficoltà sempre maggiore a produrre. Egli si tormenta intorno alle tele: ne abbozza infinite e le distrugge. Quando poi, raramente, gli sembra di essere riuscito ad esprimere quello che ha dentro, pochi tocchi sbagliati - destinati, nelle sue intenzioni a raggiungere la compiutezza - rovinano tutto. La depressione insorge quando egli si rende conto dello scarto tra i suoi progetti, e il fervore creativo e culturale che li anima, e la sterilità produttiva. L'autoanalisi che ha condotto per suo conto lo porta a pensare che paga il prezo di un narcisismo onnipotente senza fondamento reale. Impietosamente, egli considera pure che, nonostante la sua superiorità, continua di fatto a dipendere dai suoi per sbarcare il lunario. La realtà soggettiva è, però, più drammatica.

Egli prende coscienza di convivere con un "occhio" anonimo che lo perseguita e lo tiene sotto il tiro del ridicolo e del disprezzo. Ne prende coscienza a livello di esposizione sociale, considerando il suo permanente disagio di stare in mezzo agli altri e di sentirsi giudicato (talora anche spiato). Ma, infine, è chiaro che la sua sterilità è dovuta ad una persecuzione superegoica, che, quando sta per finire un'opera, induce repentinamente un giudizio svalutativo, che lo spinge a correzioni che risultano costantemente disastrose. Egli paga così la sfida che ha lanciato, e rientra nei ranghi; anzi, rispetto alle possibilità che esistevano di avviarsi verso un qualche impiego sicuro, retrocede nella categoria dei "falliti".

Non mi soffermo sui sistemi di valore superegoici che sottendono l'altruismo sacrificale e le minacce interne poiché riguardo ad esse si è già parlato a più riprese. Per quanto riguarda la fobia di esposizione sociale, rimando ad un documento autografo (in appendice al capitolo) che è eloquente in sé e per sé.

L'oggettivazione della funzione superegoica nei deliri persecutori può essere esemplificata da un'esperienza cui già si è fatto cenno.

S. nasce, terzo figlio (minore di 14 anni rispetto al secondo) in una famiglia attraversata da conflitti interpersonali. Il padre, ferroviere, è un uomo all'antica, educato a bastonate, che esercita in famiglia un potere dittatoriale, giustificato dalla volontà di mantenere i membri - moglie e figli - sulla retta via. Personalmente onesto, animato da un senso del dovere rigorosissimo, rispettoso delle autorità fino a livelli servili, egli, certo di dare il buon esempio, pretende la sottomissione completa della moglie e dei figli. Quanto a questi ultimi la sottomissione comporta un'obbeddienza cieca, la dedizione allo studio e un pressochè completo isolamento sociale, atto ad impedire un traviamento dovuto a cattive compagnie.

Da sempre, l'autoritarismo patriarcale anima ricorrenti ed aspri conflitti con la moglie. Quando S. nasce, il conflitto più intenso intercorre tra il padre e il fratello (la sorella, prima figlia, sta terminando gli studi ed è già orientata a trasferirsi a Roma). Il fratello di S. ha un atteggiamento ribelle, provocatorio e opposizionista, che attiva da parte del padre perpetue repressioni fisiche. Fin da piccolo, S. si allea emotivamente con il padre, del quale ammira l'onestà e la coerenza, e, nel suo intimo, rimprovera al fratello il suo atteggiamento provocatorio. Solo quando il padre aggredisce verbalmente la madre, prova un senso di rabbia nei suoi confronti, poiché l'evidente sproporzione della forza dà a quell'aggressione il significato della prepotenza. Per suo conto, S. è buono, docile e giudizioso.

Quando ha 7 anni, il fratello va a fare il militare, si scontra con un superiore e finisce in carcere. L'affanno del padre in suo aiuto, che comporta anche un grosso sacrificio economico per pagare un avvocato, convince S. della sostanziale bontà del padre. Non solo; uscito dal carcere, il fratello manifesta disturbi psichici di tipo persecutorio; il padre si sobbarca le spese delle cure psichiatriche e, dopo qualche anno, riesce a trovargli lavoro nelle ferrovie. La sorella si è trasferita a Roma, ove ha trovato lavoro. Il fratello si sposa e si trasferisce anch'egli a Roma. Eccezion fatta per sporadici litigi tra i genitori, il clima familiare nel complesso si rasserena.

Ma, quando S. ha 11 anni, comincia a sperimentare egli stesso la durezza del regime paterno. Gli è vietato di uscire di casa nel pomeriggio, poiché i ragazzi di strada sono tutti potenzialmente cattive compagnie. La comunicazione diretta con il padre è impossibile: tutte le idee di S. (che è più maturo dei coetanei per via di un'appassionata dedizione allo studio) vengono giudicate ridicole e infantili.

Via via che cresce e articola una visione del mondo fondata sulla giustizia sociale e che finisce per politicizzarsi, S. ha la prova della rozzezza culturale del padre, la cui mentalità gli appare francamente fascista. Egli evita di scontrarsi con lui, ma non può fare a meno di disprezzare la scissione tra il suo servilismo sociale, attestato da una sottomissione clientelare ai potenti del luogo di residenza, e la sua prepotenza domestica. A 18 anni, S., che si sente comunista fin nel midollo e ha un'ansia incoercibile di giustizia, decide di trasferirsi a Roma presso la sorella per terminare gli studi e trovare la sua strada. Egli deve lottare contro le resistenze del padre, che, infine, vengono meno, ma comincia ad essere tormentato dal conflitto tra l'indebitamento, dovuto alla sua dipendenza, e la volontà di fuga e di tradimento che sottende il suo progetto.

A Roma, iniziando a studiare, riprende i contatti con il fratello, che è da anni in cura presso uno psichiatra. Quegli, il cui rancore ai confronti del padre è ancora vivissimo, lo sobilla. S. comincia a vivere il padre come un persecutore e ad avvertire il bisogno di ribellarsi alle sue idee e ai suoi atteggiamenti. Si tratta, però, di una ribellione colpevole: dipendendo economicamente da lui, S. può solo odiarlo ma non affrontarlo apertamente. Non solo: nutrita com'è di rabbia nei confronti della legge del più forte, quella rabbia alimenta, oltre alla ribellione al padre, un'ideologia politica sempre più estremistica. In un'occasione, S. incontra dei giovani che, per i discorsi che fanno, identifica come fiancheggiatori delle Brigate Rosse. Uno di loro gli dà un numero di telefono e lo invita a mettersi in contatto con lui. Dopo pochi giorni, S. comincia a sentirsi sorvegliato da rappresentanti delle forze dell'ordine in abito borghese. Lentamente, la persecuzione si estende: oltre alle forze dell'ordine, entrano in gioco i parenti di persone cui egli avrebbe arrecato danno, che intendono vendicarsi. In breve, S. giunge a sentirsi minacciato da tutti e come eversore dell'ordine costituito e come attentatore alla sacralità dei legami parentali. Si isola in casa a Roma e, per far fronte alle minacce, si dà all'alcool. Mal glie ne incoglie: litiga con il fratello e la sorella. E' costretto a rifugiarsi, con la coda tra le gambe, dai suoi al paese, ove le minacce, se non si estinguono, diventano almeno tollerabili. Suo malgrado, dunque, deve riconoscere che l'unico spazio sociale protettivo è proprio quello familiare da cui è fuggito vivendolo come persecutorio.

La riparazione ripropone, dunque come sacrali i valori superegoici attentati dal bisogno di opposizione/individuazione e obbliga il soggetto a riconoscerne la validità ai fini della preservazione della sua identità sociale e personale. Essa li rende immediatamente evidenti. Non di rado, però, la riparazione è arginata dall'insistenza soggettiva nel perseguire ideali dell'io antitetici rispetto a quelli superegoici: l'indipendenza intesa come autosufficienza, la trasgressio-ne sistematica, l'onnipotenza narcisistica, l'egoismo cinico e talora sadico, l'anestesia affettiva morale sociale, l'anticonformismo esibizionistico, l'aggressività e, in particolare, la sopraffazione dei deboli.

E' superfluo dire che questi ideali, e i comportamenti da essi promossi, non fanno che aumentare di continuo i sensi di colpa e le possibilità di una crisi riparativa. La loro oggettivazione, resa semplice dalla fenomenologia vissuta e comportamentale, deve essere dunque complementare all'oggettivazione dei valori superegoici apparentemente rimossi. L'esperienza di M., sotto questo profilo, è sufficientemente esemplare.

Come si è già detto, la funzione superegoica consta di due componenti: la forma a priori emozionale che, vincolando il soggetto al gruppo di appartenenza, sacralizza il legame sociale come conditio sine qua non dell'identità intesa come funzione di appartenenza; e i valori culturali che prescrivono il prezzo da pagare al fine di mantenere quel legame, e dunque gli obblighi in virtù dei quali l'individuo, sdebitandosi, risulta degno di appartenere al gruppo. Nell'organizzazione dell'esperienza soggettiva tali aspetti risultano costantemente condensati o, meglio, correlati da una relazione esprimibile in termini di funzione: l'appartenenza è il valore che dipende dalla condivisione dell'esperienza culturale del p-ruppo. Ciò che determina lo strutturarsi di un'esperienza psicopatologica è il conflitto irriducibile tra il bisogno di appartenenza e il debito da pagare; conflitto che si pone nei casi in cui questo debito mortifica o impedisce l'individuazione. L'espressione fenomenologica immediata di tale conflitto è il vissuto, onnipresente, di tradimento che anima la minaccia di esclusione sociale radicale - rappresentata dalla paura di morire, di impazzire e di commettere crimine.

L'oggettivazione della funzione superegoica è, dunque, importante, dal punto di visata terapeutico per due aspetti.

Il primo consiste nel convalidare la socialità radicale iscritta in ogni esperienza soggettiva, dando ad essa il senso di un bisogno primario della natura umana, che va comunque realizzato; il secondo, nel mettere in luce i sistemi di valore che, imponendo al soggetto un prezzo da pagare troppo elevato, in quanto mortificante l'individuazione, lo mantengono in una condizione nel contempo eteronomica e di colpa.

Questa distinzione tra forma e contenuti della funzione superegoica va considerata dialetticamente. E' evidente infatti che quella forma, in quanto filogenetica, implica già un contenuto, un valore totalizzante; la necessità per l'individuo di riconoscersi parte di un tutto; e che, per quanto sociostoricamente determinati, e i più diversi, i contenuti culturali superegoici, la cui validità implica una tradizione e un gruppo che in essi si riconosca, sussistono solo perché soddisfano, in qualche modo, la forma, il bisogno di socialità. Ciò detto, quella distinzione rimane importante, non da ultimo perché risolve un problema contro cui viene a urtare la teorizzazione psicoanalitica, e che la teoria dei sistemi affronta in maniera oltremodo ingenua. Il problema concerne la precocità e la rigidità della funzione superegoica. Confondendo questi due aspetti, la teoria psicoanalitica è costretta a ricondurre la genesi del Super-Io a epoche molto precoci dello sviluppo. Sopravvalutando la forma rispetto ai contenuti, essa è indotta ad attribuire quella genesi univocamente ad un attacco distruttivo ai legami interpersonali. La teoria dei sistemi, viceversa, sopravvaluta i contenuti - identificati con regole comunicative che mantengono il potere di chi le pone su chi le subisce - rispetto alla forma, e di conseguenza ritiene che nuove regole e nuove modalità interattive siano sufficienti ad affrancare l'individuo dalle trappole relazionali. Se ammettiamo che la funzione superegoica è precoce per via della forma - che privilegia e impone l'appartenenza. fusionale - e rigida per via dei contenuti - che prescrivono il prezzo da pagare per essere degni dell'appartenenza - riesce chiaro che geneticamente l'attacco ai legami sopravviene, in una qualunque fase evolutiva, quando la forma dei legami, che corrisponde a dei valori culturali (con i loro correlati emozionali ed ideologici), viene ad essere vissuta come tale da ostacolare l'evoluzione dialettica della personalità, che avviene in virtù di crisi sottese dal bisogno di opposizione/individuazione. E' ovvio che più quell'ostacolo è precoce, più la funzione superegoica si struttura sotto forma di angoscia sociale; più è tardivo, più la funzione superegoica somma all'angoscia sociale l'angoscia morale.

In ogni caso, sul piano della prassi terapeutica, l'affrancamento dal bisogno di opposizione/individuazione delle connotazioni negative ? di attacco distruttivo ai legami o di tradimento ? non può avvenire che in virtù dell'oggettivazione dei valori superegoici che hanno prodotto ? a livello di interazioni emozionali o culturali ? l'ostacolo. E' solo infatti quell'oggettivazione ? che pone in luce l'alienazione delle persone e delle istituzioni con cui il soggetto ha interagito ? a permettere di individuare i valori contro cui si può agire la rabbia e l'odio. Sul piano di realtà, ciò può comportare anche, talora, la necessità di conflittualizzare, riorganizzare o risolvere situazioni interpersonali; ma si tratta, in ogni caso, di un obiettivo subordinato al primo, alla realizzazione del bisogno di individuazione, e quindi non colpevole.

Proporre l'oggettivazione e l'attacco critico ai valori superegoici come momento essenziale della prassi terapeutica dialettica può indurre facilmente ad accusare tale metodologia di essere idealistica. Ciò, come vedremo, è smentito dal fatto che quell'attacco, per essere efficace, e cioè per tradursi in un'organizzazione di vita più adeguata ai bisogni personali, non può esaurirsi nello spazio interiore ma deve necessariamente tradursi in una serie di azioni, comportamenti e scelte spesso di grande rilievo pratico. Ma quella critica impone di affrontare un problema teorico preliminare.

In sé e per sé, i valori superegoici sono valori culturali, e cioè valori prodotti storicamente, adottati e convalidati collettivamente. Che la loro origine sia più o meno remota o recente, e che la loro diffusione sociale sia vasta o ristretta, importa poco: ogni valore culturale rappresenta un fine socialmente riconosciuto, il cui perseguimento postula, e rende lecita, l'adozione di uno o più mezzi; esso esclude, implicitamente, altri fini e altri mezzi.

Ma, allora, se i valori superegoici sono valori culturali in cosa consiste la loro specificità o, meglio, il loro potere patogeno? D'acchito (e passionalmente) verrebbe da riferirsi al loro carattere alienante, e cioè alla scissione adialettica da essi indotta nel corredo dei bisogni individual". Ma la stessa scissione può essere presente anche all'interno di strutture di personalità che non esprimono alcun disagio. Non è, dunque, il potere alienante che caratterizza i valori superegoici, bensì il fatto che essi, benché introiettati e funzionanti, urtano contro una resistenza, più o meno inconsapevole, irriducibile. perché allora non consentire con Freud che vede in questa resistenza l'espressione di una natura umana che ricusa il sacrificio pulsionale necessario ai fini della socializzazione? Semplicemente, perché quella resistenza definisce il rifiuto soggettivo di riconoscere e vivere valori che usano il soggetto piuttosto che essere usati; che si pongono dunque come valori la cui pratica produce un plus-valore, e cioè un prodotto illecito a vantaggio di altri piuttosto che del soggetto stesso. E' superfluo aggiungere che questo discorso non è mai riferito alle persone in carne ed ossa con cui il soggetto interagisce, bensì alle matrici sociali ed ideologiche dei valori, di cui spesso sono vittime anche coloro che li trasmettono. Risulta evidente che definendo i valori superegoici come valori che "sfruttano" la natura umana, senza guadagno alcuno per chi è sfruttato, si toglie ad essi, pur riconoscendone le appartenenze alla sovrastruttura sociale, ogni carattere idealistico. Anzi si sarebbe indotti a riconoscere in questo sfruttamento della natura umana da parte dei valori, e ovviamente delle forze sociali che li producono e li mettono in circolazione, la lacuna più grave dell'ideologa. marxista (da colmare).

Da questo punto di vista, il contesto sociale nel quale operiamo, che è quello di una civiltà industriale o post?industriale avanzata, risulterebbe null'altro che una struttura sociale. gravata di molteplici eredità storiche nella quale si danno ruoli (tradizionali e nuovi) di "creditori" e di "debitori". L'oggettivazione dei valori superegoici servirebbe, in ultima analisi, a mettere in luce le forme ideologiche (e sociali) del "debito" e della "usura" così come esse attualmente si esercitano. L'esperienza che segue, per la sua singolarità, vale ad illustrare questo assunto.

G., a 42 anni, sposato e con due figli, sviluppa repentinamente un delirio di colpa. L'episodio scatenante è banale. Mentre è con la figlia di 9 anni in un giardino pubblico, G., che si è distratto per un attimo, si accorge che la bambina sta smuovendo con un piede una siringa da insulina. La trascina via e la redarguisce. Nonostante il diniego di questa, G. non riesce a tranquillizarsi riguardo al fatto che la bambina potrebbe aver toccato con le mani la siringa. Comincia a ruminare giorno e notte intorno all'episodio, senza farne cenno alla moglie. Si definisce in lui la convinzione che la figlia possa essersi infettata di AIDS,e che egli, essendosi distratto, abbia commesso una colpa imperdonabile. Le rassicurazioni del medico di famiglia non valgono a dissolvere tale imputazione. Egli è dunque colpevole di aver esposto la figlia innocente e vulnerabile al contatto fatale con un mondo pericoloso e implacabilmente distruttivo. Trattandosi di un errore irreversibile, non si dà alcun rimedio, tranne che la giustizia secondo la legge del taglione. G., che non ha protetto un'innocente a lui affidata da un pericolo mortale, deve darsi la morte.

L'autocondanna, che lo porta ad un ciglio dalla defenestrazione, non viene posta in essere solo per le remore di una fede religiosa che esclude un peccato mortale come penitenza per un sacrilegio. Per effetto di queste remore, l'angoscia di colpa diviene però intollerabile. G. pensa di denunciare alla moglie il "crimine" commesso, di abbandonare il suo ruolo di capofamiglia vissuto indegnamente, e di vagare per il mondo solo come un cane con il fardello della sua angoscia, nell'attesa della punizione divina. E' la fine che si merita, e a cui si sarebbe dovuto arrendere, senza lasciarsi tentare dalla presunzione di poter mettere su e portare avanti una famiglia. Il delirio di colpa conclude un tragitto di esperienza, inaugurato dal matrimonio, vissuto all'insegna dell'ansia, dell'inadeguatezza e di una vana dedizione totale. Esso mette in luce meno una visione del mondo disperata - dominata dal disordine, dal vizio e dall'incuria nei confronti degli esseri vulnerabili - che un'immagine interna totalmente negativa, la cui cronica inadeguatezza si è tradotta infine nello smascheramento di un'ingiustifi cabile distruttività. Il retroterra microstorico dell'esperienza dà a quella negatività il suo vero significato.

G. è stato abbandonato alla nascita da genitori dei quali non ha mai avuto alcuna notizia, ed è stato allevato in brefotrofi e orfanatrofi, ove ha sperimentato, oltre la fame e il freddo, la durezza di un regime educativo che lo ha sempre terrorizzato, inducendo in lui un comportamento precocemente conforme alle regole istituzionali e una dedizione, anche vocazionale, allo studio. Finita la terza media, è rimasto in istituto per un corso di formazione professionale, che, per quattro anni, si è risolto in un duro sfruttamento lavorativo.

A 18 anni, è stato dimesso, e si è ritrovato letteralmente sulla strada, senza casa né lavoro né alcun riferimento sociale. Ha in corpo una rabbia cieca nei confronti dei fantasmi genitoriali, degli istituti, delle istituzioni e della società. Per anni, deve arrabattarsi come capita, svolgendo umili lavori mal remunerati, dormendo in letti affittati e saltando spesso i pasti. Tutto ciò non fa che aumentare il suo sordo rancore contro il mondo, che, nonchè aiutare i deboli e gli sventurati, glie la fa pagare. Infinite volte è tentato di cedere e di lasciarsi andare, vivendo di espedienti. Glie lo impedisce la fede religiosa, l'educazione severa che gli è stata impartita e, sopratutto, un sentimento viscerale di giustizia e di dignità, che lo spinge a lottare per dimostrare il suo valore. A 25 anni, nonostante la fatica del vivere quotidiano, si iscrive ad una scuola serale e con enormi sacrifici consegue un diploma di scuola media superiore. Ciononostante, non potendo avvalersi di alcuna raccomandazione, riuscirà a trovare una sistmazione lavorativa dignitosa solo a 32 anni. Ma è solo, la vita si configura come un orizzonte vuoto di senso, e cominciano ad affiorare vaghe inquietudini ipocondriache e alcuni tratti ossessivi.

Nonostante faccia il suo dovere e si comporti sempre con estrema correttezza, G. si sente costantemente fuori posto, in debito nei confronti dei datori di lavoro e vagamente, oscuramente, in colpa. Non oserebbe mai pensare al matrimonio se non incontrasse una donna che si innammora di lui e lo costringe al passo. G. non si sente degno dell' amore di cui è investito né all'altezza dei ruoli - di marito e di padre - che viene ad assumere. Fa del suo meglio aiuta in casa e dedica gran tempo all'allevamento dei figli. Ma vive per anni nell'incubo di commettere, riguardo a costoro, degli errori irreversibili., Via via che i figli crescono le paure si ingigantiscono.

Convinto di aver sbagliato a sposarsi e a mettere al mondo dei figli, che non potrà guidare adeguatamente in un mondo che gli appare sempre più difficile e pericoloso, G. si chiude in una cronica depressione, e si colpevolizza per il clima ansioso e cupo che egli fa incombere in famiglia. Le premesse dinamiche ? un vissuto di radicale inadeguatezza e una quota di rabbia smisurata criminalizzata ? per un delirio di colpa sussistono già allorché si realizza l'episodio scatenante. Ma il significato profondo del delirio è restituito dalle conclusioni cui G. giunge in conseguenza di esso. Egli ha sbagliato nel mettere al mondo dei figli cui non è in grado di provvedere, e la sua presunzion ha causato un danno irreversibile. A confronto della sua "sciaguratezza", quella dei genitori che affidano i figli agli istituti, coscienti dei loro limiti, diventa un nonnulla: l'espressione di un errore giustamente rimediato. E inoltre: se è vero che i bambini chiusi negli istituti soffrono, è pur vero che essi sono al riparo dagli infiniti pericoli che comporta il vivere in famiglia e in libertà. Come è possibile, infatti, che i genitori, seppure validi, possano difendere i figli da un mondo devastato dalla droga e dalla criminalità? Se ciò è vero, l'odio che G. ha nutrito nei confronti dei fantasmi genitoriali e delle istituzioni non è dunque l'espressione della sua cieca ingratitudine e della sua cattiveria? I suoi errori, infine, non sono di gran lunga più gravi di quelli commessi nei suoi confronti? Come ha dunque osato egli criticare il mondo intero?

Nel delirio di colpa di G. è trasparente l'attività repressiva di un Super-Io culturale gerarchico, i cui contenuti sono agevolmente riconducibili agli ambienti istituzionali con cui G. ha interagito nelle fasi evolutive. Non c'è da sorprendersi che tali contenuti, imponendo il rispetto cieco della classe dei grandi - rappresentanti di un'autorità impersonale -, abbiano criminalizzato, nonchè il rancore nei confronti degli istitutori, anche quello provato nei confronti dei fantasmi genitoriali; né che, dal momento in cui G. ha osato lanciare la sfida nei confronti degli uni e degli altri, calandosi nel ruolo del padre buono, protettivo e partecipe, ha cominciato a perdere terreno fino al punto di dover giungere a prendere atto della sua mostruosa indegnità.

L'esperienza di G. ha, per la sua stessa singolarità, un valore teorico straordinario. Di certo, si potrebbe obiettare che, date le stesse condizioni, un altro soggetto avrebbe reagito diversamente. Ma il problema manifestamente non è questo. Si tratta di valutare infatti se, date quelle condizioni, si possano ritenere distorte emozioni di rabbia, di odio e di vendetta. Se la risposta è negativa, il ruolo della funzione superegoica appare incontrovertibile.


PARTE SECONDA

DINAMICA DELL'INTERVENTO DIALETTICO

Nella prima parte oltre agli obiettivi, sono stati esposti la metodologia generale dell'intervento dialettico: i principi su cui essa si fonda e i momenti pratici che da questi discendono. E' fuor di dubbio che questa esposizione analitica, per quanto implichi una successione di fasi, non restituisce che in maniera parziale la dinamica propria di un intervento dialettico. In questa seconda parte, cercherò, nei limiti in cui è possibile, di illustrare questa dinamica.

l. La definizione del rapporto terapeutico

Posto che si dia una domanda terapeutica e prescindendo dalle circostanze (affrontate in un appendice) ch'essa possa essere avanzata piuttosto che dal soggetto da familiari, insegnanti, amici, ecc. l'intervento dialettico comincia di solito con un ciclo di incontri in genere da 4 a 6 il cui scopo dichiarato è la definizione del rapporto terapeutico. Tutti gli interventi terapeutici sia effettuati da servizi pubblici o da privati comportano un "contratto". Di solito, tale contratto, sia esso esplicitato o meno dai terapeuti, postula l'adattamento del soggetto ad uno schema procedurale fisso, le cui regole fanno capo ad una tradizione standardizzata (com'è il caso della psicoanalisi o della terapia familiare) o esprimono, specie a livello di servizi pubblici, la loro organizzazione. La nozione abusata di progetto copre, dunque, la realtà di una passivizzazione originaria del soggetto. La definizione dialettica del rapporto terapeutico implica invece il "prendere" visione dei problemi da affrontare, l'estrapolazione di obiettivi da perseguire e una informazione, la più dettagliata possibile, sugli "strumenti" culturali adottati, e cioè, in altri termini, un'illustrazione della teoria da cui procede l'intervento dialettico. Non si tratta di dettagli formali. Prendere visione dei problemi da affrontare significa oggettivare la struttura psicopatologica, definirne, sia pure in modo sommario, la genesi microstorica, e valutare l'economia di vita soggettiva, tenendo conto del determinismo intrinseco strutturale, non meno che delle circostanze relazionali, microsistemiche e sociali. Essa comporta anche la valutazione dell'attrezzatura culturale di cui dispone il soggetto e che, inevitabilmente, è investita nella struttura psicopatologica e nella struttura cosciente, nel modo in cui il soggetto vive ed elabora la propria condizione. Dalla "presa di visione" discende un discorso strutturale e dinamico sulla condizione del soggetto, che, nell'ottica dialettica, sostituisce la diagnosi degli approcci tradizionali. Tale discorso è importante, sia per delineare le coordinate dell'intervento dialettico sia per fornire una risposta al bisogno, del soggetto e/o dei familiari, di una diagnosi. Esso si impone a maggior ragione nei casi in cui il soggetto ha già avuto delle esperienze psichiatriche di ricovero, di cura con psicofarmaci o di psicoterapia , ma è sempre e comunque da fare. Le tre esperienze che seguono ne chiariscono l'importanza.

F. è uno studente universitario di 23 anni, figlio unico di una famiglia alto-borghese di proprietari terrieri meridionali dedicati si in larga misura alla giurisprudenza (il padre è magistrato), che da due anni ha cominciato a lamentare difficoltà di concentrazione, di memoria e di apprendimento. Tali disturbi hanno prodotto un rilevante rallentamento del corso di studi, e attivato una situazione di allarme personale e familiare. F. trascorre le sue giornate oppresso da un senso del dovere che però si traduce in uno studio stentato e poco produttivo. Il rendersi conto di non aver fatto il proprio dovere lo perseguita anche nei momenti di svago e nei periodi di vacanza, gravando sulle amicizie e sui rapporti con le ragazze. Solo di rado, e senza sapere il perché, egli riesce a scrollarsi di dosso questo incubo: in tali circostanze, affiorano un'euforia e un'esuberanza sorprendenti, che però colpevolizzano F., il quale, successivamente, è indotto a pensare che ai privilegi di nascita corrisponda in lui solo il desiderio di abbandonarsi ad una bella vita sul registro dell'edonismo. Ciò, tra l'altro, contrasta con una fede religiosa intensamente vissuta e praticata. Quanto ai disturbi, egli è convinto che qualcosa non vada nel suo cervello. Per quanto si giudichi pigro, egli è dolorosamente consapevole del fatto che la sua volontà, allorché si attiva, viene ad urtare contro dei difetti funzionali. Anche i familiari, dopo un periodo di giudizi moralistici, hanno preso atto che qualcosa nel figlio non funziona. Si sono rivolti, seguendo una tradizione tipica delle classi abbienti e colte meridionali, ad un neurologo, che ha somministrato ad F., senza alcun risultato, cure neurotrofiche, psicotoniche e ricostituenti. Di fronte allo scacco, egli stesso ha consigliato di consultare un terapeuta. Sia F. che i familiari hanno seguito questa indicazione per rispetto della scienza, e per non lasciare alcunchè di intentato, ma senza alcuna convinzione.

F. riferisce l'origine dei disturbi ad una esperienza sconvolgente che ha segnato la sua adolescenza. A 13 anni ha cominciato a prendere lezioni private di inglese da una signora, amica di famiglia, che lo ha stregato con il suo fascino. Fascino ideologico, anzitutto. La "Signora", di ottima condizione sociale e di raffinata cultura, distingueva l'universo umano in due categorie: i èpiatti' e gli spiriti elevati, questi ultimi, rappresentanti un'èlite, caratterizzati dal coltivare la vita su di un registro di radicale spiritualismo romantico e decadente. Alla luce di questo insegnamento, F. ha preso coscienza della "piattezza" e del grigio conformismo della sua famiglia originaria incapace, nonostante i rilevanti mezzi economici, di godersi la vita, e si è orientato verso il modello elitario e superomistico proposto dalla "Signora". Egli non ha mai vissuto tale modello come incompatibile con la tradizione familiare, soprattutto per la concordanza sui valori dello spirito rispetto alla materia, bensì come un arricchimento di quella tradizione.

La crisi è subentrata a 19 anni, allorché F. si è reso conto di essersi innamorato della donna e di aver adottato, in virtù della fascinazione, un ideale elitario "razzista", incentrato sul disprezzo dei "piatti", incompatibile con i valori cristiani. In seguito a questa crisi di coscienza, F. interrompe ogni rapporto con la signora, si riavvicina alla famiglia originaria, e, poco dopo, comincia ad avere disturbi.

Non occorrono altri particolari per mettere a fuoco una personalità ossessiva, determinata da un'interiorizzazione dei valori culturali familiari, che ha tentato, in virtù del rapporto con la "Signora", veicolante gli stessi valori della tradizione familiare ma su di un registro romantico-spiritualista, di omeostatizzarsi, e, in conseguenza della crisi di quel rapporto, si è squilibrata, lasciando affiorare valenze opposizionistiche all'etica del dovere per il dovere espressa dai disturbi. L'opposizionismo attesta che i valori familiari sono stati introiettati ma non assimilati. Il problema, dunque, consiste nel capire se tale protesta, inconsapevole, è espressione di un irrazionale ribellismo (come, immediatamente, ipotizza F.) o non si fonda, piuttosto, su di un bisogno di individuazione frustrato.

E. è la terza ed ultima figlia di un medico di paese che, per effetto più dell'attività politica che della professione, ha raggiunto uno status ragguardevole. La madre, di umili origini, è vissuta sempre all'ombra del marito, sacrificando la sua vita per la famiglia e i parenti anziani. èViziata' e ècoccolata', E. non ha mai dato problemi, eccellendo negli studi sino al 30 liceo classico. A metà dell'anno scolastico, comincia a lamentare in classe crisi di angoscia claustrofobica e contemporaneamente a non riuscire più a dedicare, come è accaduto sempre, i suoi pomeriggi allo studio. Per effetto di questi disturbi, una carriera scolastica brillante si conclude con un esame di maturità mediocre. Profondamente ferita nel suo orgoglio, E. cade in uno stato di insicurezza e di depressione profondi. Vive aggrappata ai genitori, incapace di allontanarsi di casa, sola o con amici, per più di poche centinaia di metri, angosciata dalla sua dipendenza ¯e preoccupata del suo futuro. Deludendo il padre, che avrebbe desiderato che frequentasse la facoltà di medicina, si iscrive a Lettere. Si trasferisce, essendosi allentate un po' le angosce, a Roma nel collegio in cui risiede già una sorella, ma non riesce a concludere nulla. Dopo pochi mesi, la fobia di esporre agli altri le sua debolezza la riconduce al paese. E, non sopporta la mentalità del paese e gli angusti orizzonti della vita familiare: in particolare, la fa soffrire la cieca dedizione della madre ai doveri domestici e il conformismo perbenista paterno. Progetta di frequentare una scuola, a Roma, per stilisti di moda e indossatrici. Urta contro il disaccordo del padre che, alla fine, cede. E, per quasi un anno, si sente affrancata da ogni fobia, e giunge addirittura a partecipare a delle sfilate di moda. Poi, repentinamente, le angosce sociali si ripresentano e la riconducono in famiglia per alcuni mesi. Queste fasi si succedono per cinque anni. Ogni volta, nelle fasi positive, E. si illude che la "malattia" sia guarita.

Si arrende solo allorché l'ultima crisi si realizza repentinamente, da un giorno all'altro, e la blocca in casa dei suoi per alcuni mesi, in una condizione di estrema regressione. Ma si arrende perché se la "malattia" può spiegare i repentini collassi della sua personalità, non può spiegare la rabbia e l'ostilità sempre più manifeste nei confronti dei suoi che si associano alla regressioni.

Con assoluta evidenza oggettiva, l'esperienza di E. pone in luce un confine insormontabile sul tragitto dell'individuazione. Non appena giunge a lambire tale confine ed è in procinto di superarlo, E. è rigettata violentemente al punto di partenza: deve, in breve, tornare a vivere costrittivamente nel modo che le è stato proprio sino all'approssimarsi della maggiore età. La regressione la riconduce in una condizione emozionale di minorità e di. dipendenza dalla famiglia, e la pone di fronte alla prospettiva di accettare un impiego in banca, nel suo paese, che il padre le offre dacchè si è reso conto della sua "fragilità".

E. è consapevole che, nelle diverse fasi che si succedono nella sua vita, è come se funzionassero due diverse personalità: l'una gravita verso la realizzazione di un modello di vita aperto al mondo e fondato su di un'attività quella di indossatrice che postula di viaggiare e di confrontarsi con le situazioni sociali le più varie; l'altra la riconduce negli angusti orizzonti originari che le sorelle hanno accettato: un lavoro sicuro, il matrimonio, la residenza al paese. La dinamica dell'esperienza è chiara: il problema consiste nel capire quali pericoli si configurano al di là del confine fobico, e respingono E. nel suo piccolo mondo antico.

G., quarta ed ultima figlia (ha tre sorelle) di una famiglia abbiente molisana caratterizzata da un conflitto permanente tra i genitori, che non hanno peraltro mai considerato la possibilità di una separazione in nome di un rigoroso tradizionalismo cattolico, è stata considerata da sempre un po' strana: angelica nell'aspetto, ma chiusa, ostinata, introversa e capricciosa. Strana, G. lo è: fin da piccola, disdegna i giochi e la socialità, ama la lettura, l'arte e si dedica con passione crescente alla pittura e al disegno. Chiudendo. nel suo mondo, G. si difende dai conflitti genitoriali e si estranea rispetto al contesto del paese, le cui tradizioni, via via che cresce, le appaiono ipocrite e sterili. La passione per gli studi, intensissima, si associa nella sua anima a una fantasia, che sottende tutta l'infanzia e l'adolescenza, di fuga dall'ambiente familiare e di paese alla ricerca di un mondo nel quale possa riconoscersi ed essere riconosciuta. Nonostante l'educazione religiosa le imponga di sentirsi umile e di non montarsi la testa, G. si sente ed è geniale, almeno per quanto riguarda le attitudini artistiche. Finito il liceo, decide di iscriversi e di frequentare l'Accademia di Belle Arti a Firenze: il progetto è, nel contempo, di autorealizzazione e di fuga. I genitori, dopo qualche resistenza, provvedono a sistemarla in un collegio di suore. A Firenze, G. si sente nel suo ambiente culturale, ma ha difficoltà di contatto sociale. L'ebbrezza dello studio, della pittura, delle assorte sedute nei musei la rendono sempre meno nostalgica dei suoi. I ritorni al paese si diradano, come pure le telefonate e le lettere. Verso la fine dell'anno accademico, G. comincia ad avvertire una vaga inquietudine che ben presto si trasforma in uno stato d'animo delirante. Si sente osservata, spiata rimproverata da infiniti sguardi astiosi. Invano, cerca rifugio nella sua camera. . Nonchè svanire, la persecuzione si incrementa.

In preda al delirio, G. prende il treno e, nel corso del viaggio, si sente accusata di ogni nefandezza. A Roma, è terrorizzata dal padre che è venuta a prenderla; rifiuta di essere toccata. Giunta a casa, per due giorni delira confusamente e tenta più volte di defenestrarsi. Infine, è ricoverata nel reparto psichiatrico dell'Ospedale Civile. Il verdetto diagnostico, per la famiglia, è fatale: schizofrenica. Dimessa dopo due settimane, intontita dai farmaci, viene portata dal terapeuta. Riesce evidente che il primo "volo" di G. verso un'autonomia sottesa da fantasie colpevolizzate di risoluzione dei legami con la famiglia e la tradizione è esitato in una regressione catastrofica. benché intontita, G. comprende immediatamente la dinamica di cui si parla, poiché, poco prima che insorgesse lo stato d'animo delirante, sentiva il peso insostenibile dell'inquietudine e del tradimento nei confronti dei suoi. Si tratta, dunque, di progettare e realizzare un "volo" più consapevole e meno gravato di sensi di colpa. Ai familiari che pongono esplicitamente il problema della diagnosi, si può rispondere in termini di verità: l'anima di G. è di fatto lacerata da un conflitto tra fedeltà al gruppo di appartenenza e volontà di trovare e percorrere la propria via. Se tale conflitto rimanesse immutato negli anni, G. potrebbe "dissociarsi". Ma, nonchè di una realtà attuale, si tratta di una prospettiva catastrofica, molto remota, che può essere scongiurata.

Oltre che rispondere ad un legittimo bisogno del soggetto (e, eventualmente, dei familiari), la "presa di visione" serve a definire, in termini dinamici, i problemi da affrontare terapeuticamente: i problemi, cioè, che, vincolando il soggetto ad un modo di essere visceralmente rifiutato seppure con gradi di consapevolezza diversi , comportano un sacrificio inutile di bisogni e una frustrazione, più o meno rilevante, della libertà.In altri termini, "la presa di visione" deve esitare in una o più ipotesi sul significato struttural-dinamico e sulla genesi del disagio del soggetto. E' assurdo pensare che tali ipotesi possano essere esaurienti. Ma, nell'ottica dialettica, nessun intervento si avvia a partire da una diagnosi nosografica o per capire perché il soggetto sta male. E' importante, insomma, che fin dall'inizio il soggetto si renda conto che l'intervento dialettico è una ricerca orientata da ipotesi di lavoro. Naturalmente, non è sempre agevole delineare delle ipotesi struttural-dinamiche nel giro di alcuni incontri. Le esperienze che abbiamo riportato hanno il pregio di essere trasparenti. Ma è evidente che la loro trasparenza è non meno intrinseca che dovuta al codice interpretativo adottato, e cioè alla teoria struttural-dialettica. Ora, questo codice funziona anche quando ci si confronta con esperienze èopache", nelle quali prevalgono sintomi di inibizione o angosce meramente ipocondriache. Un'esperienza esemplare, a riguardo, è la seguente.

M., a 30 anni, ha già una lunga storia psichiatrica alle spalle. A 20 e a 26 anni ha avuto due lunghi e drammatici episodi deliranti, incentrati sulla convinzione che persone estranee complottassero per impossessarsi della sua mente e indurlo a vivere come un automa. In ambedue le circostanze, egli ha difeso la sua identità dalle manipolazioni con una rabbia giunta a livelli di guardia sociale, al limite dell'esplosione. Ha scongiurato la colonizzazione della sua mente. Ma gli esiti del complotto e della guerra che ha sostenuto sono stati seri. A 30 anni, di fatto, M. vive come un automa, ma non già per influenzamento quanto piuttosto per un totale impoverimento della personalità. Egli non ha né ricordi né pensieri né emozioni. Se si guarda dentro, vede il vuoto, un grigiore assoluto inerziale. E' un essere senza qualità, senza valore, senza identità, che trascina mediocremente la sua vita tra l'ufficio laddove trascorre le ore senza far nulla, sopportato per pietà e la casa, ove, dopo la morte dei genitori, vive con un fratello malato egli stesso (di "schizofrenia") che da tre anni non esce.

La domanda terapeutica di M. verte sulla possibilità di recuperare un'identità smarrita. Due lunghe esperienze psicoanalitiche non hanno conseguito alcun risultato. Come impostare un'ipotesi di lavoro a partire da un vuoto assoluto di contenuti psichici? Entrambi gli episodi deliranti sono stati preceduti da periodi di relativo benessere, nel corso dei quali M. sentiva la sua testa piena di emozioni e di pensieri e avvertiva il bisogno di progettare una vita ricca di interessi, di relazioni e impegnata politicamente. I complotti sono dunque stati realizzati al fine di derubano di questa ricchezza e di investirla in obiettivi alienati. M. serba uno strano ricordo dei persecutori: hanno tentato indubbiamente di influenzarlo, ma afferma a fin di bene. Essi desideravano incanalare le sue energie in maniera positiva, per metterlo al riparo da un esercizio pericoloso della libertà (a 20 anni M. coltivava vaghe fantasie di estrema sinistra, vicini alle brigate rosse), e mantenerlo sulla retta via. Ma qual è questa retta via se non quella originariamente indicata dalla famiglia piccolo-borghese, impregnata di cattolicesimo bigotto, male inserita (per le sue origini provinciali) in un contesto urbano vissuto come pericoloso e disordinato, perennemente preoccupata riguardo al fatto che i figli potessero sbandare e finir male? Di certo, come i fantasmatici successivi persecutori, anche i genitori di M. perseguivano un fine buono. Ma non è in nome di questo fine che egli, bambino vivacissimo, è stato regolarmente picchiato (dalla madre, sino a livelli di sadismo), costretto a frequentare una scuola di suore, sollecitato ad investire tutte le sue risorse nello studio e impedito di giocare, di coltivare qualunque altro interesse (compreso quello spiccatissimo per la musica) e minacciato di rappresaglie allorché, in adolescenza, ha cominciato a manifestare le sue idee comuniste?

Il suo eccellere negli studi fino alle superiori non è stata forse un'alienazione, un modo di investire le sue eccellenti qualità in un progetto deciso da altri e rispondente alle loro aspettative? Ed essendosi questo tema dell'alienazione ripresentato ogni qualvolta M. si è sentito ricco di doti e vitale, c'è da sorprendersi che egli sia giunto a deprivarsi di ogni qualità. Senza identità, vive penosamente, ma, sa anche rimanere sulla retta via le sue resistenze riducendo si all'espletamento formale del suo dovere lavorativo , non è comunque al riparo dalla possibilità di essere derubato, e che qualcuno utilizzi le sue risorse per scopi non suoi? Il paradosso di un'autoalienazione (difensiva e riparativa nel contempo) che lo mette al riparo dalla possibilità di essere alienato, sfruttato dagli altri, è dunque la risposta alla sua domanda terapeutica e l'ipotesi di lavoro da cui può muovere un intervento dialettico.

E', così, evidente che la "presa di visione" giunge alla definizione di ipotesi di lavoro che sono ricche di implicanze teoriche. La definizione del rapporto terapeutico postula, dunque, di mettere il soggetto al corrente di queste implicanze, di informarlo riguardo ai postulati teorici che presiedono l'intervento dialettico, di permetterli di valutare e, se crede, di criticare tali postulati. La teoria dei bisogni e la teoria struttural-dinamica della personalità (o, se si vuole, della mente) devono, pertanto, necessariamente essere "esposte" dal terapeuta dialettico. Qualunque intervento psicoterapeutico non dovrebbe avviarsi sulla base di una delega, per cui un soggetto si affida ad un altro in ragione del ruolo sociale ufficiale che questi ha di terapeuta e che implica un potere, un sapere e delle competenze alle quali quegli deve credere per fede nelle istituzioni sociali (l'università, le scuole di formazione psicoterapeutiche, ecc.).E' noto che gran parte della pratica psicoterapeutica nasce e si fonda sulla delega al ruolo. L'intervento dialettico, per le sue stesse finalità che sono rivolte alla sostituzione della funzione superegoica in nome di una coscienza morale critica, non può avviarsi sulla base di una delega. Esso contrasta, dunque, quando ce n'è bisogno (il più spesso) l'affidamento al ruolo e promuove l'affidamento ad una persona che, fin dall'inizio, cerca di "esporre" le sue competenze, il suo sapere, il sistema di valori a partire dai quali ritiene di poter aiutare il soggetto a riorganizzare la sua esperienza di vita. Naturalmente, ciò implica che il soggetto accetti un potere e un sapere limitati dallo "stato dell'arte", e cioè dall'attuale grado di sviluppo della psicopatologia come scienza, e dalla personalità, in una qualche misura necessariamente alienata, del terapeuta.Esporre i postulati teorici cui fa riferimento l'intervento dialettico impone di tener conto dell'attrezzatura culturale dei singoli soggetti, e non può pertanto essere esemplificato. Basta dire che, nella misura in cui vengono esposti, i postulati teorici non si pongono come verità in cui credere, bensì come coordinate di un tragitto di esperienza terapeutica nel corso del quale il soggetto potrà verificarli o confutar li. E' ovvio, infatti, che quei postulati esprimono null'altro che le conclusioni (ideologiche) cui è pervenuto il terapeuta nel corso del suo tragitto esperienziale: conclusioni che possono o meno essere condivise in rapporto alla loro capacità di dar senso ai fatti umani.Il contratto terapeutico dialettico si articola a partire dalla èpresa di v"sione' dei problemi da affrontare e dall'esposizione dei postulati teorici su cui si fonda l'intervento dialettico.


2. Il contratto terapeutico

La definizione del rapporto terapeutico dialettico esita in un contratto che, per i motivi di cui si parlerà tra poco, potrà essere sia ulteriormente definito sia revisionato nel corso dell'esperienza.Per "contratto terapeutico" si intende un insieme di regole e di valori, condivisi e dunque reciprocamente vincolanti, nel rispetto (critico) dei quali si intrattiene e si svolge il rapporto terapeutico. Trattandosi di un rapporto sui generis, di una forma di relazione interpersonale inconsueta rispetto alla socialità quotidiana, è ovvio che esso debba essere organizzato per es. per quanto concerne la sede, la durata, il numero degli incontri, la remunerazione del terapeuta privato, ecc. e che si debba definire un quadro di valori atto a sancire i diritti e i doveri dei contraenti. Il termine contratto lascia pensare che a ciò si pervenga attraverso una contrattazione. Di fatto, nella pratica psicoterapeutica corrente, accade il più spesso che le uniche regole esplicitate sono quelle organizzative che vengono proposte, con scarsi margini di flessibilità, "a scatola chiusa", come regole da accettare nel nome di una teoria o di una tradizione che le convalida. Esse, in breve, mirano soprattutto a "ingaggiare" il paziente (e il sistema familiare) e a sancire il potere del terapeuta, che viene fatto discendere dall'autorevolezza della teoria o dea tecnica che adotta. I tentativi, rari ma non eccezionali, dei pazienti di contrattare il rapporto prima di impegnarvisi vengono automaticamente interpretati come espressione o di ribellismo o di scarsa motivazione terapeutica. Ciò dipende da un presupposto ideologico diversamente argomentato ma pressochè comune a tutte le tecniche terapeutiche, che attribuisce ai soggetti disagiati o ai microsistemi di cui fanno parte una tendenza alla trasgressione e/o all'inerzia omeostatica. Tale presupposto serve soprattutto a giustificare un bilancio, preliminare o di chiusura, piuttosto deludente e paradossale, secondo il quale coloro che non accettano le regole non possono "guarire", e coloro che le accettano passivamente sembrano, alla lunga, non voler "guarire". Non v'è dubbio che dinamiche trasgressive e omeostatiche sottendono pressochè costantemente le esperienze psicopatologiche e i contesti familiari in cui queste si delineano. Ma un contratto terapeutico dialettico, nonchè mirare a contenere e/o frustrare quelle dinamiche, tende a valorizzarle in fase di contrattazione, e cioè a porre le fondamenta di un rapporto democratico e non gerarchico. Ciò significa che, prima di definire delle regole, è importante, nell'ottica dialettica, mettere in discussione la natura contrattuale non già del rapporto terapeutico, bensì di qualsivoglia rapporto interpersonale che non sia occasionale ed effimero. Assumendo questo punto di vista, la tendenza dei soggetti disagiati a contestare le regole o ad accettarle passivamente risulta meno sorprendente della pressochè universale inconsapevolezza riguardo alla natura contrattuale dei rapporti interpersonali. Tale inconsapevolezza ha un fondamento ideologico. Nessuno di fatto ignora che, nell'esperienza sociale, tutti i livelli di interazione interpersonale sono governati da regole, che sanciscono diritti e doveri dei contraenti. Ma il paradosso è che questa consapevolezza viene meno via via che si entra nella sfera della vita di relazione privata, e sembra estinguersi in proporzione diretta alle valenze affettive dei rapporti.Ciò è dovuto ad un'ideologia maturata lentamente nei secoli in riferimento al progressivo allentarsi degli obblighi inerenti i legami di parentela e alla loro sostituzione con gli affetti, vissuti come vincoli spontanei non costrittivi o, meglio, non imposti dalla tradizione. In conseguenza di questa ideologia, l'universo dei rapporti interpersonali è giunto ad essere significato alla luce di una scissione, che definisce contrattuali, e cioè assoggettati a regole, i rapporti che implicano scambi di lavoro, di beni e di servizi, e non contrattuali quelli che si fondano su vincoli affettivi, ai quali si attribuisce un potere autoregolativo.Se si vuole prendere atto di questa ideologia, e della scissione che essa ha prodotto, basta pensare, per es., al rapporto matrimoniale, che era e continua ad essere un contratto giuridico, tal che le persone, sposandosi, assumono degli obblighi non solo tra loro ma anche nei confronti della comunità che, con le leggi e le tradizioni, sancisce la loro unione. Mentre in passato, il carattere contrattuale e sociale del matrimonio era assolutamente prevalente rispetto alle valenze affettive, oggi, e ormai da tempo, queste ultime hanno un rilievo tale da indurre le persone, il più spesso, a considerare il matrimonio un fatto privato, fino al punto di ignorare la sua natura contrattuale, che torna ad affiorare il più spesso nel caso di separazioni e divorzi. L'occultamento ideologico degli obblighi sociali parentali per mezzo degli affetti ha trasformato il dovere espressione di un contratto in debito espressione di amore e/o gratitudine. Di conseguenza, la trasgressione si è configurata in termini di tradimento, e cioè di colpa morale. Non è per caso che questa "mutazione" ideologica, rendendo misteriose le origini del disagio psichico, abbia prodotto la nascita della psicoanalisi. né sorprende che Freud, del tutto inconsapevole di quella mutazione, sia stato spinto ad organizzare, e a imporre come contratto, un insieme di regole atte a promuovere, attraverso la regressione e il transfert, la confessione della colpa.L'importanza di quella scissione ideologica, ai fini del contratto terapeutico dialettico, è ovvia. Se è vero, infatti, che in ogni esperienza psicopatologica il conflitto strutturale si fonda su di un debito da pagare in nome dell'appartenenza, e che tale debito la cui entità e le cui modalità di pagamento sono diverse da caso in caso è maturato e persiste in conseguenza di vincoli affettivi, non si stenta a capire perché i soggetti disagiati tendano o ad ignorare il carattere contrattuale del rapporto terapeutico, dando ad esso un improprio significato familiare, o a sottolineare la dimensione "tecnica" del rapporto in maniera tale da escludere che esso, divenendo significativo, possa comportare un ulteriore indebitamento.Porre in luce e demistificare la scissione ideologica di cui si è parlato, è necessario per promuovere la coscienza che tutti i rapporti interpersonali sono dunque, di fatto, contrattuali, e comportano dunque delle regole di scambio. Laddove l'oggetto di scambio non è di ordine immediatamente economico, nondimeno esso è rappresentato da valori: valori affettivi, che, attraverso l'indebitamento, promuovono l'accettazione di valori culturali, morali, religiosi, politici e impongono un modo di essere non obbligatorio ma attestante la fedeltà del soggetto al gruppo di appartenenza. Con una logica propria dei rapporti economici, i rapporti interpersonali privati, affettivi sono orientati a capitalizzare i valori cui si attribuisce il potere di produrre un surplus che torni a beneficio comune. Questa capitalizzazione, in ultima analisi, rappresenta un contratto mascherato dall'investimento degli affetti e dall'indebitamento che ad esso fa capo. Oggettivare questa mistificazione postula di riconoscere quei valori e interrogarsi su chi ne trae veramente beneficio. Di ciò, nella vita quotidiana, non si dà consapevolezza alcuna. Ma non è proprio a ragione di questo difetto che impedisce agli uomini di oggettivare gli scambi "produttivi" che avvengono a livelli privati che si è definita la necessità di una pratica psicoterapeutica, e cioè di rapporti "artificial"" interpersonali che mirano a trasformare le esperienze di disagio psichico in esperienze il cui valore d'uso coincide, per quanto possibile, con i bisogni del soggetto?Ma ciò non implica anche, per la fondazione sociale della personalità, che laddove il valore d'uso la soddisfazione che il soggetto trae dalle sue risorse è carente, questo significa che il soggetto deve investire le sue risorse in un qualche scambio da cui non trae vantaggio e dunque lo aliena?Da questo discorso, il contratto terapeutico viene ad essere fondato nella sua natura particolare e nelle sue finalità: quella natura e queste finalità ne definiscono le regole.Si tratta di un rapporto "artificiale" solo per quanto concerne la circostanza che lo inaugura: una domanda di terapia che un soggetto, che non riesce a dare alla vita un valore d'uso, rivolge ad un estraneo, al quale attribuisce un potere che può essere fruito al fine di migliora re la qualità della vita. Ma quella circostanza, eccezion fatta per il carattere volontario con cui viene posta la domanda, per la sua casualità non è affatto diversa dalle circostanze più importanti che presiedono l'esperienza di ogni essere umano: nascere in una famiglia e in un contesto socio-storico particolari, affidati dal caso, frequentare una scuola e un quartiere piuttosto che un altro, incontrare un partner nell'orizzonte della frequentazione sociale occasionale, ecc. In quanto "artificiale" il rapporto terapeutico lo è ad un di presso come tutti i rapporti significativi della vita: il problema, da questo punto di vista, consiste nel valutare, attraverso l'esperienza, se esso possa diventare significativo. Rispetto ad altri rapporti significativi, il rapporto terapeutico dialettico ha un carattere differenziale importante: non sollecita né privilegia un affidamento cieco sia di ordine affettivo che ideologico, anzi promuove, mantiene e, se è il caso, produce un atteggiamento critico. La sua finalità, che non può essere conseguita se non al prezzo dell'autenticità, consiste nel tentare di capire come e perché l'esperienza del soggetto si è strutturata in maniera alienata, tal che le sue risorse e i suoi bisogni, risultano investiti in un rapporto di scambio (reale e/o simbolico) che, imponendo un inutile sacrificio, minimizza o azzera le possibilità di ricavare dal loro investimento un valore d'uso. Ma tale finalità, essendo imposta da un disagio psicopatologico, impone di prendere atto che quanto è avvenuto (quali che siano le ragioni) nel corso della vita del soggetto implica che i rapporti interpersonali, in particolare quelli affettivi, possano, per il loro carattere alienato, produrre alienazione: e cioè produrre un sacrificio inutile di bisogni in nome di una logica di scambio che deve pur risultare vantaggioso per qualcuno o per qualcosa. Il disagio psicopatologico in sé e per sé attesta il fatto che, nel sistema sociale, a tutti i livelli di rapporto interpersonale, sussistono regole e valori tali che lo scambio, che dovrebbe produrre un surplus condiviso dagli agenti, dà luogo all'alienazione, e cioè ad una perdita per qualcuno. La nozione stessa di alienazione sociale mette al riparo dal riduzionismo microsistemico, che insiste a voler confinare il profitto, che è l'ovvia. conseguenza di quella perdita, nei limiti dell'economia familiare o privata.L'analisi della natura contrattuale dei rapporti interpersonali porta, dunque, naturalmente a prendere atto che, in tutti i rapporti, a qualunque livello della vita sociale, avvengono scambi in nome di valori che assumono l'uomo come mezzo e cioè come parte di un tutto cui deve essere devoluto il capitale dei suoi bisogni o come fine e cioè come parte di un tutto la cui valorizzazione può e deve essere condivisa. In conseguenza di ciò, il rapporto terapeutico dialettico comporta come ovvia regola contrattuale uno scambio tra soggetti che si vivono reciprocamente come fini e non come mezzi. Ma in concreto cosa significa questo? perché i soggetti siano pure essi un terapeuta e un paziente - possano viversi come fini, non occorre forse che lo scambio che si instaura tra essi abbia uno scopo comune? E quale può essere questo scopo se il terapeuta, in ultima analisi, esercita, in privato o in pubblico, una professione e il paziente accetta un rapporto terapeutico solo sollecitato dal disagio e con l'unico scopo di giungere a vivere meglio? La risposta, nell'ottica dialettica, è semplice: posto il concetto di alienazione sociale, di cui l'alienazione psicopatologica rappresenta un'espressione, chi libera sé (nella misura in cui si libera), libera gli altri. E, dato che nessuno può pretendere una liberazione totale, è chiaro che il terapeuta, nell'esercitare il suo ruolo, mira, nonchè a porre i presupposti della liberazione del soggetto, a liberare se stesso, comprendendo sempre meglio i meccanismi dell'alienazione sociale di cui partecipa. Il suo scopo, che può essere dichiarato, non è incompatibile con lo scopo del soggetto, poiché egli non intende ricavare un profitto a danno di questi, quale che sia. E lo scopo del soggetto, nella misura in cui è perseguito attraverso un intervento dialettico, non può, per ovvi motivi, comportare. solo il vantaggio (peraltro essenziale) di vivere meglio, poiché esso non può essere raggiunto che attraverso una consapevolezza dell'alienazione destinata a modificare irreversibilmente il suo modo di essere e di porsi nel mondo e il suo modo di leggere i fatti umani. Nonchè strumentale, il contratto terapeutico dialettico, che muove dal presupposto che tutti i rapporti interpersonali possono essere usati per alienare o liberare i bisogni umani, giunge così a porsi come eticamente coercitivo.Esso, in altri termini, al di là di regole meramente formali, che possono essere criticamente contrattate (e concernono la sede, il numero, la durata degli incontri, e, a livello privato, la remunerazione del terapeuta, ecc.), impone di vigilare, cogliere e interpretare senza riserve gli eventuali livelli di strumentalizzazione reciproca che possono occorrere nel corso del rapporto terapeutico. In questa ottica, come si vedrà meglio successivamente, il problema psicoanalitico del transfert e del controtransfert assume un significato molto più ampio rispetto alla tradizione che lo ha posto.Quanto alla neutralizzazione tecnicistica del rapporto, proposto dalla terapia familiare, e, anche, purtroppo, in nome della logica dei servizi pubblici, da una componente del movimento basagliano, basta rilevare che quell'impostazione, per evitare coinvolgimenti affettivi transferali e controtransferali, ignora l'ideologia che li sottende, e la cui analisi è un momento imprescindibile di un contratto terapeutico autenticamente democratico.Esemplificare la fase di contrattazione non è semplice, data la varietà delle situazioni e dei problemi che in essa si affrontano. Le esperienze che seguono, di certo non esaurienti, sono, però, sufficientemente significative.

P., che vive un'esperienza ossessiva intessuta di gravi sensi di colpa di matrice religiosa, ma, nel contempo, è credente e praticante, pone come pregiudiziale per impegnarsi nel rapporto terapeutico di essere rassicurato sulla concordanza di confessione religiosa da parte del terapeuta. Tale concordanza non sussiste, chè il terapeuta non professa alcuna fede religiosa. Il timore di P. che ciò possa comportare dei fraintendimenti riguardo le sue esperienze e delle manipolazioni orientate a togliergli, con la sofferenza nevrotica, la fede, si pone come un impedimento al contratto terapeutico, nonostante il terapeuta esprima la sue tolleranza nei confronti di qualsivoglia fede che non ostacoli l'autorealizzazione umana, imponendo inutili sacrifici. La difficoltà persiste, poiché P. sente l'autenticità del terapeuta, e dunque non intende rinunciare al rapporto, ma, nel contempo, non riesce a risolvere la remora ideologica. Per circa 3 mesi, gli incontri vertono, in maniera molto aperta, su tematiche religiose. Ciò che risulta infine chiaro a P. è che la difesa della fede da un pericolo inesistente esprime, nonchè l'intensità della stessa, un cieco atto di fedeltà nei confronti di una tradizione familiare che, in nome dei valori cristiani, ha preteso che i figli evitassero qualunque contatto e scambio con un mondo quello dei non credenti vissuto come fuorviante e univocamente immorale. Sulla base del riconoscimento di questo pregiudizio, e dunque dell'esistenza di sistemi di valore diversi religiosi e laici egualmente degni di rispetto, e che non escludono una interazione positiva tra i soggetti che li praticano, il contratto terapeutico può essere sancito.

M., dall'età di 21 anni, amministra "in proprio" una condizione nevrotica insorta con un grave attacco di panico, che ha limitato drasticamente la sua libertà di azione imponendogli di dipendere da un referente familiare. Quando decide di aver bisogno di un aiuto psicoterapeutico, ha 27 anni. Propone egli stesso un ciclo di colloqui "esplorativi". Il suo atteggiamento, di fatto, è evidentemente cauto e discretamente diffidente. Intuendo che l'avventura psicoterapeutica, per quanto lo riguarda, non potrà avvenire che una sola volta, M. non intende effettuare una scelta irreversibile che potrebbe risultare errata. Il terapeuta concorda senza esitazione su questa cautela, nella quale legge, nonchè diffidenza, il bisogno critico di mantenere il controllo su una tendenza all'affidamento cieco, promossa dalla sofferenza.

Questo discorso offre l'occasione di riflettere sul significato del caso, che, gettandosi nel mondo, determina, per molti versi, la nostra esperienza, e sul diritto adulto di ridurre l'incidenza del caso per effetto di scelte relativamente libere e consapevoli. D'altro canto, la fedeltà al gruppo di appartenenza cui M. è costretto dall'epoca in cui si è definito il disagio, non esprime forse la traduzione del caso in necessità? E se M. ha già sperimentato che lo stabilirsi di rapporti significativi si traduce in obblighi di fedeltà, e trasforma i bisogni di risoluzione dei legami in fantasie colpevoli di tradimento, non è ragionevole che egli esiti a impegnarsi in un rapporto interpersonale terapeutico che, alla lunga, potrebbe configurarsi come significativo e vincolante? Il discorso, in breve, autorizza M. a diffidare e a mantenere il suo potere contrattuale, anziché rinunciare ad esso per fede o per bisogno. E' a questo punto che M. si sente affrancato dal peso di nascondere un tradimento in atto. Egli confessa di aver consultate nello stesso periodo un altro terapeuta e di essersi riservato di decidere a chi affidarsi attraverso un confronto. Ha celato ad entrambi la verità e sente perciò di star giocando su due tavoli una partita sporca. Il terapeuta riconosce in tale comportamento l'esercizio di un diritto, del quale M. non deve rendere conto ad alcuno. Non solo il contratto terapeutico non esclude circostanze del genere, ma autorizza il soggetto, anche nel corso del rapporto, a consultare chiunque e, se vuole, a valutare in altra sede i risultati del lavoro. M. è colpito favorevolmente da questa "trasparenza", anche perché l'altro terapeuta, messo al corrente di come sono andate le cose, non appare affatto orientato a condividerle. Su questa base, il contratto terapeutico dialettico viene sancito.

E' evidente, anche in riferimento a due sole esperienze, che la fase di contrattazione dialettica non mira solo a definire regole organizzati ve, bensì piuttosto ad inaugurare un rapporto tra eguali nei diritti e nei doveri nel corso del quale il potere del terapeuta, definito dalla dipendenza del soggetto, è, nonchè uno strumento di cura, un problema da risolvere. E' anche chiaro che, nella fase di contrattazione si delineano spesso i problemi inerenti soprattutto il potere e gli obblighi nei rapporti interpersonali sui quali si lavorerà. Di certo, accettando il contratto terapeutico, il soggetto sancisce, per alcuni aspetti, la sua "condanna" a dipendere. Ma l'intervento dialettico mira, per sua natura, a tradurre questa condanna in uno strumento di liberazione. Ciò, come si vedrà, vale in tutto il corso del rapporto, ma soprattutto nelle fasi risolutive.


3. La traduzione dialettica

Con la definizione del rapporto terapeutico, che esita nel contratto, l'intervento dialettico si istalla sul registro che lo caratterizzerà sino alla conclusione: il registro della traduzione. Come sono strutturate dalla scissione e dal conflitto tra i bisogni, così le esperienze psicopatologiche sono sovrastrutturate da codici che assicurano alla coscienza un minimo di coerenza e mirano a preservare l'identità personale e sociale da minacce riconducibili alle tre grandi paure (di morire, di impazzire e di commettere crimine). Il carattere comune ai codici psicopatologici è la mistificazione, e cioè la capacità di schermare la coscienza in rapporto al patrimonio concreto dell'esperienza soggettiva, esitato in un vicolo cieco la scissione e la conflittualizzazione irriducibile dei bisogni , e di orientarla prescrittivamente verso ideali dell'io che, siano essi condivisi o meno dal soggetto, assicurano la persistenza dell'identità personale e sociale. La traduzione, dunque, è una demistificazione, il cui carattere dialettico è dato dal fatto che essa utilizza un nuovo codice, riferito alla teoria dei bisogni per promuovere l'oggettivazione dell'esperienza psicopatologica, la capacità del soggetto di prendere visione delle contraddizioni che la animano e che si ricavano dal livello dei vissuti, dei sintomi, dei comportamenti. Per essere efficace la traduzione, che postula l'elaborazione di ipotesi da parte del terapeuta, deve essere, se non consentita, accolta dal soggetto come logicamente possibile. Essa, dunque, concernendo la struttura psicopatologica, e cioè il livello sincronico dell'esperienza, non comporta alcuna verifica interiore e prescinde dalla ricostruzione genetica.Il suo compito consiste nel sottolineare l'insufficienza dell'organizzazione ideologica cosciente a contenere e a dare senso ai dati di esperienze attuali e oggettivabili. Nel contempo, essa mira a indurre nella coscienza l'intuizione che esistono codici interpretativi diversi, e più comprensivi (in senso letterale) di quelli che essa adotta. Tali codici, univocamente, evidenziano un conflitto che incombe sulla identità personale e sociale e, in modi diversi, le minaccia.Esemplificherò il metodo della traduzione dialettica in riferimento ad una serie di esperienze diversamente organizzate sotto il profilo fenomenologico, che, nel loro complesso, ricoprono tutto l'universo psicopatologico. Tali esperienze vengono descritte, in questo capitolo, nel loro esordio. Non sempre l'intervento dialettico si è avviato in questa fase, ma esso si è articolato costantemente a partire dai livelli fenomenologici, che, dall'epoca in cui si definisce un disagio psichico, lasciano trasparire una struttura e la sua continuità attraverso le trasformazioni. Nei capitoli successivi, le esperienze descritte verranno illustrate nei loro sviluppi terapeutici.

F. vive una perpetua paura di morire, attivata da vertigini e altre strane sensazioni, tutte riferite alla testa, che evocano il dubbio soggettivo di un tumore cerebrale. In conseguenza della paura, essa vive letteralmente aggrappata alla madre e al fidanzato, incapace di fare a meno della presenza dell'uno o dell'altra sia pure per pochi secondi. Tale stato di dipendenza totale è coscientemente giustificato dal fatto che la presenza della madre e del fidanzato conseguono costantemente l'effetto di attenuare le vertigini e, di conseguenza, la paura di morire. Ma qual è, infine, il potere terapeutico di persone che non hanno alcuna competenza medica, e com'è possibile che un tumore cerebrale moduli i suoi sintomi in rapporto alla presenza o all'assenza di persone care? F. afferma che queste, in caso di necessità, sarebbero in grado di accompagnarla al più vicino ospedale. Ma, di fatto, ad un anno dall'esordio dei disturbi, una circostanza del genere non si è mai verificata. Dunque, è semplicemente lo stare in relazione con la madre e il fidanzato che realizza un effetto lenitivo dell'angoscia. Ciò, per alcuni aspetti, è psicologicamente comprensibile. Ma c'è dell'altro.

Paradossalmente, quando F. ha le vertigini entra in uno stato di grave irrequietezza fisica: non può stare ferma né seduta, e deve evitare, nella maniera più assoluta, di sdraiarsi e stare ad occhi chiusi, pena un accentuarsi estremo delle vertigini. Nel contempo, muovendosi nello spazio domestico come un "animale in gabbia", essa deve fare la massima attenzione a non scuotere minimamente la testa. Si realizza, pertanto, a livello comportamentale, una singolare dissociazione tra la testa che va tenuta immobile e in assetto rigido, e un corpo pervaso da una straordinaria irrequietezza che richiede un perpetuo movimento. A livello di vissuto, tale irrequietezza si associa ad un impulso a fuggire inibito dalla necessità di rimanere in relazione con la madre e il fidanzato. Questa dissociazione è densa di significato.

Le vertigini di natura organica comportano, di necessità, una reazione di immobilizzazione. Le persone che ne sono affette sperimentano la posizione sdraiata ad occhi chiusi come la più vantaggiosa ai fini dell'attenuarsi dei sintomi. Tale posizione è, invece, la più temuta da F.. Come giustificare questo paradosso? E, inoltre, che senso ha l'impulso a fuggire, che F. avverte distintamente, da uno spazio nel quale sono presenti le persone che la rassicurano? L'ipotesi che si può avanzare, per risolvere queste contraddizioni, fa leva sulla dissociazione tra la testa e il corpo: assumendo queste parti come espressioni di un conflitto tra bisogni, riesce evidente che la prima mira a immobilizzare F. nella dipendenza, la seconda a indurre la fuga dalla dipendenza. Dissociazione ancor più significativa se si adotta un minimo di simbolismo, in virtù del quale F., per non rischiare di ritrovarsi sola a combattere con la morte, deve mantenere la '"testa a posto", ma, a tal fine, deve fare i conti con un corpo carico di un'irrequietezza che, se non controllata, indurrebbe la fuga dagli spazi privati agli spazi sociali. La testa impone, dunque, a F. la dipendenza e l'accettazione delle relazioni con la madre e il fidanzato, il corpo smania per liberarsi da esse e fuggire verso il mondo.

A., giovane dottoressa specializzanda in neurologia, comincia a star male repentinamente. Il sintomo, che compare senza motivi apparenti, è un pianto incoercibile, che sopravviene più volte nel corso della giornata, nelle circostanze più banali. Al pianto non corrisponde alcun vissuto interiore, se si eccettua una vaga irrequietezza che data da qualche tempo. Dopo poche settimane dalla comparsa del sintomo, l'irrequietezza si trasforma d'emblèe nella convinzione soggettiva di essere affetta da un tumore maligno al cervello. La convinzione è sostenuta da accessi di mal di testa e da vaghe sensazioni che A. è in grado di valutare soggettivamente come poco significative da un punto di vista clinico. Ciononostante, la paura si incrementa e induce A. a sottoporsi ad una serie di esami che risultano negativi. La rassicurazione dura pochi giorni: la paura ipocondriaca si ripresenta e cambia contenuto. Valorizzando alcuni tremori alle palpebre e alle labbra, A. si convince di essere affetta da una malattia degenerativa del sistema nervoso, ad esito progressivo e inesorabilmente fatale. La traduzione dialettica, in questo caso, non può trascurare la cultura medica del soggetto.

A. sa bene che i processi neoplastici e quelli degenerativi sono antitetici: gli uni comportano un'esplosione di potenzialità di crescita che risultano fatali poiché si sottraggono a ogni controllo da parte dell'organismo; gli altri determinano, viceversa, la morte per atrofia di stipiti cellulari altamente differenziati. Da una parte, c'è una crescita maligna, dall'altra una perdita di vitalità funzionale. Maligna è una componente dell'organismo che si sottrae all'equilibrio sistemico, degenerata è una componente che muore, venendo meno alle sue funzioni. Escluso, per effetto dei controlli medici, il fondamento realistico delle angosce ipocondriache, rimane da spiegare il significato del loro affiorare a livello cosciente.

L'ipotesi che si avanza è che quelle angosce riguardino un conflitto tra la parte e il tutto: la parte potendo essere identificata con una quota di bisogni che A. vive come destinati a dar luogo ad una crescita incontrollata o ad atrofizzarsi; il tutto potendo riferirsi sia all'identità normale già raggiunta sia al microsistema di cui A. fa parte. Da questo punto di vista, i termini medici assumono un rilievo semantico singolare: maligno è ciò che compromette, per eccesso di vitalità priva di controllo, l'equilibrio del tutto cui si appartiene; degenerato è riferito al genus, alla famiglia, allo stipite cui si appartiene, e rispetto al quale vengono meno le stimmate dell'identità di appartenenza.

In seguito a ciò, è possibile ipotizzare che in A. si sia messo in azione un bisogno di differenziarsi, di crescere e di individuarsi, che, rispetto alla normalità su cui ha modellato la sua identità e all'equilibrio del sistema di appartenenza, possa essere stato significato come squilibrante e, in ultima analisi, fatale per sé o per gli altri.

R., subito dopo aver conseguito la licenza liceale, cade in uno stato di repentina apatia ed insicurezza. Si sente svuotato di ogni energia e progettualità, teme e rifugge i contatti sociali, avverte, negli sguardi dei condomini, un giudizio negativo il cui contenuto è indecifrabile. Lentamente, nel giro di alcuni mesi, si definisce un quadro piuttosto serio di depressione inibita, che costringe R. ad un isolamento domestico pressochè totale, dal quale egli può uscire solo per recarsi quotidianamente in chiesa. Colà, trovandosi intruppato in una schiera di vecchine, si sente drammaticamente assimilato ad una categoria di persone senza vitalità, e chiede invano al Signore la grazia di restituirgli la gioia giovanile di vivere. Decide, infine, di rivolgersi ad un ipnoterapeuta. Dopo quattro incontri, nel corso dei quali gli viene somministrato un messaggio che gli impone di aver fiducia in se stesso, la depressione si risolve magicamente. I sintomi scompaiono da un giorno all'altro, e R. si sente pieno di una straordinaria energia, di gran lunga maggiore di quanta ne avesse sperimentata in passato. E certo che la cura sia stata solo l'occasione attraverso la quale è avvenuto, in senso letterale, un miracolo. Riprende a vivere, a frequentare persone, a praticare sport, comincia a lavorare presso un'agenzia assicurativa e avvia un rapporto molto intenso con un ragazza coetanea.

Per alcuni mesi, la "spinta" sembra inesauribile. Il lavoro non rende gran che, ma R. vede davanti a sé prospettive di successo elevate. Organizza una vita abbastanza dispendiosa, gravando sui genitori che godono di un modesto benessere ricavato da un regime di vita estremamente parsimonioso (il padre è un funzionario statale). Le pretese di R. aumentano progressivamente: si fa comprare una moto di grossa cilindrata, esce quasi tutte le sere, trascorre i weekend in una casetta di montagna di proprietà dei suoi. Nonostante i genitori non lo contrastino esplicitamente, R. avverte un crescente "nervosismo" nei loro confronti e giunge in più occasioni, per banali circostanze, ad aggredirli verbalmente. Dopo qualche mese, ricomincia a sentire dentro di sé l'incubo della depressione. Terrorizzato, tira ancor più la corda, assumendo nei confronti dei suoi un atteggiamento manifestamente sprezzante, dedicandosi freneticamente alla pratica della sessualità, e sospendendo la frequentazione della chiesa.

L'incubo si realizza nel corso di un weekend, inaugurato da una lite con i genitori. R. accusa una completa dèfaillance sessuale, alla quale segue un repentino svuotamento di energie. Per non esporsi ad ulteriori esami, tronca repentinamente il rapporto con la ragazza. Tornato a Roma, si sente fragile e vulnerabile, timoroso di ogni contatto sociale, oscuramente colpevole e indiziato da tutti. Abbandona il lavoro, le amicizie, le moto, e si isola nuovamente in casa. Tenta di rinnovare il rapporto con Dio, ma la parabola del figliol prodigo, che lo ossessiona, lo inabissa in una vergogna sempre più profonda. E evidente che R., minacciato dalla condivisione del modello familiare mortificante, autorizzato dall'ipnoterapia ad anestetizzarsi e ad essere sanamente egoista, è fuggito verso un modello edonistico. Ma, data la modalità della fuga, atta ad indebitarlo e a colpevolizzarlo per la sua ingratitudine, è finito, senza rendersene conto nella trappola del traditore e del profittatore.

L'ipotesi è comprovata meno dal rapporto con i genitori che con Dio. R. si è sentito di fatto, e non metaforicamente, miracolato; come può dunque giustificare l'ingratitudine di un credente che dimentica Dio dopo averlo usato?

A., a trentadue anni, gestisce da sola, come dipendente, un negozio di abbigliamento maschile. Sposata, con un figlio, è una donna di particolare avvenenza, che, per mascherare una ' timidezza' di antica data, si trucca e si veste in maniera tale da dare di sé un'immagine sicura, spregiudicata e seducente. Un cliente comincia a corteggiarla insistentemente. A., lusingata, finisce per cedere meno per reale desiderio che per compiacerlo. Dopo pochi giorni, comincia a sentirsi spiata sul posto di lavoro da agenti in borghese che la riterrebbero coinvolta in un traffico di droga. Rapidamente, il controllo persecutorio si estende a tutta la sua vita. A. legge negli sguardi delle persone, per strada e sull'autobus, giudizi di riprovazione nei suoi confronti e oscure minacce. Abbandona il posto di lavoro e si chiude in casa, senza peraltro trovar pace. Si rifugia infine dalla madre, e regredisce in uno stato di grave depressione inibita. I suoi pensano ad un esaurimento dovuto al lavoro. A., ruminando giorno e notte intorno alle accuse che ormai provengono da tutto il mondo, giunge alla convinzione di essere posseduta dal demonio. Viene condotta alla Scala Santa, ove la vista di una "posseduta" che si contorce con la bava alla bocca, la pone di fronte a ciò che essa teme di diventare. In conseguenza di ciò, tenta di suicidarsi ingerendo dei sonniferi.

La traduzione dialettica è elementare. A. aspira a vivere aperta al mondo, nel ruolo di donna sicura e padrona di sé, ma l'esposizione comporta delle "tentazioni" ch'essa non riesce ad arginare meno per effetto di pulsioni erotiche che per la tendenza a compiacere e soddisfare le aspettative di chi, interessandosi a lei, la conferma. La sperimentazione di questa debolezza che non si associa coscientemente a sensi di colpa, la induce ad abbandonare il ruolo di donna aperta al mondo e a chiudersi nello spazio domestico, ove si sente incarcerata. Nonchè uscirne, affrontando i giudizi della gente, essa è costretta a regredire ulteriormente nel ruolo di figlia e, infine, di bambina.

M., a trentasei anni, comincia a sperimentare l'inutilità di un'esistenza che si svolge tra casa, lavoro impiegatizio e chiesa. Attraversa un breve periodo di depressione, che repentinamente vira in un'euforia mai sperimentata. M. comincia a curare il suo aspetto e l'abbigliamento, esce la sera e prende a frequentare persone e ambienti inconsueti. Infine riallaccia un rapporto con un uomo sposato con cui ha avuto una relazione a vent'anni. Lo scandalo, tra parenti e amici (quasi tutti gravitanti intorno alla parrocchia ), è grave. M. sembra assolutamente insensibile ai loro buoni consigli e ai rimproveri. Sicura di dover pensare finalmente a se stessa, propone al partner la convivenza. Questi lascia la moglie e la figlia, trasferendosi presso M.. Per alcune settimane, costei vive sull'onda di un entusiasmo mai sperimentato. Le sue energie sono inesauribili: lavora, accudisce la casa e il compagno, e la sera si attarda con questi fuori casa. L'unione perfetta sembra realizzare un antico sogno: ma è un effetto illusionale. Ben presto, M. avverte le resistenze del partner ad un regime di vita giovanilistico. Egli comincia ad affermare i suoi diritti da "marito": vuole essere servito e non offre alcuna collaborazione a livello domestico, contrasta le uscite serali per vedere il televisore, pretende da M. una disponibilità sessuale completa. Per amore, M. cede alle sue esigenze, ma comincia ad essere nervosa, irritabile e provocatoria. Serve il partner come una schiava, nel timore che egli possa tornare a casa sua, attratto da una moglie disposta ad accoglierlo, a perdonarlo e a servirlo, ma, nel contempo, sperimenta nei suoi confronti una rabbia crescente.

Un episodio apparentemente banale precipita la situazione. Una domenica pomeriggio, il partner "requisisce " il televisore e segue per ore le partite di calcio, poi, dopo cena, impone a M. un rapporto sessuale frettoloso, dopo il quale torna a vedere il televisore. Repentinamente M. è indotta a pensare di essersi portata in casa un padrone, che, ormai fa di lei quello che vuole. Arrabbiatissima per l'inganno di un amore che l'ha indotta ad assumere un atteggiamento senile che essa ha sempre rifiutato e criticato, si veste ed esce da sola, alla ricerca di amici. Ma, in macchina, sfumata l'euforia della ribellione, comincia a sentirsi incerta, smarrita, incapace di guidare. Torna a casa umiliata, non riesce a dormire, e il mattino seguente regredisce in una grave depressione che le impedisce di muoversi. Dopo pochi giorni, l'uomo, incapace di assisterla, l'abbandona. M. è costretta a rivolgersi ai suoi, a far venire la madre in casa, e ad affidarsi completamente a lei, anche se avverte il peso dei suoi inespressi rimproveri.

Dal punto di vista della teoria dei bisogni, il tragitto esperienziale di M. è trasparente. Presa coscienza di una condizione di vita mortificante e alienata, M., con l'eccitamento, tenta di affrancarsi dalla rete dei vincoli parentali, dei valori morali e dei ruoli sociali che l'hanno indotta, per anni, a privilegiare quella condizione. Ma la sua ribellione, sottesa dall'esigenza di affermare i suoi diritti come persona rispetto alle ragioni degli altri, esita nella scoperta di aver solo cambiato padrone, di essersi messa nel ruolo tradizionale della moglie completamente asservita ai bisogni del marito. Essa ha compromesso irreversibilmente la sua immagine sociale, ha tradito il suo debito di appartenenza, per giungere a ritrovarsi in una condizione che agli occhi degli altri appare scandalosa, e ai suoi umiliante.

Nonchè imperdonabile, la sua colpa, orientata alla liberazione personale, è anche insignificante. M. non è riuscita ad affrancarsi dalla logica di disponibilità servile che governa il suo modo di relazionarsi, l'ha solo trasferita in un contesto di rapporto che l'ha resa più trasparente, riducendo in maniera estrema la sua libertà. La depressione segnala la rabbia di questo autoinganno; ma, venuto meno l'eccitamento, M. può affrancarsi dalla schiavitù solo regredendo nell'autoinvalidazione e nell'affidamento imbelle ai suoi, che ha tradito.

A ventotto anni, P., impiegata in banca, sposata ad un funzionario bancario estremamente conformista e dedito unicamente alla carriera, con una bambina di cinque anni, cade in una depressione profonda sottesa da angosce ipocondriache che la induce a sentirsi invecchiata e ' finita '. Dopo un anno, allorché sente di essere prossima ad attentare ad un'esistenza inutile e penosa, la depressione vira in eccitamento. Riesce ad esprimere, nei confronti dei genitori e del marito, i rancori che nutre nei loro confronti. Comincia a uscire di sera, a frequentare persone un po' bizzarre che sente "congeniali", a interessarsi di cultura ( soprattutto psicologia e sociologia ), a contestare lucidamente l'ipocrisia del modello di vita borghese, esibendo una sicurezza e una vivacità d'intelligenza insospettate. Poi, perde il controllo sulla situazione, si abbandona a rapporti sessuali occasionali, e va allo scontro frontale con il padre e con il marito. Esasperato, questi l'abbandona. Esaltata dalla libertà, P., che abita in un appartamento comunicante con quello dei genitori, organizza una vita del tutto antitetica a quella "grigia" che ha condotto per anni: invita a casa, di sera, molte persone, si attarda fino a notte in terrazza a parlare, a ballare, ad ascoltare musica. La famiglia, che si sente disonorata dal comportamento di P., le somministra a sua insaputa psicofarmaci.

La crisi di eccitamento, nel giro di tre mesi, tende a risolversi, e P. regredisce in una modica apatia. Ricomincia a frequentare il marito, nei cui confronti si sente in colpa, e a prendere in considerazione la possibilità di ricomporre il nucleo familiare. Essa si rende conto dell'incompatibilità del suo progetto di vita, spiccatamente anticonformistico, e di quello, ciecamente conservatore, del marito. Per un anno, la situazione rimane in sospeso. D'estate, P. trascorre le vacanze con il marito, illudendolo sulla possibilità di tornare a vivere insieme. Al rientro, lo pugnala alle spalle, avviando una relazione con un giovane conosciuto in banca. Al tradimento il marito reagisce avviando una separazione legale. P. è certa che la scelta affettiva operata sia giusta: il giovane con cui ha rapporto (di tre anni minore) è un anticonformista, ha alle spalle una militanza "dura" di sinistra e propugna un'ideologia paritaria e libertaria.

I primi mesi di relazione, nonostante il gelido disprezzo del marito e i rimproveri familiari, sono esaltanti. P. sperimenta, per la prima volta nella sua vita, la felicità nel rapporto con un uomo, arricchita da un'intesa sessuale molto elevata. L'amore la chiude in un rapporto totale di dedizione e fedeltà. Ma, all'approfondirsi della sua dipendenza, corrisponde un cambiamento del partner. Questi, sentendosi troppo vincolato, comincia a manifestare nei confronti di P. un atteggiamento di viva insofferenza, la tradisce più volte, e prende ad umiliarla e a stigmatizzare "sadicamente" la sua dipendenza e la debolezza di carattere. P., pur sentendo montare dentro di sé una rabbia feroce, scopre di aver paura di interagire conflittualmente e di essere abbandonata. Agli scoppi di rabbia, seguono umilianti aggrappamenti e richieste di perdono. A questi atteggiamenti, il partner reagisce con il disprezzo, umiliandola e maltrattandola, soprattutto in presenza di altre persone. In banca e per strada, la costringe a seguirlo come una "cagnolina" e ad assistere ai suoi incessanti tentativi di sedurre delle donne. Per qualche tempo, P. giustifica la sua umiliante dipendenza attribuendola ad un amore cieco. Ma sempre più le risulta chiaro che si sta riducendo a vivere, mutatis mutandis, in un ruolo servile dal quale desidera affrancarsi.

I vantaggi del cambiamento, se si eccettua la soddisfacente vita sessuale, alla quale P. non si rifiuta mai perché, nonostante il disprezzo del partner, se ne sente confermata, risultano molto relativi. P. divide il suo tempo tra il lavoro, l'accudìmento della casa e della figlia e le cure del partner, che vive da solo. In cambio, oltre al disprezzo e alle prestazioni sessuali, non riceve alcunchè. In nome di un'ideologia antiborghese, infatti, il partner rifiuta le frequentazioni mondane, rifugge i locali pubblici (ristoranti, cinema), non ama spese inutili (i regali). In breve, il rapporto si riduce al far l'amore e ad estenuanti passeggiate all'aria aperta. La fuga di P. verso l'individuazione è esitata, dunque, in una trappola relazionale, non meno mortificante di quella a cui intendeva sottrarsi. Nonostante gli atti comportamentali di rottura rispetto alla tradizione, P. non può di fatto tradire. Il debito di appartenenza, coscientemente rifiutato, la condanna, infatti, in virtù di una trasformazione, a rimanere dipendente e fedele a chi la conferma.

T. a diciotto anni si iscrive ad una facoltà universitaria, ma per due anni riesce a concludere ben poco. Si autoaccusa di essere pigro, ma, in realtà, vive nel terrore degli esami e nell'incubo di non poter rinviare l'espletamento del servizio di leva. Lo spreco di tempo lo tormenta, poiché la famiglia vive in un regime economico piuttosto modesto e deve mantenere agli studi altri due fratelli. Dopo due anni, T. decide di iscriversi all'I.S.E.F. Avviene, a quest'epoca, una sorprendente trasformazione: da studente pigro, T. si trasforma in studente modello. La trasformazione è dovuta apparentemente, ad un senso del dovere che, attivato dai rimorsi per il tempo sprecato, si definisce come implacabile. T. dedica tutta la giornata, eccezion fatta per la frequenza dell'Istituto, allo studio e, per concentrarsi, impone in famiglia un regime di assoluto silenzio. Il terrore degli esami provoca una preparazione estremamente minuziosa, dettagliata, perfezionistica. A T. non sembra mai di essere sufficientemente pronto, e, via via che si avvicinano gli esami, manifesta un'estrema irritabilità che spesso si traduce in casa in violenti scoppi di rabbia. La tensione perpetua cui T. si sottopone produce disturbi del sonno, vissuti drammaticamente in rapporto al conseguente calo di energie ch'essi possono determinare. Per regolare il sonno, T. comincia ad eseguire, di sera, degli estenuanti esercizi fisici con i pesi. La sua vita, che si svolge tra tavolino di studio e tappetino ginnico, sembra corrispondere ad una pianificazione razionale dettata da una volontà ferrea. L'esito dei primi esami, affrontati con un'angoscia quasi insostenibile, è brillante. Ma, paradossalmente, questi successi, che dovrebbero attestare la funzionalità di quella pianificazione, conseguono un effetto negativo.

T. si sente costretto a mantenersi all'altezza dei risultati raggiunti ( il voto M. con la lode ): la paura di una brutta figura in pubblico, di un esame e di un voto mediocre, accentuano la necessità di una preparazione perfetta. La dedizione allo studio diventa, pertanto, una costrizione implacabile, animata dalla fobia di una brutta figura. Nel contempo, anche gli esercizi fisici assumono un carattere rituale. T. non può permettersi di modificare il programma che si è dato, per la paura che si realizzi un "afflosciamento" delle masse muscolari. In breve, la sua vita è organizzata sul registro di una perpetua tensione volontaristica che sottopone T. ad uno sfruttamento psichico e fisico. Tale tensione, però, lo esaspera, rendendolo perpetuamente aggressivo in famiglia, e, pur portata allo stremo, non risolve affatto la paura di un crollo catastrofico che incombe costantemente sull'orizzonte esperienziale di T.. Inoltre quella tensione, come rende T. estremamente aggressivo in famiglia, così disordina il suo mondo interiore. Le difficoltà del sonno sono, infatti, riconducibili a incubi persecutori che spesso inducono risvegli angosciosi in un gelido mare di sudore e talora si associano a urla disperate, delle quali T. si vergogna profondamente agli occhi dei suoi.

E' evidente che T. si è imposto un regime di vita il cui obiettivo è di potersi esporre al giudizio sociale senza incorrere nel pericolo di una ridicola dèfaillance. Tale regime, però, non scongiura questo pericolo. C'è un confine, al di là del quale T. potrebbe sentirsi sicuro e padrone di sé, alla pari degli altri, ch'egli, nonostante gli sforzi cui si sottopone, non riesce a varcare. Nonchè una minaccia, nell'orizzonte di T. il crollo, che metterebbe in luce impietosamente la sua "debolezza", la sua ridicola inadeguatezza, si configura come una fatalità, come una circostanza destinata inesorabilmente a realizzarsi. Di conseguenza, la vita di T. si riduce a rimandare di giorno in giorno questa inevitabile resa dei conti. L'esperienza di T. è un'estenuante iniziazione ad un mondo adulto al quale egli non può accedere: la paura del crollo è, dunque, il sintomo di una sfida perduta in partenza. Se in questa sfida si legge l'espressione di un bisogno di individuazione, c'è da chiedersi perché T. sia condannato ad appartenere, nonostante tutto, alla categoria degli esseri inadeguati, deboli e ridicoli. La fenomenologia dell'esperienza, in sé e per sé chiara, allude ad un debito di appartenenza che non appare immediatamente traducibile.

D., a trentasei anni, ha alle spalle una lunga storia di rituali ossessivi, insorti a livello adolescenziale, rimasti refrattari ad un trattamento psicoanalitico, e giunti ormai al punto di vincolare ogni suo movimento spontaneo. La situazione è divenuta critica per via di una circostanza particolare. D. vive sola con una sorella e intrattiene da parecchi anni un rapporto con un uomo sposato. Entrambe le persone le sono infinitamente care. I rituali che D. esegue mirano di fatto a scongiurare che avvenga loro del male. benché molteplici, tali rituali sono accomunati dal fatto che D. deve ripetere le stesse azioni più volte: per esempio, tirare lo scarico del water, lavarsi le mani, aprire e chiudere cassetti, scrivere il suo nome a penna sul pacchetto di sigarette, ecc. I rituali talora si impongono nel momento in cui sta eseguendo quell'azione, che va ripetuta più volte, talaltra, il più spesso, vanno eseguiti immediatamente interrompendo ciò che essa sta facendo. Per esempio, sta vedendo il televisore, e deve recarsi più volte in camera sua per portare a compimento i rituali. La massima intensità della coazione si realizza quando D. si dedica allo studio ( è iscritta alla facoltà di psicologia ). Solo il tempo dedicato al lavoro di insegnante in un asilo nido si configura, paradossalmente, come tempo libero dai rituali.

La circostanza critica cui si è fatto cenno riguarda la convivenza con la sorella. Da un anno, costei manifesta un'intolleranza sempre maggiore nei confronti delle pratiche assurde cui D. cede, e che essa ritiene potrebbero essere inibite da un atto di volontà. D. non riesce a capire l'esasperazione della sorella, che reagisce sempre peggio a comportamenti che, in sé e per sé, non la coinvolgono. Ciò che è certo è che quella esasperazione attesta che i rituali di D. le procurano un intenso dispiacere. Di conseguenza, D. si trova in una situazione a vicolo cieco: non può non eseguire i rituali per via della convinzione che, non realizzandoli, possa produrre indirettamente del male alle persone care, nel contempo, eseguendoli, non può non rendersi conto che essi inducono una sofferenza in sua sorella. Se non si fosse realizzata questa circostanza, D. sarebbe forse riuscita a convivere con la sua schiavitù, ma, dacchè essa si è definita, la sua esperienza interiore è intrappolata nel senso di colpa di danneggiare direttamente o indirettamente la sorella: senso di colpa senza scampo, e quindi intollerabile.

Dunque, ed è la traduzione dialettica immediata non dovendo danneggiare le persone care né indirettamente né direttamente, e cioè non dovendo produrre loro in alcun modo dispiacere, D. dovrebbe essere, né più né meno, perfetta, e vivere sul registro di un altruismo radicale, preoccupandosi costantemente degli altri, cui vuole bene, e dei loro bisogni. Il debito di appartenenza è esprimibile nella formula: "essi (le persone care) mi vogliono bene, e dunque io non posso permettere che accada loro del male o di far qualcosa che gli procuri dispiacere". Ma questa formula funziona mantenendo l'armonia dei rapporti interpersonali fondata su scambi e sacrifici reciproci affettivi se e solo se si dà un quadro di valori ideologici comuni. Non dandosi tale quadro, quel debito entra inesorabilmente in conflitto con la libertà personale. A questo punto, la traduzione dialettica non può procedere ulteriormente. E evidente che la costrizione a eseguire rituali non esprime immediatamente la libertà personale, bensì l'obbligo di piegare la propria volontà alla logica dell'armonia relazionale e del bene comune. Ma donde muove tale obbligo se D. riconosce coscientemente come propria questa logica?

A quindici anni, E. sembra uscire da un lungo letargo caratterizzato dal ruolo di figlio perfetto. La circostanza del risveglio è data dal fatto che, iscrivendosi alle scuole superiori, E. è affrancato dall'obbligo della scuola a tempo pieno che ha frequentato dall'epoca dell'asilo. Egli si ritrova, così, a disporre di una libertà lungamente desiderata. La libertà lo inebria. E. comincia a scrivere febbrilmente racconti di fantascienza, incentrati sulla ricerca di un mondo nuovo ove non vige più la guerra e la legge del più forte. Contemporaneamente, il suo orizzonte sociale, per molti anni chiuso tra la scuola a tempo pieno e la casa, si allarga. E. abita in un quartiere suburbano, popolato da giovani emarginati, disoccupati, tossicodipendenti, dediti a piccoli crimini. Egli comincia a provare, nonchè una profonda pietà, una violenta attrazione per forme di esistenza radicalmente diverse rispetto alle sue e a quelle della famiglia.

I genitori di E. lavorano entrambi ( la madre è impiegata, il padre è operaio ) e si sacr"ficano duramente per il bene dei figli, senza concedere nulla a se stessi. E. vede davanti a sé una prospettiva di vita inesorabilmente uguale a quella genitoriale, e comincia ad aborrirla. Sente già di essersi sacrificato troppo, accettando la scuola a tempo pieno e vivendo senza mai creare problemi, nell'unico intento di pesare il meno possibile. Comincia ad uscire spesso nel pomeriggio in bicicletta e a frequentare i ragazzi del quartiere. La sua mentalità si modifica, e, in conseguenza di ciò, il suo comportamento. E. comincia a mangiare in maniera sregolata e si abbandona senza freno alla masturbazione. Essendo affetto da una fimosi che non è stata operata, comincia ad aver paura che la pratica masturbatoria possa indurre, un giorno o l'altro, dei danni irreversibili ai genitali. Lentamente, questa paura si trasforma in una convinzione assoluta di essere destinato a perdere gli attributi virili e, dunque, costretto a suicidarsi. Nonchè frenare la sua sregolatezza, questa convinzione, che lo porta a pensare di aver ancora poco da vivere, la accentua. Non avendo più nulla da perdere, non ha senso che egli viva come un bravo ragazzo. Nell'intimo di E. si definisce il progetto, anziché di aspettare la fine, di andarsela a cercare, abbandonandosi a tutte le esperienze di disordine che gli passano per la mente, compresa quella di sperimentare la droga.

E' a questo punto che insorgono delle incoercibili angosce dismorfofobiche. Allo specchio, E. vede un capezzolo protrudere in avanti e staccarsi dal corpo con intorno un alone chiaro. E', nel suo vissuto, il segnale di una catastrofe psicofisica incombente. Sopravviene la necessita di arginarla, che si traduce in rigidissimi rituali. Questi riguardano il cibo e degli esercizi ginnici. E. deve introdurre pochissime calorie per evitare di rifornire di energie un corpo che lo sta portando alla distruzione, e, nel contempo, deve eseguire, secondo una procedura rigidissima, degli esercizi che ne mantengano il tono senza irrobustirlo. Ogni tentativo di trasgredire i rituali, dà luogo a delle violentissime crisi di angoscia che inducono E. a pensare di attentare alla propria vita.

I rituali ricompongono e mantengono un equilibrio minimo di sopravvivenza, impediscono ogni esercizio di libertà sregolata. In virtù di essi, E. torna, sia pure costrittivamente, per effetto di minacce interne, a vivere in un regime di disciplina assoluta che, fino a quindici anni, era imposta in prevalenza da circostanze esterne e dalla sua sottomissione. La trasformazione "malvagia" in cui è esitato un bisogno di individuazione frustrato lungamente, trasformazione che stava per indurre un tradimento del debito di appartenenza nei confronti di genitori che sacrificano la vita per lui, è così arginata e riparata. Ma il problema è che E., nonchè in un bravo ragazzo, si è ridotto, come dice egli stesso, a vivere come un "automa".

Come risulta chiaro da questi esempi, il codice della Teoria dei bisogni ha un potere euristico che copre tutto l'universo psicopatologico. Esso consente, quale che sia la fenomenologia clinica, di individuare sempre un conflitto tra debito di appartenenza e individuazione. Ii suo limite è che, per quanto decifrabile, tale conflitto non risulta mai chiaro nelle sue ragioni di essere e nella sua drammaticità. La traduzione dialettica oggettiva, in altri termini, una struttura psicopatologica che risulta incomprensibile se non se ne ricostruisce la genesi e i valori ideologici che ne mantengono l'equilibrio sempre spostato a favore della logica dell'appartenenza. L'oggettivazione della struttura psicopatologica postula, dunque, per dar luogo ad un'evoluzione, una ricostruzione microstorica che, tenendo conto delle interazioni ambientali e dei valori introiettati, possa permettere al soggetto di affrancare il bisogno di individuazione dalla criminalizzazione cui esso è andato incontro, e che lo configura univocamente come tradimento, colpa, sacrilegio. Orientata dal codice della teoria dei bisogni, la ricostruzione microstorica, seppure procede per mezzo di un accumulo di dati biografici, ha un obiettivo costante: mettere a fuoco, oltre alle circostanze ambientali, sociali e culturali, la fase o le fasi evolutive nel corso delle quali i bisogni sono andati incontro ad un processo di scissione. Tale scissione, avendo prodotto la colpevolizzazione del bisogno di opposizione/individuazione, determina infatti il confine reale e simbolico della libertà personale: confine entro il quale il soggetto si sente costretto e alienato, ma al di là del quale non può andare se non pagando il prezzo dell'angoscia. benché definitosi in un passato più o meno remoto, e successivamente strutturatosi sempre più rigidamente, per effetto di elaborazioni ideologiche, quel confine si pone infatti sempre come attuale. E' il suo possibile superamento, che coincide con un aumento effettivo di libertà emozionale, comportamentale e ideologica, l'obiettivo dell'intervento dialettico.


4. La ricostruzione genetica

Da un punto di vista dialettico, lo strutturarsi di ogni personalità va, in nome dei bisogni, da un processo di alienazione primario, che, per effetto delle identificazioni affettive e dell'introiezione di valori culturali, dà luogo al definirsi di un'identità integrata ma prevalentemente sul registro superegoico, ad un processo che, per fasi successive di opposizione/individuazione, esita in un'assimila-zione di quei valori, e dunque nel definirsi di un'identità dotata di una coscienza morale critica, nella quale il soggetto possa ricono-scere l'espressione della volontà propria. L'assimilazione non è un processo passivo, bensì critico, che comporta un'attività selettiva sui valori introiettati, che vengono filtrati, in parte o per alcuni aspetti rielaborati e/o scartati, riadattati ai bisogni personali e arricchita dall'esperienza interattiva, sociale e culturale. Il passaggio dall'alienazione superegoica alla coscienza morale critica segna la nascita di una personalità autonoma, che sostituisce, gradualmente, quella eterodiretta infantile. In rapporto ai contenuti morali, la personalità autonoma non prescinde dal tener conto della sua appartenenza ad un mondo familiare, sociale e culturale; in quanto critica, essa media l'appartenenza e l'individuazione. E' noto che non tutte le personalità normali giungono all'autonomia, e che valenze alienate, più o meno rilevanti, sono inesorabilmente costitutive di ogni esperienza soggettiva. Laddove si dà un conflitto psicopatologico, occorre riconoscere che si realizza, da un punto di vista strutturale, una singolare situazione: la personalità risulta infatti scissa tra una parte eterodiretta, identificabile con la funzione superegoica, e una parte che non può alienarsi in questa ma non può neppure venire alla luce, affermarsi ed esprimere le sue ragioni, che coincidono con esperienze di libertà.La ricostruzione genetica mira a definire le circostanze e il periodo in cui si è determinata questa scissione. Da un punto di vista dialet-tico, tale ricostruzione, nonchè affidarsi a vissuti fantasmatici o a situazioni interattive in atto, si fonda sulla rievocazione di sequenze esperienziali passate, particolarmente significative, che consentono, in riferimento alla teoria dei bisogni, di ipotizzare, probabilisticamente, il prodursi della scissione. Vedremo ulteriormente come queste ipotesi probabilistiche possano essere verificate nel corso delle crisi di regressione che, inevitabilmente, segnano il tragitto verso il cambiamento.

F., seconda figlia femmina di una coppia medio-borghese, porta scritto nel suo nome inconsueto la delusione dell'aspettativa di un erede maschio. Non si tratta di un'illazione. F. da piccola ricorda che portava sempre i capelli corti e vestiva alla maschietto. Rapidamente si adatta, senza sapere perché, alla situazione, manifestan-do un "caratterino" forte, deciso e competitivo, che la inorgoglisce e la fa sentire confermata dai suoi. A sei anni, contemporaneamente all'avvio della scolarizzazione, viene portata in piscina per praticare nuoto agonistico. Nonostante sia piccola di statura, F. manifesta eccellenti qualità. I genitori si illudono che possa divenire una campionessa. F. comincia a vivere così un'esperienza diversa rispetto ai coetanei. Si allena al mattino prima di andare a scuola, nel pomeriggio dopo la scuola, poi si dedica allo studio e va a letto presto, estenuata dalla fatica. I risultati agonistici sono ottimi. F. ne è orgogliosa ed è costante nel soddisfare le aspettative dei suoi. Vestita perennemente in tuta e con i capelli corti, è scambiata-da tutti per un maschietto. Verso gli otto, nove anni comincia ad avvertire il peso di un regime di vita impostato su di una rigida disciplina, e, nel contempo, il legame armonioso con i suoi si incrina. F. si rende conto che, perseguendo un loro sogno, essi non fanno alcun conto dei suoi bisogni. Non può saltare le sedute di allenamento neppure quando ha febbre, non può denunciare la stanchezza per non sentirsi rimproverata di essere pigra, non osa contestare le tabelle di allenamento che esigono da lei continui miglioramenti dei tempi di percorso. Comincia, in breve, a sentirsi, nonostante le conferme che riceve, usata e maltrattata. Inoltre, cominciando a nutrire qualche vago interesse sentimentale per dei coetanei, vive male il suo aspetto di maschietto. Nel contempo, osservando il corpo di ragazze più grandi, si rende conto che anche il suo è destinato ad andare incontro ad una trasformazione. Comincia a vivere questa aspettativa con molta angoscia. A dieci anni, di fatto, si realizza repentinamente un aumento ponderale rilevante. F. viene assogget-tata ad una dieta rigidissima e gli allenamenti si intensificano. E' stanca, esasperata e arrabbiata per le incomprensioni dei grandi, ma sa che, se cedesse, perderebbe la stima dei suoi.

A undici anni, su un corpo robusto ma di taglia ancora infantile, si sviluppa, nel giro di alcuni mesi, un seno estremamente voluminoso. F. ne è inorridita esteticamente, lo fascia stretto per nasconderlo, ma le conseguenze sul piano del rendimento agonistico sono negative. Non solo non riesce a migliorare i tempi, ma neppure a mantenere quelli già conseguiti. Protervamente, la dieta viene ulteriormente ridotta, e gli allenamenti intensificati. F. sente scoppiarle dentro, nei confronti dei suoi, una rabbia immensa e comincia, per la prima volta nella sua vita, a ribellarsi di nascosto. Chiusa nella sua camera, come in preda ad un raptus, divora cioccolatini e dolci di ogni genere, nascondendo gli incarti sotto il letto. Pur inorridita dal vedersi ingrassare, non riesce a controllarsi. Sa che sta tradendo la fiducia dei suoi, si sente in colpa e teme le conseguenze. Il rendimento agonistico diminuisce ulteriormente. L'allenatore è deluso e rassegnato. La madre, sistemando la camera di F., scopre gli incarti dei dolci. Non segue alcun rimprovero. F. legge negli occhi della madre una delusione profonda, e in quelli del padre un gelido disprezzo che investe il suo essere debole di carattere e di natura perdente. Una donna, insomma, visto che tale è la madre e tali il padre considera tutte le donne. F. sente dolorosamente il peso del tradimento delle aspettative familiari. Ma l'incomprensione dei suoi e i "maltrattamenti" cui è sottoposta, danno alla rabbia che ormai cova da molto tempo una dimensione vendicativa.

Qual è però la giusta vendetta (quella che all'epoca F. può formulare) se non quella di dimostrare ai genitori il grado di indipendenza, di forza, di autosufficienza, in breve la superiorità cui può pervenire una donna? anziché assecondare una protesta oppositiva incentrata sulla rivendicazione di un regime di vita più umano, libero e aperto al riconoscimento della sua identità femminile, F. si intrappola, senza rendersene conto in un ideale dell'io perfezionistico, che comporta la fobia di ogni debolezza e in particolare il rifiuto del suo essere di carne ed ossa. Il corpo rifiutato diventa, così, un corpo odiato, in quanto fonte di appetiti squilibranti. allorché, a quattordici anni, si accerta una grave scoliosi indotta dalla pratica agonistica, F. porta per un anno un dolorosissimo busto di gesso, senza mai emettere un lamento. Si assoggetta poi spontaneamente e continuativamente ad un regime dietetico piuttosto severo. Porta a termine brillantemente gli studi superiori, senza concedersi distra"`zioni. Si fidanza con un ragazzo, e sperimenta con orgoglio la sua assoluta inappetenza sessuale. Per un motivo piuttosto banale, tronca il rapporto all'improvviso,e, dopo un mese, si fidanza con un altro ragazzo. Si sente assolutamente sicura e padrona di sé. L'episodio che precipita il disagio psicopatologico è un incidente stradale che provoca un trauma cranico commotivo. F., rievocandolo al risveglio, si rende conto lucidamente che avrebbe potuto evitarlo e che non ha frenato. Ha dunque repentinamente perso il controllo su di sé. E' riaffiorata, a distanza di anni, senza che F. se ne sia resa conto, una tendenza allo squilibrio comportamentale ch'essa riteneva di aver del tutto sormontato.

All'inverso, l'esperienza di A. non comporta, fino a venticinque anni, alcun travaglio apparente. I genitori, di origine meridionale, si trasferiscono a Roma dopo il matrimonio con la prospettiva di offrire ai figli un futuro migliore. Affiatati, tranquilli, di mentalità serenamente tradizionale, ricoprono i loro ruoli (il padre è impiegato, la madre casalinga) con totale abnegazione. A., che ha un fratello di cinque anni minore, è fin da bambina una figlia perfetta, matura, responsabile. Eccelle negli studi, collabora in casa, è vivace, serena, socievole, non dà mai alcuna preoccupazione. Dove collocare dunque la genesi della "degenerazione", del tradimento?

Da due anni, A. intrattiene rapporto con un ragazzo di modeste condizio"`ni, che porta avanti una stentata carriera universitaria. Essa sa bene che tale rapporto è inviso alla madre, che sogna per lei ben altra sistemazione. Di recente, il ragazzo, che vive a carico di una madre vedova, le ha confessato un dramma personale. Egli, iscritto all'università da quattro anni, ha sostenuto, per compiacere la madre, di aver dato quasi tutti gli esami e di essere prossimo alla laurea. In realtà, ne ha dati appena sei, ed è, dunque, in grave ritardo, e nell'ambascia che le sue menzogne possano essere scoperte. A., che sente aumentare nei suoi confronti una tenace solidarietà, non osa riferire alla madre quanto ha saputo. L'aver tradito, con una scelta affettiva non rispondente alle aspettative materne, la fiducia riposta in lei si configura, per effetto del segreto, come un tradimento a tutto tondo. A. comincia a riflettere sui sensi di colpa che avverte. Riesce evidente che se, per un verso, si sente profonda"`mente indebitata nei confronti dei suoi, intimamente essa non condivide la scala di valori che essi, e in particolare la madre, adottano nel valutare le persone: scala che tiene conto solo dello status socio-economico, e trascura ogni altro aspetto.

Tale scala, peraltro, appare incompatibile con i principi religiosi che essi professano, e che dovrebbero comportare una particolare comprensione per i deboli. Approfondendo questa riflessione, A. si rende conto che quei principi mascherano un'ossessione più profonda, riferita agli occhi della gente. I genitori sono sempre preoccupati di controllare che la figlia frequenti persone per bene, al fine di non esporsi, indirettamente, a fantomatici giudizi sociali.

Ma quand'è che A. ha sfidato questo codice d'onore? Riaffiora dal passato un ricordo sepolto, che ha coinciso con l'unico periodo in cui è stata in conflitto con i suoi. A tredici anni, frequentando le medie, A. si lega in un tenero rapporto di amicizia con una coetanea, che frequenta la sua classe. Questa vive con la madre separata che, nel quartiere, è conosciuta come donna di facili costumi. Non appena i genitori di A. vengono a conoscenza della cosa, le impongono di troncare l'amicizia. A., che frequenta abitualmente la casa dell'amica, non comprende immediatamente il motivo di un tale irrigidimento. allorché lo comprende, si ritrova in conflitto tra l'obbedire ai suoi e le ragioni del cuore. Non cede, e continua a frequentare l'amica di nascosto. Il rapporto va avanti due anni, nel corso dei quali A. mette a fuoco la mentalità dei suoi, intollerante nei confronti di ogni comportamento che fuoriesce da un quadro di valori estremamente rigido e pregiudiziale. Essa ha modo di conoscere la madre dell'amica, e sviluppa nei suoi confronti una grande stima. La donna conduce una vita poco ordinata, ma ne è cosciente e sostiene, con grande passione, il diritto della donna di vivere nella libertà, sfidando il giudizio della gente. A. pone a confronto questo modello con quello offerto dalla famiglia, e incarnato dalla madre, e scopre che questo, intimamente contraddit"`torio, si fonda, più che su scelte personali, sulla paura del giudizio sociale. Essa opera, dunque, nel suo intimo, una scelta di campo, che è un tradimento.

La conseguenza di questo travaglio interiore è l'affiorare di vaghi vissuti claustrofobici, che si attivano quando A. è in casa, e di vissuti agorafobici. I primi compromettono un po' il suo rendimento scolastico (è l'unico anno in cui A. consegue risultati mediocri in rapporto alla sua carriera), i secondi le rendono difficoltoso il tragitto che A. percorre per andare dalla sua amica. Travaglio impercettibile agli occhi dei suoi, e che si risolve perché l'amica si trasferisce in un'altra città. A. rientra nell'ordine, e ricomincia a filare liscia. Ma il conflitto latente con la madre si riattiva allorché (A. ha vent'anni) questa comincia ad avere degli episodi piuttosto seri di depressione, che la immobilizzano e la svuotano di vitalità per due, tre mesi. Le ragioni di tali depres"`sioni sono evidenti agli occhi di A.. La madre deve accudire la nonna, che abita nello stesso palazzo, e che è una persona orribil"`mente egoista. Essa accampa i suoi diritti di essere curata e non lasciata sola in nome di ciò che ha fatto per la figlia, senza rendersi conto che le sue pretese azzerano la libertà personale di questa. La madre di A. è esasperata dalla situazione, e vorrebbe ribel"`larsi, ma l'unico modo in cui riesce a farlo è di mettersi in depressio"`ne. A., che pure ha in genere un atteggiamento comprensivo, reagisce in maniera intollerante alle depressioni della madre, che accusa di non avere il coraggio sufficiente a rivendicare i suoi diritti. Essa propugna, ideologicamente, la necessità che i figli si ribellino ai genitori e tradiscano le loro aspettative, quando queste sono egoistiche. Con ciò, senza rendersene conto, riattiva dentro di sé i fantasmi della "crescita" maligna e della degenerazione

R. rievoca un'infanzia serena. Entrambi i genitori lavorano, e dedicano il resto del tempo alla casa e ai figli. La madre è un po' pignola, eccessiva per quanto riguarda l'ordine e l'igiene. Ma, nel complesso, R. si sente rassicurato da questo atteggiamento. E' un bambino bene educato, giudizioso, che si distingue dagli altri e si sente portato a modello dagli insegnanti. Frequenta una scuola di suore e la parrocchia, ove ha appreso il codice del rispetto assoluto e dell'obbedienza nei confronti dei grandi. Quando ha dodici anni, l'armonia familiare viene sconvolta da un grave esaurimento della madre. Da un giorno all'altro, dopo un periodo in cui la cura della casa aveva raggiunto livelli "maniacali", la donna comincia a dire che in ufficio le persone sparlano di lei, e che, per strada, la gente la guarda male e proferisce giudizi negativi nei suoi confronti. E^ un quieto e lucido delirio, che viene curato con psicofarmaci, e apparentemente regredisce. Ma le conseguenze sono rilevanti: la madre dà le dimissioni dall'ufficio, si chiude in casa e non può più uscire, solo per fare delle spese necessarie, che in compagnia del marito. Essendo una donna straordinariamente economa, il venir meno del suo stipendio non incide molto sull'economia familiare, che continua ad essere caratterizzata da un decoroso benessere. Ma la "reclusione" domestica comporta una accentuazione nettissima dei tratti ossessivi di carattere.

Le "fobie" dell'ordine, della pulizia, dell'igiene impongono ai membri familiari (R. ha una sorella di quattro anni maggiore) una disciplina quasi insopportabile. R. comincia a vivere lo spazio domestico come vagamente persecutorio. Quando non è inchiodato alla scrivania - la madre vigila costantemente sulla sua applicazione -, deve collaborare nelle faccende di casa e muoversi con circospezione. In nome delle sue fobie, alle quali attribuisce il potere di scongiurare i mali dovuti alla scarsa igiene e alla sregolatezza, la madre impone un rigido codice di comportamento. Ci si deve lavare tutti piuttosto spesso, cambiare gli abiti con frequenza. Le regole riguardano anche il mangiare, che, per essere salutare, va poco condito e consumato in quantità modeste.

Questa situazione ha degli effetti visibili soprattutto sul padre, che, eccezion fatta per il lavoro, perde ogni libertà in casa e fuori casa, dovendo essere sempre disponibile per la moglie. Egli subisce la situazione per quieto vivere, ma comincia a bere e, dato che viene costantemente rimproverato dalla moglie, nasconde le bottiglie dove può e, non appena rientra dall'ufficio, comincia la liturgia dei "cicchetti". A sera, dopo cena, nel corso della quale due bicchieri di vino gli sono concessi, è regolarmente brillo, e si abbandona a discorsi "a vanvera", che, talora, attestano però la sua rabbia impotente.

R. comincia a odiare, nel suo intimo, la madre per i suoi comportamenti sopraffattori, e a disprezzare il padre per la sua incapacità di controllarsi, per la sua debolezza. La sua anima viene così ad essere lacerata da un conflitto tra la pietas ch'egli avverte nei confronti di persone care, che gli appaiono però segnate da una voluptas dolendi senza fine, e una rabbia che lo orienta verso un ideale dell'io libertario e edonistico. Per tutti gli anni delle scuole medie superiori, è la pietas, sottesa da un'intensa religiosità a prevalere. Il matrimonio della sorella, che si configura con evidenza come una fuga dall'ambiente familiare, lo cristallizza nel ruolo di figlio prediletto, che deve condividere le pene dei suoi ed essere loro fedele. Ma sotto questa maschera, con rare, folgoranti incursioni coscienti (sotto forma di dubbi ossessivi inerenti l'autenticità di quelle ), prende forma l'altro: il traditore che, liberato magicamen"`te dai lacci della depressione, nonchè riconoscere il suo debito, comincerà ad accampare, in nome del sacrificio effettuato, le sue crescenti pretese rivendicative di creditore.

A. è figlia di una coppia prolifica nonostante una permanente conflittualità. Originari della provincia di Avellino, i suoi si inurbano a Roma per via del lavoro del padre carabiniere. Dal rapporto nascono cinque figli: A. è la penultima. Il conflitto genitoriale si articola sulle pretese del padre di imporre in famiglia un regime dittatoriale, pretendendo per suo conto una totale libertà. Uomo prestante conduce una vita da dongiovanni, ed ha un incoercibile "vizio" del gioco (carte, corse di cavalli). Ciononostante, esige, soprattutto dalla moglie e dalle quattro figlie, un comportamento ossequioso di una tradizione rigidamente moralistica. In breve, pretende che esse vivano come recluse, e si assoggettino a obbedirlo e a servirlo Oltre a portare avanti cinque gravidanze, ad amministrare la casa con pochi soldi e ad allevare da sola i figli, la madre pratica un numero indefinito di aborti. Periodicamente si ribella, abbandona la casa e torna al paese, affidando i figli ai collegi. I parenti le impongono sempre di tornare al suo posto. Tutti i figli, tranne A., frequentano le elementari e le medie nei collegi.

A. rimane a casa fino a undici anni, perché la madre, affetta perennemente da esaurimento nervoso, non può stare da sola. Essa assiste così ad un dramma che in alcuni momenti, sfiora l'esito tragico. In una circostanza, la madre, picchiata dal marito, sale sul davanzale della finestra per precipitarsi nel vuoto. E' A. ad afferrarla per le vesti, e ad indurre in lei repentinamente coscienza di ciò che sta per fare. In un'altra circostanza, dopo una lite, accecata dalla rabbia, la madre scaglia contro il marito con violenza un grosso coltello da cucina, che, mancandolo, si configge contro una porta. Alleata della madre, A. odia il padre con tutte le sue viscere, per quanto lo tema. Via via che gli altri figli tornano a casa e cominciano a lavorare, la situazione tende a divenire meno tesa. Ma è proprio allora, quando A. ha undici anni, e comincia a svilupparsi, che viene presa la decisione di mandarla in un collegio di suore. Il trauma è profondo, soprattutto perché ad A. sfuggono le motivazioni di tale decisione. Non è più una bambina, è capace di collaborare alle faccende domestiche, studia senza difficoltà, e non è certo di peso.

La motivazione si chiarisce nel giro di alcuni mesi, allorché, completandosi lo sviluppo, A. prende coscienza di essere divenuta singolarmente attraente e di dimostrare più anni di quanti ne ha. Capisce che la reclusione in collegio corrisponde alla necessità, comune ai genitori, di metterla al riparo dai pericoli del mondo. A. si rende conto, quando esce a passeggio con le compagne di "sventura", di attirare gli sguardi degli uomini. Impre-gnata di religiosità e di moralismo, essa assume costantemente l'atteg-giamento della ragazza seria e compunta. Ma l'intuizione di essere stata reclusa per effetto della sua avvenenza, fa maturare nella sua anima la logica della vendetta, che la orienta verso un modello di vita aperto ad ogni avventura e al piacere.

Quando torna a casa a quindici anni, scopre che il padre è a tal punto geloso di lei da pretendere che faccia compagnia alla madre (tutti gli altri figli sono stati avviati al lavoro dopo la terza media). Comincia ad uscire di nascosto, profittando della connivenza della madre, ma, nonostante le sue fantasie, è "bloccata" nel contattare i ragazzi. La necessità di vendicarsi del padre si associa, infatti, al timore di poter ferire la madre, che le concede fiducia. Ottiene, dopo un anno, di andare a lavorare, e capisce, per il suo bene, che è meglio vincolarsi affetti"`vamente a qualcuno. Conosce un coetaneo e si fidanza di nascosto con lui. Il padre la vede in compagnia di questi per strada, e, al rientro in casa, la malmena brutalmente. La vendetta si cristallizza così nel progetto di portare avanti il rapporto di nascosto, aspettando la maggiore età per imporlo. Superata la soglia dei diciotto anni, A. si concede per la prima volta al fidanzato. Basta questa trasgressione, a far affiorare un vissuto persecutorio. A. si sente sporca, maleodorante e, soprattutto sui mezzi pubblici, ha 1'impressione che le persone si allontanino da lei e la giudichino sprezzantemente. Abbandona il lavoro, e si chiude in casa. L'unica possibilità per "evadere" è, ormai, legata al matrimonio "riparatore" che avviene dopo un anno. I vissuti persecutori non scompaiono ma A., dedicandosi al marito,alla casa, alla figlia, può difendersene e razionalizzarli, finchè non tenta, attraverso il lavoro, di riattivare le sue pretese di aprirsi al mondo.

Quarta di sei figli di una modesta famiglia sarda, M., come già due sorelle maggiori, viene inviata in collegio nel "continente" per assicurarle, attraverso lo studio, un avvenire affrancato dalla miseria locale. Per effetto della separazione, M., che è una bambina particolarmente precoce, manifesta delle difficoltà di socializ-zazione, attestate da una balbuzie che persiste per alcuni anni. La sua spiccata inclinazione religiosa induce le suore a sollecitarla a seguire il loro esempio. A quattordici anni M. scopre, però, di essere fatta per la vita laica e si orienta verso un corso di infermiera professionale. Cominciando a frequentare tale corso a sedici anni, e trasferendosi dal collegio in un convitto, la persona-lità di M. subisce una rilevante trasformazione. Un'innata timidezza e ritrosia sociale viene rimossa da un atteggiamento deciso, sicuro e tendenzialmente polemico. Al culto della famiglia e alla fede religio-sa si associa uno spirito critico estremamente vivace, con spiccati accenti di anticonformismo. Nulla lascia prevedere ciò che sta per accadere.

A venti anni M. entra in relazione con un uomo sposato, che, per lei, abbandona la famiglia. allorché i parenti di M. vengono a conoscenza della cosa, lo sconcerto è enorme. La madre e una sorella maggiore, in particolare, si impegnano nel dissuadere M. dal portare avanti un'esperienza scandalosa e disgregatrice sotto il profilo morale. Nonostante i sensi di colpa, M. oppone una vivace e insospettata resistenza. La relazione dura un anno, e viene poi sospesa per le difficoltà che essa pone e per la minaccia, ventilata dalla sorella maggiore, di metterne a conoscenza il padre, per il quale M. nutre un rispetto sacro. M. rientra nell'ordine, si dedica al lavoro, alla casa, frequenta la comunità parrocchiale, svolgendo una frenetica attività di volontariato assistenziale. Per quindici anni, vive come se null'altro la interessi al di là di questi orizzonti.

Quando P. nasce, la famiglia (il padre è funzionario di banca, la madre gestisce un'attività commerciale) è già duramente impegnata a confrontarsi con i problemi posti da una sorella di sei anni, che manifesta turbe di comportamento piuttosto serie, incentrate su diffi-coltà alimentari. P., per fortuna, è una bambina docile, che si accontenta delle scarse risorse di tempo e di affetto di cui dispongono i genitori. Crescendo, manifesta un carattere schivo e un po' introverso Nessuno vede in ciò un problema, anche perché la sorella, raggiunta l'adolescenza, crea problemi sempre più seri: è tendenzialmente anores-sica, estremamente aggressiva in famiglia e comincia ad intrattenere rapporti turbolenti con i ragazzi. P., costretta a vivere nell'ombra per non essere di peso, si intristisce. Sentendosi poco amata, ha ricorrenti fantasie di fuga e giunge a pensare di essere una figlia adottiva.

A sedici anni, allorché comincia a percepire una rabbia incoercibile, terrorizzata dalla possibilità di perdere il controllo su di essa, la estingue fidanzandosi con un giovane di dieci anni maggiore, molto protettivo benché di carattere piuttosto freddo, al quale si aggrappa in un rapporto di amore cieco. Non ha grande fiducia in se stessa: benché molto graziosa e positiva negli studi, sente di valere poco e di non dover nutrire grandi progetti. A diciotto anni, accetta un posto in banca offertole dal padre, rinunciando, nonostante le condizioni agiate familiari, a frequentare l'università. Dopo alcune settimane di lavoro, sente che l'ambiente della banca non è adatto a lei, ma non osa dimettersi, per non manifestarsi ingrata nei confronti del padre. A ventuno anni si sposa, e si dedica al lavoro e alla casa a tempo pieno.

La vita si svolge su un registro routinario, con la consueta visita domenicale ai suoceri, che la ritengono una moglie perfetta, capace di assecondare le ambizioni di carriera che esauriscono l'orizzonte di vita del figlio. A ventitre anni, P. mette al mondo una bambina e, chiudendosi con lei in un rapporto fusionale, raggiunge, agli occhi di tutti, il vertice della perfezione nell'ottica tradizionale. Nonostante le conferme che riceve, essa comincia però a nutrire una vaga inquietudine. Ritiene che ciò sia dovuto alla scarsa disponibilità del marito, che sta fuori per lavoro tutto il giorno e, nei giorni di vacanza, non prende alcuna iniziativa. Comincia ad attaccarlo periodicamente manifestando una rabbia poco controllata. Dopo ogni attacco, si pente e si umilia chiedendo di essere perdonata. La rabbia da cui P. è percorsa trascende l'insoddisfazione coniugale, e fa capo ad una presa di coscienza femminista che la pone in conflitto con l'ordine borghese nel quale è vissuta e vive e con gli orizzonti di una normalità incentrata sul senso del dovere e sulle forme, che comincia a risultare soffocante. Il tema della fuga e dell'evasione, rimosso nelle sue origini remote, si ripropone prepotentemente.

T. è figlio della colpa. La madre, che proviene da una famiglia piccolo-borghese di rigidi principi tradizionali (il nonno è un militare), esprime, con la gravidanza illecita, la sua ribellione nei confronti di quei principi, ma, nel contempo, in conseguenza di essa, finisce con il chiudersi nel ruolo di reproba che, perdonata, deve espiare. T. vive i primi anni con la madre e con i nonni, che lo educano con estrema rigidità e pretendono da lui un comporta-mento precocemente perfetto. benché di condizioni economiche modeste, la famiglia, in nome di una mitologia non verificabile che, per via paterna, comporta ascendenze elevate, ha un'immagine di sé vagamente aristocratica; T. è continuamente richiamato al dovere di essere degno dell'appartenenza. E' un bambino intelligente, vivace e con atteggiamenti opposizionistici che vengono duramente repressi.

Quando ha cinque anni, la madre contrae regolare matrimonio con un uomo, che viene fatto passare come suo padre. Costui ha un carattere difficile, suscettibile e facile all'ira. Il mènage familiare è caratte-rizzato da continue liti tra i coniugi, che, il più spesso, si risolvono con il ricorso alla violenza fisica da parte del marito. T. assiste alla sopraffazione costante della madre, si allea con essa, e sviluppa un odio feroce nei confronti del padre. Ma non è solo uno spettatore passivo. Il padre percepisce la sua intima avversione e, facendo leva su atteggiamenti ostinati, ch'egli vive come lesivi della sua autorità, si dedica a "raddrizzarlo" incutendogli terrore fisico. benché vivace, T. è un bambino piuttosto gracile; il padre, insegnan te di educazione fisica (come la madre), è un uomo vigoroso che ha il culto della forza. Il conflitto, nel quale T. decifra un astio personale, lo induce a mettere in dubbio la paternità, e a vivere costantemente in un tumulto di inespressi sentimenti di vendetta, la cui realizzazione viene rimandata alla crescita, quando potrà competere da pari a pari.

La nascita di due fratelli non migliora il mènage familiare. T. assume nei loro confronti un atteggiamento manifestamente protettivo. Studia con molto impegno, poiché si sente in debito nei confronti della madre. Ma, via via che cresce, si rende conto che essa, con il suo senso del dovere estremamente rigido, lo sovraccarica di un'ansia perfezionistica poco tollerabile. A tredici anni, gli viene comunicata la verità sulla sua nascita, in seguito a incessanti domande che egli pone a riguardo. Se, per un verso, quella lo avvilisce, per un altro affranca i suoi sentimenti di rabbia e di vendetta nei confronti del marito della madre da ogni debito di sangue. Tale affrancamento, che si associa allo sviluppo fisico e alla pratica dello sport, produce una straordinaria irrequietezza e, nel giro di due anni, una trasformazione comportamentale e ideologica. T. sviluppa un'ideologia libertaria, incentrata sull'odio nei confronti di ogni autorità repressiva, delle istituzioni gerarchiche e delle sopraffazioni a danno dei deboli.

Il corollario di questa ideologia è l'identificazione adolescenziale con il ribelle, il trasgres"`sore e il giustiziere. In nome di questa identificazione, T. si impone di soffocare ogni paura e si apre ad un modello di vita incentrato sul coraggio fisico, sull'avventura o sullo sprezzo del pericolo. Nonchè interazioni sempre più conflittuali con il padre, che però T. porta avanti con una comunicazione verbale sempre più incline ad una razionalità inattaccabile, quell'identificazione si esprime soprattutto attraverso l'amore della velocità. Con un motorino, T. ne fa di tutti i colori e più volte rischia la vita, procurandosi alcuni incidenti. L'intuizione di andare letteralmente alla ricerca della soluzione finale, come un eroe negativo, infine lo blocca, poiché egli pensa al dolore che darebbe alla madre. Si calma, e rimanda la resa dei conti al futuro, quando, conseguita l'autonomia economica, potrà disporre della propria vita come crede. Ma il controllo comportamentale non soffoca la maturazione di un'ideolo"`gia libertaria sempre più estremistica. E" con l'odio nei confronti di tutte le istituzioni gerarchiche che T. giunge alle soglie dell'esperienza universitaria.

D. è certa di essere nata "male". Seconda figlia di una coppia che, partendo dal nulla, giunge, attraverso il commercio, ad assicurarsi un tenore di vita agiato, essa rappresenta sempre un "problema". E^ lamentosa, irrequieta, ha difficoltà nel mangiare, vive aggrappata alla madre togliendole il respiro, fa un dramma di ogni frustrazione. Avviata all'asilo con grosse difficoltà, data la sua paura della separazione, manifesta comportamenti irregolari. Non accetta la disci-plina delle suore, e si scatena nei giochi esibendo atteggiamenti competitivi e avventurosi ritenuti tipicamente da maschio. Nettissima è la differenza rispetto alla sorella, di tre anni maggiore, che è una bambina modello. D. si rende conto dell'amore e delle cure che riceve, soprattutto da parte della madre, e del suo essere insopportabilmente di peso, pretenziosa e oppositiva nel contempo. Pur sentendosi, fin da piccola, in colpa non riesce in alcun modo a correggersi.

La situazione familiare, affettivamente armoniosa, non sembra offrire alcuno spiraglio ad un'interpretazione interattiva dei comportamenti di D.. Nella casa abitano anche i nonni materni. Per quanto le responsabilità della gestione domestica e dell'allevamen-to dei figli ricadano soprattutto sulla madre, non è possibile ignorare il ruolo svolto dalla nonna. Costei, nel ricordo di D., è una donna "tremenda": "maniaca" fino a livelli patologici dell'ordine e della pulizia e di un codice di "buone maniere" rigidamente for-malista, essa rende la vita impossibile a tutti. La madre la subisce, ma è chiaro che tollera molto male il suo implacabile giudizio persecuto-rio, che investe anche l'educazione che impartisce alle figlie. La famiglia tutta, del resto, è preda del mito della signorilità.

I genitori scelgono per la figlia Istituti privati, gestiti da suore, per ricchi, ove pensano che esse possono ricevere l'educazione migliore. D. si trova male sia a casa che a scuola; studia poco, rende meno, ed è preda di una frenetica vocazione al gioco e alla socialità, che viene costantemente arginata e, sia pure benevolmente, redarguita. Nonostante il debito che avverte nei confronti dei genitori e i principi religiosi che le vengono impartiti, D. odia i formalismi, i perbenismi, le ipocrisie, il senso del dovere fine a se stesso e la virtù, e sogna una vita affrancata dalle regole, dalle costrizioni, dall'ordine. L'amore per i suoi rende incomprensibili vaghe fantasie di fuga dall'ambiente domestico che attraversano la sua anima a partire dall'età di quattordici anni. Fantasie parassitarie, respinte e non alimentate, poiché D. continua a vivere una profonda dipendenza da un ambiente familiare sostanzialmente protettivo.

A sedici anni affiorano i primi rituali. Per andare a letto, D. deve sistemare le pantofole in un modo che talora la impegna per alcune decine di minuti. Lentamente i rituali si estendono a tutta una serie di banali comportamenti quotidiani, e si associano alla convinzione che, eseguirli significa scongiurare che avvenga del male alle persone care.

La minaccia sembra premonire una catastrofe che sta per realizzarsi. Il padre, che non ha osato mettere a parte nessuno delle difficoltà economiche in cui versa da alcuni anni, fa una serie di ingenue manovre finanziarie e va incontro ad un disastroso fallimento. La famiglia si ritrova d'emblèe sul lastrico e indebitata fino al collo. Il padre regredisce in una sorta di umiliata rassegnazione, e non riesce più a lavorare. La madre prende in mano le redini della situazione: con il suo lavoro e le pensioni dei nonni si tira avanti. Ma il tenore di vita cambia radicalmente. Non c'è più in casa una donna di servizio, le figlie devono trasferirsi in Istituti statali, e orientarsi il più presto possibile verso l'inserimento lavorativo. D., sgomenta, continua la sua mediocre carriera di studi, interferita ormai dai rituali. La sorella si sente investita, invece, del compito di chi deve restaurare le sorti della famiglia. Nel giro di alcuni anni, ci riuscirà. D. continua ad arrancare e ad essere di peso.

Muoiono i nonni e il padre. A ventiquattro anni D. inaugura un rapporto con un uomo sposato. La madre lo scopre, e, benché D. sostenga che quegli è separato dalla famiglia, ne riceve un tremendo dolore. Riesce a trovar posto come insegnante in un asilo nido, ma lo stipendio esclude la possibilità di un salto verso l'autonomia. Il mènage a tre continua con la sorella impegnata nell'ascesa sociale, e D. relegata nell'ombra. I rituali si intensificano, e concernono, ormai, oltre la madre e la sorella, il compagno. Essi non possono essere celati agli occhi delle persone care, per il cui bene vengono eseguiti. Sia la madre che la sorella interagiscono, però, molto male con tali pratiche. D. si rende conto di aver dentro di sé un'irrequieta voglia di vivere, che, in alcuni periodi, la fa stare tutto il tempo libero fuori casa. Ma, nel contempo, ha paura di questa sfrenatezza, che i rituali valgono a vincolare. Avvia un rapporto psicoanalitico che dura tre anni e non consegue alcun risultato. La madre muore per un tumore e D. si ritrova sola con la sorella. Paradossalmente costei, che in passato è stata ferocemente critica nei confronti della nonna, alla quale rimprovera di aver rovinato l'esistenza ai suoi, ha assunto i suoi stessi atteggiamenti e vive alla luce dei suoi stessi valori. Nonostante D. la ami teneramente, capisce che la convivenza, per i problemi che produce, non può durare all'infinito. Decide, dunque, con l'obbiettivo di migliorare il suo ruolo lavorativo, di iscriversi alla facoltà di psicologia. Ma è proprio avviando questa esperienza, che i rituali raggiungono una continuità e un'intensità mai sperimentate.

E. è il primo figlio di una coppia eterogenea. Comune è l'estrazione sociale di matrice contadina. Il padre, che mena da ragazzo una vita da discolo, abbandona la scuola dopo la terza media e si mette a lavorare, riuscendo ad entrare a venti anni come operaio in un ente parastatale. La madre, che consegue un diploma di scuola media superiore, lavora come impiegata statale. L'uno odia il contesto urbano, e, non appena può, si ritira al paese per lavorare la campagna paterna. L'altra odia la campagna e il quartiere di borgata in cui vivono, e avverte un'irresistibile attrazione per un modello di vita borghese. E' una coppia sostanzialmente infelice, cementata solo dal dovere nei confronti dei figli (E. ha una sorella di quattro anni minore) ai quali sacrificano la vita. Al di là del lavoro non si concedono alcunchè.

E. è un bambino straordinariamente tranquillo e giudizioso. Intuisce precocemente le tensioni dei genitori, che attribuisce alla dura vita che fanno per lui, e sente come suo dovere di non essere di peso e non dare problemi. A cinque anni, viene avviato in un asilo di suore a tempo pieno, e, nonostante l'ambiente, oppressivo, non si lamenta. Frequenta anche le due classi elementari presso le suore, e rimane terrorizzato dalla severità di una maestra, che adotta largamente punizioni fisiche. Dato il suo comportamento perfetto, egli non le subisce. Ma, quando vede i malcapitati compagni "bacchettati", il sangue gli si rimescola. Ha paura di questa rabbia, poiché quella stessa maestra inculca principi religiosi che impongono il rispetto sacro dei genitori e degli educatori, pena l'inferno. Questo insegnamento sortisce anche un altro effetto.

A sette anni viene accertata una fimosi. Un chirurgo, amico del padre, pensa che l'intervento si possa rimandare a patto che il prepuzio venga "elasticizzato" con manovre di scorrimento più volte la settimana. E' il padre ad assumersi questa incombenza "terapeutica". Le manovre risultano dolorosissime. Convinto della loro assoluta necessità, E. non si può sottrarre ad esse, ma, nel corso degli anni, egli non può negare che se la dedizione del padre gli crea gratitudine, il dolore cui è sottoposto determina anche una rabbia profonda nei suoi confronti. Tra l'oppressione della scuola a tempo pieno e l'oppres-sione delle "cure" E. vive in uno stato d'animo perenne-mente penoso, terrorizzato e arrabbiato nel contempo.

Con l'avvio della scuola media, il padre rinuncia ad eseguire personalmente quelle manovre, e affida a E. la responsabilità di farle da solo. Liberato da un incubo, E. naturalmente si guarda bene dal torturarsi, ma, dopo qualche tempo, comincia ad essere angosciato dalla paura di potersi provocare dei danni irreversibili. Reagisce all'ansia con la bulimia, e ingrassa notevolmente. Continua intanto a frequentare la scuola a tempo pieno, e a sognare di arrivare alle superiori per essere libero. Negli anni delle medie, comincia anche a riflettere sulla situazione familiare. Gli riesce sempre più chiaro che i suoi si sacrificano per il bene dei figli, ma, pur sentendosi indebitato non sa se valga la pena vivere come loro. Rileva contempora"`neamente che il padre, per quanto onesto, impone alla moglie di vivere come egli ritiene giusto: non le concede alcuna distrazione, pretende che essa sia sempre a sua disposizione, non vuole che frequenti amiche e deride la sua passione per i teleromanzi. Non capisce come il padre non si renda conto del suo autoritarismo e della sua tendenza a prevari"`care la volontà altrui. Raramente, si azzarda a criticarlo, ma prende atto che il padre, se non reagisce bruscamente, si chiude a riccio come offeso mortalmente. Rileva anche la debolezza della madre che, nonchè ribellarsi alla "prepotenza" del marito, sfoga le sue frustra"`zioni in una frenetica dedizione alle faccende domestiche, è spesso nervosa, e si abbandona a comportamenti alimentari bulimici.

Cose del genere, M. non vorrebbe pensarle, ma non può fare a meno di logorarsi nel tentativo di coglierne il senso. Per effetto di questo travaglio interiore, alla gratitudine per i genitori si associa la fantasia di differenziarsi rispetto a loro e di cambiare modello di vita. Con la scuola media finisce l'esperienza del tempo pieno. E. si ritrova finalmente libero e padrone, nel pomeriggio, del tempo libero. Ma scopre, con l'ebbrezza, il terrore della libertà.

Con il metodo della ricostruzione genetica, si giunge, dunque, sia pure a livello superficiale, a intravedere la genesi della matrice conflittuale, che, di solito, precipita prima che affiori il disagio psicopatologico. Ciò fatto, l'intervento dialettico entra nel vivo: si rivolge, così, a indurre una verifica, a livello soggettivo, relazio"`nale e sociale, di quanto è stato ipotizzato, e a sondare le possibilità di una ristrutturazione dell'esperienza soggettiva in nome dei bisogni frustrati. Ma ciò significa, in breve, indurre i soggetti a scoprire i confini strutturali della loro libertà, determinati dall'alienazione superegoica.

5. La struttura del campo di esperienza

La traduzione dialettica oggettiva, dunque - attraverso i vissuti, i sintomi, i comportamenti - la scissione dei bisogni intrinseci.La ricostruzione genetica permette di formulare delle ipotesi, sia pure sommarie, sulle circostanze - soggettive, interattive e socio-culturali - che hanno prodotto quella scissione. Tali ipotesi pongono sempre in luce, con un'evidenza spesso sorprendente, il conflitto tra debito di appartenenza e libertà personale. Per effetto della funzione superegoica, tale conflitto comporta imputazioni specifiche: in quanto espressione di un bisogno di opposizione/individuazione criminalizzato, la libertà personale è significata in termini di infedeltà, ingratitudine, tradimento, colpa, sacrilegio. Il suo eserci-zio, pertanto, o è inibito da minacce di esclusione sociale insormonta-bili o si realizza solo attivando sensi di colpa che, alla lunga, determinano una regressione riparativa e/o espiatoria. Sia le strutture psicopatologiche stabili, governate dall'esigenza di scongiurare la minaccia di esclusione sociale, che quelle fluide ma fasiche, che comportano transitori affrancamenti da essa, costringono, in ultima analisi, i soggetti a vivere entro confini - soggettivi, relazionali, comportamentali, culturali - che sanciscono l'obbligo di fedeltà sia pure al prezzo di un'appartenenza alienata.La legge di riparazione e di regressione strutturale, espressione dell'attività superegoica, ha, in ambito psicopatologico, una validità assoluta. Ma, per le sue matrici biologiche, psicologiche e culturali, essa è del tutto assente a livello cosciente. I soggetti vivono i sintomi, le paure, le relazioni interpersonali e le condizioni oggettive in cui si trovano come limitazioni della libertà personale. Ora è fuor di dubbio che le relazioni interpersonali e le condizioni oggettive non sono certo insignificanti nel definire il grado di libertà personale. Ma laddove si dà un disagio psicopatologico, e, ovviamente, al di là delle fasi evolutive, le limitazioni decisive provengono dall'interno, dalla funzione superegoica che svolge il ruolo di rappresentante sociale, e che, in nome del debito di fedeltà, veicola codici che autorizzano, prescrivono o proscrivono l'esercizio della libertà personale. Individuata la scissione dei bisogni e ricos-truita la sua genesi, l'intervento dialettico mira a rendere il soggetto il più consapevole possibile del determinismo intrinseco della sua esperienza, e cioè di un confine strutturale che, per quanto possa essere alimentato e rinforzato da interazioni sistemiche e condizioni oggettive, non può essere sormontato in nome del rispetto di un sistema di valori che sancisce l'appartenenza. Quel confine, che corrisponde alla scissione dei bisogni, comporta un al di qua e un al di là in ultima analisi ideologico: l'al di qua implica un prezzo da pagare in nome del debito di appartenenza, l'al di là il prezzo del cambiamento. La definizione di tali campi culturali - con le loro valenze emozionali, relazionali, comportamentali e ideologiche - gli uni autorizzati o prescritti, "concentrazionari", gli altri proscritti o minati, postula nuovamente il ricorso alla traduzione dialettica. Ma, in questa fase, la partecipazione del soggetto è attiva: quella definizione, infatti, avviene utilizzando come "materiale" il patrimonio esperienziale soggettivo, e dunque i vissuti interiori, le interazioni quotidiane significative, ricorrenti o occasionali, i ricordi, le rievocazioni, i sogni, i diari, le fotografie, gli spettacoli cinematografici e televisivi, le letture di libri e riviste, le riflessioni culturali e le testimonianze altrui. Non di rado, come si vedrà, la traduzione dialettica deve demistificare ideali dell'io che, sovrapposti alle strutture conflittuali dei bisogni, configurano soluzioni astratte o possibili solo a patto di dare ad essi un diverso significato cultura-le. Si tratta, dunque, di un lavoro creativo, la cui arbitrarietà è limitata dalla teoria dei bisogni e dalla capacità euristica di spiegare la struttura dei bisogni propria di un'esperienza soggettiva. Lavoro, peraltro, il cui piano di verifica non è la coscienza bensì la pratica della vita. Da un punto di vista dialettico - e non mi stancherò mai di insistere a riguardo - ciò che è vero, e nella misura in cui lo è, lo si ricava dalla pratica della vita. E' ovvio che, per l'economia del saggio, non riuscirà possibile documentare compiutamente questo lavoro. Per ogni esperienza, si cercherà di restituire l'essenziale. La fedeltà al modo di procedere proprio dell'intervento dialettico comporta, di necessità, uno stile frammen-tario.


1) F.

F. odia la propria immagine allo specchio. Nella sua camera mantiene sempre la penombra, e, da anni, pulisce lo specchio in maniera singolare, lasciando costantemente sulla sua superficie un velo di polvere. E' solo in virtù di questo stratagemma che riesce ad usarlo. In bagno, ove la superficie è perfettamente tersa, prova spesso un sottile disagio angoscioso, esitato una volta in un collasso. Tale vissuto risale all'epoca in cui F. è andata incontro allo sviluppo puberale, ed è persistito associandosi alla paura di poter vedere; da un momento all'altro, "qualcosa" di spaventoso. Il velo di polvere sullo specchio è il confine al di là del quale la coscienza di F. non deve penetrare, pena il rischio di rimanere inorridita. C'è, dunque, dentro di lei, una "mostruosità" da occultare: mostruosità che, per l'epoca in cui si è definita, deve avere un qualche rapporto con la trasformazione da bambina in donna.

Di fatto, F. odia il proprio corpo. Non ne sopporta le rotondità, le mollezze e, in particolare, i seni particolarmente floridi. Si assoggetta pertanto a diete particolarmente rigide per mantenere il suo peso-forma, che coincide - e non è un caso - con quello che avrebbe potuto consentirle di proseguire l'attività agonistica. Il peso-forma è, dunque, l'indice di un ideale dell'io riparativo, che restaura e mantiene, in età adulta, la perduta innocenza infantile. F. non riesce a perdonarsi i comportamenti alimentari squilibrati che, inducendo un rilevante aumento di peso, hanno determinato l'abban"`dono dell'attività agonistica. Essa sostiene che non se li perdona in nome di un autocontrollo volontario, segno di forza di carattere, al quale ha sempre tenuto e tiene tuttora. Ma è evidente che quei comportamenti sono rimasti segnati dentro di lei come espressioni di un tradimento delle aspettative dei suoi, tanto più colpevole in quanto eseguito di nascosto, come una pugnalata alle spalle. Non se li perdona perché non sono stati perdonati, inducendo nel rapporto con i suoi dei cambiamenti irreversibili. Il padre che, all'epoca, le tolse il saluto per alcuni mesi, ha mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento freddo, venato da una percettibile disistima. La madre l'ha compatita, eleggendo però sua sorella al ruolo di figlia prediletta.

Diventar donna, cedere alle debolezze e agli appetiti della carne, ha prodotto dunque una catastrofe relazionale e soggettiva. Catastrofe inevitabile, se è vero che F. ha deluso le aspettative dei suoi nascendo femmina. Nonchè il nome, evidentemente adattato alla circostanza (anche se i suoi, interrogati a riguardo, sono reticenti), è il modo in cui F. è stata allevata ad attestarlo. Essa ricorda la soddisfazione dei suoi nel vederla, fin da piccola, manifestare tratti di carattere e comportamenti da 'maschietto'. Ne fa fede anche il fatto che, sino all'epoca dello sviluppo, F. è scambiata da tutti per un maschio. Quando si presenta alle gare, giudici e genitori si convincono della sua identità solo vedendola in costume.

La rimozione familiare è peraltro comprovata da una circostanza signifi"`cativa. A undici anni, quando già affiorano i segni somatici di un imminente sviluppo, F. va negli Stati Uniti con la squadra di nuoto per un corso di allenamento. Non è minimamente informata di quanto sta per accadere. Le prime mestruazioni, che la sorprendono oggettivamente da sola in terra straniera, la traumatizzano. Il signifi"`cato di quella rimozione si chiarisce lentamente. Il padre, uomo professionalmente valido ma narcisista e vagamente megalomane, non ha mai fatto mistero del disprezzo ch'egli nutre nei confronti degli esseri deboli, categoria nella quale rientrano esplicitamente le donne. La madre, chiusa nel suo ruolo di casalinga, incapace di muoversi fuori casa da sola, timorosa di ogni contatto sociale, conferma quel pregiudizio e - quel che è peggio - lo condivide. Ma, nonchè stigmatiz"`zare la debolezza, parlando delle donne si estranea rispetto ad esse, giudicandole categorialmente infide, interessate unicamente ad attrarre si di sé l'attenzione degli uomini, e tendenzialmente perverse. Nutre una passione spiccata per i teleromanzi, che vede con F. dacchè costei è adolescente. Ma i suoi giudizi sono sempre univocamente orientati a stigmatizzare le colpe delle donne, di cui gli uomini sarebbero costantemente vittime. E' assistendo ai teleromanzi che F. scopre anche il rigido moralismo della madre, che reagisce con manifesto disgusto alle scene, anche poco audaci, di amore, e afferma con convinzione che "certe cose" non si dovrebbero far vedere.

E', dunque, evidente che il disprezzo genitoriale concerne le debolezze in quanto hanno rapporto con gli "appetiti carnali", e che esse vengono attribuite univocamente alla natura femminile. Cosa significa questo se non che la donna, per non essere investita da un giudizio spregevole, deve rimanere innocente come una bambina e montare sul suo corpo, potenzialmente pericoloso, una "testa" equilibrata, spiritualizzata e capace di mantenere il controllo? E' quanto F. si è imposta, dopo la "caduta", trasformando in ideale dell'io la condanna a privarsi di ogni umano desiderio, a rinunciare alla sua giovinezza in nome di un modello mistificato, che condensa l'innocenza infantile con la quiete di una maturità senile.

Ouesto modello, nonchè riparativo, è però anche vendicativo. Crescendo, F. ha scoperto che i suoi, pur propugnandolo come modello di virtù e di forza, non sono affatto immuni da contraddizioni. La madre ha dei raptus alimentari, che la portano a svuotare il frigorifero, e, più di una volta, F. l'ha scoperta a bere alcolici di nascosto. Il padre, che soffre di una forma di ipertensione arteriosa piuttosto seria, è un fumatore accanito, incapace di moderare questo "vizio", nonostante i consigli medici, e si abbandona frequentemente ai piaceri della tavola, talora, durante le feste, a rischio di un ictus (paventato dai medici).

Con la sua perfetta autoregolazione alimentare, che non di rado sfiora l'anoressia, F., pur senza parlare, rappresenta un giudice temibilissimo. Da anni, si è istaurata in casa una singolare abitudine. Tranne che nei giorni di festa, non si consumano pasti in comune. Ciascuno provvede per proprio conto, nelle ore più diverse. Il padre ha imposto poi la regola per cui, quando mangia, non vuole che né la moglie né la figlia siano presenti in cucina. Regola arbitraria, ma indiscutibile. Nonostante la sua razionalità, che lo porta a definire il computer (al quale dedica il tempo libero) come il suo migliore amico, il padre di F. è infatti un iracondo esplosivo, che, quando perde il controllo, diventa francamente temibile. F. rievoca a riguardo un episodio significativo. Essa ha un cane di piccola taglia, di nome Sansone, cui è particolarmente affezionata essendole stato regalato dal primo ragazzo. Il padre talora gioca con esso stuzzicandolo per farlo reagire. In un'occasione, Sansone si rivolta e tenta di morderlo, venendo brutalmente scalciato. F. avverte repentinamente una rabbia cieca montarle alla testa, ma rimane paralizzata dalla paura di entrare in conflitto con il padre. E' preda di violente vertigini, e deve dunque riconoscere che esse possono essere causate dalla rabbia.

L'identificazione con il cane è, ovviamente, densa di significati. Sia pure inintenzionalmente, F. è stata trattata "sadicamente" dai suoi, che, per tutta l'infanzia, le hanno imposto un regime di vita innaturale e intollerabile. Pur assoggettandovisi, e ricevendone delle gratificazioni, F. ricorda quel regime, cadenzato dalle sedute di allenamento in piscina, come una autentica tortura, ad arrestare la quale non valevano neppure le malattie febbrili. Essa rievoca lucidamente le emozioni di odio e di vendetta che ha provato infinite volte nei confronti dei suoi genitori e dell'allenatore, alleati nel perseguitarla e insensibili nei suoi confronti, come pure gli intensi sensi di colpa che si associavano a quelle emozioni, e la inducevano a sentirsi ingrata.

Ciò nonostante, F. conserva un'immagine mostruosa di sé da bambina, dovuta al fatto che sistemati"`camente, per anni, in assenza dei suoi, si dedicava a torturare in ogni modo il cane che allora era in casa, profittando della sua inermità e sentendosi paga solo quando giungeva a farlo guaire in maniera straziante e a vederlo terrorizzato. Attualmente, essendo divenuta matura e equilibrata, quelle crudeltà le sembrano incredibili. Nulla moralmente le repugna più che la sopraffazione dei deboli e degli inermi. C'è da crederle. Ma occorre riconoscere che la rabbia e l'odio che ha accumulato nel corso dell'infanzia in conseguenza di una sia pur involontaria persecuzione non può essersi estinta. Tanto più che essa, senza rendersene conto, continua a essere perseguitata, dall'interno, da un ideale dell'io che le ripropone, pari pari, un modello di forza di carattere e di virtù. Com'è possibile, dunque, che la sua rabbia oppositiva si sia estinta? Ma, se essa persiste, che senso darle e che uso farne? Non potrebbero le vertigini segnalarla e, nel contempo, denunciarne il significato mostruoso che essa continua ad avere?

F. rievoca i vissuti che l'hanno attraversata all'epoca dell'inci"`dente, consapevole che essa, pur potendolo evitare, non lo ha fatto. Dopo aver repentinamente troncato il rapporto con il primo ragazzo, si è sentita tremendamente in colpa, temendo di aver prodotto in lui, che manifestamente l'amava, una sofferenza straordinaria. Giorno e notte, si chiede le ragioni del suo comportamento, e non trova altra risposta che la sua fredda e lucida cattiveria, la volontà determinata di far male a chi la ama. L'incubo di essere un mostro, che cela sotto un'apparente maschera di razionalità un'aggressività incoercibile e squilibrata, si riattiva. Solo dopo aver inaugurato il nuovo rapporto, si rende conto che il ragazzo con cui si è fidanzata è amico dell'altro e lo frequenta. Non sentendosi innamorata, si chiede se, per caso, il nuovo rapporto non esprime altro che il suo bisogno perverso di mettere una lama in una ferita ancora aperta. In compagnia del partner, incontra l'ex fidanzato, e legge nel suo sguardo un infinito dolore. Prova una intensa gioia, che si trasforma, nel giro di poche ore, in un incubo di sensi di colpa. Ricordando il prezzo che ha pagato per il tradimento adolescenziale, non intende permettere alla sua natura squilibrata di avere la meglio. Senza saperlo, va a cercarsi l'incidente, per rimettere la testa a posto.

E', dunque, chiaro che F. alberga nel suo intimo una rabbia mostruosa, orientata ad attaccare gli esseri deboli, legati a lei da affetto, e a farli soffrire, e che tale rabbia le è imputata dall'in-terno come una colpa grave da pagare. Quella rabbia ha le sue ragioni di essere, e, tenendo conto del fatto che F. l'ha soffocata in nome di un ideale dell'io che ha riprodotto dall'interno il modello persecutorio che l'ha torturata nel corso dell'infanzia, sussistono pochi dubbi ch'essa veicola una protesta di libertà orientata a far venire alla luce dei bisogni lungamente frustrati.

F., in breve, deve evadere da un sistema di relazioni e di valori introiettati che, se le consentono di sentirsi sicura, equilibrata e padrona di sé, di fatto le tolgono spontaneità e azzerano il suo piacere di vivere. Ma i sensi di colpa incombono su quella rabbia, e, nonchè permettere a F. di tradire le persone e i valori che la persegui"`tano, le impongono di continuare a vivere nell'alienazione e nella riparazione.

2) A.

Esclusa dai controlli medici una qualunque malattia, A., che ha un'intelligenza vivace e plastica, non stenta a riconoscere che la malignità e la degenerazione dalle quali ha temuto affetto il cervello debbono comunque avere un significato. Ma assumendole come fobie, il campo della sua coscienza aggancia immediatamente il pericolo di essere affetta da una malattia di mente. Pericolo, come si è visto, già presente da alcuni anni nell'orizzonte della sua esperienza, ma respinto e tenuto sotto controllo in virtù di una dedizione ai doveri piuttosto rigorosa. E' fuor di dubbio che le depres"`sioni materne, ricorrenti negli ultimi anni, lo hanno attivato, risve"`gliando in A. il pregiudizio della tara ereditaria proprio della cultura originaria familiare. Essa rimane sorpresa nell'apprendere da un dizionario la definizione lessicale di degenerazione: "uscire dalla tradizione del proprio genere, cioè dalla propria stirpe, dalla propria gente; deviare dalle qualità insite, ereditate". Se una famiglia è tarata, rimanere in una situazione congenere significa condividere le tare; degenerare può, viceversa, significare questo e il suo contra"`rio. Non si tratta di una sottigliezza, poiché introduce nel cuore del problema: il conflitto tra debito di appartenenza e individuazione.

La sollecitazione dialettica verte su di un tragitto vettoriale -la tradizione familiare - rimanere nella quale può essere pericoloso non meno che uscirne. In conseguenza di tale sollecitazione, A. riferisce dei vissuti che hanno preceduto l'avvento delle crisi. Percorrendo in macchina, come di consueto, un tratto del raccordo anulare, per recarsi dalla casa in ospedale e viceversa, comincia ad avvertire l'angoscia di poter perdere il controllo del volante e, nel contempo, di essere "chiusa" in una corsia senza possibilità di inversioni di marcia e senza vie di scampo immediate. Deve, di conseguenza, rinunciare all'automobile e prendere i mezzi pubblici. Anche in questi non è tranquilla, un po' per la ressa che induce vaghe sensazioni di soffocamento, ma soprattutto perché ha l'impressione che la gente nutra una qualche ostilità nei suoi confronti.

Tenendo conto di questi vissuti, riesce chiaro che la crisi di A. ha preso le mosse da un nucleo dinamico plaustro- e agorafobico. Si tratta, dunque, di capire qual è il tragitto obbligato che la opprime, facendola sentire priva di una libertà che, peraltro, configurandosi sotto forma di perdita di controllo, la terrorizza.

La "tara" familiare, che incombe in A., è di fatto una retta via che porta in un vicolo cieco: quella del sacrificio e dell'altruismo che, in quanto sistema di valori, comporta, per chi se ne fa carico, la rinuncia alla felicità personale e per il beneficiario un debito che obbliga a vivere per far felici coloro che si sono sacrificati. Simbolo vivente di questa logica è la nonna materna, le cui pretese si fondano, per l'appunto, sull'aver rinunciato a tutto per la famiglia. Intrappolata dal debito, la madre di A. non riesce ad arginare in alcun modo quelle pretese, tranne che entrando periodicamente in depressione, ma, nel contempo, ha ispirato e ispira la sua vita alla riproduzione fedele del sistema dei valori di cui è stata vittima. Ponendo a confronto la sottomissione totale della madre alla nonna con la sua nei confronti di quelle, A. ha intuito che la "tara" si è trasmessa. Ma cosa c'è, in ultima analisi, che non va in un sistema di valori incentrato sul bene comune? Se si ammette che A., in conseguenza di quella intuizione, abbia intravisto come unica soluzione al problema il diventare una figlia "degeneew", come dar senso a questa ribellione?

In quel sistema di valori, si sono accumulate, nel tempo, contraddizioni insolubili. Il bene comune in questione è, infatti, null'altro che l'onore, valore patrimoniale che postula l'onestà dei singoli membri. Avendo acquisito il metodo dialettico, A. sa che le parole hanno una risonanza emozionale che spesso abbaglia, e occlude il loro autentico significato, che fa capo alla storia sociale. Si rivolge ancora al dizionario e apprende che onore sta per "la buona reputazione di cui si gode all'interno di un gruppo sociale per meriti, prestigio, onestà" e che onestà è "la qualità di chi tiene un comporta-mento onesto, di persone la cui condotta è improntata a una fondamentale integrità e rettitudine, nel rispetto di un intimo e radicato senso della giustizia, della lealtà e simili".

La famiglia di A. è senz'altro di persone oneste, ma l'onore cui tiene condensa tradizioni incentrate sulla semplicità, la parsimonia, l'umiltà, il rispetto sacro delle gerarchie e valori di recente acquisizione che fanno capo allo status socio-economico, al prestigio, al successo. E'una condensazione piuttosto banale sociologicamente, ma densa di significati per A.. Essa si rende conto che i genitori sono vissuti alla luce dei valori tradizionali, covando un'ansia di riscatto che si è riversata sui figli. Il padre, di fatto, sprovvisto di laurea, nonostante le qualità personali e l'ingegno, ha portato avanti una carriera di impiegato statale per scatti di anzianità, vedendosi sopravanzato da persone di minor valore. Troppo modesto e ossequioso per un verso, per un altro non si è mai piegato al clientelismo, rifiutando ogni protezione politica. La madre, nonostante un'ambizione sociale esplicita, ha compiuto, dopo la nascita dei figli, il sacrificio rituale di dimettersi dal lavoro di insegnante elementare.

Entrambi, in pratica, hanno frenato l'ascesa sociale in nome di valori tradizionali, delegando ai figli il compito di realizzare un salto di appartenenza. Ma tale delega ha imposto a A. una visione del mondo incentrata su di una scissione che, assumendo lo status socioeconomico come indice diretto di onestà, getta una luce di pregiudizio su coloro che non appartengono ai ceti elevati. A questa visione del mondo, A., senza rendersene conto, si è sempre ribellata. Ne fanno fede una serie di vissuti che appaiono immediatamente comprensibili. Dacchè ha avviato le sue esplorazioni affettive, A.si è sentita sempre attratta , piuttosto che da persone "normali", che le risultano insopportabilmente noiose, da persone bizzarre, stravaganti o apertamente ribelli ai canoni correnti della normalità. Tale attrazione è sempre venuta meno nel momento in cui si danno condizioni atte a passare dall'immaginazione alla pratica reale. La retta via dell'onestà si è dunque imposta. Ma è un caso che A., fidanzandosi ufficialmente, sceglie un ragazzo di buoni principi, ma, a suo modo, un traditore del debito di appartenenza, e il cui status sociale è, in rapporto alle aspettative materne, deludente? E' un caso, infine, che essa sia decisamente orientata verso la carriera universiaria, e prescinda da ogni altro uso di una laurea conseguita a pieni voti e di una prossima specializzazione?

Un ribelle, in parte venuto allo scoperto, in famiglia c'è già. E' il fratello che ha avuto una carriera scolastica stentata, e, raggiunta la licenza superiore, rifiuta gli studi universitari. Il panico per una condizione di ozio, vissuta drammaticamente dalla madre, spinge il padre, per la prima volta, a chiedere una raccomandazione. Il figlio entra in un ufficio distaccato dello stesso ente presso cui il padre lavora. Ma non si comporta affatto bene: si assenta spes-so, lavora poco ed è punto rispettoso dei superiori. L'onorabilità conseguita dal padre viene messa a dura prova. Dopo un anno, il figlio comunica la decisione di dimettersi e di tentare la carriera di "model-lo". E' un fulmine, se non a ciel sereno, sicuramente inaspettato. La madre entra in uno stato di panico, e, per dissuaderlo, gli sta dietro come ad un bambino, lo vizia e lo redarguisce al tempo stesso. Le dimissioni, già date, vengono ritirate, ma la situazione rimane in sospeso. Il giovane, che ha paura di assumersi la responsabilità di un cambiamento radicale, prosegue a lavorare ma con un impegno minino, e minaccia, un giorno sì l'altro no, di dimettersi.

Il "tradimento" del figlio è vissuto male soprattutto dalla madre, che ha riposto in lui, in quanto maschio, la speranza di un riscatto. Coinvolta, suo malgrado, nel dramma, costretta a condividere le angosce della madre, A. si rende conto di ciò che ha sempre sentito: il suo essere apprezzata, e, nel caso, usata, ma non prediletta. Che merito ha, infatti, una donna che fa il suo dovere, visto che questo è il compito assegnatole dalla "natura"? Nel corso dei lunghi colloqui con la madre, A.capisce che la sua "virtù" è valutata poco, poiché è attribuita ad un difetto di bisogni. Ma ciò accade proprio nel periodo in cui essa scopre quel difetto come un'anormalità. In passato, intrattenendo con partners occasionali solo rapporti di superficie, A.non ha mai nutrito dubbi del genere. Ma, dacchè si è fidanzata, ha scoperto di essere totalmente frigida e disgustata dalla penetrazio"`ne. Non è pur questa un'eredità, visto che la madre, nel corso di alcune confidenze, ha definito la frigidità come espressione della virtù femminile, che viene meno solo in donne tarate, di cattivi costumi? Dell'onestà che A. deve praticare in nome del debito di appartenenza fa parte, dunque, anche la pudicizia. Ma in nome di che cosa? Di un codice che, ormai, è più perbenista che morale. La prova è fornita da una circostanza recente.

A. ha deciso di trascorrere le vacanze con il fidanzato. E' estremamente imbarazzata dal fatto di doverlo comunicare ai suoi. allorché si decide, certa di un loro dissenso o di un aperto rimprovero, rimane perplessa dal fatto che essi si limitano a domandarle se andranno - lei e il fidanzato - da soli o in compagnia di amici. Capisce d'emblèe qual'è la risposta "giusta" e mentisce. Ma il mondo le crolla addosso, poiché si rende conto che i valori cui è chiamata a rimanere fedele non mirano ad altro che a "salvare la faccia" agli occhi degli altri. Ma, allora, tutto è lecito purchè l'onore sia salvo? Se questo è il debito di appartenenza, de-generare, deviare dalla retta via, non è un modo per affermare la superiorità morale dell'autenticità, del coraggio di vivere secondo le proprie ragioni? A posteriori, A. comprende il senso del "tradimento" perpretato in età adolescenziale, e il fascino esercitato su di lei da una donna "malfamata".


3) A.

A. è, anzitutto, un essere senza parola, senza strumenti adeguati a dare espressione e forma al suo dramma interiore, che fluisce sul piano degli stati d'animo. Ma questi, già a livello fenomenologico, appaiono significativi. Al di sotto di una quiete apparente, mantenuta per non dare preoccupazione alle persone care, A., di fatto, non vive bene in alcun ruolo e in alcuno degli spazi sociali in cui si colloca. Dedicandosi alla casa, al marito, alle figlie, giunge a sentirsi chiusa in una dimensione di vita grigia e monotona. Quando va a lavorare, oltre a sentirsi in colpa per il relativo abbandono dei doveri domestici, sente animarsi, nelle interazioni sociali, un'ostilità sottesa da giudizi negativi che, prima o poi, la obbliga a cedere e a fuggire. Quando, per non star da sola, frequenta la casa dei genitori, ove è quasi sempre in compagnia della madre sola, avverte una incoercibile irrequietezza. allorché, infine, per evadere dalla routine domestica, trascorre dei week-ends in compagnia del marito e di coppie amiche, non vede l'ora di tornare a casa per sottrarre, la sua inadeguatezza al giudizio degli altri. L'angoscia claustrofobica, che investe ogni collocazione di A. nel mondo, promuove l'inseguimento di una libertà che è un miraggio, poiché è sempre altrove rispetto dove A. si trova. Che, infine, essa sia giunta ad identificare la pace con la morte non sorprende. Ma perché A. si sente sempre fuori posto, e quale è infine l'obiettivo di libertà costantemente fallito?

Il tema della fuga, come espressione di un bisogno di liberazione dall'oppressione, è affiorato, nell'esperienza di A., precocemente, e può essere ricostruito nel suo svolgimento. Da bambina, A. desidera fuggire da una famiglia perennemente conflittuale; poi, negli anni del collegio, sente il desiderio di fuggire dall'istituzione e dalla famiglia. Tornata a casa, quel tema si ripropone sotto forma di volontà di sottrarsi all'oppressione paterna; con la maggiore età, infine, esso si realizza attraverso la pratica della sessualità. Ma è a partire da questo che avviene un viraggio dell'esperienza: avvertendo l'ostilità sociale, A. è costretta a rifuggire dal mondo, a chiudersi in famiglia e poi nel matrimonio. Non appena il vincolo rappresentato dalla figlia si allenta, il tema della fuga si riattiva, ma con le contraddizioni che ne hanno segnato lo svolgimento. A. fugge, alternativamente, dai ruoli tradizionali - di figlia, di moglie, di madre - dai quali si sente oppressa, verso un'identità libera, che, essendo esposta ai giudizi ostili della gente, dà luogo ad una regressione in quei ruoli.

La persecuzione del passato è evidente. A. sa di essersi alleata con la madre. Ma tale alleanza le impone, nel contempo, di condividere la sua esperienza e di riscattarla. Nella misura in cui - facendole compagnia e riproducendo il suo modello di casalinga - A. condivide l'esperienza della madre, teme di fare la sua fine: di spegnersi nella vitalità, di trascurarsi sino a invecchiare precocemente e di accettare la vita come routine. Nella misura in cui, viceversa, si impone di riscattarla, si sente in colpa nei suoi confronti.

Questi vissuti hanno un riscontro comportamentale. Nei periodi in cui frequenta la madre, A. tende a non truccarsi e a vestire in maniera dimessa, come a voler minimizzare lo scarto tra la sua rigogliosa bellezza e l'aspetto sfiorito della madre, che, tra l'altro, è affetta da una forma piuttosto seria di artrite deformante. allorché si trucca e si veste con gusto, tende sistematicamente ad evitarla per non umiliarla con la sua presenza.

La persecuzione sociale, che A. tollera dall'età di 18 anni, è meno trasparente. Pur ricordando lucidamente che essa si è attivata dopo che aveva concesso al fidanzato la "prova d'amore", A. non riesce a comprendere perché si sia mantenuta, con intensità oscillante, anche dopo il matrimonio. Coscientemente, A. la riferisce al suo essere inadeguata, insicura ed impacciata; dimensioni di cui le persone si rendono conto nonostante tenti di mascherarsi da donna "fatale". In realtà, i giudizi che avverte, attraverso gli sguardi delle persone, sono di fatto rimproveri che concernono la sua dubbia moralità. Il dato sorprendente, che induce A. a riflettere, è che tali giudizi sono univoci e costanti: si ripetono ovunque, e vengono da uomini e donne di ogni età. Come è possibile che, ovunque vada, si trovi a contatto con persone che funzionano all'unisono, e sembrano adottare un comune codice di giudizio?

E se tale codice comporta per la donna, in quanto essere debole e nel contempo moralmente squilibrato, il dovere di stare in casa o di non andare in giro da sola, che senso ha che i giudizi negativi nei confronti di A. vengano avanzati anche da donne che vano in giro da sole? Queste donne potrebbero essere tutte più forti e moralmente salde di A. Ma ciò significa che A. è socialmente identificata come una donna che, appartenendo alla categoria di quelle che devono stare in casa, osa tentare di sottrarsi alla sua sorte e di venire a far parte di un'altra categoria. Ma chi definisce queste categorie? A. è. costretta a riconoscere che esse sono quelle proprie del padre, che voleva oneste e chiuse le donne di famiglia, ma aperte e libere le altre. Tutti, dunque, la pensano come il padre? o A. non attribuisce a tutti quelle categorie che ha introiettato, la cui funzione è di sancire costrittivamente la sua appartenenza alla categoria delle donne la cui onestà è comprovata dal fatto di vivere chiusa nelle mura domestiche?

Di certo - ne fa fede il tradimento - A., quando si espone socialmente, corre dei rischi. Rischi di cedimento. Ma a cosa? Ai suoi desideri? Per quanto imbarazzata, A. deve rievocare le circostanze della "caduta" le cui conseguenze sono state catastrofiche.

E' accaduto né più né meno come per la "prova d'amore" concessa al fidanzato senza trasporto, cedendo alle sue aspettative. Sentendosi desiderata, A. non può resistere al dubbio che un suo rifiuto possa indurre nell'altro un'indicible sofferenza. Educata a compiacere, la debolezza di A. consiste nel mettere da parte i suoi bisogni per privilegiare i bisogni altrui. Con ciò, riesce chiaro che affrancandosi da quella debolezza - e diventare una donna sicura e padrona di sé - significa mettere da parte una pericolosa "virtù", e accettare, senza sentirsi in colpa, che l'altro soffre se questo è l'effetto delle sue aspettative deluse e non di un comportamento intenzionalmente orientato a farlo soffrire.

Il confine interdetto, nell'esperienza di A., è quello al di là del quale essa può privilegiare i suoi bisogni rispetto ai bisogni dell'al"`tro, se essi non concordano. Nonchè di un passaggio dalla moralità all'immoralità, si tratta di realizzare una rivoluzione morale. La fuga di A. verso la libertà giunge ad avere, pertanto, un obiettivo concreto e significativo.


4) R.

R. interpreta la sua condizione di impotenza e di svuotamento energetico alla luce dei valori religiosi. Egli ha peccato contravvenen"`do al terzo, al quarto e al sesto comandamento, e ha ricevuto da Dio la giusta, benché dura, punizione. Giusta in quanto, oltre a peccare, egli si è rivelato un ingrato: ha tradito Dio pur essendone stato miracolato. Ma, se la depressione in cui vive è una punizione, quella da cui è stato affrancato per miracolo che senso aveva? Il terzo e il sesto comandamento non erano in questione; il quarto sì, poiché A. covava da tempo sentimenti di ostilità molto intensa nei confronti di entrambi i genitori. Ma allora, dato che, sotto il profilo religioso, le intenzioni equivalgono alle azioni, l'occhio di Dio, al quale nulla rimane celato, perché mai lo avrebbe miracolato, mettendolo in condizione di peccare?

La fede di R. è senz'altro autentica, ma essa comporta un elemento magico: il riferimento ad una volontà sovrannaturale capace di interferi_ re con la volontà soggettiva, regolandola e reprimendola al fine di mantenerla sulla retta via. Ma se Dio esercitasse in maniera così diretta il suo potere, la libertà soggettiva risulterebbe azzerata: il "male" non esisterebbe sulla faccia della terra, e il peccato dovrebbe essere ricondotto ad una qualche distrazione divina. Non è in discussione, ovviamente, la fede di R., ma una credenza magica, incompatibile con la teologia cattolica e con la realtà, che postula una spiegazione. perché R. ha bisogno di pensare che l'esercizio della sua libertà sia controllato da una volontà esterna e suprema?

Questa sollecitazione fa affiorare una serie di vissuti di grande interesse. Dall'adolescenza in poi è avvenuto, in R., un cambiamento radicale, per quanto inapparente. La quiete infantile è soppiantata da un'irrequietezza e da un'ansia di libertà incoercibili, esaltanti e terrificanti al tempo stesso. R. se ne accorge usando il motorino, che i suoi acquistano dopo lunghe esitazioni. Alla guida del motorino R. scopre una doppia personalità. Di solito, è prudente e rispettoso delle regole; ma, talora, sopravviene una sorta di "raptus" che lo porta a commettere numerose infrazioni e ad abbandonarsi a degli azzardi oggettivamente pericolosi. Per caso, egli riesce sempre a cavarsela, ma, allorché i raptus si risolvono e egli acquista consapevo"`lezza di ciò che ha fatto, è letteralmente terrorizzato. Per quanto si proponga un maggior autocontrollo, non riesce a mantenerlo. Lentamen"`te, si convince che, se non gli accade nulla di grave e se non danneggia alcuno, non può essere solo per caso. Evidentemente, c'è qualcuno che lo protegge: dato che R. si sente, nel complesso, un bravo ragazzo, gli viene naturale pensare a Dio che, come un buon padre, sopperisce alle sue sventatezze. La scoperta di una natura irrazionale, anarchica e incontrollabile, terrorizzandolo, lo induce a restaurare, sia pure con un riferimento trascendente, la situazione di controllo dall'esterno nella quale è vissuto sin troppo a lungo. Il riferimento trascendente si impone perché R., per effetto della crescita, si trova a disporre di una libertà, sia pure relativa, non più controllabile dai familiari.

Togliendo a quel riferimento il suo carattere magico, e restituendolo ad R. sotto forma di un bisogno di controllo dall'esterno, l'ambivalenza in cui vive nel corso delle scuole superiori appare immediatamente comprensibile. In casa, nonostante mantenga un comportamento rispettoso e passivo, egli è agitato da un'irrequietezza spiccata e da una rabbia che, in occasione dei pasti comuni serali, raggiunge livelli di guardia. Esauriti i doveri di studio, si precipita fuori: il senso di liberazione e di euforia che lo invade ha, come limite, la paura dei "raptus", che sopravvengono episodicamente. Talora, questa paura lo induce a tornare a casa prima del tempo, malvolentieri.

Il comportamento a scuola è ancora più significativo. Pur limitandosi a fare l'essenziale R. è un allievo disciplinato e ossequioso, accusato da alcuni compagni di essere "lecchino". Ma, sia pure per brevi periodi, si trasforma in un allievo disordinato, irriverente e apertamente strafottente nei confronti degli insegnanti. Non subisce sanzioni, poiché tale comportamento si realizza in maniera tale da non poter essere recepito dagli insegnanti. Ma R. se ne rende conto, e, nel suo intimo, si incrementa la convinzione di albergare una doppia personalità, una delle quali assolutamente incontrollabile. Anche il livello dell'espe-rienza privata conferma tale convinzione. R. si attiene ad un rigido regime moralistico, imponendosi la castità. Ma cede, ogni tanto, alle tentazioni della carne, abbandonandosi alla masturbazione e a fantasie sessuali sfrenate. Ha un buon livello di socializzazione, frequenta ragazzi e ragazze e partecipa alle feste. La sua immagine è quella di un bravo ragazzo: ma, in alcune occasioni, R. perde il controllo su di sé e, utilizzando un indubbio fascino, tratta le ragazze, che di solito rispetta, come cose.

In breve, intorno ai 18 anni, R. non sa bene se la sua identità sia quella di bravo ragazzo, nella quale si identifica, o non piuttosto l'altra, alla quale attribuisce tendenze vagamente folli e criminali.

Un'esperienza reale fa precipitare questo dubbio. R. frequenta quotidia"`namente la chiesa, all'ingresso della quale un giorno si istalla un mendicante che esibisce comportamenti evidentemente attestanti uno squilibrio psichico. R. avverte nei suoi confronti una pena profonda e l'impulso ad aiutarlo. Ma, via via che passano i giorni, si rende conto che nel suo intimo si va configurando una fobia di contatto. Vorrebbe evitare l'incontro, ma, per evitarlo, deve rinunciare ad andare in chiesa. Nel contempo, pensa che se, entrato in chiesa, quella fobia dovesse trasformarsi in panico, rimarrebbe chiuso dentro la chiesa e forse sarebbe indotto dall'angoscia claustrofobica a manifestare comportamenti squilibrati. Tale crisi non si realizza, ma R. prende coscienza, dolorosamente, che la sua tolleranza e la pietas sono soppiantate da emozioni opposte. Egli comincia ad odiare quel povero essere, e tutti quelli come lui, e a desiderare che essi vengano rinchiusi da qualche parte o, addirittura, eliminati. L'intolle"`ranza nei confronti dei deboli e degli squilibrati cresce di giorno in giorno e dà luogo al definirsi di una categoria estremamen"`te ampia. Una sera, a cena, R. si rende conto che, in quella categoria, rientrano anche i genitori. La depressione insorge pochi giorni dopo.

Risulta, dunque, evidente ciò che accade dopo il "miracolo". R. tenta di realizzare un ideale dell'Io forte e nel contempo equilibrato. Ma l'impresa appare impossibile. Per non lasciarsi risucchiare dalla "debolezza" dei suoi, egli deve squilibrarsi. Ma è lo squilibrio che, sovraccaricandolo dei sensi di colpa, lo fa ricadere nella categoria-dei deboli. Come uscire da questo circolo vizioso?

5) M.

Nonostante abbia condotto, dopo lo "scandaloso" comportamento dei vent'anni, un'esistenza apparentemente conformistica e moralmente irreprensibile, M. non ha affatto una personalità normalizzata. Essa mantiene, nel corso degli anni, un atteggiamento critico nei confronti dell'ordine di cose esistente, coltiva interessi culturali molto ampi, si interroga di continuo intorno ai valori nei quali crede. Ha un senso vivo e rigido della giustizia, che, pur non affiorando mai sotto forma di conflitto, le impedisce di andare pienamente d'accor"`do con le istituzioni e con il potere. Nell'ambiente di lavoro, ospedaliero, stigmatizza di continuo il comportamento dei medici che appaiono più inclini a coltivare i loro interessi che non a dedicar"`si ai pazienti. Odia le gerarchie rigide, che impongono di rispettare persone i cui ruoli non corrispondono a qualità personali. Egualmente critico è il suo atteggiamento nei confronti della chiesa e della comunità parrocchiale che frequenta. Contesta le posizioni assunte dal papa e dall'episcopato in rapporto alla morale sessuale. E' lucida nel rilevare che, nonchè alcuni rappresentanti delle gerarchie ecclesia"`stiche, molti cattolici si danno un gran daffare per motivi di potere e di prestigio personale. Queste critiche però avvengono nel foro interno della sua coscienza, si esprimono sotto forma di giudizi severi ma muti. Il comportamento reale di M., in tutti gli spazi sociali, è caratterizzato dalla subordinazione e dall'ossequio.

Si potrebbe pensare che tale comportamento sia dovuto alla paura del conflitto. C'è di più. Quando M. sente di dover venire allo scoperto di dover esprimere ciò che pensa, ciò che l'arresta è meno la paura del conflitto che un dubbio che si affaccia repentinamente alla coscien-za: il dubbio di poter essere lei dalla parte dell'errore. Tale dubbio si articola sotto forma di un vissuto che M. non stenta a riferire: "chi ti credi di essere?", è il pensiero in cui si esprime. Vissutc di antica data. M. lo rievoca a partire dai 7 anni, allorché l'internamento in collegio, subito ma non accettato, la induce a criticare la decisione dei genitori. Vissuto che si è puntualmente riproposto nel corso dell'internamento, in rapporto alla disciplina che colà vigeva e agli atteggiamenti pedagogicamente "terroristici" delle suore. Vissuto che ha segnato tutto il rapporto di M. con le istituzioni, dalla scuola per infermieri professionali al convitto, dall'ambiente ospedaliero, alla Chiesa, incentrandosi sempre sull'esercizio arbitrario del potere o su comportamenti contraddittori rispetto a valori esplicitamente sostenuti. Ma, infine, quel vissuto ha investito anche situazioni di rapporto interpersonali, inducendo M. a sentirsi superiore - moralmente e culturalmente - agli altri.

E', dunque, evidente che in lei funziona un codice morale che, come la obbliga a tendere alla perfezione, così le impone di non montarsi la testa, di rimanere umile e di obbedire a chi detiene un potere gerarchico. Il suo comportamento sociale, e dunque l'immagine che dà di sé, è totalmente conforme a quel codice. Il quale, evidentemente, funziona anche nel foro interno della sua coscienza, sanzionando le sue prese di posizione irriverenti. Ma, nonostante il trascorrere degli anni, la "natura" ribelle di M. non è doma.

Il conflitto tra sottomissione e ribellione segna anche la rivoluzione che M. tenta di realizzare a 20 anni. La relazione con l'uomo sposato viene tenuta il più possibile nascosta. Nessuno dell'ambiente di lavoro - un ospedale cattolico - e della parrocchia ne viene a conoscenza. Una sorella maggiore, rigidamente tradizionalista, viene a scoprire per caso la relazione, e ne mette al corrente la madre. Esse tentano in ogni modo di dissuadere M. dal portarla avanti, facendo leva sulla responsabilità che M. si assume nei confronti della moglie e della figlia del partner. Di fronte alle resistenze di M., minacciano infine di mettere al corrente della situazione il padre, che potrebbe morire di dolore. M. desiste: meno per paura di una rappresaglia che di danneggiare, anche senza volere, una persona cara. Nel corso degli anni, due sorelle di M. avviano dei rapporti di convivenza senza sposarsi e hanno dei figli. M. scopre che il padre, nonostante il suo tradizionalismo, accetta tali situazioni e appare preoccupato solo del fatto che le figlie siano felici. Cosa pensare, dunque, del comportamento della madre e della sorella maggiore: che esse abbiano espresso una preoccupazione autentica o che abbiano adottato solo una strategia risultata vincente per effetto della "debolezza" di M.? Costei propende per la seconda ipotesi: ma, ancora una volta, è il "chi ti credi di essere" ad indurla ad accantonare il problema.

Meno ancora, però, le riesce di accettare i riferimenti alla pari dignità tra uomo e donna che, a suo avviso, sono contraddetti sia dal costante richiamo rivolto alla donna a subordinarsi al marito, sia dalla condizione di minorità in cui sono tenute le suore nell'ordina mento 'maschilista' della chiesa. Il 'demone' dell'opposizione non è, dunque, spento, nonostante M. abbia trascorso parte della sua vita ad impedire ch'esso possa nuovamente venire alla luce.


Finale

E' tempo, ormai, di bilanci, o, per riprendere la metafora musicale con cui si è inaugurata la ricerca, di una cadenza finale. La tonalità rimane la stessa: critica.

La possibilità di una teoria comprensiva/esplicativa dei fenomeni di disagio psichico, esplorata a partire da dati forniti dalla clinica e da quanto si può ritenere attendibile nel campo delle scienze neurobiologiche, psicologiche e sociali, appare sufficientemente verificata. L'universo psicopatologico, quantitativamente non qua-litativamente distinto dall'universo dei fatti umani, sarebbe ca-ratterizzato dai gradi diversi di costrizione (dall'ipercontrollo ossessivo alla persecuzione paranoica, dalla dipendenza radicale isterica al circolo vizioso maniaco-depressivo) che la funzione su peregoica, in nome dell'appartenenza sociale, oppone all'individua zione.

Il meccanicismo dell'assunto è reso compatibile con la com"`plessità delle esperienze psicopatologiche dal fatto che, non po"`tando la scissione dei bisogni essere oggettivata e vissuta immediatamente (pena una percezione di sé sdoppiata e catastrofica), viene rimediata, secondo le formule più varie, dall'attività formal-genetica di una coscienza che conserva la sua unità attraverso 1'autoinganno ideologico: rimuovendo la scissione (nella struttura ossessiva e nelle sue trasformazioni), vivendola come se essa non esistesse (nella struttura isterica e nelle sue trasformazioni) e, comunque, formulando progetti di soluzione che, comportino essi la frustrazione dell'uno o dell'altro bisogno, realizzano costantemente rimedi peggiori del male, sollecitando la soggettività ad as"`servirsi nella logica della normalizzazione superegoica o ad op"`porsi sterilmente, trasgressivamente ad essa. Teoricamente, non è molto né poco. E' quanto si può oggi spiega re in un'ottica non riduzionistica.

I problemi rimasti aperti sono numerosi e inquietanti. La teoria dei bisogni umani, che è una teoria della natura umana, va ulteriormente approfondita. Essa postula una programmazione filogenetica delle strutture sottocorticali (in particolare del sistema limbico) che va chiarita nei suoi correlati strutturali e funzionali. Definire l'identificazione con l'altro come primum movens dello sviluppo della personalità, e l'opposizione come primum movens della distinzione tra io e altro sono formule de-scrittive non esplicative. Nella realtà, esse descrivono due vissuti "deliranti" : il primo postula l'unità laddove sussiste la dualità (almeno in senso organismico), il secondo postula una dualità scissa laddove sussiste una relazione necessaria. La teoria dei bisogni porta, dunque, a pensare che lo sviluppo della personalità muove da programmazioni che, attraverso sistemi biochimici e funzionali (l'uno attivante l'azione, che promuove la differenziazione e il conflitto, l'altro inibiente l'azione, che preserva l'armonia e l'integrazione), inducono fasi di squilibrio "delirante" che pongono le premesse di una significazione cognitiva, che può comportare il superamento dialettico dell'antitesi tra fusione e chiusura,tra mondo interno e mondo esterno.

Con ciò si giunge ad un confine che vede la programmazione emotiva orientata ad attivare una pulsione a significare in difetto della quale l'uomo rimarrebbe immerso nel delirio (di fusione e di scissione); ma, nel contempo, retroattivamente influnzata dai significati che vengono trasmessi dall'ambiente. Essa coincide con forme innate, strutturalmente predisposte, che comportano significazioni elementari (per es. la distinzione io/altro)) ricche di valenze emozionali e relativamente povere di aspetti cognitivi.

Forme innate, dunque, che, attraverso le interazioni con l'ambiente, si traducono in vissuti. Ma il bisogno di significazione, nel corso dello sviluppo della personalità, arricchendosi di continui flussi di informazione (dall'interno e dall'esterno), gravita verso l'organizza zione di un sistema di significati con un certo grado di coerenza, e cioè verso una visione del mondo. E' evidente, dunque, che esso postula l'acquisizione di codici sociali di significazione, di codici culturali. Una volta acquisiti (come avviene esemplarmente per il linguaggio) tali codici favoriscono e permettono anche l'elaborazione di significati privati, idiosincratici.

Ma come negare che la significazione privata, eccezion fatta per coloro che giungono ad oggettivare criticamente i codici introiettati, si realizza su di un registro di libertà apparente?

I codici introiettati determinano, con estrema probabilità, nappe cerebrali, dai livelli sottocorticali a quelli corticali, che funzionano come labirinti: il soggetto può sempre muoversi al loro interno, ma non travalicarli. I sistemi di significazione più privati, come i deliri, pongono in luce, drammaticamente, l'inganno di una libertà soggettiva che si riduce ad un'esplorazione ininterrotta di quei labirinti, senza alcuna possibilità di scampo.

Le mappe cerebrali, che rappresentano nel contempo strutture e funzioni determinate dall'interazione con l'ambiente, possono essere identificate con il correlato neurobiologico della funzione superegoica. Per mappe cerebrali - concetto dovuto ad Edelman, che supera ed integra la teoria modulare di Changeux - si intendono insiemi di neuroni interconnessi che funzionano in cooperazione. Strutturalmente tali insiemi corri"`spondono ad un determinismo genetico, funzionalmente ad un determinismo epigenetico. Le influenze ambientali selezionano le mappe cerebrali ed inducono dei riaggiustamenti.

In ultima analisi, la selezione epigenetica finisce con il definire, all'interno di ogni cervello, vie o canali di scorrimento dei flussi di informazione che funzionano come schemi in una certa misura determinanti l'esperienza soggettiva. Metaforicamente, l'orga-nizzazione strutturale e funzionale del cervello è dunque la-birintica: per quanto il labirinto sia complesso, esso compor-ta vie obbligate di scorrimento.

E' importante, a questo punto, riflettere sulle valenze ideologiche che sovrastrutturano ogni sapere scientifico il cui oggetto è l'uomo. La teoria delle mappe cerebrali, per esplicita affermazione di Edelman, salvaguarda l'unicità irripetibile dell' esperienza soggettiva umana, che non appare omologabile al fun-zionamento di qualsivoglia intelligenza artificiale. Una volta costituitesi, le mappe cerebrali, infatti, rappresentano il fondamento - strutturale e funzionale - di un'attività di categorizzazione che nessun elaboratore può svolgere. La categorizzazione coincide con la significazione: scorrendo lungo le mappe cerebrali i flussi di informazione vengono generalizzati, e cioè assumono significato entro schemi in rapporto a valori riferiti a insiemi esperienziali.

Da ciò si può derivare che ogni esperienza soggettiva, nella misura in cui si fonda su nappe selettive, è unica e irripetibile. Ideologica"`mente, questo assunto viene estremizzato fino al punto che l'attività cognitiva diventa un'autocostruzione della realtà privata, unica e in una certa misura arbitraria. Di conseguenza, per ogni soggetto, il mondo è, in una certa misura, ciò che egli lo fa essere. L'autopoiesi diventa la cifra dell'esperienza personale. Per alcuni aspetti, l'ideologia che discende dalla teoria delle mappe cerebrali giunge alle conclusioni cui era già giunta la fenomenologia, identificando il mondo dell'esperienza soggettiva con un insieme di vissuti unici e irripetibili. A tale ideologia, si possono opporre almeno due critiche.

In primo luogo, essa, ricavando la categorizzazione dall'epigenesi, e cioè dall'interazione tra struttura cerebrale e ambiente, pone tra parentesi o trascura la possibilità che si diano categorizzazioni a priori, emozionali. Trascura, cioè, che i centri sottocorticali limbici possano essere programmati in maniera tale che l'attività cognitiva, pure autopoietica, non possa prescindere da vettori o attrattori categoriali. Se tali attrattori sono i bisogni, le categorie per così dire primarie, destinate a strutturare gli assi della significazione, sono riconducibili all'io e all'altro.

In secondo luogo, e di conseguenza, occorre ammettere che le mappe cerebrali, che rappresentano il versante strutturale della funzione di significazione, riproducano in qualche misura la cultura dell'ambiente.

I codici di significazione devono essere trasmessi perché possano essere utilizzati individualmente. A differenza di quanto avviene in altre specie, in quella umana gli stimoli, nonchè provenire da un ambiente generico, provengono, in misura rilevante e decisiva per lo strutturarsi della personalità, da relazioni interpersonali. Gli stimoli, che determinano lo strutturarsi delle mappe, sono flussi di informazioni già codificate.

Se dunque le mappe cerebrali sono schemi che categorizzano l'esperienza soggettiva, si può pensare ad esse come vie di scorrimento dei flussi di informazione - emozionali e cognitivi - la cui funzione principale è l'acquisizione e la partecipazione a codici di significazione di natura culturale.

Ammettendo l'esistenza di forme a priori emozionali - identificabili con i bisogni - che funzionano come assi di strutturazione delle mappe cerebrali e delle significazioni - strutturazione che avviene attraverso l'interazione con l'ambiente - la funzione superegoica riceve una fondazione psicobiologica: essa rappresenta per l'appunto quella strutturazione, che definisce canali privilegiati di scorrimento delle emozioni, del pensiero e del comportamento. Ogni soggetto categoria za dunque la sua visione del mondo privata entro le possibilità funziona-li definite da quella strutturazione. Il bisogno di opposizione, da questo punto di vista, servirebbe a dar luogo ad una ristrutturazione delle mappe cerebrali e dei sistemi di significazione; a impedire che l'ambiente costringa le potenzialità individuali entro schemi la cui generalizzazione non può prescindere dai codici propri dell'ambiente entro il quale il soggetto evolve.

Ma è chiaro che il bisogno di opposizione, benché programmato geneticamente, non può funzionare che in conseguenza di una significazione, dipendente dalle interazioni con l'ambiente, che non sia negativa, che non colga in esso, che pure comporta scissione, squilibrio e conflitto, l'espressione di una minaccia per il soggetto e per il gruppo di appartenenza.

Identificare la funzione superegoica con mappe cerebrali e sistemi di significazione che, un volta costruitisi, tendono a funzionare con un certo automatismo - tal che un'informazione, provenga essa dal mondo interno o da quello esterno, scorre lungo canali che le traducono in emozioni, pensieri e comportamenti codificati dalla logica del primato del tutto sulla parte -, permette di comprendere e di spiegare i due fenomeni più rilevanti che si osservano in psicopatologia e in terapia: la coazione a ripetere e lo scarto tra presa di coscienza e cambiamento.

In entrambi i casi, si tratterebbe di fenomeni di resistenza legata alle mappe cerebrali e ai sistemi di significazione definitisi in rapporto ad esse; resistenze non meramente psicogenetiche, ma psicobiolo giche. In virtù di questo approccio, l'antitesi tra organogenesi e psicogenesi letteralmente si azzera. La terapia dialettica, incentrata sulla relazione interpersonale ma orientata a promuovere la capacità di oggettivazione della coscienza, mirerebbe a favorire una ristruttura"`zione dei sistemi di significazione che, ponendo in tensione gli automatismi superegoici, indurrebbe uno squilibrio dinamico destinato a risolversi solo per effetto di una ristrutturazione delle mappe cerebrali.

Gli effetti della terapia si configurerebbero, dunque, come psicosomatici. Un cambiamento nella visione del mondo - interno ed esterno - risulterete be imprescindibile da una riorganizzazione - funzionale e, nei casi più gravi, strutturale - delle mappe cerebrali.

La teoria dei bisogni, teoria della natura umana, porta, dunque, attraverso la riflessione psicopatologica, a definire una teoria della cultura materialistica e dialettica.

Non è chi non veda, nonostante i risultati raggiunti, quale mole di problemi rimane da esplorare e da risolvere. Nel suo stesso espandersi, l'orizzonte della ricerca allarga una frontiera che dà la misura, complementare a ciò che si può ritenere acquisito, di ciò che è ancora confuso e perduto in lontananza.

L'avventura si conclude, dunque, con un capitale di conoscenze il cui valore consiste nella possibilità di ulteriori approfondimenti in direzioni molteplici. Si riprenderà il cammino? L'importante, ora, è tirare il fiato, e godersi la cadenza finale, illudendosi che essa, con la sua armonia, possa consentire al silenzio che seguirà di continuare a risuonare creativamente.