DELLA STRUTTURA OSSESSIVA E D’ALTRO


Introduzione 2004


Nella seconda metà del 1985, la ricerca era arrivata ormai a delineare una griglia teorica sufficientemente coerente e adeguata a soddisfare l'esigenza originaria di illuminare i nessi tra esperienza psicopatologica e storia sociale. Era nell'aria l'esigenza di organizzare il materiale della ricerca in tre saggi: il primo teorico e introduttivo; il secondo dedicato alla psicopatologia struttural-dialettica; il terzo alla terapia. Nell'attesa di dedicarmi alla stesura dei saggi, sembrava importante insistere su alcuni nuclei fondamentali della teoria messa a punto, sondarne le lacune bisognose di ulteriori approfondimenti, confrontare il modello con altri già esistenti, e criticare radicalmente la restaurazione neopsichiatrica che si andava profilando all'orizzonte. A queste diverse esigenze fanno riferimento gli articoli che seguono.

La rilettura a distanza di anni mi porta a convalidare l'intuizione (non di certo prodigiosa, ma singolare in quanto confermata dalla psicopatologia) di una moralità naturale intrinseca al corredo genetico umano, identificabile con la sensibilità, che comporta al tempo stesso la percezione viva e viscerale della propria dignità e dei propri diritti e l'attribuzione agli altri, attraverso l'identificazione ch'essa comporta, della stessa dignità e degli stessi diritti. Se ciò è vero (e ancora oggi tale lo ritengo), l'estraneazione, in qualunque forma si manifesti, dall'indifferenza nei confronti dell'altro al suo uso strumentale, fino al limite estremo della violenza perpetrata a suo danno, è univocamente un effetto della cultura.

La psicopatologia conferma questa verità in maniera diretta e in maniera indiretta. Alcuni soggetti stanno male perché l'identificazione con l'altro è a tal punto potente da promuovere il misconoscimento, la mortificazione e la repressione dei bisogni personali. Altri, viceversa, sembrano a tal punto irretiti dalla percezione di questi bisogni da agire comportamenti egoistici e antisociali. Tali comportamenti, però , vengono univocamente compensati da sensi di colpa più o meno rilevanti che riabilitano, casomai inconsciamente, i diritti degli altri.

L'ultimo articolo di rassegna del pensiero psichiatrico nel 1985 serba ancora del tutto intatta oggi la sua validità. In esso, per la prima volta, utilizzo il termine neopsichiatria, analizzo criticamente il modello multidimensionale (che in realtà maschera un'ideologia riduzionista di matrice biologica), e illustro il pericolo, che allora si andava delineando, di una deriva psichiatrica verso l'organicismo che, nel corso degli anni, si è realizzata.


Note, riflessioni, approfondimenti


I nuclei concettuali della ricerca

La sindrome catatonica

Giustamente condannato come disumano e antiterapeutico, l’Ospedale Psichiatrico, come peraltro ogni istituzione repressiva, ha prodotto esso stesso le ragioni del suo superamento. Se questo in Italia è avvenuto in termini di legge, non sembra che sia avvenuto sul piano della dialettica scientifica. La lotta antistituzionale, con gli orrori del manicomio-lager, ha infatti finito con il seppellire anche ciò che il manicomio ha rivelato della struttura psichica umana.

Per valorizzare quest'aspetto, basta fare riferimento alla sindrome psicopatologica istituzionale più tipica: la catatonia, in quanto questa mette in luce la struttura intrinsecamente dialettica della soggettività umana – e, infine, come vedremo, della ‘natura’ umana - che, nonché estinguersi all’interno di un’istituzione adialettica, si drammatizza, denunciando se stessa in virtù dell’alienazione cui va incontro. Trascriviamo la descrizione clinica della sindrome: nella sua fredda oggettività essa permette di cogliere immediatamente ciò che ad essa sfugge.

"Uno dei segni essenziali della catalessia è la sospensione di ogni iniziativa, ossia della messa in opera spontanea ed inerziale del movimento.

Il soggetto è immobilizzato come una statua, ma non è affatto paralizzato…

Ecco per esempio, un malato in piedi: esso resta fermo, ha lo sguardo spento, non avanza né retrocede. Se lo si spinge in avanti o indietro fa qualche passo e poi si arresta; se si piega il suo tronco in avanti, egli resta in questa posizione; se si solleva un braccio nell’aria, egli mantiene il braccio sollevato; si può persino sollevare un braccio ed una gamba in aria e mettere il malato in una posizione delle più scomode ed egli mantiene questa posizione, malgrado oscillazioni e sforzi visibili".

In stato catalettico, il soggetto è nulla più, dunque, ce un ‘burattino’ manovrabile a piacimento. Non per caso si parla di flexibilitas cerea. In virtù della catatonia, la fenomenologia diventa inquietante.

"Nel periodo di stato, l’aspetto del catatonico è spesso molto impressionante. Se in piedi, il paziente è tutto flesso, ha la testa piegata sul tronco, in modo che talora il mento tocca lo sterno, il tronco è curvo in avanti, gli avambracci sono flessi sulle braccia, le mani sono flesse sull’avambraccio ed hanno il pollice in opposizione e le dita con le prime falangi flesse e le seconde e le terze allungate…

ma ciò che è anche più caratteristico è l’aspetto della faccia e dello sguardo…Si direbbe una statua senza vita…o un morto uscito dalla tomba. Ciò che dà soprattutto questa impressione di morto vivente è la fissità degli occhi, che non esprimono alcuna vita. Tuttavia la faccia è spesso molto contratta da smorfie; i tratti sono stirati e talora i movimenti dei muscoli minici sono in coordinati".

Dalla flexibilitas cerea si passa dunque alla statua irrigidita, che appare inanimata. Ma, di fatto, si tratta di una statua dalla doppia vita, che può comportarsi sia da automa sia da irriducibile ribelle. Nonché la flexibilitas cerea, il catatonico può manifestare tendenze imitative – e un’obbedienza cieca - eseguendo ordini di movimento impartitigli verbalmente. Più spesso, però , egli manifesta una resistenza – irrigidendo la muscolatura per opporsi alle sollecitazioni provenienti dall’esterno - o reagisce negativisticamente - facendo l’opposto di ciò che si cerca di fargli fare passivamente o gli si comanda.

Il catatonico, però , ha anche un’intrinseca vitalità. Come può mantenere per ore e giorni pose statuarie, può abbandonarsi a manierismi motori o a verbigerazioni. Può , infine come uno zombie, scatenarsi in azioni impulsive clastiche o aggressive: rompere gli oggetti, picchiare selvaggiamente, e riassumere poi l’atteggiamento catatonico.

In tutto ciò la psichiatria tradizionale non vede altro che l’espressione di disturbi della ‘psicomotilità’. Ma essa fa torto a se stessa, ignorando d’aver prodotto, nel laboratorio sperimentale dell’ospedale psichiatrico, una sindrome la cui struttura ambivalente contiene, benché alienata, la chiave dell'universo psicopatologico.

Il catatonico, infatti, è, ne più ne meno, un burattino che si lascia manipolare o un automa ce esegue ciecamente gli ordini, al quale però non difetta una qualche dignità riconducibile al suo essere uomo: dignità che si esprime dell’opposizione, nel negativismo e nella rabbia distruttiva. Egli è, nel contempo, infinitamente plastico alle influenze esterne non meno che irriducibile e, quando esplode, incontenibile.

E’ quasi obbligatorio rievocare un film hollywoodiano, il cui denso significato metaforico è sepolto negli archivi di una qualche cineteca. Nel film, gruppi di turisti facoltosi andavano a trascorrere le vacanze in un singolare villaggio western popolato da automi dalle sembianze perfettamente umane, tenuti sotto controllo da una centrale elettronica sotterranea. Ai turisti nel villaggio era concesso di dare sfogo alla loro sete di avventure, certi, nonostante la minacciosità, della sostanziale inermità degli automi. Il canovaccio era scontato: per motivi imprecisati, gli automi sfuggivano al controllo e, come schiavi liberati da un lungo e penoso servaggio, manifestavano un’implacabile rabbia distruttiva contro i turisti, i tecnici e la centrale elettronica. Il film era a lieto fine: un turista, con l’immancabile compagna, riusciva a sopravvivere, distruggendo l’ultima automa-mostro, ovviamente il più spietato.

Il film è una metafora sociale, svilita dal lieto fine. Nonostante i controlli comportamentali cui la società assoggetta gli esseri umani – la cui teorizzazione più recente si deve a Skinner - non si può stare tranquilli, chè nella natura umana esistono strane, e insopprimibili, tendenze all’opposizione e alla ribellione.

L'O.P., come laboratorio sperimentale, producendo la sindrome catatonica, lo aveva già confermato da tempo. Se non fosse altro per questo - senza trascurare gli enormi prezzi di umana infelicità pagati alla sperimentazione -, bisognerebbe affermare paradossalmente che si è trattato di una buona istituzione repressiva, nel senso d'aver prodotto essa stessa le regioni del suo superamento. Ma - ed è questa la linea del discorso che stiamo impostando - sarebbe un cattivo servizio reso alla causa della verità, seppellire il manicomio con i suoi orrori senza prendere atto di ciò che esso è riuscito a far venire alla luce: la plasticità degli esseri umani, indefinita ma non infinita, poiché limitata da un'insopprimibile bisogno di opposizione alla logica del potere.

Della natura umana

Non ci interessa un discorso astratto sulla natura umana. Di fatto, quello che essa è un sé e per sé è indecidibile. Assumiamo un punto di vista concreto: per natura umana noi intendiamo il materiale da costruzione su cui si esercitano i processi di produzione antropologica. Da questo punto di vista, la natura umana è noumeno: ciò che noi conosciamo sono gli individui come prodotti dall’interazione tra natura e cultura. Ma c’è un criterio ecologico che può permetterci comunque di operare delle induzioni sulla natura umana: non diversamente da quanto accade per la natura fisica, se la cultura procede in maniera tele da trascurare i vincoli naturali, essa produce disastri. Dai disastri, noi possiamo indurre i vincoli, le leggi di equilibrio che sono state arbitrariamente forzate.

C'è un parallelismo tra natura fisica e natura umana: ambedue sono affidate al potere dell'uomo perché le trasformi e, ciò facendo, si umanizzi. Il potere di trasformazione, il potere di agire sulla natura umana non avrebbe senso se non corrispondesse a delle qualità della natura stessa. Se la terra non fosse coltivabile, non sarebbe possibile coltivarla. Quanto alla natura umana, se essa non fosse educabile, e cioè plastica, non sarebbe possibile ricavare l'uomo come prodotto. Ma, nel contempo, se la terra viene coltivata senza rispetto della sua fecondità, essa si esaurisce e diventa sterile. La plasticità della natura umana riconosce dei limiti omologabili? In teoria, e in conseguenza della logica evoluzionistica, la risposta non può essere che positiva. In virtù della prolungata dipendenza dell'essere umano dalle istituzioni pedagogiche, se la plasticità fosse assoluta, il processo di differenziazione individuale sarebbe solo fittizio. Né basterebbe il processo di continuo rimescolamento del materiale genetico a mantenerlo. Ciò porta a pensare che alla plasticità educativa debba corrispondere una qualche qualità, propria della natura umana, atta ad assicurare la differenziazione. Quale è questa qualità? Ricavarla induttivamente, significa tener conto di ciò che eccede quando le istituzioni pedagogiche utilizzano il potere immenso di cui dispongono nei confronti dell'infante per renderlo totalmente plastico. Il paradosso è questo. Le istituzioni conservatrici - la qualificazione significa che esse mirano a riprodurre uomini secondo un modello fisso e immutabile - riconoscono nella natura umana una tendenza negativa ad opporsi alla civilizzazione. Per svolgere il loro compito, esse devono stroncare una resistenza. Di quale resistenza si tratta? Da un punto di vista conservatore, la resistenza è la tendenza al disordine, all'insubordinazione, all'anarchia. Ma questa resistenza sembra incoercibile, chè più le istituzioni pedagogiche si confrontano repressivamente con esse, più la tendenza all'opposizione e al disordine sembrano aumentare, anche se si annidano nelle pieghe dell'inconscio.

C'è da chiedersi se questa tendenza all'opposizione, nonché un fattore ostacolante la civilizzazione, non sia il limite naturale della plasticità umana, un limite funzionale al mantenimento di un rapporto dialettico tra natura e cultura.

Molti elementi tratti da esperienze psicopatologiche infantili sembrano accreditare questo punto di vista, talchè c’è da sorprendersi che esso non sia stato mai adeguatamente valutato. Più si retrocede nel tempo, e più l’opposizione si configura come viscerale, come una delle modalità reattive proprie della natura umana alle condizioni ambientali che non tengono sufficientemente conto del suo corredo. Difficoltà di addormentamento, rifiuto del cibo, balbuzie, enuresi, inquietudine motoria, ecc.: l’universo psicopatologico infantile è l’espressione univoca di istanze oppositive. Il punto di vista banalmente psicologista, recepito dal senso comune nella formulazione onnicomprensiva della carenza di affetto o di cure, è insignificante. Tranne i rari casi di completo abbandono, i bisogni di dipendenza infantile postulano una risposta: se c’è carenza d’affetto, c’è eccesso di qualcos’altro. Per esempio, un bambino può non essere preso in braccio che il minimo indispensabile, e quindi può essere mortificato nel suo bisogno di contatto, perché il genitore non intende viziarlo. Quanto più retrocediamo nelle fasi dello sviluppo, tanto più le tendenze all’opposizione appaiono connotati visceralmente, e cioè esprimere l’espressione di un bisogno che fa parte del corredo naturale. Bisogno complementare alla plasticità, che rende permeabile l’infante alle influenze ambientali.

Attribuire alla natura umana un corredo caratterizzato nel contempo dalla plasticità e dalla tendenza all'opposizione significa fondare su principi naturali la dialettica del rapporto tra soggetto e ambiente. La catatonia, da questo punto di vista non sarebbe che l'espressione alienata di questa dialettica: alienata nel senso che essa definirebbe il dramma di un'esperienza umana nella quale i bisogni originari, in sé e per sé complementari, non solo non si sarebbero integrati, ma sarebbero giunti ad opporsi irriducibilmente, realizzandosi su registri affatto scissi, e dunque in maniera caricaturale. Vale la pensa forse definire meglio i bisogni fondamentali, per poi chiedersi se il oro alienarsi, in virtù del processo di vita dell'individuo, non possa rappresentare la chiave di una scienza dialettica del disagio psichico.

I bisogni fondamentali

All'origine, in quanto facenti parte del corredo biologico della natura umana, i bisogni esprimono disposizioni genetiche: la plasticità, e cioè la tendenza della natura a lasciarsi "informare" dalle influenze ambientali, e l'opposizione, e cioè la tendenza ad interagire attivamente con quelle influenze, assimilandole e conformandosi ad esse e/o ricusandole e contrastandole ëvisceralmente'. Via via che lo sviluppo procede, queste disposizioni si configurano come bisogni in senso proprio, e cioè come espressione di necessità al tempo stesso omeostatiche ed evolutive della personalità. In termini assolutamente generali, si potrebbe parlare di bisogni di integrazione sociale per un verso e di individuazione per un altro. Il bisogno di integrazione sociale mirerebbe a costruire un mondo di relazioni all'interno delle quali il soggetto possa sentirsi confermato, stimato, amato. Il bisogno di individuazione mirerebbe altresÏ alla definizione di un'identità personale differenziata, e, quindi, capace di vivere la sua diversità in rapporto al mondo senza né chiusure individualistiche né tentazioni narcisistiche.

E’ evidente che il trasformarsi delle disposizioni generiche in bisogni è un processo storico, che non potrebbe avvenire se il corredo biologico non contenesse delle linee di tendenza e, al tempo stesso, se la cultura nella quale l’individuo è inserito non favorisce lo sviluppo dialettico della personalità.

Il nostro punto di vista rappresenta un superamento della teoria di A. Heller. La fondazione dei bisogni non può essere che biologica: è la loro configurazione, più o meno ricca, che dipende dai processi storici. I bisogni radicali, affiorati in virtù dei processi storici, non sono altro che le configurazioni complesse di disposizioni generiche contenute nel corredo naturale umano.

L’alienazione dei bisogni

Per bisogni alienati, di solito, si intendono falsi bisogni. Noi preferiamo attenerci più rigorosamente al concetto marxista di alienazione, e cioè ad un processo in virtù del quale l'uomo vive come oggetti indipendenti da lui i prodotti storici dell'attività umana. Ai fini del nostro discorso, l'alienazione dei bisogni consiste nel fatto che, in virtù dell'interazione con le istituzioni pedagogiche, i bisogni fondamentali, che rappresentano le forze motrici dello sviluppo dell'individuo sociale, si trasformano in pulsioni, in forze oscure e ingovernabili che si oggettivano in rapporto alla coscienza, e, anziché tendere all'integrazione dialettica, giungono ad opporsi irriducibilmente. Nell'esperienza catatonica l'alienazione dei bisogni è trasparente: il bisogno di integrazione sociale si configura infatti come mera passività che consegna l'individuo inerme elle mani di chi può fare di lui ciò che vuole; il bisogno di individuazione si realizza, altresÏ, sotto forma di opposizione e di negativismo o, ancor più drammaticamente, sotto forma di distruttività cieca. In altri termini, il bisogno di integrazione sociale alienato vincola l'individuo ad un rapporto di potere nell'ambito del quale egli è impotente e l'altro onnipotente su di lui; il bisogno di individuazione alienato si realizza nella chiusura al rapporto, nell'isolamento e nell'attacco al legame. Tra i due bisogni, con assoluta evidenza, c'è un rapporto di opposizione irriducibile e non dialettico, in virtù del quale l'individuo o si espropria di ogni potere, rimettendolo nelle mani dell'altro o lo recupera sottraendosi alla relazione o attaccandola.

L’alienazione dei bisogni trasforma i bisogni fondamentali in pulsioni irriducibilmente conflittuali, che appaiono alla coscienza come forze oscure e ingovernabili, come entità aventi un’esistenza oggettiva: forze della natura presenti nella sua vita interiore.

Questo processo di alienazione dei bisogni è, a nostro avviso, il momento genetico di ogni esperienza di disagio psichico.

In conseguenza dell’alienazione dei bisogni fondamentali, l’essere in relazione è una condizione di penosa schiavitù, l’essere libero una condizione di totale isolamento.

Le grandi paure

Una conferma di ciò può essere fornita dal fatto che, all'interno di ogni esperienza di disagio psichico, è possibile far affiorare fenomenologicamente - quando esse non appartengono già immediatamente al livello del vissuto - tre grandi paure: la paura di morire, d'impazzire, di commettere crimini.

L’elemento comune a queste paure è la radicale esclusione del contesto sociale che esse comportano. Esse traducono l’alienazione del bisogno di individuazione, nel senso che esprimono la forma disperata in cui l’individuo pensa di poter affermare se stesso. Nel contempo, il terrore che si associa alla minaccia dell’esclusione sociale obbliga l’individuo ad accettare una relazione con gli altri incentrata su temi della dipendenza, della cura, della rassicurazione e del controllo.

L’esperienza psicopatologica che veicola coscientemente questa paure e che subisce le conseguenze, è l’esperienza ossessiva. A nostro avviso, la struttura ossessiva, con la contrapposizione irriducibile tra libertà trasgressiva e legge costrittiva, è la chiave di volta genetica dell’universo psicopatologico: quella a partire dalla quale si definiscono tutte le altre strutture, di primo livello (nevrotiche) e di secondo livello (psicotiche).

Strutture psicopatologiche

Nella struttura ossessiva il bisogno di integrazione sociale risulta alienato in virtù di una pressione superegoica che impone all'individuo una socialità incentrata sui valori dell'obbedienza, del rispetto formale delle leggi, del dovere, della disciplina e del sacrificio, della rinuncia e dell'ascetismo. Il bisogno di individuazione, di conseguenza, è costretto ad alienarsi, rendendosi impercettibile socialmente, in forme anarchiche di libertà, isolamento, ribellione, trasgressione, piacere. L'ossessivo è un citoyen ligio alle forme che alberga una radicale asocialità, nella quale è rifluito il suo bisogno di individuazione.

Si può ritenere questa una struttura di primo livello, nel senso che il conflitto adialettico tra i bisogni alienati risulta in pratica in apparente sul piano sociale, poiché il bisogno di individuazione alienato nell'anarchia viene tenuto sotto rigido controllo. Da questa struttura si possono rilevare le altre di primo livello, che rappresentano delle varianti.

Nella struttura isterica il conflitto tra bisogni alienati viene ad incanalarsi in un rapporto duale, in un corpo a corpo tra l'individuo e l'altro da cui dipende e da cui ci si vuole liberare. Ma la liberazione riesce impossibile, chè essa comporta come prezzo, l'anestesia totale dei sentimenti e del corpo. L'isterico può individuarsi solo sul registro del gelo della sensibilità: realizzando, cioè, una sorte di morte in apparente, dalla quale regolarmente rifugge con appassionati investimenti sull'altro.

Nella struttura ipocondriaca, la necessità di dipendere e di assoggettarsi all'altro è dovuta alle angosce fisiche. L'altro, di conseguenza, è un curante: un medico, una serie di medicine o l'organizzazione sanitaria nel suo complesso. L'individuazione, nella struttura ipocondriaca, è alienata nel mito di una salute ottimale che fonderebbe l'autosufficienza. Ma questo mito non è perseguibile, poiché esso trascura la precarietà della condizione umana, la necessità, per ogni individuo, di sapere di poter contare su qualcuno nel caso di un venir meno dell'efficienza. Il sentimento di precarietà è costitutivo della coscienza umana. L'ipocondriaco mira ad un al di là che non esiste.

La struttura depressiva rappresenta un anello di congiunzione tra primo e secondo livello. Al primo livello - nel linguaggio tradizionale, a livello nevrotico - essa si configura come un tentativo di poter affrancarsi dalla pressione superegoica realizzato in virtù del venir meno delle energie vitali, delle pulsioni e dei desideri. L'affievolimento degli affetti, l'incapacità di assolvere i doveri, il venir meno del gusto di vivere rappresentano la forma alienata in cui si esprime il bisogno di individuazione, sotto forma cioè di una colpa immediatamente espiata. Al primo livello, la struttura depressiva è un attacco globale al legame con il mondo e con la vita, giustificato nei caratteri costrittivi e mortificanti che quel legame ha assunto. Ma, per attaccare il legame, il depresso deve mortificarsi. Il grado della mortificazione decide del passaggio al secondo livelli;quando la mortificazione giunge in profondità, essa infatti si traduce nel vissuto del gelo interiore, dell'essere sÏ affrancato da ogni legame significativo e costrittivo ma in virtù dell'essere già morto, escluso dal contesto sociale e dal piacere di vivere. Il rischio del suicidio si fonda sulla tendenza a ratificare questa paradossale ribellione. L'alienazione del bisogno di individuazione giunge all'estremo di realizzarsi solo al prezzo dello scioglimento del legame fisico con il mondo. Quando ciò non si avvera, la depressione di secondo livello postula e sottende un brusco compenso. L'eccitamento. Con l'eccitamento, ciò che nella struttura di primo livello è latente - l'alienazione anarchica del bisogno di individuazione- si manifesta a livello di comportamento e diventa percettibile socialmente. Il desiderio di vivere, la libertà si realizzano in opposizione alle regole sociali, alle forme, ai codici morali e, spesso, alle leggi. La sfida dell'eccitamento è una sfida radicale: ma più l'individuo si inebria della libertà, più egli avverte il rischio di perderla totalmente. A livello vissuto, egli sente che la ëgirandolà può arrestarsi da un momento all'altro: motivo questo per cui l'eccitato nel contempo vive nella logica del carpe diem, e giunge progressivamente a promuovere una repressione che, estinguendo la sua anarchia, lo ponga nuovamente in un rapporto di appartenenza sociale, sia pure caratterizzato dal controllo repressivo. Nulla si capisce dell'eccitamento, se non si tiene conto del dramma di una libertà totale che si vota ad essere perduta, purché sia recuperata la socialità.

La pressione del bisogno di integrazione sociale rispetto al bisogno di individuazione, e cioè l’esigenza preliminare per ogni esigenza umana di serbare un legame con il mondo sociale, è espressa compiutamente dall’eccitamento, nella misura in cui questo sembra negarlo.

Nelle strutture di secondo livello - nel linguaggio tradizionale, psicotiche - questa pressione è ancora più accentuata. Di conseguenza il conflitto tra i bisogni alienati è ancora più intenso e drammatico: e, rispetto alle strutture di primo livello, esso si manifesta compiutamente a livello sociale. Le forme cliniche di schizofrenia riconosciute dalla psicopatologia tradizionale non sono che tre varianti del passaggio della struttura ossessiva dal registro interiore al registro sociale. Nel delirio persecutorio l'ipercontrollo del bisogno di individuazione alienato non può più essere mantenuto dall'interno: esso, dunque, viene proiettato laddove ha avuto di fatto origine, nell'ambiente esterno, sul mondo. Lottare per la libertà, in questa struttura, significa lottare contro qualcuno che, di fatto, la limita, la minaccia o vuole toglierla. Nella catatonia, nella quale il bisogno di integrazione sociale si realizza nella forma del totale abbandono di sé nelle mani degli altri, il bisogno di individuazione si esercita sotto forma di opposizione, negativismo e rabbia distruttiva. La chiusura della struttura è attestata dal fatto che è l'individuo a bloccarsi per sbloccarsi e a sbloccarsi per bloccarsi di nuovo o essere bloccato.

Nella forma cosiddetta ebefrenica, l'individuo, che non può sottrarsi in alcun modo alla dipendenza, si individua in maniera alienata in virtù della chiusura, dell'incomunicabilità e dell'apparente insensatezza dei suoi comportamenti.

Ad ogni livello dell’universo psicopatologico troviamo dunque l’espressione della drammaticità dialettica dell’esperienza umana, sottesa dai bisogni di integrazione sociale e di individuazione. L’alienazione dei bisogni che caratterizza le strutture psicopatologiche non estingue questa drammaticità, ma la rende senza sbocco, chè i bisogni alienati si configurano come adialettici. Di essi, l’individuo non può liberarsi, ma nel contempo su di essi, data la configurazione assunta non può esercitare alcun potere attivo: egli non può che limitarsi ad agire e subire un conflitto senza soluzione. Dato però che l’intensità di un conflitto non basta a comprendere la sua insolubilità, occorre chiedersi che cosa è che rende le strutture psicopatologiche chiuse.

La logica adialettica delle strutture psicopatologiche

Quanto più si riflette su esperienze psicopatologiche, tanto più si conferma l’intuizione freudiana secondo la quale la causa ultima del disagio psichico è da identificare nella pressione severa, intollerante o addirittura sadica delle istanze superegoiche. Trascuriamo l’ideologia di Freud, che lo ha indotto a postulare, per giustificare la dittatura superegoica, una causa prima pulsionale, sfrenata ed anarchica. Il problema, però , diventa più complesso. Se il disordine pulsionale, che esiste nella trama delle esperienze psicopatologiche, non è la causa prima della strutturazione superegoica, bensì un effetto di questa strutturazione che riverbera su di essa rafforzandola, c’è da chiedersi donde traggono le istanze superegoiche il loro potere di parassitare le esperienze soggettive sino al punto di svuotarle di altro senso che non sia il loro sacrificio sull’altare dei valori, delle norme e delle regole sociali. Il fatto che quelle istanze si istallino e siano introiettate nella fase evolutiva della personalità, utilizzando la permeabilità affettiva del soggetto nei confronti degli agenti parentali ed educativi, permette di comprendere solo – come vedremo - da dove esse vengono, ma non come esse continuano a funzionare nonostante, talora, la coscienza adulta le ricusi sia visceralmente che razionalmente. Occorre ammettere altri meccanismi di rinforzo. A nostro avviso, un rinforzo importante dato del disordine pulsionale che quelle istanze –e i processi educativi che le veicolano- producono: disordine di cui, poi, esse si alimentano. Ma neppure questo basterebbe, poiché i disordini pulsionali non sempre si configurano come tali da indurre, in conseguenza di una loro realizzazione, una sanzione sociale. Rimane una sola ipotesi ragionevole: che le istanze superegoiche parassitico, alienando, un aspetto importante del bisogno di integrazione sociale, un aspetto che è lecito definire come un bisogno di moralità. Sia chiaro che parlando di moralità non si intende far riferimento ad alcun contenuto specifico, bensì alla forma del bisogno, che allude al potere di operare delle scelte di vita e di comportamento. In questo senso il bisogno di moralità coincide con un’autonomia etimologicamente intesa, con il potere cioè di darsi una legge e di rispettarla. Se si assume questo bisogno come radicale è evidente che le istanze superegoiche, per quanto mortificanti e costrittive, possano essere vissute dal soggetto come più affini al bisogno di moralità che non il disordine pulsionale, dal quale il soggetto può temere di essere semplicemente travolto.

Se il paragone non sembra illecito, nelle esperienze psicopatologiche accadrebbe che al soggetto ciò che accade al cittadino medio nelle situazioni in cui si configura un aspro scontro tra una brutale dittatura militare e la guerriglia. Nonostante egli possa avere tutti i motivi per giudicare come abbastanza valide le ragioni dell’opposizione al regime, se il conflitto giunge a produrre un’inquietudine perpetua a livello di vita quotidiana, il cittadino medio, alla fine, sia pure a malincuore, finirà con l’augurarsi che la dittatura riesca a rimettere ordine nella vita sociale. Il bisogno di ordine è comprensibile ed autentico: ma, perché sia realizzato, esso deve essere delegato ad un potere che lo utilizza per mortificare.

Il paradosso che definisce le strutture psicopatologiche come strutture chiuse, il cui equilibrio è funzionale al mantenimento di un minimo di integrazione sociale, ma il cui pericolo è di doversi chiudere sempre di più, non può essere compreso che geneticamente

Genesi sociale dei bisogni alienati

La genesi dell’alienazione dei bisogni è da ricondurre univocamente all’impossibilità di esprimere, negli spazi interpersonali pedagogici, i bisogni di opposizione. L’impossibilità è dovuta a tre ordini di minacce: la punizione, l’abbandono o il senso di colpa per il dolore arrecato. Costretti a non riversarsi nello spazio pedagogico interpersonale, i bisogni di opposizione, in quanto radicali, ripiegano nello spazio intrapsichico. Le loro vicissitudini sono molteplici. Talora essi rimangono coscienti, e animano progetti di separazione dall’ambiente, di attacco ai legami parentali e di vendetta: con il passar del tempo, essi si configurano però sotto forma di una rabbia distruttiva, il cui significato storico sfugge al soggetto. Questo è il nucleo dinamico da cui muove l’immagine negativa di sé che sottende molte esperienze di disagio. Altre volte, la paura delle rappresaglie dei sensi di colpa li respingono a livello inconscio; a livello relazionale, il soggetto appare docile, remissivo, dipendente, ma il lavorìo sotterraneo dei bisogni di opposizione si traduce in un’anarchia pronta ad esplodere alla prima occasione: tanto più pericolosa quanto più il soggetto non ne ha alcuna coscienza. In ambedue i casi, il disordine ulteriore prodotto dai bisogni di opposizione si traduce in pulsioni, in forze oscure e ingovernabili di cui infine il soggetto giunge ad avere paura.

C’è un aspetto che vale la pena sottolineare. Quanto più precoce è la repressione dei bisogni di opposizione, tanto più il soggetto è sollecitato ad identificare la possibilità di individuarsi con l’esercizio della distruttività. Mors tua, vita mea è la formula drammatica che sottende l’alienazione dei bisogni. ma, dato che la distruttività si rivolge su persone da cui si dipende e che, in una certa misura, sono amate, quella formula è una trappola antropologica, che costringe spesso il soggetto a sacrificare la propria vita per porre a riparo le persone che ama dalla sua distruttività. I sistemi familiari che producono disagio psichico sembrano tutti tributari di questa strana legge, per cui l’individuazione sembra dover passare necessariamente attraverso il dolore o la morte di qualcuno. Per questo, tali sistemi vengono definiti spesso patologici. Ma lo sono essi veramente o l’adozione di criteri diagnostici spostati dall’individuo al gruppo non è un ulteriore escamotage per non vedere le cose come stanno?

Sistemi familiari

La soluzione del problema consiste nel comprendere perché alcuni sistemi familiari ostacolino in maniera radicale i bisogni di opposizione. E’ ingenuo pensare che ciò avvenga solo in contesti caratterizzati da un cieco conservatorismo. Avviene, in misura solo statisticamente minore, anche in contesti liberali, e –verità dolorosa ma pregnante- addirittura in contesti familiari ispirati a principi progressisti e di sinistra. Evidentemente, l’ideologia apparente delle famiglie non dice tutto riguardo il loro modo di porsi nei confronti dei figli. Reprimere i bisogni di opposizione sembra muovere da una mentalità relativamente indipendente rispetto alla ideologia familiare. Ciò deriva dal fatto che i sistemi familiari in questione sono tutti caratterizzati da istanze anarchiche, presenti in entrambi i genitori, che vengono sottoposte ad u rigido ipercontrollo: è la percezione delle libertà individuale come pericolo che promuove un’azione pedagogica che individua nell’opposizione un segno premonitore della realizzazione del pericolo.

Quale che sia la loro apparente normalità, questi sistemi veicolano quote di rabbia e di ribellione rimaste escluse dall’organizzazione della coscienza e della vita sociale. E’ in rapporto a questa anarchia che essi si configurano come superegoici, e sottopongono i figli ad una persecuzione normativa. In tutte le famiglie che producono un disagio psichico è possibile ricostruire istanze superegoiche rigorose, severe e intransigenti. Queste istanze non sempre coincidono con assetti di personalità rigidi e disumanati: anzi, ciò accade piuttosto raramente. Ma è proprio lo scarto tra le qualità personali dei genitori, autenticamente interessati al bene dei figli –anche se alla luce dei loro fantasmi anarchici-, e le istanze superegoiche che essi veicolano a definire questi sistemi familiari come una trappola. Le fantasie di rabbia distruttive che essi evocano nei figli urtano contro l’amore, talora patetico, per i genitori, le cui qualità –più spesso solo di uno- non sono mai misconosciute. Distruggere il legame non è pertanto possibile, ma la persistenza del legame obbliga a tollerare istanze superegoiche disumane. C’è un problema che, ora, si impone, e su cui si è scritta troppa letteratura mediocre. Come mai questi sistemi producono effetti psicopatologici rilevanti in uno o in più di un figlio ma non in tutti? Non occorre forse ammettere una qualche predisposizione a sviluppare un disagio psichico?

La predisposizione al disagio psichico

In quanto complementari, si può ammettere che la plasticità e la tendenza all’opposizione siano commisurate nel corredo genetico individuale. Probabilmente, non c’è da pensare d un equilibrio perfetto.

Se però noi postuliamo che coloro che sviluppano un disagio psichico, siano dotati di una spiccata plasticità e di un’intensa tendenza all’opposizione, il mistero della predisposizione si risolve in una potenzialità che l’interazione con un ambiente contraddittorio può facilmente conflittualizzare. Se la plasticità comporta, infatti, una tendenza ad introiettare le aspettative familiari, le norme e i valori veicolati dalle istituzioni pedagogiche, la tendenza all’opposizione si attiva completamente nella misura in cui norme e valori risultino inadeguati ai bisogni umani. Il tragitto ben noto di esperienze di bambini precocemente maturi, benché un po’ chiusi, e di adolescenti fin troppo equilibrati che poi, alle soglie della giovinezza, manifestano violente crisi psicotiche, con atteggiamenti oppositivi, negativi o aggressivi, è una conferma dell’ipotesi. La quale, però , pur nella sua schematicità, non misconosce numerose possibilità. Rispetto a quella esemplificata, la più sorprendente è all’opposto, essendo rappresentata dalle esperienze di bambini che, fin dalla più tenera età, si rivelano difficili, e cioè ribelli, capricciosi e oppositivi, e la cui carriera di vita spesso esita in un’esperienza di disagio psichico. Anche in questi casi, le contraddizioni ambientali sono sempre ricostruibili. Ma è fuori di dubbio che il precoce affiorare di comportamenti oppositivi fa insorgere qualche dubbio su una presunta predisposizione (teorizzata sotto forma di distruttività primaria dalla scuola Kleiniana). Ma, a questo livello l’ipotesi delle radici biologiche dei bisogni umani fondamentali conforta la nostra ipotesi. Chè se la tendenza all’opposizione è una qualità propria della natura umana, non c’è da sorprendersi che essa affiori precocemente e si esprima visceralmente, prima ancora che il bambino disponga di un’adeguata attrezzatura logica e culturale.

Siamo consapevoli con ciò di avanzare un ipotesi radicale. Ma, nel contempo, se l’uomo non fosse un animale capace di opporsi visceralmente alle situazioni inadeguate ai suoi bisogni, nonché la genesi del disagio psichico, la storia umana sarebbe inconcepibile. Il problema che rimane da porsi non è meno inquietante. Esso infatti concerne il fatto che, con l’acquisizione di un’adeguata attrezzatura culturale, la protesta, nonché esitare in una migliore organizzazione della vita, esiti il più spesso in una struttura psicopatologica. Sia l’alienazione dei bisogni fondamentali –presupposto peraltro indispensabile per l’affiorare di un disagio psichico- sia le persistenza nell’ambiente di elevate contraddizioni, non bastano a giustificare quell’esito drammatico. C’è dunque un ulteriore fattore, decisivo.

Il progetto di guarigione e i codici mentali

Se analizziamo una qualunque struttura psicopatologica come forma di esperienza, in essa possiamo distinguere tre elementi interagenti. Il primo fa capo all’esperienza concreta del soggetto, il secondo ad un’elaborazione ideologica dell’esperienza, il terzo ad una progettazione che mira a risolvere il problema che al soggetto sembra pregiudiziale per vivere. Mentre, però , l’esperienza concreta è parziale, riferita cioè al microuniverso sociale con cui l’individuo interagisce, sia l’elaborazione dell’esperienza che la progettazione di sé sono processi ideologici, nel senso che essi richiedono l’uso di codici culturali che non sono mai prodotti dall’individuo, bensì acquisiti. Se l’individuo potesse rimanere assolutamente fedele alla sua esperienza concreta, quale che essa sia, probabilmente non si genererebbe mai alcun disagio. Per quanto drammatici, i problemi umani riconoscono sempre possibili soluzioni.

Ma la condizione normale della coscienza è di essere astratta, chè, per orientarsi nel mondo, ogni individuo deve disporre di una visione del mondo: e la visione del mondo non può essere che una universalizzazione della propria esperienza parziale e privata. Il primo processo d’astrazione, necessario psicologicamente ma necessariamente ideologico, consiste nel ricavare dunque l’esperienza microstorica una visione del mondo. Se questa visione del mondo non risulta funzionale ai fini di favorire la pratica della vita, occorre procedere ad un secondo livello di astrazione: formulare, cioè, un progetto di accomodamento della propria esperienza al mondo o del mondo alla propria esperienza. Inesorabilmente, il soggetto è sollecitato ad adottare i codici mentali normativi presenti nella società in cui vive. Ma tali codici some medaglie a due facce: per un verso, essi veicolano valori autentici –libertà, indipendenza, autonomia, potere di relazione, inserimento sociale, amore, felicità-, per un altro, essi funzionano come fattori di produzione antropologica. In altri termini, al di là della loro astrattezza, nel concreto di una qualunque società storica, essi promuovono la costruzione di uomini da cui il sistema possa ricavare un plu-valore. Adottando quei valori, nonché produrre la propria vita, l’individuo deve produrre anche un lavoro che torni a vantaggio del sistema. Appartenendo ogni individuo ad un sistema sociale, questo si può ritenere un fatto ovvio. Ma ciò che appare decisivo è il fatto che un sistema sociale abbia come fine la valorizzazione della ricchezza umana o, viceversa, di se stesso e degli interessi parziali che esso rappresenta. Nel nostro sistema, è difficile aver dubbi su come stanno le cose. Adottando, dunque, quei valori, affascinato dalla normalità che essi propongono, l’individuo, che ha subito l’alienazione dei bisogni, formula un progetto di una guarigione, il cui effetto è di allontanarlo ulteriormente dalla sua esperienza concreta. In virtù dell’adozione di quei valori, l’alienazione dei bisogni diventa radicale e adialettica.

Torniamo all’esempio da cui siamo partiti. Nella catatonia, è evidente che l’individuo esprime il bisogno di integrazione sociale nella forma di un rapporto di potere che gli impone una totale e cieca obbedienza, e, nel contempo, un bisogno di individuazione che non può esercitarsi che sotto forma di opposizione e ribellione al potere dell’altro. nella catatonia, si esprimono dunque, un codice gerarchico –per cui chi è subordinato deve lasciarsi manipolare dall’autorità- e un codice anarchico –per cui lo schiavo non ha altra possibilità che ribellarsi al padrone.

In questa forma di esperienza radicata nel corredo dei bisogni fondamentali, è evidente che la catatonia può prodursi in qualunque contesto sociale contraddittorio. Ma si possono definire le caratteristiche di un contesto atto a promuovere la catatonia? Basta pensare ad un contesto nel quale il rispetto rigoroso dell’autorità si associ ad una sollecitazione di autonomia rivolta all’individuo. Se ciò è vero, la catatonia è difficilmente riproducibile all’interno di una struttura sociale medioevale, mentre nella forma propria dell’alienazione nel contesto dell’Europa ottocentesca. Se l’alienazione dei bisogni è una possibilità intrinseca della natura umana in rapporto all’interazione con l’ambiente, le forme in cui essa si esprime sono, dunque, correlabili alle strutture –sociale e mentale- dell’ambiente stesso. Universali in sé e per sé, le strutture psicopatologiche sono anche contestuali. Perciò , una nuova scienza del disagio psichico non può essere fenomenologia, bensì storica e dialettica. La riproduzione sociale degli uomini, i fini che essa persegue e gli strumenti educativi e persuasivi che adotta sono il suo oggetto specifico. La disalienazione dei bisogni e la liberazione della natura umana sono il suo obiettivo. Ciò postula che la nuova scienza del disagio psichico si integri con un vasto movimento di cambiamento del mondo rispetto ai bisogni umani, cui, per il suo punto di osservazione, può portare, nonostante il suo ridotto ambito di intervento, un contributo importante.


Della struttura ossessiva

1.

L’asserzione, esplicitata nel seminario sulle strutture psicopatologiche, secondo la quale la struttura ossessiva è la chiave dell’universo psicopatologico ha, dal punto di vista teorico e pratico, una portata rivoluzionaria tale da imporre una serie di riflessioni.

Anzitutto, se essa è vera, una nuova scienza del disagio psichico si trova fondata d’emblée, se non altro perché, nella storia della psichiatria, un’asserzione del genere non è mai stata formulata. Ciò potrebbe connotare la nuova scienza del disagio psichico solo come originale – con un’accezione che andrebbe dall’inaudito al sorprendente e al bizzarro. Ma la portata rivoluzionaria dell’asserzione non si esaurisce in questo. Se essa è vera, il ruolo genetico delle matrici socio-culturali, soprattutto per quanto riguarda i sistemi di valori che esse veicolano, risulta immediatamente confermato: chè, in ultima analisi, la struttura ossessiva postula il sacrificio della libertà individuale in nome di un’appartenenza alla società sancita dal rispetto rigoroso - sia pure solo comportamentale - di regole, leggi e valori inderogabili. La ribellione anarchica - a livello soggettivo o comportamentale - nei confronti del regime superegoico consegue un effetto paradossale di rafforzamento, fino alla conseguenza estrema del delirio persecutorio, che trasforma il mondo interno in un apparato poliziesco e repressivo.

Il primo problema su cui vale la pena di riflettere concerne la validità euristica dell’asserzione. Se la struttura ossessiva è la matrice genetica dell’universo psicopatologico, tutte le altre forme d’esperienza devono essere deducibili da essa in virtù di trasformazioni. Ciò appare possibile se si tiene conto che il conflitto adialettico che sottende la struttura ossessiva tra libertà e legge comporta, al di là dell’equilibrio assicurato dalla struttura ossessiva in virtù dell’isolamento del mondo interno da quello esterno, due altre possibili organizzazioni dinamiche.

La prima, tenta di risolvere il conflitto agendolo nella relazione con il mondo esterno; la seconda, tenta di risolverlo inibendolo, e cioè inattivando il rapporto tra mondo esterno e mondo interno. Alla prima trasformazione sono riconducibili la struttura isterica, la struttura ipocondriaca, la struttura maniacale e la struttura persecutoria.

Nella struttura isterica, il conflitto viene agito entro uno spazio interpersonale privato, la legge si identifica con un legame di dipendenza, la libertà con l’attacco al legame. Nella struttura ipocondriaca il conflitto investe il bisogno di cure e il ruolo simbolico di curante che esso evoca: la legge è l’accettazione della dipendenza passiva, la libertà l’autosufficienza. Nella struttura maniacale il conflitto viene agito contro le regole sociali che impediscono di godersi la vita: la legge è la rinuncia mortificante al contatto e all’uso piacevole del mondo, la libertà lo scatenamento della fame di vivere. Nella struttura persecutoria, il conflitto investe il controllo sociale, mediato dagli occhi della gente: la legge consiste nel vivere nella paura perpetua del giudizio sociale, la libertà di ribellarsi al giudizio e al controllo.

Alla seconda trasformazione sono riconducibili le strutture caratterizzate da inibizioni più o meno marcate: la struttura depressiva e la struttura catatonica.

Nella struttura depressiva il conflitto viene attivato in virtù dell’anestesia dei bisogni: la legge è la mortificazione, la perdita di gusto di vivere. Nella struttura catatonica, che comprende tutte le forme di esperienze definite schizofreniche(forme border-line, forme pseudoneurasteniche, depressioni atipiche, schizofrenia simplex, schizofrenia ebefrenia, schizofrenia catatonica), il conflitto viene attivato da inibizioni funzionali o blocchi che inducono, in maniera più o meno rilevante, una perdita di contatto con la realtà: la legge, in questo caso, è un’impotenza che pone il soggetto in balia di qualcuno che ha potere- i familiari, psichiatri, ecc.

Naturalmente, la distinzione tra queste due organizzazioni trasformative della struttura ossessiva è uno schema orientativo che non implica alcuna rigidità classificatoria.

La struttura ossessiva stessa, che tende a preservare la libertà totale del soggetto sotto la maschera di un assoluto conformismo ipernormativo, può , in conseguenza di acting-outs, dar luogo alla temuta cattura psichiatrica o carceraria, e cioè ad una completa perdita di libertà personale. Tra le due organizzazioni trasformative non esiste alcun confine rigidamente definito ed invalicabile. La struttura isterica, perpetuamente orientata ad attaccare il legame, può esitare in uno stato stuporoso di completa inibizione, la struttura maniacale virare, anche spontaneamente, in quella depressiva, e viceversa, la struttura persecutoria dar luogo ad un blocco psicomotorio, la struttura catatonica esplodere in comportamenti trasgressivi.

Questa fluttuazione dinamica delle strutture non comporta, teoricamente, nessuna difficoltà, poiché il riconoscimento di una matrice conflittuale univoca – quella che si esprime immediatamente nella struttura ossessiva - affranca da ogni nosografia, anche ad impronta psicologista. Ovviamente, viene da chiedersi immediatamente in che cosa consista la specificità delle strutture se esse sono tutte comunicanti. Fare riferimento alla trasformazione, non coglie che un aspetto fenomenologico. Da questo punto di vista uno stato di eccitamento manifesta una libertà la cui configurazione anarchica e al tempo stesso orientata a provocare una repressione dall’esterno allude alla struttura ossessiva latente. Trasformazione è, dunque, un concetto logico che fa riferimento ad un processo reale. In breve, ci deve essere pur ‘qualcosa’ che trasforma una struttura ossessiva in un’esperienza maniaco-depressiva. Le risposte fornite, o meglio, abbozzate nel seminario sulle strutture psicopatologiche appaiono del tutto insufficienti. Esse infatti facevano riferimento all’intensità del conflitto adialettico tra i bisogni fondamentali e a un mal precisato nucleo ideologico specifico per ogni struttura psicopatologica. In una qualche misura, ciò è vero.

Ma non si può ignorare che il soggetto, con la sua struttura, vive e si muove in un mondo strutturato – economicamente, socialmente, culturalmente - con il quale interagisce attivamente, cercando di adattare ad esso i suoi bisogni e di adattarlo ai suoi bisogni. E’ questo movimento del soggetto nel mondo, è l’interazione con gli ambienti a funzionare come fattore di trasformazione.

Prodotto dalle interazioni con gli ambienti ‘pedagogici’, che determinano l’alienazione dei bisogni fondamentali, la struttura ossessiva tende ad integrarsi nel mondo – negli ambienti originari, in quelli interpersonali acquisiti e in quelli istituzionali - con modalità che, nonostante le differenze individuali ed ambientali, appaiono univocamente orientate, al di là delle apparenze fenomenologiche, a contenere, a reprimere e ad incarnare una libertà vissuta soggettivamente come pericolosa, poiché il suo esercizio si associa, nelle aspettative del soggetto, alla esclusione sociale.

L’interazione della struttura ossessiva e dei bisogni alienati che la sottendono con le strutture del reale rappresenta il fattore di trasformazione di un dramma soggettivo, incentrato sulla paura della libertà, che gravita verso un equilibrio definitivo, e irraggiungibile: l’estinzione della libertà in nome del valore sacro dell’appartenenza al gruppo, alla società, al mondo.

Tutte le trasformazioni della struttura ossessiva rappresentano diverse messe in scena di questo dramma, il cui significato ultimo è di sancire il primato della società sull’individuo, della legge sulla libertà personale, dell’ordine e della tradizione sul cambiamento.

Con una metafora ardita si può affermare che l’universo psicopatologico è strutturato come un regime conservatore e reazionario, percorso perennemente da fremiti di ribellione e tale che ad ogni insurrezione corrisponde un accentuarsi della repressione. Al mantenimento di questo regime concorrono, in un’interazione costante e reciproca, sia le forze dell’ordine ambientale che le forze dell’ordine soggettive (superegoiche).

La paura della libertà che sottende la struttura ossessiva, e, di conseguenza, tutto l’universo psicopatologico è tale che, qualora le forze dell’ordine superegoico si allentano, è necessario che il controllo, mirante a restaurare l’ordine, sia esercitato dall’ambiente. E’ alla luce di questa logica che molti soggetti rimangono intrappolati o si intrappolano – producendoli ex novo - in sistemi interpersonali e/o istituzionali superegoici, o che, liberandosi da essi, assumono proiettivamente il modo, e le forze dell’ordine in esso onnipresenti – gli occhi della gente, la polizia, la magistratura, i fascisti, ecc. -, come istituzione repressiva.

Nulla si comprende dell’universo psicopatologico se non si tiene conto che, nonostante le apparenze fenomenologiche e comportamentali, esso è generato e strutturato da un bisogno di repressione univoco, che giunge sempre ad avere la meglio sui fremiti e sugli aneliti di libertà, sulle opposizioni, sulle ribellioni e sulle rivoluzioni private. Da questo punto di vista, appare ancora più evidente che la struttura ossessiva, caratterizzata da una feroce dittatura interiore e comportamentale, è la chiave dell’universo psicopatologico. Se ciò è vero, ogni intervento terapeutico dialettico non può avere altro obiettivo, quale che sia la fenomenologia psicopatologica con la quale si confronta, che di ricondurre la coscienza alla struttura ossessiva, di illuminare il conflitto adialettico che la sottende, di ricostruire la genesi dell’alienazione dei bisogni e, infine, di promuovere una pratica della vita che veda il soggetto alleato dei suoi bisogni fondamentali e critico nei confronti delle istanze superegoiche –soggettive ed ideologiche- che mortificano quei bisogni.

2.

C’è un problema, di fondamentale interesse, da affrontare. Posto che l’universo psicopatologico sia strutturato come un regime conservatore e reazionario, quale è mai il ‘mistero’ in nome del quale infiniti soggetti, autenticamente bisognosi di libertà, sacrificano ad esso la propria vita? Donde trae il suo magico e tremendo potere il SuperIo sadico che, in proporzione diretta alla ribellioni, incrudelisce sino allo psicosuicidio e, se non basta, alla condanna a morte? La tragicità dell’universo psicopatologico, nel suo complesso, è tale da invalidare le ipotesi sinora formulate: sia quella freudiana, che riconduce quella tragicità all’incoercibile pressione di pulsioni arcaiche e asociali, sia quella sistemica, che la riconduce all’invivibilità dell’insieme interpersonale di cui il soggetto è vittima. L’ipotesi freudiana, che individua nel mondo interno una minaccia persecutoria, non riesce a rendere ragione del senso di colpa e dello spietato ipercontrollo superegoico. L’ipotesi sistemica, che individua nel mondo esterno familiare una minaccia persecutoria, non rende ragione del perché, nell’interazione con il mondo extrafamiliare, il soggetto giunge inesorabilmente a riprodurre in questo le contraddizioni invivibili da cui apparentemente fugge.

In ultima analisi, l’unica ipotesi adeguata a comprendere la tragicità dell’universo psicopatologico – bisogna riconoscerlo - è quella kleiniana dell’istinto di morte. Ma essa, oltre ad essere assolutamente inverificabile, suscita una ripugnanza ideologica difficilmente riducibile ad una difesa rispetto alla verità.

Il ‘mistero’ risulta, a mio avviso, sondabile proprio a partire dalla struttura ossessiva. Secondo una metafora efficace ma approssimativa, intrappolato in quella struttura, il soggetto si trova nelle stesse condizioni di un cittadino medio che vive in un contesto conservatore e reazionario sconvolto da continui attacchi terroristici.

Pur riconoscendo, e, forse, condividendo le ragioni sostanziali dei terroristi, egli, prima o poi, è indotto a schierarsi dalla parte del potere, che promette ordine e civiltà, in contrapposizione alla barbarie terroristica. Per quanto approssimativa, la metafora mette in luce la tendenza del soggetto ad allearsi con le forze dell’ordine contro il disordine anarchico e distruttivo. Comunque s’interpreti questa tendenza, essa sembra lasciar comparire un bisogno profondo in una configurazione distorta, alienata. Non è azzardato definire questo bisogno come bisogno di moralità. A livello fenomenologico, esso appare parassitato dalla struttura superegoica fino al punto di promuovere, con la struttura ossessiva, l’utopia di un mondo di automi assoggettati comportamentalmente a un sistema di regole fisse e inderogabili. Posto che si consideri questa utopia – che mira ad una totale armonia sociale al prezzo della estinzione dell’identità personale - come un’alienazione, ci si può chiedere che cosa sia, in sé e per sé, il bisogno di moralità. L’unica risposta possibile è di riconoscere in esso, nonché un bisogno primario, il fattore di mediazione dialettica tra i bisogni fondamentali, e cioè il fattore che vincola la realizzazione dell’uno a quella dell’altro. il bisogno di moralità rappresenta il limite umano – e cioè inerente la natura umana - della realizzazione dei bisogni fondamentali. E’ implicito in ciò che esso riconosce matrici naturali. Il limite del bisogno di individuazione è la sensibilità – la capacità innata di cogliere se stesso come essere senziente, che comporta l’identificazione con l’altro come essere senziente. Da questo punto di vista, il bisogno di moralità mira a scongiurare l’oggettivazione e la strumentalizzazione dell’altro. Il limite del bisogno di integrazione sociale è l’opposizione – la tendenza a definire l’identità personale in virtù di un rapporto selettivo e interattivo con il mondo esterno che determina l’assimilazione di ciò che viene sentito come buono e il rifiuto di ciò che viene sentito come cattivo. Da questo punto di vista, il bisogno di moralità mira a scongiurare l’adattamento passivo al mondo, la costruzione di una personalità eteronomia, e rappresenta il fondamento dell’auto-nomia, e cioè della definizione di un sistema di valori personale.

La dialettica dei bisogni, predisposta dalla natura, non si realizza che in virtù dell’interazione con la cultura. Ma occorre tenere conto di due fatti. Il primo è che, benché innati, i bisogni fondamentali – non diversamente, per esempio, dalla capacità di parlare - richiedono un certo tempo per entrare in azione. Essi, infatti, postulano una minimale differenziazione dell’io dall’ambiente e la percezione dell’altro. Ciò che avviene nel primo anno e mezzo di vita è null’altro che un’integrazione funzionale che, approdando alla distinzione dell’io dal mondo, avvia la dialettica dei bisogni.

Il secondo fatto è che la totale dipendenza dell'infante dagli adulti comporta una subordinazione del bisogno d'opposizione al bisogno di socialità. In pratica ciò significa che l'esprimersi del bisogno d'opposizione dipende totalmente dal grado di tolleranza ambientale. E' evidente che esistono numerose costellazioni ambientali che frustrano l'espressione del bisogno d'opposizione, e, in conseguenza, di ciò , determinano lo sviluppo di una personalità eteronoma, di una personalità cioè la cui integrazione sociale è assicurata da un sistema di valori introiettato ma non assimilato. In questi casi, il bisogno d'opposizione, realizzandosi interiormente, in una dimensione impercettibile socialmente, esita nella ribellione anarchica e distruttiva. Ed è questo che determina l'alienazione del bisogno di moralità, che, per salvaguardare l'appartenenza al sociale, deve allearsi con le istanze superegoiche, e cristallizzare la personalità in un modo di essere adialettico, incentrato sul bisogno di repressione.

In breve, il disordine prodotto dall’ambiente, trasformandosi in un disordine interiore, che alimenta la grande paura dell’esclusione sociale, promuove nel soggetto stesso il bisogno di repressione come camicia di forza atta a salvaguardare almeno la sua identità sociale. Nonché espressione dell’istinto di morte, il sacrificio di sé che pervade tutto l’universo psicopatologico attesta, dunque, che il bisogno di socialità, sia pure limitato ad un insignificante co-esistere – la cui forma estrema è l’isolamento nel mondo -, è un bisogno supremo e irrinunciabile, per appagare il quale ogni altro bisogno può essere mortificato. Scrive Marx: "L’uomo è un essere così radicalmente sociale che egli può isolarsi solo nella società".

3.

Nulla si è detto, finora, di nuovo. Forse l’unità strutturale dell’universo psicopatologico e il suo gravitare dinamico verso un equilibrio regressivo, atto a conservare un minimo di socialità al prezzo della libertà, appaiono più chiari, o, comunque, delineati come ipotesi abbastanza articolate per essere discusse. Da questo, discende la drammaticità delle esperienze psicopatologiche riconducibile alle alleanze del soggetto con istanze superegoiche, il più spesso mascherate sotto forma di codici normativi, che mirano ad estinguere una libertà temuta ma irrinunciabile. L’intervento terapeutico è reso, pertanto difficile – e creativo - dal fatto che, intrappolato nella struttura psicopatologica, il soggetto vede la normalità nella malattia – nell’imporsi una legge che disordina e che deve diventare sempre più severa e disumanante -, e la malattia in un disordine interiore che contiene potenzialità liberatorie.

E’ su questa mistificazione soggettiva, che privilegia il bisogno di repressione persino sotto le apparenze – coscienti e comportamentali - di un desiderio sfrenato di libertà, che fanno leva gli interventi terapeutici tradizionali. E’ riduttivo oggi assegnare questi interventi all’ambito della psichiatria biologica.

Quasi tutte le pratiche psicoterapeutiche, eccezion fatta per alcune correnti minoritarie di derivazione adleriana e reichiana – e, purtroppo, anche molte pratiche socioterapiche sono ispirate da principi di normalizzazione. L’economia del discorso non consente di svolgere nei dettagli questa critica radicale. Vale la pena limitarsi ad un esempio sintomatico, importante poiché esso fa capo ad uno dei sistemi teorici più accreditati.

In un volume – trasparente nella sua ingenuità ideologica -, Harley esalta l’efficacia di una tecnica terapeutica che si fa carico paradossalmente del bisogno di repressione, utilizzandolo al fine di produrre dei cambiamenti. La tecnica – definita un’ordalia – assume il paziente come un soggetto che, volendo espiare, deve espiare per cambiare, e prescrive pertanto delle ‘pene’ – il più spesso i sintomi stessi - che vengono adeguate alla sua tolleranza. Non essendoci alcun limite alla punizione imposta dalla terapia - non per caso Harley definisce il paziente una ‘vittima’ del terapeuta – è scontato che il soggetto, prima o poi si ribellerà. Represso dal terapeuta che assume le funzioni del super-io, egli si libera dal sintomo. Il problema della struttura ossessiva resta tale e quale: c’è solo da capire – ma Harley non dice alcunché a riguardo - in quale nuovo modo essa possa giungere ad esprimersi…

Un intervento terapeutico dialettico non può prescindere dall’assumere come obiettivo primario e ultimo, quello di rovesciare – letteralmente - la coscienza che il soggetto ha della propria condizione, che gli impone – bon grè, mal grè - di rimanere alleato delle istanze superegoiche e del bisogno di repressione. Tale obiettivo non può essere realizzato che in virtù di una ristrutturazione dell’esperienza soggettiva e del modo di porsi del soggetto nel mondo. E’ la pratica della vita quotidiana che decide, infine, del grado di salute mentale, inteso come potere reale sul mondo interno ed esterno. Ma, in quanto obiettivo primario, esso va proposto nelle fasi di avvio di ogni intervento terapeutico sotto forma di ipotesi che comportano – senza alcuna pretesa di adesione da parte del soggetto - una lettura critica e dialettica dell’esperienza psicopatologica. Per procedere in questo modo, l’attrezzatura teorica è importante; ancor più importante, è la capacità di leggere – e di restituire - la struttura ossessiva, e il conflitto adialettico tra i bisogni che la sottende, nella varietà indefinita di sintomi, comportamenti e vissuti che esprimono la capacità di significazione soggettiva. Sarebbe assurdo tentare di colmare lo scarto tra teoria e pratica terapeutica in virtù di un’esauriente ‘semiotica’ della struttura ossessiva. Quanto segue non è neppure un abbozzo di un’impresa impossibile: è una sollecitazione ad aguzzare la vista, lo spirito critico dialettico. Alla sollecitazione, è giusto che ciascuno risponda con uno sforzo personale.

4.

La manifestazione più superficiale, in quanto percettibile socialmente, della struttura ossessiva è il conformismo. Perpetuamente minacciato dalla paura che un qualunque, sia pur minimo errore comportamentale possa far affiorare agli occhi degli altri le sue ‘stranezze’, l’ossessivo tende ad adeguarsi ad un codice di normalità astratto che lo rende irreprensibile nella misura in cui lo irrigidisce, impedendogli ogni spontaneità.

Francesco è a colloquio nell’ufficio del direttore. Si accorge di avere la scarpa slacciata. Frena l’impulso di allacciarla, poiché lo ritiene poco ‘conveniente’. Comincia a pensare con angoscia al momento del commiato, allorché il direttore, accompagnandolo alla porta, rileverà senza dubbio quell’indizio, e, da esso, risalirà al disordine interiore di Francesco, e, comprendendo finalmente la verità, non solo non gli affiderà più incarichi, ma farà di tutto per esautorarlo. Per tutta la durata del colloquio, Francesco è attanagliato dal dilemma se allacciare la scarpa – esibendo il disordine - o fidare nella disattenzione del direttore. La risoluzione è comica: accompagnandolo alla porta, il direttore gli fa osservare premurosamente che ha le scarpe slacciate, ed esprime un apprezzamento positivo per la marca (Timberland) . Per due giorni, Francesco è preda di ruminazioni angosciose. Acquistando le Timberland, egli è venuto meno ad un regime di rigorosa austerità. Quale senso assegnare dunque all’apprezzamento del direttore? Non potrebbe trattarsi, in fin dei conti, di un pesante ironia sulla velleità di carriera di un funzionario che si abbandona a spese folli?

Reso drammatico dalla paura del ‘disordine’ comportamentale, il conformismo ossessivo si associa ad un’estrema tensione relazionale. L’altro, chiunque esso sia, in virtù della proiezione di istanze superegoiche ipernormative, assume la configurazione di un giudice impietoso. In conseguenza di ciò , l’ossessivo, per mantenersi all’altezza del modello di normalità, sente il peso estenuante della relazione, vissuta come un’intollerabile costrizione a dover essere.

La ‘tenuta’ relazionale è, pertanto, scarsa: in poco tempo, insorge l’angoscia di non farcela più, di stare per crollare e la tendenza ad uscire dalle situazioni. Metaforicamente, all’ossessivo accade mentalmente ciò che accade a chi, per nascondere la pinguedine del ventre, irrigidisce i muscoli in presenza degli altri…

Dopo un lungo corteggiamento di sguardi, sotto i portici di una città di provincia, Enrico ottiene di passeggiare con una ragazza. La sua preoccupazione è di essere scambiato per un tipo ‘leggero’ che mira solo ad un’avventura. Assume, pertanto, un atteggiamento, serio, grave e taciturno. Dopo pochi minuti sente che la ragazza lo sta giudicando un ‘vecchio noioso’. Vorrebbe dire o fare qualcosa: ma la paura di trasgredire il codice della gravità lo paralizza. La situazione diventa insostenibile. Con una scusa, Enrico si allontana e si sente, immediatamente, liberato da un peso.

Le sequenze descritte riguardano situazioni di rapporto duale non anonime. La tensione relazionale prodotta dalla struttura ossessiva, e che pone in luce il modello di normalità astratta, adultomorfa diventa ancor più angosciosa nelle situazioni di esposizione sociale anonime o istituzionali. Stare con gli altri, per l’ossessivo è sempre causa di angoscia, perché egli si sente giudicato con un metro di misura univoco, dal quale discende il suo non essere all’altezza, l’essere inadeguato socialmente o l’essere negativo, diverso dagli altri. I vissuti vanno dal sentirsi piccolo – un nano in mezzo ai giganti - al sentirsi un mostro. Entrambi comportano la paura che, nonché percepita, la diversità possa manifestarsi inequivocabilmente agli occhi degli altri, essere confermata dal soggetto stesso o con un crollo – l’arrossire, il tremare, l’essere impacciati, il sentirsi male o il venir meno – o con un acting-out – l’urlare, lo scagliarsi contro gli altri, il fuggire precipitosamente da una situazione.

E’ questa la genesi delle tre grandi paure – di morire, di impazzire e di commettere crimini – sulle quali ci si è a lungo soffermati: paure che veicolano un bisogno irrinunciabile (o, meglio, una quota di bisogni irrinunciabili), la cui realizzazione però , a livello soggettivo, si associa al terrore dell’esclusione sociale. La fenomenologia delle tre grandi paure restituisce il conflitto adialettico tra i bisogni con un’immediatezza sorprendente.

Rossella, perpetuamente assalita da crisi di tachicardia, esegue frequentemente esami elettrocardiografici e consulti cardiologici. Un soffio funzionale, presente sin dall’adolescenza, viene dai cardiologi ora minimizzato ora drammatizzato. Rossella ha paura di morire per un attacco di cuore, ma ancor più di essere diagnosticata una cardiopatica cronica. La paura rievoca il ricordo di una zia cardiopatica, morta in età giovanile, che è vissuta ‘come un orologio’, evitando ogni strapazzo, praticamente chiusa in casa, senza sposarsi e senza conoscere nulla della vita. Benché sposata e madre di un bambino, Rossella vive murata in casa, si assoggetta a diete rigorose, rifiuta i rapporti con il marito, evita qualunque contatto con gli estranei. Si è, dunque, sepolta viva, per evitare di ricadere nel disordine sentimentale e caotico che ha caratterizzato la sua vita prima del matrimonio. Si è normalizzata al prezzo di rinunciare a vivere. Il tumulto del suo cuore attesta la pressione di una quota di bisogni mortificati, nei quali Rossella vede una minaccia.

Francesco, che si è integrato socialmente soffocando una profonda rabbia sociale, fino al punto di diventare – lui, nipote di mezzadri vessati da proprietari terrieri - funzionario della Confiagricoltura , e investendo tutte le sue energie in un progetto di ascesa sociale, che ha comportato la rinuncia agli affetti e al piacere di vivere, vive nell’incubo di una follia ereditaria che sta covando dentro di lui e, inesorabilmente, giungerà prima o poi a manifestarsi socialmente, dando luogo alla catastrofe della sua identità sociale e alla reclusione in manicomio.

Minacciato da questa paura egli accentua la dedizione al lavoro, assumendo nuovi impegni e rinunciando al vino, unica espressione di cedimento pulsionale.

In breve, la relazione anonima con gli altri viene vissuta come una trappola atta a far affiorare irreversibilmente la propria diversità. Talora, questo vissuto connota l’esordio dell’esperienza psicopatologica.

Annalisa entra in una profumeria per acquistare dei prodotti cosmetici e un paio di orecchini. Dovendo cominciare a frequentare l’università, sente il bisogno di curare la sua immagine più di quanto abbia fatto fino allora. Mentre sta scegliendo dei prodotti, sente che lo sguardo di colei che gestisce l’esercizio la scruta implacabilmente, si indurisce, diventa, nel contempo, ironico e rimproverante. Annalisa, repentinamente, sente la vanità di un progetto mirante a celare la sua ‘bruttezza’, e a trasformarla in capacità di seduzione. Impallidisce, prende a tremare violentemente si sente venir meno. Trova la forza di scappare, di trascinarsi fino a casa. Per oltre un anno, uscirà accompagnata dalla madre.

Mario, conseguita la patente di guida, sale in macchina per la prima volta da solo. Dopo pochi metri, guarda nello specchietto retrovisore, ed è folgorato dall’angoscia. Il suo volto è quello di sempre, atono e imbelle: è la maschera di uno che è cresciuto solo fisicamente, rimanendo un ‘bambinone’. In macchina, Mario è costretto a far quello che nella realtà non fa mai, a guardarsi allo specchio, e a vedere ciò che tutti possono vedere: un bambino, bisognoso ancora del latte materno, che pretende di guidare la macchina esponendo se stesso e gli altri a rischio di incidenti mortali. Come ha potuto ignorare che la sicurezza manifestata durante il corso di scuola guida era dovuta al fatto di avere accanto a sé un istruttore che lo controllava?

Conformandosi ad un modello di normalità astratta, adultomorfa che permette di mantenere un minimo di integrazione sociale, l’ossessivo si incarcera soggettivamente in un modo di essere totalmente alienato in rapporto al bisogno di individuazione, l’appartenenza sociale, pagata al prezzo di una rigida repressione della libertà individuale e dell’opposizione, promuove il ritorno del bisogno di individuazione in forme asociali.

Dopo che l’unico figlio si è arruolato in Marina, Adriana, ancora giovane, trascorrendo tutti i pomeriggi con la suocera, che occupa la sua casa dall’ora di pranzo all’ora di cena, comincia ad avere paura di poter fare ad essa del male con i coltelli da cucina, le forbici e l’uncinetto. Il terrore per questa esplosione di follia criminale è esasperato dalla totale fiducia che la suocera ripone in lei e dalle condizioni fisiche di questa, che la rendono inerme. Adriana non vede altro rimedio che il ricovero in clinica: ma il problema, che essa confesserà i motivi per cui intende ricoverarsi, la libertà le sarà tolta per sempre, e su tutta la famiglia rimarrà l’onta della ‘tara’.

Non ci vuole molto a capire che Adriana, accettando come una consuetudine quotidiana la compagnia della suocera, si è già tolta di fatto la libertà, recludendosi in un ruolo che mortifica le sue aspirazioni sociali di studiare, di frequentare delle persone interessanti e di dedicarsi ad una qualche attività gratificante. Dopo la partenza del figlio, nulla, se non la paura della libertà, giustifica questo regime di vita, tranne la prepotenza della suocera che fa il comodo suo. Il problema è che Adriana, per rispetto e pietà della solitudine di quella, non ha mai messo in discussione la situazione che si è creata. Soffocando il suo bisogno di opposizione, si è esposta al rischio di vederselo restituito come una colpevole fantasia di eliminazione di colei che la opprime.

Nonché evitare pericoli inesistenti – su questo aspetto, più volte enunciato, varrà la pena di tornare…-, le grandi paure pongono in luce, sia pure terroristicamente la necessità di riequilibrare la struttura di esperienza ossessiva che, programmata a perseguire un modello astratto di normalità incentrato su un dover essere mortificante, sacrificale e prestazionale, gravita verso un equilibrio rischioso, il rischio configurandosi come un passaggio dal primo al secondo livello psicopatologico. In un certo qual modo, l’angoscia ossessiva di non farcela più e di crollare coincide come una possibilità reale: ma è la disumanità dell’ipercontrollo, e non la pressione di oscure pulsioni ingovernabili, che attiva questa possibilità. La struttura ossessiva mira ad un’impossibile omeostasi, che, irrigidendola, la fragilizza: nonché minacciare quest’equilibrio, la grandi paure, che veicolano quote di bisogni radicali escluse dalla pratica della vita, mirano a scongiurare i rischi di una destrutturazione.

A questo punto non è possibile sottrarsi ad un problema di ordine filosofico. Se si ammette, infatti, che una progettazione cosciente normativa – e quindi in una qualche misura ragionevole – possa essere interferita dalla mente – intesa come depositaria di bisogni radicali e dall’esperienza concreta del soggetto nel mondo -, ciò significa che la plasticità dei bisogni umani, per quanto elevata non è infinita. Con la loro tensione dialettica, i bisogni definirebbero dunque un ambito di possibili organizzazioni della vita infinitamente ricco ma limitato. La coscienza risulterebbe ancorata inesorabilmente a quest’ambito: la sua funzione consisterebbe nell’amministrare i bisogni in rapporto alle possibilità offerte dall’interazione con l’ambiente. L’amministrare esclude, ovviamente, l’arbitrio assoluto: ma, quanto a questo, la coscienza dipende dai codici mentali veicolati dall’ambiente…

5.

Esaurito l’excursus – meritevole di ulteriori approfondimenti – si può tornare al problema della programmazione intrinseca alla struttura ossessiva. Essa, e l’angoscia che produce, può essere ricondotta ad una situazione rappresentabile metaforicamente. Si immagini un tapis roulant e un soggetto che si affanni a procedere su di esso nel verso opposto rispetto allo scorrimento. Si qualifichino i versi: il verso opposto alla marcia del soggetto ha come obiettivo l’equilibrio, la sicurezza, l’indipendenza, l’appartenenza sociale, il verso di scorrimento del tapis roulant porta, altresì, allo squilibrio, alla precarietà, alla perdita di controllo, all’esclusione sociale. Non si va lontano dal vero identificando in questo congegno la struttura di esperienza ossessiva. Risulta immediatamente chiaro che l’angoscia dell’ossessivo – il vissuto di tensione perpetua, di paura di non farcela più e di stare lì lì per crollare – è direttamente proporzionale alla velocità di scorrimento del tapis roulant. Quell’angoscia appare immediatamente comprensibile se si assume la qualificazione che il soggetto dà della condizione in cui si trova. Diventa, invece, paradossale, non appena ci si rende conto che tale qualificazione è ideologica, nel senso che il verso ‘positivo’ tende ad un modello di normalità astratta, mentre il tapis roulant scorre nella direzione di bisogni radicali sacrificati al fine di perseguire questo modello. E’ chiaro che si tratta di un congegno strutturato dai codici mentali dei quali si è parlato: codici che postulano la mortificazione di bisogni umani a favore di valori culturali che funzionano come un miraggio di normalità. A livello di vissuti e di comportamenti, i codici sono restituiti da processi di significazione soggettiva estremamente diversificati. L’esemplificazione che segue non può essere pertanto che suggestiva.

Uno spartiacque delle esperienze è rappresentato dal fatto che quel miraggio sia perseguito nella realtà, attraverso una pratica della vita orientata a scongiurare una perdita di controllo, ovvero in virtù di un ritiro della realtà, al quale il soggetto assegna il significato di rafforzarsi per essere all'altezza dei valori che si prefigge. Nel primo caso, l'individuazione viene sacrificata in nome dell'integrazione sociale; nel secondo è la socialità ad essere sacrificata in nome della conservazione dell'identità personale. Dato che, comunemente, l'integrazione sociale funziona come indice di normalità, non sorprende che le esperienze che rientrano nel primo gruppo risultino, sia soggettivamente che socialmente, più ingannevoli. In questo caso, infatti, sono normali attività quotidiane a funzionare come trappole superegoiche: lo studio, il lavoro, le attività domestiche, l'allevamento dei figli, la dedizione a valori religiosi o politici, e perfino gli hobbies.

Studio

Primo di sette fratelli, Paolo avverte fin dall’epoca del liceo il dovere di farsi carico, per la sua parte, di responsabilità economiche. Il padre, medico, è anziano, e, da alcuni anni, affetto da ricorrenti crisi depressive che gli impediscono di lavorare. Paolo, che ha una vocazione umanistica, si lascia imporre dai suoi la scelta della facoltà di medicina. Pur dedicando tutto il suo tempo allo studio, nel primo anno non riesce a dare che un solo esame. Le difficoltà di concentrazione dipendono da incessanti fantasie parassitarie di contenuto erotico e aggressivo, che ingombrano la sua mente. Paolo si allea con il dovere contro questo disordine che lo voterebbero ad una vita dispersiva e immorale. Sotto l’incubo del tempo perduto da recuperare, si sottopone ad una feroce disciplina: per controllare le fantasie studia a voce alta e rimbombante e impone alla famiglia un regime rigoroso di silenzio.

Tranne che quest'imposizione, i genitori non colgono nulla di strano nel comportamento di Paolo. Il quale si arrende solo dopo quattro anni praticamente improduttivi, ma in virtù di una convinzione ‘delirante’ che scuote la famiglia: Paolo si è diagnosticato una malattia degenerativa delle cellule cerebrali. Prova di ciò , e dell’inesorabile progressione del male, è l’incapacità di memorizzare anche una sola frase; controprova paradossale è l’affievolirsi delle fantasie…

Lavoro

Profittando di uno ‘scivolo’, Adele conclude a 40 anni la sua carriera di insegnante. E’ autonoma economicamente, ha un marito professionista, due figli adolescenti. Potrebbe dedicarsi ad uno dei tanti interessi – culturali e sociali - che ha sempre sognato di coltivare. Nonostante l’impegno domestico e l’aiuto nello studio ai figli, via via che passa il tempo Adele avverte una crescente inquietudine. Il fantasma dell’inerzia e dell’ozio si anima dentro di lei. Le sembra che tutti – madre, marito, figli - siano alleati nel toglierle ogni libertà. Ma è lei a decidere, impegnando la sua liquidazione e un capitale del marito, di avviare un esercizio commerciale. Quando si ritrova sola nel negozio, esposta al pubblico e incarcerata in una spirale di preoccupazioni che le impediscono di dormire, capisce di aver commesso un errore definitivo. Per non commettere gesti insani, si sblocca a letto e si consegna nelle mani degli psichiatri

Attività domestiche

Vissuta in un collegio fino a 14 anni, e poi sotto il gioco della dittatura paterna fino a 25 anni, Maria Teresa si è sposata per gustare finalmente i vantaggi della libertà. In effetti, per quanto sia costretta dalla necessità a continuare a lavorare come infermiera, ha scelto un ‘buon’ marito, che non esige né la camicia pulita né il pranzo pronto, ed è disposto a collaborare. Ma Maria Teresa fa una malattia se egli non si cambia ogni giorno, non gli permette di cucinare per non dover lavorare il doppio a pulire le pentole e i fornelli. Inoltre, sollecitata dal ricordo della miseria in cui è vissuta, dedica alla casa tutto il tempo libero di cui dispone, poiché desidera che tutto intorno a lei sia lustro, ordinato e profumato. Dopo un anno di matrimonio, il desiderio espresso dal marito di avere un bambino funziona come la goccia che fa traboccare il vaso. Nonché libera, Maria Teresa scopre di essersi schiavizzata nei suoi ruoli – di lavoratrice, moglie e casalinga - al punto tale di non poter assumere più alcun impegno. Non dipsone più alcuna risorsa da investire in un ulteriore vincolo. Comincia a soffrire di violente crisi d’angoscia di soffocamento. Abbandona il lavoro, rifiuta ogni rapporto con il marito, progetta di separarsi. L’ossessione per la casa si esaspera. Maria Teresa pulisce e riordina dalla mattina alla sera; lottando contro le angosce e una serie innumerevole di dolori psicosomatici, terrorizzata dalla duplice paura di "bloccarsi" e di rimanere incinta.

L’allevamento dei figli

A 34 anni, Maria manifesta un nuovo e grave episodio depressivo; sta a letto senza forze, trascura se stessa, la casa e i figli, si vede vecchia, inutile e di peso. Maria lavora e ha 4 figli, di 13, 9, 6 e 3 anni. Ha avuto già tre episodi depressivi, risoltisi ‘magicamente’ in virtù della nascita degli ultimi tre figli: con le gravidanze è rifiorita, e nell’allevare i bambini ha manifestato sempre delle straordinarie ‘virtù’ materne. Prima di cadere in crisi, in conseguenza del fatto che l’ultimo bambino ha cominciato a frequentare un asilo a tempo pieno, Maria ha avvertito nuovamente un intenso desiderio di maternità. Non ha osato parlarne al marito, che, dopo il secondo, già non voleva più saperne. Essa stessa, peraltro, è rimasta sorpresa. Nonché un bisogno di maternità, le è sembrato che si trattasse di una vera e propria ‘mania’: infrenabile per giunta, se non in virtù di una menopausa ben lungi dal venire. Maria è ancora giovane e bella: venuta a Roma a 17 anni dalla Sardegna, è stata letteralmente perseguitata dagli uomini finchè a 20 anni non si è risolta a sposarsi. Il problema è questo: solo con un bambino in braccio, Maria riesce a sentirsi tutelata dalla minaccia ancora viva di essere oggetto del desiderio maschile. Ma i bambini, quando crescono, hanno le loro esigenze: essendo in quattro, poi, e di età diverse, possono benissimo rimanere in casa da soli. Senza la protezione di uno di essi, Maria è paralizzata: non riesce neppure ad andare a fare la spesa.

Valori

A 32 anni, la vita di Paola è compiutamente organizzata secondo la logica del sacrificio agli altri che, promossa dalle condizioni disagiate della famiglia originaria, è stata poi sancita dall’adesione a valori religiosi vissuti con estrema partecipazione. Paola insegna in una scuola elementare e si fa carico dei problemi dei bambini e delle famiglie; partecipa ad una comunità parrocchiale con un ruolo di leader, che la obbliga a funzionare come modello nei confronti di coloro che sono affetti da dubbi e da crisi; è volontaria in varie associazioni assistenziali. Non ha, in breve, la possibilità di pensare a sé e ai suoi bisogni. E' nel periodo più gratificante della sua vita, che comincia a soffrire di crisi claustrofobiche, che investono ogni esposizione sociale: lo stare a scuola, in parrocchia, ecc. Allentare i doveri risulta problematico: quando Paola si ritira in casa, la claustrofobia non diminuisce, si esaspera. Si sente murata viva nello spazio domestico, infinitamente sola e pressata dall’oscura minaccia di uno sconvolgimento mentale. Tutti gli spazi della sua vita – da quelli sociali a quelli domestici - diventano invivibili. L’unico rimedio consiste nel rivolgersi ad una sorella sposata, nel regredire in una totale dipendenza da essa, fino al punto di non poter fare un passo senza averla accanto. L’angoscia è appena tenuta a freno: ma l’identità sociale di Paola, che rifugge ogni contatto con il mondo, si è vanificata di colpo.

Hobby

Dopo essere stato abbandonato dalla moglie, Maurizio si è barricato in casa e delira ad alta voce. E' una persona gentile, raffinata nei modi e manifestamente poco competitiva. L’abbandono della moglie non è stata che l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nell’ambito di lavoro, nonostante il suo impegno, è stato sempre messo da parte per via di difficoltà comunicative. Sposatosi tardi, Maurizio aveva pensato di aver finalmente trovato la sicurezza cui ha sempre aspirato. La causa della crisi coniugale è stato un hobby, cui Maurizio dedica, fin dall'adolescenza, tutto il tempo libero. Egli costruisce modelli di velieri storici di dimensioni piuttosto rilevanti, e fabbrica da sé tutti i pezzi necessari. Ogni modello richiede da 4 a 5 anni di lavoro. Il laboratorio è una stanza chiusa a chiave, ove Maurizio si ritira dal pomeriggio sino alla sera. Solo colà egli trova la pace: costruendo miti di infinita libertà di girare il mondo, ai quali ha sacrificato la vita. La moglie lo ha abbandonato perché non sopportava più di vivere in prigione. Ma – Maurizio lo confessa candidamente – è solo in quella cella di pochi metri quadrati che egli si sente libero e realizzato.

Nel secondo gruppo, la protezione dell’identità personale dal coinvolgimento sociale assume configurazioni diverse, che vanno dal mantenimento di una socialità apparente e formale al ritiro dal mondo. In tutti questi casi, è facile rimanere ingannati dai miti di onnipotenza che i soggetti denunciano direttamente o indirettamente, e vedere in essi l’espressione di un narcisismo infantile che rifiuta il confronto con la realtà. Di fatto, quei miti denunciano l’introiezione di codici ipernormativi, che non lasciano alternative: in altri termini, o si spera di poterli realizzare o si accetta l’esclusione dal mondo.

A 16 anni, frequentando una scuola tecnico-professionale, a contatto con coetanei piuttosto ‘duri’, Stefano prende coscienza della sia radicale diversità rispetto al mondo. Identificato dai compagni come il ‘debole’ da prendere in giro, dopo un periodo di sopportazione, egli manifesta un’aggressività che intimorisce tutti. Purtroppo, non è affatto contento di aver scoperto di potersi difendere: Stefano odia ideologicamente ogni perdita di controllo, e quindi si sente in difficoltà sia quando balbetta e arrossisce, sia quando alza le mani. Si ritira dalla scuola e dal mondo, isolandosi nella sua camera, e dedicandosi a studi di filosofia orientale e a esercizi interiori, che dovrebbero portarlo a conseguire un perfetto autocontrollo sulle emozioni e sui desideri. Trascorre un intero anno chiuso in casa: quando sente di aver raggiunto una certa padronanza di sé, non può più uscire perché scopre di aver sviluppato la ‘fobia’ dell’esposizione alla luce.

A 19 anni, quando ha deciso di lanciarsi nella vita, Enrico viene repentinamente ‘folgorato’ da un ‘esaurimento’ che lo anestetizza e lo rende impotente. Ciononostante, egli continua a vivere normalmente: frequenta gli amici, viaggia, ecc. Mantiene, insomma, il livello di integrazione sociale raggiunto, che appare però cristallizzato sotto forma di abitudini. Non può studiare né lavorare né coltivare dei legami affettivi. Gli psichiatri cui si rivolge, e le cui cure farmacologiche, scrupolosamente seguite, non producono alcun risultato, emettono diagnosi di sindrome processuale. Per due anni, nel corso della psicoterapia, Enrico sostiene di non avere alcun problema: gli si tolgano i sintomi, che lo inibiscono, ed egli dimostrerà quello che vale. Il ‘miracolo’ avviene: i sintomi scompaiono. Ma la conseguenza è che Enrico, stando con gli altri, si sente vulnerabile, imbarazzato e accusa un violento tremito alle mani. La possibilità che queste difficoltà siano recepite da tutti e diano luogo ad un’esclusione (chi se non un malato di mente - pensa - può avere quei sintomi? - lo costringe a ritirarsi in casa, e a chiedere insistentemente dei farmaci per tornare ad essere come prima.

L’esemplificazione potrebbe essere portata avanti ad libitum, ma non aggiungerebbe molto a ciò che appare evidente. La programmazione della struttura ossessiva, che si riverbera in tutto l’universo psicopatologico, si incentra su di un codice normativo superegoico, che attinge la sua forza dall’identificarsi con un onnipresente ‘occhio’ sociale che o impone al soggetto di confermare la propria normalità funzionando come una macchina che eroga prestazioni, e che paga quotidianamente un inestinguibile debito, o gli impone di vergognarsi del suo essere reale, che va occultato nell’attesa di giungere a realizzare un modello fisso e immutabile (adultomorfo). In breve, se si volesse definire in termini esaurienti la specificità della struttura ossessiva occorrerebbe fare riferimento ad una persecuzione normativa, che si realizza in virtù di un codice superegoico che trae la sua forza – e la sua crudeltà- da un ‘occhio’ sociale estremamente vigile. Una situazione, dunque, non radicalmente diversa rispetto alla normalità statistica dovuta al controllo sociale, se non per il fatto che, nelle esperienze di disagio, essa è perpetuamente minacciata da una libertà inquietante, trasgressiva e incoercibile.

Molte difficoltà di ordine teorico e pratico che alimentano sterili dibattiti tra le impostazioni psicologiste e sociologiste, potrebbero essere accantonate se si tenesse conto che la struttura ossessiva, in quanto struttura di esperienza soggettiva, gode di una certa autonomia rispetto al mondo, inteso soprattutto sotto il profilo del sistema di valori; e, in secondo luogo, ch’essa tende ad autoalimentarsi e a riprodurre degli ambienti atti a confermarla.

L’inerzia della struttura fa capo alle insolubilità del conflitto che la anima: conflitto paradossale che vede nella libertà un bisogno irrinunciabile che, nello stesso tempo, diventa sempre, più temibile via via che, assoggettato ad un ipercontrollo, si aliena. La paura di perdere la libertà, che è il leit-motiv della struttura ossessiva e di ogni esperienza di disagio, giunge così a far tutt’uno con la paura di perderla in conseguenza del suo esercizio, e cioè con la paura della libertà. Nonché eccessiva, come appare a livello di fantasie, di vissuti e, talora, di comportamenti, la libertà che incombe minacciosamente nella struttura ossessiva è doppiamente alienata: essa non può essere investita nella relazione con il mondo – riducendosi pertanto ad una forma negativa di inafferrabilità – e, nel caso sia investita, si traduce in una costrizione radicale o del soggetto stesso o di coloro con cui egli entra in rapporto.

Il significato ultimo della libertà alienata, e dell’universo psicopatologico, si può ricavare dalla metafora del tapis roulant, collocando ai suoi estremi i sistemi di valori non dialettici che strutturano i codici mentali che abbiamo esplorato. Affrancando quei valori da ogni residuo psicologismo, è possibile riconoscere che quei valori sono riconducibili ad una categoria univoca non dialettica: la categoria padrone/servo. La tensione strutturale è orientata a mantenere, a qualunque prezzo, un autocontrollo che pone al riparo dal ricadere in una condizione di totale assoggettamento; a tal fine, il soggetto deve sottoporre i suoi bisogni relazionali ad una dittatura spietata. L’alternativa, venendo meno l’autocontrollo, è che la categoria padrone/servo si riproduce a livello relazionale: in pratica, che l’altro sia asservito per mantenere la differenziazione. Da questo punto di vista, giusta la lezione di Foucault (Microfisica del potere), l’universo psicopatologico – posto che noi si sia in grado di decifrare in termini storico-dialettici i vissuti che lo animano – ci restituirebbe il grado di interiorizzazione di un problema – quello del potere dell’uomo sull’uomo – che appare, dunque, nel contesto della nostra società, risolto solo formalmente, giuridicamente, ma del tutto, e drammaticamente, aperto sia a livello socio-economico che culturale e soggettivo. La paura della libertà, che anima la struttura ossessiva, veicolerebbe, pertanto, un paradossale senso di giustizia, nella misura in cui esprimerebbe il rifiuto di assoggettarsi all’altro non meno che il rifiuto di assoggettarlo.

Questo sentimento di giustizia rende ragione anche della fantasia utopica che sottende la struttura ossessiva: fantasia che gravita verso un mondo nel quale la legge, regolando tutti i rapporti umani, estinguerebbe ogni possibile conflittualità, ogni violenza, ogni prevaricazione. Un mondo di automi: agghiacciante e invivibile, da ultimo, ma affrancato dalla logica del padrone e del servo.


Sul Bisogno di Moralità

Identificata la matrice di ogni esperienza di disagio psichico nel conflitto adialettico tra bisogno di individuazione e bisogno di integrazione sociale, è possibile definire le due estreme configurazioni che quel conflitto può assumere: l'una consiste nell'individuarsi e nel mantenere la propria identità in virtù di una completa rinuncia all'investimento relazionale, l'altra nel relazionarsi annullando la propria identità, e quindi ponendosi in una condizione di totale dipendenza e impotenza. Queste due configurazioni non coincidono univocamente con alcuna condizione psicopatologica clinicamente definita: esse sottendono tutto l'universo psicopatologico. Sono i limiti di quest'universo e, per quanto in opposizione, possono coesistere o trasformarsi repentinamente l'una nell'altra. Anzi, più un soggetto insiste a cristallizzare la propria esperienza in una delle due configurazioni, più è esposto al rischio di essere catapultato nell'altra. Il perché è evidente: al di sotto di quelle configurazioni, che esprimono l'alienazione dei bisogni fondamentali, i bisogni, nella loro autenticità, continuano a premere per realizzarsi. Questa dinamica dei bisogni, se non dà luogo a brusche trasformazioni strutturali, può produrre ulteriori alienazioni all'interno della configurazione.

La chiusura al mondo e alle relazioni, infatti, comporta l’affiorare del bisogno di integrazione sociale nella forma del dominio, della strumentalizzazione e del consumo: in una forma, cioè, tale per cui l’altro, di cui si ha bisogno, giunge ad essere nulla più che una ‘cosa’ da usare.

La dipendenza relazionale, altresì, comporta l’affiorare del bisogno di individuazione nella forma dell’attacco, più o meno distruttivo, al legame, alle persone o alle situazioni da cui si dipende e di cui ci si sente schiavi. In questo caso, l’altro è nulla più che un ostacolo da abbattere per conseguire la libertà.

Il carico di pregiudizi e di rifiuti che continua ad incombere sulle esperienze di disagio psichico si può ricondurre alla ‘immoralità’ fenomenologica e comportamentale apparentemente intrinseca al modo di essere e di porsi dei soggetti disagiati.

L’immoralità consiste nel percepire l’altro solo come una cosa che serve – e di cui, dunque, occorre appropriarsi – o di cui ci si deve liberare.

Sia l’uso strumentale dell'altro che la sua connotazione come vincolo di cui liberarsi appartengono a pieno titolo a quadri mentali radicati nella storia della nostra civiltà. Al limite, una riflessione che tenga conto di una magistrale intuizione di Levj-Strauss e del pensiero di Marx potrebbe agevolmente riconoscere in quei codici oggettivanti il motore stesso dello sviluppo della nostra civiltà (e, dunque, anche della sua ‘disumanità’). Senza oggettivazione, e cioè misconoscimento dell’altro come persona, non sarebbe stata possibile l’oppressione dell’uomo né, d’altro canto, la ribellione degli oppressi. Se il prezzo dello sviluppo è l’oppressione, il prezzo del progresso è la rivolta. Il padrone non potrebbe usare lo schiavo se lo riconoscesse simile a sé, né lo schiavo mettere a morte il padrone.

Reperire nelle forme di disagio l’oggettivazione dell’altro, dunque, non sorprende. Ciò che sorprende, invece, è che, nella misura in cui quei codici sono adottati, le persone che vivono un’esperienza di disagio non ne ricavano alcun vantaggio, poiché è proprio in virtù dell’oggettivazione che in essi incombe il senso di colpa, il quale, solitamente, inibisce di agire quell’oggettivazione e, quando anche viene sormontato da una perdita di controllo, trova modo di rafforzarsi ulteriormente. Qual è il senso di questo paradosso, colto fin dall’avvio della ricerca, laddove si sottolineava la presenza in ogni esperienza di disagio psichico di un ipercontrollo superegoico e di fantasie ‘sfrenate’ libidiche e aggressive, amorali non in riferimento ad un sistema di valori storicamente determinato ma in riferimento alla loro qualità oggettivante?

Sembra che siano possibili solo due risposte.

La prima individua in quelle fantasie la sopravvivenza di pulsioni originarie che si sono rifiutate al processo di civilizzazione, ma che vengono tenute a freno – finchè non si traducono in comportamenti – solo dalla paura delle conseguenza sociali che si associano alla loro realizzazione. Da questo punto di vista, le istanze superegoiche segnalerebbero solo la paura dell’esclusione sociale.

La seconda invece incentra la genesi del disagio psichico su di una sensibilità che, inducendo l’individuo a farsi manipolare dalle aspettative degli altri, lo obbliga poi a recuperare la sua libertà individuale o richiudendosi al mondo o attaccando i legami. Uscire, poi, dall’isolamento o dalla schiavitù relazionale riesce impossibile perché l’oggettivazione dell’altro cui il soggetto mira è frustrata dalla stessa sensibilità che lo ha indotto a farsi carico delle aspettative altrui. Da questo punto di vista, le istanze superegoiche parassiterebbero, con valori attinti alla tradizione, un bisogno autentico di moralità, chè in sé e per sé, si identicherebbero con la sensibilità, e cioè – giusta l’intuizione di Rousseau – con il percepire se stesso come essere senziente e con l’identificarsi con l’altro come essere senziente. La sensibilità funzionerebbe, pertanto, come un ‘fattore naturale’ di regolazione nei rapporti umani, e, quindi, per ogni soggetto, come un fattore di autoregolazione. Essa mirerebbe ad accordare i bisogni del soggetto con i bisogni dell’altro. Il bisogno di moralità sarebbe null’altro che l’espressione della sensibilità, e mirerebbe ad assicurare la dialettica – soggettiva ed intersoggettiva – tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione morale.

In quanto realtà naturale, la sensibilità offre alla cultura la possibilità di organizzarsi a misura dei bisogni umani. Sarebbe dunque l’oggettivazione ad aver frustrato sinora questa possibilità: e l’oggettivazione significa in pratica anestesia della sensibilità. Nella misura in cui le esperienze di disagio psichico tentano di adeguarsi ad una cultura oggettivante, esse veicolano i codici culturali che presiedono alla normalizzazione. D’altro canto, nella misura in cui esse rimangono preda delle istanze superegoiche e dei sensi di colpa, rivelano il bisogno di moralità e il suo fondamento ultimo, la sensibilità.

Questa seconda ipotesi, fino a qualche tempo fa, non poteva fondarsi che su di un'antropologia filosofica - le cui matrici vanno dal cristianesimo al marxismo. Oggi, essa sembra confortata da numerosi dati scientifici. Dal nostro punto di vista, è la teoria sull'organizzazione strutturale del cervello di MacLean ad avere il massimo interesse.

Per quanto si tratti di una ripetizione, non si può fare a meno di citare alcuni passi.

"Nei primati si è sviluppato, molto più che in tutti gli animali, un senso sociale che nell’uomo diventa particolarmente visibile nelle sue manifestazioni altruistiche…

L’altruismo non consiste soltanto nella capacità do immedesimarsi in un’altra persona nel senso dell’empatia. Esso implica anche la capacità di vedere emotivamente, con il sentimento, la situazione degli altri".

E altrove: "Presumibilmente noi possediamo una scala nervosa, una scala visionaria che ci permette di salire dalle sensazioni sessuali più elementari ai sentimenti altruistici più elevati".

E’ importante tener conto che queste considerazioni non sono immediatamente filosofiche: MacLean, infatti, le ricava da uno studio strutturale del cervello. Esse, dunque, si impongono per dar senso ad una struttura che sembra predisposta alla socialità e al sentire (1).

Quanto al rapporto tra le due ipotesi, vale la pena di rilevare che mentre la prima esclude la seconda, questa comprende quella. In ultima analisi, è vero che le istanze superegoiche proteggono il soggetto dalla esclusione sociale che seguirebbe all’agire le fantasie oggettivanti. Ma non è meno vero che quelle istanze proteggono anche la sua vulnerabilità in rapporto al mondo (tema sul quale varrà la pena di riflettere), e che, se esse impediscono l’oggettivazione dell’altro, è in virtù della sensibilità. Essendo la sensibilità l’espressione della radicale socialità della natura umana, è ovvio che essa postula l’appartenenza al gruppo sociale e rende terrificante soggettivamente l’esclusione.

Conclusione (possibile) della ricerca

A rileggere il materiale della ricerca, sembra che un’intuizione, che lampeggia in più punti, viene sistematicamente ostacolata nell’assumere la forma di un’ipotesi. Vale la pena rimuovere l’ostacolo, enunciando questa ipotesi, e interrogarsi successivamente sul significato epistemologico dell’impedimento.

L'ipotesi è la seguente. Posto che i bisogni fondamentali siano iscritti nel corredo biologico del cervello umano e funzionino come induttori dello sviluppo della personalità, e posto che la loro alienazione, dovuta all'interazione con l'ambiente e rafforzata dall'adozione di codici normativi astratti, orienta la personalità verso obiettivi non realizzabili, poiché troppo mortificanti per l'uno o per l'altro, l'esperienza psicopatologica è da ricondurre, nella sua dinamica, all'interazione tra bisogni fondamentali e bisogni alienati. Continuando i primi a premere come induttori, i bisogni alienati devono, per contenere la pressione, alienarsi ulteriormente; ma ciò , in ultima analisi, non fa che aumentare la pressione di quelli. Il paradosso cui perveniamo è che se il fattore primo dell'esperienza psicopatologica è da individuare nei bisogni alienati, il fattore ultimo è da individuare nella pressione incessante dei bisogni fondamentali.

Cerco di fare un esempio, perché mi rendo conto che l’ipotesi è poco verosimile. Riferiamoci ad una struttura di esperienza elementare, incentrata sull’agorafobia e sulla claustrofobia. Il vissuto soggettivo è riferito a specifiche situazioni spaziali, ma è sempre agevole ricondurre queste situazioni a categorie che significano due modi di relazione con il mondo: l’una (agorafobia) associa all'interazione sociale la libertà ma nel contempo una vulnerabilità che espone a dei cedimenti e, di conseguenza, al pericolo di ritrovarsi in balia degli altri; l’altra (claustrofobia) associa a qualunque condizione alla quale non ci si possa sottrarre immediatamente una costrizione che può divenire soffocante e indurre un crollo, in conseguenza del quale si giunge ad aver bisogno di aiuto. E’ evidente che i due vissuti sono accomunati dalla paura di una perdita di controllo su di sé, che postula il bisogno di aiuto e pertanto espone a due pericoli: il cadere in balia di qualcuno, o l’essere abbandonati (per es.: morire per strada o rimanere chiusi per sempre).

Se si analizzano questi modi di relazione, in ciascuno di essi vediamo condensati un bisogno fondamentale e un bisogno alienato. Nell’agorafobia il bisogno fondamentale è il bisogno di integrazione sociale, anche nelle sue forme più elementari di esposizione al mondo; il bisogno alienato è una libertà il cui esercizio comporta la perdita – la morte per abbandono o il cadere in balia di qualcuno.

Nella claustrofobia il bisogno fondamentale è il bisogno di individuazione, nella sua forma di ritiro e di protezione rispetto al mondo; il bisogno alienato è la chiusura totale rispetto al mondo, una perdita completa di libertà relazionale e di potere.

E’ chiaro che la struttura di esperienza è sottesa da bisogni alienati, ciascuno dei quali risulta invivibile. Ma altrettanto chiara è la dinamica dei bisogni fondamentali, ciascuno dei quali tende ad esprimersi nella situazione in cui è mortificato. L’angoscia claustrofobia segnala, dunque, la pressione del bisogno di integrazione sociale; l’ angoscia agorafobica, la pressione del bisogno di individuazione. Che cosa è, infine, che mantiene la struttura? E’ proprio la pressione dei bisogni fondamentali che tendono a riequilibrarla ogni qualvolta essa si allontana da un punto di equilibrio identificabile con la realizzazione dialettica.

Ciò che è vero per una struttura elementare, è estensibile ad ogni struttura psicopatologica. La tensione dinamica dei bisogni fondamentali è, di fatto, onnipresente. Forse, ogni sintomo ogni vissuto, ogni comportamento psicopatologico esprime quella tensione che mira a ricomporre il conflitto irriducibile tra i bisogni alienati. Appare opportuno portare qualche esempio.

Uno dei sintomi più banali nel corso delle crisi di angoscia è il soffocamento, restituito da una serie di vissuti che vanno dalla mano che stringe la gola alla difficoltà di portare il respiro fino al fondo. Se si considera che la respirazione rappresenta l’espressione la più immediata della radicale dipendenza di ogni essere umano dall’ambiente, dipendenza che postula l’assoluta penetrabilità e apertura dell’interno rispetto all’esterno, risulta evidente che e la costrizione e la fame d’aria oggettivano una opposizione vissuta come colpa. In breve, se il soggetto vuole rimanere integrato all’ambiente, deve rinunciare ad esercitare una qualunque opposizione. Essendo ciò impossibile, la difesa dell’identità si traduce in una minaccia di morte.

Un qualunque rituale ossessivo, per esempio il dover controllare infinite volte la chiusura della chiavetta del gas, ci restituisce la stessa dinamica. Al contrario dell’ossigeno, al gas è un veleno, peraltro indispensabile anch’esso a vivere. La sua potenziale pericolosità è estinta dal poterne regolare il deflusso e dall’uso che postula la combustione. In quanto proveniente dall’esterno, occorre che sia controllato per non avvelenare l’interno. Il rituale si incentra, dunque, sul rapporto tra mondo esterno e mondo interno, ma comporta solo due possibilità: una chiusura totale che difende l’interno ma azzera possibilità vitali, e un apertura senza controllo che può comportare la morte. La iterazione dei movimenti di apertura e di chiusura allude, dunque, ad un’impossibile integrazione tra i bisogni .

Anche i vissuti deliranti appaiono agevolmente riconducibili alla dinamica dei bisogni. un delirio incentrato sulla paura che gli altri possano leggere nella mente, controllare con mezzi illeciti (microfoni, microspie) e influenzare, allude al dramma di una esposizione totale della propria intimità, senza alcuna difesa. La socialità viene vissuta come persecutoria in quanto la sua realizzazione passa attraverso la violazione di un diritto individuale, la privacy, e cioè il potere di controllare l’esposizione sociale. Riesce comprensibile che il soggetto si ritiri dal mondo, si isoli e cerchi di porsi al riparo dalla sorveglianza. E’ evidente che la struttura dell’esperienza esprime i bisogni alienati nel modo più drammatico. Ma, mentre nella genesi dell’esperienza, è quasi sempre possibile ricostruire circostanze ambientali sfavorevoli alla definizione privata dell’identità, che postula il sentirsi schermati, sul piano dinamico il rapporto causale si inverte: la persecuzione è l’unico modo in cui può esprimersi un bisogno di relazione con il mondo radicalmente rifiutato da un io impietrito.

Sarebbe affascinante una sorta di enciclopedia dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici elaborata da un punto di vista dialettico. Ma ciò che ora ci interessa è la linea del discorso, incentrata sull’ipotesi che sia la dinamica stessa dei bisogni fondamentali a produrre la precarietà delle strutture psicologiche. Nella misura in cui queste, in conseguenza dell’alienazione dei bisogni che le sottende e dei codici normativi astratti che le sovrastrutturano, mirano a conservarsi e a gravitare verso soluzioni irrealizzabili, perché non dialettiche, esse sono instabili.

Possiamo ora comprendere – o almeno tentare di comprendere – l’ostacolo epistemologico che ha impedito a quest'ipotesi, pur implicita nel materiale elaborato, di prendere forma. L’ostacolo è da ricondurre al fatto che essa dissacra un mito psicodinamico e rievoca un mito antipsichiatrico. Il mito psicodinamico impone di vedere nella struttura psicopatologica una condizione di equilibrio minimale e nella sua tendenza a conservarsi l’espressione di una difesa rispetto alla destrutturazione. L’ipotesi elaborata comporta il rovesciamento di questo giudizio, nel senso che la struttura psicopatologica, tributaria di codici mentali astratti, frustra un equilibrio minimale e, con il suo conservarsi, si espone al rischio della destrutturazione. Se la si vuole assumere come una difesa, occorre paragonarla ad una diga che, impedendo il fluire nella realtà dei bisogni, crea il pericolo di una pressione incontenibile. Quanto al mito antipsichiatrico, è agevole omologare l’ipotesi almeno a quella del primo Laing, che vede nella struttura psicopatologica e nella crisi che essa comporta un tentativo spontaneo di andare verso una normalità più autentica rispetto alla pseudonormalità statistica. L'analogia è però superficiale. Laing ha confuso la pressione dei bisogni fondamentali con la configurazione dei bisogni alienati, che non consente a quella di esprimersi che in una forma psicopatologica, destinata a radicalizzarsi piuttosto che a risolversi.

A questo punto non è possibile sottrarsi ad un interrogativo inquietante.

Se l'ipotesi formulata è vera, i bisogni fondamentali giungono a configurarsi come disposizioni genetiche del cervello umano, ovvero programmi destinati a rivelarsi e a fenotipizzarsi nel corso dello sviluppo secondo una gamma di configurazioni estremamente ampia ma, nel contempo, limitata.

Dal punto di vista biologico, è agevole omologare la loro tensione dialettica ad una sorta di meccanismo omeostatico. Ma come è possibile, ammesso ciò , che la coscienza o l’organizzazione della mente possa violare questo meccanismo? In altri termini, se si ammette una sorta di programmazione genetica, come avviene che essa possa essere inattivata e, addirittura, invertita?

Il problema è che i bisogni, e la tensione dialettica che li anima, rappresentano nulla più che i vettori o induttori della costruzione della personalità e del suo rapporto con il mondo. In altri termini, la pressione che essi esercitano, per quanto insopprimibile, non ha alcun valore progettuale. Al di là di segnalare gli squilibri cui li sottopone l’ambiente o la struttura stessa della personalità, essi non hanno alcun potere. Tanto essi sono, nella loro tensione dinamica, insopprimibili, quanto risultano impotenti a promuovere una relazione con il mondo – interno ed esterno- dialettica.

In ultima analisi, i bisogni fondamentali, essendo iscritti nel corredo del cervello umano, rappresentano un potenziale pressoché inesauribile di salute mentale, ma, paradossalmente, è proprio questo loro carattere dinamico a riverberarsi nella coscienza sotto forma delle tre grandi paure e ad indurre una strutturazione psicopatologica sempre più adialettica.

Non è chi non veda in quale misura l’ipotesi formulata, mentre recepisce a pieno e spiega la drammaticità delle esperienza psicopatologiche, può giustificare e promuovere una prassi terapeutica attiva, totalmente rispettosa dei livelli di coscienza soggettivi ma, nel contempo affrancata dalla paura di indurre in un universo dagli equilibri fragili e precari, delle crisi di enorme portata

L'obiettivo di restituire capacità dialettiche di comprensione e di relazione con il mondo a coscienza adialettiche non è facile da perseguire. Ma, sapere di poter disporre come alleati i bisogni fondamentali, che premono per essere riconosciuti nella loro reciproca irrinunciabilità, non è poco. Abbandonando ogni remora, verrebbe da dire che è uno scandalo epistemologico di enorme portata teorica e pratica.


Psicopatologia e dialettica. Riflessioni sulla ricerca

1.

Fin dall’inizio, per definire il tipo di lavoro al quale ci saremmo dedicati, si è parlato di ricerca. Il termine ha un suo fascino discreto, poiché allude immediatamente ad una impresa scientifica. La ricerca è la metodologia in virtù della quale si produce scienza. Le cose, però , si sono complicate subito, poiché, essendo l’oggetto della ricerca rappresentato da fatti umani, si è ammesso onestamente non solo che non si sarebbe potuto prescindere da postulati ideologici, ma addirittura che questi, esplicitati anziché implicati, avrebbero costutuitola cornice di riferimento della ricerca stessa. Progettando una ricerca entro una cornice di riferimento ideologica, non si è proposto alcunché di metodologicamente nuovo. In un libro magistrale nonché limpido e agile ("L’oggettività nelle scienze sociali"), G. Myrdal ha invalidato per sempre la pretesa di qualunque scienza sociale di porsi come neutrale ed obiettiva, proponendo appunto come codice di onestà scientifica l’esplicitazione argomentata delle valutazioni che sottendono ogni ricerca. Qual è dunque il problema?

Il definire i criteri per cui una ricerca, nonostante il quadro di riferimento ideologico entro cui si realizza, possa ritenersi scientifica. Se ciò non fosse possibile, a parità di onestà metodologica, tutte le ricerche dovrebbero assumersi come equivalenti, e la scienza risulterebbe null’altro che una coerente organizzazione dei dati, e cioè un’ideologia capace di comprendere la realtà in questione.

Il problema, riguardo alla scienza il cui oggetto sono fatti umani è inquietante. Tanto più quando esse - com'è nel nostro caso- non si propongono solo una nuova codificazione dell'oggetto, bensÏ mirano a fornire strumenti di intervento; su di esso. Con il comodo alibi dell'esplicitazione dei postulati ideologici, si aprirebbe in tal caso la via ad ogni forma di arbitrio pragmatico. A mio avviso, quel problema è risolto in senso positivo - con la convalida della ricerca come scientifica - quando e solo quando:

a) l’evoluzione interna della ricerca giunge ad interagire sul quadro di riferimento ideologico, facendo affiorare la possibilità di definire, almeno parzialmente, i postulati ideologici in termini scientifici (e cioè, banalmente, verificabili e/o falsificabili):

b) i risultati della ricerca promuovono un intervento sui fatti umani, oggetto della ricerca stessa, tali che il potere reale delle persone su cui si interviene non solo non sia compromesso ma venga aumentato.

In altri termini, una ricerca nell’ambito delle scienze umane e sociali è convalidata – senza, peraltro, che ciò significhi accreditare la verità cui essa perviene – dal potere liberatorio che essa esercita in riferimento ai presupposti ideologici da cui muove e sull’oggetto della ricerca stessa. Essendo il termine liberatorio facilmente equivocabile, appare opportuno sostituirlo con dialettico. Dialettica è, dunque, la ricerca che si umanizza nella misura in cui umanizza l’oggetto. Viceversa, non è scientifica, perché non dialettica, la ricerca che si disumanizza disumanizzando il suo oggetto.

La ricerca psichiatrica è fin troppo fertile di esempi che ricadono in questo secondo ambito. L'ultimo, e tra i più clamorosi, è quello riferito da S. Rose e Coll. ("Il gene e la sua mente"): la ricerca che ha prodotto, negli U.S.A, la definizione scientifica della sindrome disfunzionale cerebrale minima nei bambini, e che ha promosso l'intervento terapeutico su larga scala con farmaci psicostimolanti.

Attualmente, si possono ritenere non scientifiche tutte le ricerche che in ambito psichiatrico si avvalgono di metodi meramente statici – riducendo le persone a sindromi e noi a numeri- e che promuovono interventi terapeutici standardizzati (per es. il Litio in tutte le forme maniaco- depressive).

Definiti i criteri per cui una ricerca, nonostante postulati ideologici esplicitati, possa ritenersi scientifica, ci si impone di applicare tali criteri alla ricerca che abbiamo condotto.

2.

Per quanto riguarda il primo criterio, i presupposti ideologici della ricerca sono stati annunciati nell'Ouverture, laddove è stata articolata l'ipotesi della ricerca:

"L’ipotesi è che il disagio psichico, qualunque forma esso assuma, e quali che siano le determinanti biologiche e sociali, appartiene sempre ad un ambito culturale; ch’esso sia determinato, strutturato e reso non dialettico dal conflitto tra istanza tradizionali e istanze di liberazione, ch’esso sia un dramma soggettivo, intrapsichico, intersoggettivo, i cui livelli strutturali siano riconducibili, sempre, ad agenti storici la cui ideologia qualifica la natura e la cultura in questione e, di conseguenza la tradizione e il cambiamento".

Rileggendola oggi, l’ipotesi appare vincolata ad un determinismo culturale ‘volgare’. Il dramma psicopatologico viene ricondotto ad un conflitto meccanicistico tra repressione culturale e liberà soggettiva. La rozzezza dell’ipotesi si riflette anche nel linguaggio approssimativo e confuso. A distanza di tempo, ciò che di essa si può ritenere convalidata è solo l’intuizione della adialetticità del conflitto che sottende il disagio psichico, e cioè del porsi del conflitto a livello soggettivo in termini tali da configurare una struttura di esperienza chiusa e non evolutiva, e l’intuizione complementare che tale adialetticità non sia l’espressione della natura umana bensì il prodotto delle interazioni di questa con la cultura.

L’ipotesi meccanicistica ha orientato la ricerca nel corso del primo anno, fino al punto di configurarsi come un accorato appello all’integrità della natura umana minacciata da una cultura persecutoria.

L’ostacolo contro cui si è andati ad urtare è quello contro cui va ad urtare ogni determinismo culturale: il mistero di una ribellione soggettiva contro un ordine di cose esistente nel quale l’individuo vive fin dalla nascita, e i cui valori intrometta in virtù della sua plasticità educativa. Le possibili soluzioni di questo mistero non sono che due: o, rimanendo nell’ambito del determinismo culturale, si attribuisce ad alcuni soggetti l’intuizione di possibili modi di esistenza alternativi rispetto alla normalità che ad essi è stata proposta (ma, in tal caso, occorre spiegare da dove essi traggano quell’intuizione e, soprattutto, perché non le realizzano); o, prescindendo dal determinismo culturale, si ammette che la plasticità della natura umana riconosce dei limiti intrinseci alla natura stessa, il cui misconoscimento culturale attiva una ribellione ‘viscerale’ che, se non giunge a configurarsi come presa di coscienza, si traduce in un disordine interiore che si autoalimenta senza trovare sbocco, poiché la sua espressone sociale si associa alla paura dell’esclusione. Giudicata sterile e insostenibile la prima soluzione, ci si è arresi ad accettare la seconda. E’ a questo punto che si è determinata la necessità di trasformare l’ipotesi meccanicistica in un’ipotesi sostanzialmente interattiva tra natura e cultura.

Per quanto riguarda la natura umana, si è ammesso che la sua radicale socialità, che ne definisce la plasticità educativa e la tendenza all’integrazione sociale, e che si riflette, nelle esperienze di disagio, sotto forma di paura dell’esclusione (morte, follia, criminalità), riconosce come limite intrinseco, biologicamente fondato, il bisogno di opposizione, che promuove l’adattamento a sé della cultura, e, in conseguenza di ciò , la definizione dell’identità personale differenziata rispetto al contesto. Il corredo della natura umana è apparso dunque caratterizzato da due bisogni biologicamente radicati: il bisogno di integrazione sociale, che si definisce originariamente come plasticità ed ‘apertura’ alle influenze ambientali, e il bisogno di individuazione, che si definisce originariamente come opposizione e cioè come tendenza selettiva rispetto alle influenze ambientali.

Per quanto biologicamente fondati, la dinamica tra questi bisogni si attiva solo quando si definisce un abbozzo dell’io: occorre ammettere, dunque, almeno nei primi mesi di vita, una condizione indifferenziata, fusionale, minimamente interattiva.

La dinamica tra i bisogni, che caratterizza tutta la fase evolutiva della personalità, è tensionale, non conflittuale. Essa, cioè, in sé e per sé, con fasi alterne di equilibrio-squilibrio-riequilibrio, gravita verso la definizione di un'identità differenziata, stabile e, nel contempo, aperta allo scambio con il mondo. Lo scambio permette al soggetto di acquisire un potere reale sul mondo interno ed esterno, di definire cioè, in maniera sempre più ricca, la sua identità personale e sociale.

In rapporto al corredo della natura umana, la cultura si propone in forme più o meno adeguate ai bisogni umani in conseguenza dell’ordine reale che essa esprime. Dato che, a tutt’oggi, nessuna cultura ha recepito compiutamente la ricchezza dei bisogni umani, adattandosi ad essa, e cioè offrendole l’opportunità di una manifestazione integrale, ogni cultura ha le sue potenzialità di alienare quei bisogni.

L’alienazione dei bisogni, e cioè il grado di distorsione – di disumanizzazione- dei bisogni stessi e il loro configurarsi in termini tali da opporsi in un conflitto irriducibile, si è così configurata come il presupposto strutturale e la chiave genetica di ogni esperienza di disagio. Questa conclusione, molto più profonda rispetto all’ipotesi originaria del conflitto tra istanze di liberazione e istanze tradizionali, avrebbe rischiato di rimanere meramente fenomenologia se non si fossero affrontati tre problemi ad essa strettamente correlati. Tali problemi sono:

a) se sia definibile o meno una predisposizione soggettiva all’alienazione dei bisogni;

b) se i contesti familiari che producono l’alienazione dei bisogni riconoscano o meno una qualche specificità;

c) se l’intensità del conflitto tra i bisogni alienati basti, in sé e per sé, a spiegare il fatto psicopatologico.

Quanto al primo problema, la risposta che è stata fornita individua nella ricchezza del corredo dei bisogni una predisposizione. Più quel corredo è ricco, più il soggetto è esposto ad interagire adattivamente e oppositivamente all’ambiente. Ciò è confermato dal fatto che le carriere ‘premorbose’ dei soggetti che sviluppano un disagio psichico sono caratterizzate da modi di porsi in relazione o eccessivamente adattivi (i figli d’oro..) o eccessivamente disadattivi (i figli difficili..).

In ogni caso sembra che un bisogni venga privilegiato assolutamente rispetto ad un altro: ma l’intensità con cui l’uno si manifesta è proporzionale all’intensità dell’altro che viene occultato. In altri termini, i figli d’oro si oppongono ad un livello impercettibile socialmente ma con estrema vivacità, i figli difficili nascondono un capitale affettivo estremamente ricco.

Definita in questi termini, la predisposizione rinvia all’ambiente e, anzitutto, all’ambiente familiare. Ma, a questo livello, il rischio di ricadere nel determinismo riprende corpo, sia che si ammetta che quella predisposizione in un determinato contesto non possa esitare che in un vicolo cieco psicopatologico, sia che si ammetta che un determinato contesto non può produrre che effetti psicopatologici in uno o in più di uno dei figli.

Questo rischio può essere scongiurato solo tenendo conto che ogni sistema familiare ha un suo grado di alienazione e una sua storia sociale e che è la somma di questi fattori -strutturale e congiunturale - ad incidere su uno o più figli, in rapporto a variabili che sono : la predisposizione, l’identità sessuale, l’ordine di genitura.

L’ipotesi avanzata nel seminario sul sistema familiare, che individuava nella struttura alienata e adialettica del modo di essere e di vedere il mondo della famiglia un fattore specifico – atto a catalogare genericamente i contesti familiari in conservatori e progressisti - , non appare del tutto infondata quanto sommaria. La lettura di molte esperienze la conferma ma la arricchisce.

Ogni sistema familiare interagisce con i bisogni umani rispondendo ad essi direttamente quando sono espressi in famiglia e suggerendo una norma di espressione di quei bisogni in rapporto al mondo extrafamiliare. Il grado di alienazione della famiglia comporta dunque una serie di configurazioni: una configurazione familiare fusionale con inattivatone dell’opposizione e proposizione di un modello sociale omogeneo (famiglia buona/mondo buono); una configurazione familiare fusionale con in attivazione del bisogno di opposizione e proposizione di un modello sociale difensivo (famiglia buona/mondo cattivo); una configurazione familiare autonomizzante con in attivazione dell’opposizione e proposizione di un modello sociale omogeneo (famiglia realistica/mondo da prendere così com’è); una configurazione familiare autonomizzante con in attivazione dell’opposizione e proposizione di un modello sociale aggressivo (famiglia liberalizzante/mondo in cui c’è da competere); ecc.

Molteplici configurazioni ancora potrebbero essere ricavate dalle microstorie riferite. Ma ciò che è importante è l’aver intuito che ogni sistema familiare ha un suo modo di decifrare e di rispondere ai bisogni dei figli riconducibile al grado di alienazione dei bisogni proprio della struttura familiare e alla visione del mondo che da esso deriva.

Con ciò , senza sapere, la ricerca ha operato un salto da un modello dinamico ad un modello dialettico. Si è capito cioè che l’alienazione dei bisogni deriva sia dalle risposte dirette, interpersonali che i bisogni ricevono in famiglia sia dai codici di normalità che la famiglia veicola e che concernono il modo di porsi nel mondo; e che tra questi due livelli – il livello interpersonale e il livello culturale – si danno sia eccessiva concordanza, per cui la famiglia si propone come modello del mondo, sia eccessiva discordanza, per cui la famiglia si pone come altro rispetto al mondo. In tutti i casi, ed è una constatazione sorprendente, il bisogno di opposizione viene inattivato o negativizzato in famiglia. Il grado di in attivazione o di criminalizzazione del bisogno di opposizione appare dunque l’elemento costante delle configurazioni familiari che producono l’alienazione dei bisogni.

L’ultimo problema, quello che verte sull’intensità dell’alienazione dei bisogni come causa ultima del disagio psichico, ha ricevuto, nel corso della ricerca, la risposta più sorprendente.

Si è dovuto infatti ammettere che:

1) l’alienazione dei bisogni di trasforma in fatto psicopatologico quando il soggetto sovrappone ad essa dei codici culturali normativi che ne esasperano la adialetticità; e che l’evoluzione psicopatologica – la possibilità cioè che una struttura si trasformi in un’altra – è dovuta in gran parte all’uso che il soggetto fa di se stesso nel mondo alla luce di quei codici normativi (per esempio, rinunciando a possibili interazioni disalienanti o, viceversa ponendosi in situazioni intollerabili).

Naturalmente, il modo in cui il soggetto si muove nel mondo è imprescindibile dal grado di alienazione del mondo e del modo di porsi di questo nei suoi confronti;

2) il motivo per cui, dato un certo grado di alienazione dei bisogni, il soggetto non si arrende a vivere nei confini da questa segnati e non costruisce un mondo normalmente alienato, è dovuto meno all’intensità dell’alienazione che non al sentire drammaticamente l’esclusione dalla pratica della vita della quota dei bisogni mortificati.

Ciò che ha portato alla conclusione che è la quota dei bisogni esclusi dal mondo in conseguenza dell’alienazione – e quindi morti, segregati, carcerati – che, operando una pressione perpetua per venire alla luce, per essere riconosciuti, disalienati e soddisfatti, a funzionare, in difetto di una presa di coscienza, come ‘pulsioni’ che alimentano l’alienazione e la struttura psicopatologica.

Se si confrontano le conclusioni della ricerca con l’ipotesi di partenza, si può sostenere che esse in parte confermano queste, ma in gran parte introducono concetti e paradigmi assolutamente nuovi: il bisogno di opposizione, l’alienazione soggettiva dei bisogni, l’effetto psicopatologico dei codici mentali normalizzanti, ecc.

Il primo criterio di scientificità sembra dunque confermato.

2.

Quanto al secondo criterio, le considerazioni che si possono fare sono più sintetiche.

Il corpus teorico che si è venuto a definire nel corso della ricerca, esclude qualunque possibilità di strumentalizzazione ideologica dell’intervento terapeutico. La prassi che ne discende non può avere , infatti, che un obiettivo. Restituire al soggetto – sul piano della genesi, della struttura e della dinamica – la coscienza dell’alienazione dei bisogni, dei codici mentali con i quali egli, nell’intento di risolverla, la conferma, e dell’attività con cui, tentando di realizzare i bisogni alienati, egli la trasforma in fatto psicopatologico.

Non c’è, alla luce della teoria, alcuna possibilità di indurre un cambiamento se non in virtù di una presa di coscienza che promuova l’esercizio di una libertà dialettica.

La teoria, e la prassi che la realizza, è dunque liberatoria e dialettica; anzi, liberatoria in quanto dialettica.

Tutta la ricerca appare, dunque, incentrata sui bisogni umani e sulla dialettica dei bisogni. mentre, però , ai bisogni è stata dedicata, in più momenti, una riflessione critica, la cui conclusione più rilevante ha potato ad ammettere che essi facciano parte - in quanto "induttori" - del corredo biologico della natura umana, il termine dialettica è stato utilizzato dandone il significato come ovvio e facente parte del comune bagaglio culturale. Si tratta, con evidenza, di un'ingenuità e di una lacuna, che vale la pena tentare di colmare.

E’ fuori di dubbio che l’uso del termine dialettica da noi fatto è mutuato da Marx, ma, nel contempo, comporta delle modificazioni che lo rendono più appropriato ad un’applicazione teorico-pratica ai problemi del disagio psichico. Dobbiamo dar conto, di questo processo di derivazione.

La riflessione di Marx muove da una critica radicale dell’antropologia borghese, che attribuisce alla natura umana le caratteristiche proprie del citoyen: l’individualismo, l’utilitarismo, la competitività, il proprietarismo, ecc. Marx si chiede come sia possibile che un prodotto storico – il modo di essere borghese- giunga ad apparire come espressione della natura umana e di leggi universali della vita sociale. La risposta sta nel fatto che la realtà sociale, organizzata di fatto dalla logica del capitale, tende ad ipostatizzarsi in virtù di una produzione ideologica che la naturalizza e la universalizza. Lo scarto tra l’infrastruttura – le cose così come stanno- e la sovrastruttura – le cose così come si ritiene giusto e ragionevole che stiano – può ingabbiare la coscienza umana a livello di consenso per un periodo più o meno lungo, ma non all’infinito. Chè, nella misura in cui lo stato di cose esistente mortifica i bisogni umano, esso produce, in coloro che subiscono più gravemente questa mortificazione, l’intuizione ‘viscerale’ della necessità di un cambiamento.

Perché questa intuizione assuma un valenza storica, perché cioè si trasformi in una prassi rivolta al cambiamento, occorre che essa divenga presa di coscienza critica del fatto che l’ordine di cose esistente è il prodotto della storia, e cioè dell’attività umana, e che dunque esso può essere mutato dagli uomini.

La critica della ideologia, che naturalizza e universalizza un prodotto storico, è , dunque, il momento dialettico della presa di coscienza, che inaugura una prassi rivolta al cambiamento.

La dialettica di Marx non è una legge propria dell’evoluzione storica, è una potenzialità della coscienza umana, la cui utilizzazione, attivata dalla mortificazione dei bisogni, comporta l’intuizione ‘viscerale’ prima e la consapevolezza critica poi di ciò che vi è di negativo, di alienato nell’ordine di cose esistente e, di conseguenza, nella determinazione storica dell’essere umano, che promuove una tendenza ad agire per cambiare le circostanze. Umanizzando l’ambiente, l’uomo umanizza se stesso.

Quali che siano le circostanze oggettive, senza presa di coscienza non può avvenire alcun cambiamento strutturale: tutt’al più si dà un’evoluzione della realtà entro i confini dell’ideologia. E’ pur vero, però , che la presa di coscienza, in sé e per sé, non basta a produce un cambiamento. Essa, infatti, deve tradursi in prassi, e cioè nell’adozione di strategie efficaci, che utilizzino le condizioni oggettive per orientarle verso equilibri nuovi che esse, pur contenendoli in potenza, non produrrebbero mai senza una prassi rivolta al cambiamento.

Marx non ha mai scritto esplicitamente che la dialettica è una potenzialità della coscienza umana, ma tutto il suo sistema implica questo: senza quella potenzialità, attivata dall’alienazione, la presa di coscienza non potrebbe avvenire. Ma è importante tenere conto che l’alienazione non produce immediatamente e meccanicamente una presa di coscienza: essa produce, anzitutto, il sentire visceralmente che qualcosa nell’ordine esistente non va . In altre parole, gli uomini, in conseguenza dell’alienazione, soffrono prima di capire quali sono le cause della loro sofferenza.

Nella misura in cui sono assoggettati ad un processo di normalizzazione, il cui fine è produrre l’accettazione delle cose così come stanno, essi, in virtù dello scarto tra i loro bisogni e il potere ad essi assegnato dall’ordine sociale, sviluppano un livello di coscienza confuso, che esprime il rifiuto di quell’ordine ma in forme inefficaci poiché non critiche né dialettiche. Cos’è che promuove il passaggio dalla coscienza confusa alla coscienza dialettica? E’ su questo problema che Marx paga il suo tributo allo storicismo assoluto: egli, infatti, non disponendo né di una teoria compiuta sulla natura umana né di una teoria sulla mente, deve ricavare una risposta solo dai processi storici. Di conseguenza, deve ammettere due circostanze la cui somma attiva la presa di coscienza: l’intensificarsi estremo dell’alienazione sotto forma di immiserimento, e il ricadere dello stesso su di una classe che, vivendo in una condizione di perpetuo contatto, non può non cogliere il nesso tra la propria alienazione e la struttura sociale. E’ fuori di dubbio che quando queste due condizioni si sono verificate, e laddove continuano a verificarsi, ad essa si associa una presa di coscienza. Ma se esse fossero le uniche condizioni atte a promuovere la presa di coscienza, sarebbe facile per un sistema sociale salvaguardarsi. Basterebbe, come di fatto è accaduto nei paesi industrializzati, migliorae il tenore di vita scaricando l’immiserimento su frange sociali impotenti perché emarginate (poveri, disoccupati, pensionati) e distribuire in maniera socialmente più ‘equa’ l’alienazione con gli strumenti del consenso – dalle istituzioni pedagogiche ai mass-media -, per inattivare le potenzialità dialettiche delle coscienze, e praticamente per scomparire dall’orizzonte storico il soggetto rivoluzionario.

Ciò di cui Marx non ha tenuto conto, poiché non poteva tenere conto, è che, se è vero – come egli ha intuito – che la natura umana è predisposta, in virtù della ricchezza dei suoi bisogni, a realizzarsi nel mondo, e dunque postula un mondo ce le offre le medesime opportunità di realizzazione, essa deve essere pure predisposta a valutare la qualità dell’ordine di cose esistente in rapporto ai suoi bisogni, e che questa capacità, che si esprime pienamente nella presa di coscienza dell’alienazione, e, dunque, richiede condizioni storiche per manifestarsi, non può essere un prodotto della storia, bensì una capacità intrinseca alla natura umana. E’ chiaro che alludiamo al bisogno di opposizione, inteso come funzione di un sentimento di giustizia visceralmente – e cioè biologicamente – connotato, che può , date opportune circostanze storiche tradursi in una presa di coscienza.

Non è il caso di allargare il discorso a problemi di portata ben più ampia rispetto all’oggetto del nostro discorso. Il disagio psichico.

Ma è chiaro che, se si ammette che il bisogno di opposizione sia un attributo della natura umana, la concezione della dialettica di Marx può essere applicata anche a fenomeni microstorici quali le esperienze di disagio psichico. Ne deriverebbe infatti che laddove i processi di normalizzazione risultino alienati e mortificanti per i bisogni umani, essi sono destinati ad attivare il bisogno di opposizione, ad indurre, paradossalmente, l'intuizione ëviscerale' del ëdisordine' che essi producono.

Naturalmente, non è poco importante che ciò avvenga privatamente – in un soggetto inserito nel suo contesto familiare – o socialmente – a livello di gruppo, di categoria o di classe. In ambedue i casi, il rifiuto della normalizzazione passa attraverso un livello di coscienza confuso.

Per quanto riguarda le esperienze di disagio, occorre ammettere che la traduzione della coscienza confusa in coscienza dialettica è ostacolata da molteplici fattori:

1) il rapporto affettivo che lega l’individuo alle persone che, nelle fasi evolutive della personalità, veicolano i codici di normalizzazione;

2) l’alienazione dei bisogni che l’individuo subisce nel corso della normalizzazione, e che lo induce a temerli per la configurazione minacciosa che essi assumono (il bisogno di integrazione sociale come dipendenza, vulnerabilità, manipolabilità, il bisogno di individuazione come cattiveria, distruttività, asocialità);

3) l’adozione da parte dell’individuo, di codici mentali normativi che, anziché risolvere l’alienazione dei bisogni, la rendono insolubile, adialettica.

Sono questi i motivi per cui la coscienza confusa giunge ad esprimersi come coscienza psicopatologica, a chiudersi cioè in una struttura psicopatologica adialettica.

Ma la coscienza psicopatologica, come coscienza confusa, contiene potenzialità dialettiche che vanno utilizzate. Se non altro perché, non essendoci essa riuscita a normalizzare, non c’è possibilità che ciò avvenga.

La psicopatologia – ed è quanto intendeva dire – è il registro non dialettico su cui si esprime una protesta viscerale contro l’ordine di cose esistente, che non può risolversi se non in virtù di una presa di coscienza dialettica. Di ciò che vi è di alienato nella struttura del reale e di come, interagendo con essa, la coscienza umana si aliena.

Una nuova scienza del disagio psichico non avrebbe senso se no tenesse conto della struttura normalizzante e alienante del reale, e, nel contempo, delle potenzialità ideologiche – inclini al consenso – e dialettiche – inclini al dissenso – della coscienza umana.

Un’ultima riflessione. Un equivoco ricavabile da questa nota consisterebbe nel deificare nuovamente – purtroppo è già accaduto – i disagiati psichici come soggetto rivoluzionario inconsapevole. L’intento a sottolineare che se il potere dialettico della coscienza è attivato dalla mortificazione dei bisogni, occorre ammettere che esso sia sotteso dal bisogno di opposizione, e cioè da un sentimento viscerale di giustizia.

Questo non azzera affatto le disomogeneità tra i livelli microstorici e macrostorici, né le differenze tra le espressioni viscerali e quelle coscienti di quel bisogno. Significa solo che una scienza dialettica non ha alcuna necessità di cambiare il suo sistema di riferimento – incentrato sul rapporto tra i bisogni umani e strutture della realtà – passando dall’individuale al sociale, dal micro – al macrosistema, dall’inconscio al conscio.

Se questo rappresenti un eccesso di coerenza ideologica o il rispetto di verità che, disarticolate, perdono senso, non spetta a noi dirlo.


La patologia della comunicazione e la dialettica dei bisogni

Nel corso della ricerca, l’elaborazione di una nuova scienza del disagio psichico è avvenuta facendo costantemente riferimento a tre modelli ‘storici’: il modello organicista, il modello psicanalitico ortodosso e il modello sistemico. Le critiche ai due primi livelli sono risultate esaurienti. Il punto debole del modello organicista sta nell’identificare la malattia con i sintomi, da cui discende la pretesa di debellare i sintomi e la convinzione che la guarigione sintomatica coincida con la guarigione della malattia. Assumendo i sintomi un loro autentico significato strutturale, come espressione cioè di un conflitto irriducibile tra bisogni alienati, nel quale confluisce l’esperienza microstorica di un soggetto nel mondo, quella pretesa risulta infondata, sterile – se si fa eccezione per la possibilità, che non va sopravvalutata, di un intervento psicofarmacologico atto ad allentare l’intensità dei sintomi - ; e pericolosa – chè la guarigione, identificata, specie per quanto riguarda gli episodi critici, con la remissione sintomatica, può coincidere (e spesso coincide) con un momento di cronicizzazione.

Quanto al modello psicoanalitico ortodosso, il cui merito è di aver introdotto una concezione dinamica e conflittuale dell’essere umano in rapporto al mondo, il punto debole è stato individuato nell’attribuzione alla natura umana di un corredo istintuale fisso e sostanzialmente asociale, che obbliga la teoria a riconoscere nel conflitto psicopatologico null’altro che lo scontro irriducibile tra pulsioni istintuali e esigenze di civilizzazione, giungendo al paradosso di dover attribuire alle persone più radicalmente fissate agli istinti le istanze morali più elevate e rigide, tali da produrre il sacrificio di sé e, talora, della vita pur di non rinunciare all’onnipotenza istintuale!

Il bilancio critico del modello organicista e di quello psicoanalitico ortodosso si può ritenere concluso.

Quanto al modello sistemico, non v’è dubbio che ad esso, nel corso della ricerca, non sia stato fornita una sufficiente riflessione critica. Appare, pertanto, necessario colmare questa lacuna. Non commetteremo l’errore, intanto, di valutare la teoria sistemica così come essa si pone: come una teoria obiettiva e neutrale, senza alcun residuo ideologico. Sarebbe assurdo non considerare che essa nasce e si afferma come una vigorosa e radicale protesta contro il riduzionismo organicista e, soprattutto, contro il riduzionismo psicoanalitico. La sua genesi, legata alla rivendicazione della comprensibilità dei comportamenti psicotici in rapporto al contesto familiare, e, in senso lato, alla socialità dell’essere umano in quanto soggetto che interagisce sempre con il mondo, è valsa a connotare i suoi paradigmi come rivoluzionari. Contestando radicalmente il concetto di malattia mentale come fatto esclusivamente biologico e/o intrapsichico, la teoria sistemica ha cooptato l’entusiasmo e le aspettative degli operatori di formazione psicosociologica. La soddisfazione ideologica prodotto da una teoria atta a soddisfare esigenze di scientificità, di professionalità – fornendo essa strumenti tecnici rapidamente efficaci – e di mercato – rispondendo globalmente alla domanda dell’utenza, dalle turbe di comportamento infantili alle più gravi psicosi - , ha indotto molti operatori a chiudere gli occhi sulle matrici formali della teoria, sulle opzioni ideologiche sulle quali si fonda la sua coerenza e sulla fragilità epistemologica dei suoi capisaldi teorici.

Ci soffermeremo su questi aspetti, poiché è da un’attenta valutazione critica che si può ricavare un giudizio su ciò che, della rivoluzione sistemica, può essere assimilato da un punto di vista dialettico e su ciò che va ricusato.

La teoria sistemica non mistifica la sua ambizione di rappresentare un primo abbozzo di una scienza dei comportamenti umani, che potrà giungere, un giorno, ad una compiuta formalizzazione logico-matematica. L’ipotesi basilare della teoria è assolutamente esplicita a riguardo:

"…esiste un calcolo (finora privo di interpretazione) della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata".

Il concetto logico-matematico di calcolo è, dunque, fondamentale. Purtroppo, si tratta di un concetto complesso, e che, riferito ai rapporti umani, mediati dalla comunicazione, si presume che gli esseri umani in relazione sistemica comunichino osservando (o violando) delle regole rigorose di cui non sono necessariamente consapevoli, così come usano il linguaggio senza necessariamente conoscerne le regole grammaticali e sintattiche. Si presume, altresì, che, analizzando dall’esterno sequenze comunicative sia possibile identificare quelle regole e fare su di esse delle asserzioni che hanno valore di assiomi o di teoremi. Quale sia il sistema formale, il calcolo da cui discendono le regole non è noto. La teoria sistemica prevede che, un giorno o l’altro, tale sistema possa essere conosciuto. Due obiezioni si possono rivolgere all’applicazione forzata ai rapporti umani del concetto di calcolo.

La prima, ovvia, è che gli uomini non sono macchine: e cioè che, interagendo, non funzionano solo come enti logici, non applicano solo delle regole, bensì esprimono bisogni e perseguono scopi umani. La seconda, più rilevante, è che essi, essendo programmati culturalmente, non possono comunicare che valutativamente, esprimendo cioè valutazioni sotto forma di giudizi, opinioni, credenze. Ora, posto che esista un calcolo universale della comunicazione umana, ciò che incide e caratterizza un concreto sistema comunicativo è il sistema di valori, comuni o no, ai quali fanno riferimento gli individui in relazione. Al limite, si può pensare che quel calcolo non sia stato interpretato perché non è interpretabile, nel senso che esso non è un sistema formale bensì l’insieme di tutti i sistemi di valori o, in altri termini, di tutte le ideologie all’interno delle quali gli esseri umani comunicano. Da ciò deriva il dubbio che l’ipotesi basilare della teoria sistemica possa essere infondata: essa attribuirebbe all’osservanza o alla violazione di regole comunicative, riconducibile ad un sistema formale, ciò che potrebbe essere l’espressione interattiva di bisogni umani e sistemi di valori più o meno conflittuali.

Adottando ormai la celebre metafora della scacchiera, il discorso critico può essere esemplificato. Il gioco degli scacchi corrisponde di fatto ad un calcolo matematico formalizzato, e, dal vivo, esso si esprime sotto forma di sequenze di interazione umana rigidamente governata da un complesso insieme di regole. Ma da dove mai ricaveremo i bisogni competitivi che lo animano e il sistema di valori che lo sottende, che comporta il ‘piacere’ di distruggere simbolicamente l’avversario?

E’ probabile che il concetto di calcolo non sia applicabile ai rapporti interattivi umani poiché, nel suo astratto formalismo, esso ignora la dinamica dei bisogni umani e la storicità dei sistemi interpersonali entro cui quelli si esprimono.

Ma, se si accetta questo assunto , non ha senso attribuire i disturbi della comunicazione a violazioni di regole universali (e, ovviamente, l’assenza di disturbi all’osservanza di queste). Volendo convincersi di ciò , si pensi ad un sistema relazionale – storico o microstorico- incentrato sul rapporto padrone/servo: qual è, dal punto di vista del calcolo, la comunicazione efficace e quale quella disturbata tra il padrone e lo schiavo? Si sottoponga questo rebus ad un qualunque teorico del sistema, e lo si lascerà allibito. Nonostante egli, senza sapere, non faccia altro, nella prassi, che tentare di aiutare persone a metacomunicare su sistemi di tal genere.

In sintesi, la critica dell'ipotesi basilare della teoria sistemica porta a concludere che mentre i disturbi della comunicazione sono un dato di fatto, attribuirne la genesi a violazioni di leggi ëcomunicative' è un'ipotesi ampiamente contestabile.

Ammettere, inoltre, l’esistenza di un calcolo, di un sistema formale logico-matematico universale che presiederebbe alle comunicazioni interpersonali è un’ipotesi meno arbitraria che francamente improponibile.

Quanto alle origini ideologiche della teoria sistemica, e cioè ai postulati assunti come principi primi che non richiedono spiegazione, essi appaiono funzionali alla definizione di un ambito della realtà umana obiettivabile. Prescindiamo dalla critica, peraltro fondata, di ritenere obiettivabili i livelli comunicativi quando è ovvio che ciò coincide solo con il punto di vista di uno o più osservatori partecipi che si arrogano la qualità di essere neutrali; critica che porta direttamente alla conclusione che l’obiettività esprime null’altro che un’oggettivazione, e cioè l’illecita assunzione da parte degli osservatori degli altri come macchine comunicative.

E’ più importante rilevare che il carattere comune di quei postulati è di essere radicalmente antipsicoanalitici. Essi negano (nel senso di ritenere in decidibili) la soggettività r i vissuti, i livelli inconsapevoli dell’esperienza umana, la ricostruzione del passato, la dinamica motivazionale (i bisogni non meno dei desideri), la casualità lineare. La contestazione degli arbitrii tecnici e interpretativi della psicoanalisi non può non essere condivisa. Ma i postulati della teoria sistemica vanno ampiamente al di là del segno poiché non sono solo antipsicologisti ma anche antiumanisti e antistoricismi. La critica della psicoanalisi diventa, di conseguenza, tout-court critica di ogni scienza orientata a comprendere e a spiegare i fatti umani antropologicamente e storicamente, e cioè a partire dal presupposto che gli esseri umani entrano, con il oro corredo di bisogni, in un mondo dato come prodotto storico, integrano la loro coscienza interagendo con le istituzioni sociali, e vivono tentando di adattarsi al mondo e di adattarlo ai propri bisogni. da dove porta l’antiumanesimo e l’antistoricismo mascherati da antipsicologismo? Ad un universo astratto governato da leggi universali della comunicazione in cui macchine interagenti in sistemi funzionano a seconda che rispettino o no quelle leggi. Il paradosso che discende da questa visione del mondo, che si dà come scienza obiettiva, è agghiacciante: se tutti i sistemi micro e macrosociali rispettassero le leggi della comunicazione, tutto filerebbe liscio, non si produrrebbero più conflitti, tensioni, disagio, infelicità. Come l’antiumanesimo porta a negare i bisogni umani, l’antistoricismo porta a negare che la realtà sia strutturata. Di conseguenza, il mondo dato, così com’è, posto che lo si sappia utilizzare comunicativamente, è il migliore dei mondi possibili.

Francamente arrivare a tanto per non cadere nel ricatto dell’ideologia psicoanalitica appare un eccesso meritevole di miglior causa.

Ci resta, dunque, da affrontare il problema dell’assetto interno della teoria sistemica. Si tratta di una dura impresa, dato che il fascino accattivante della mitologia sistemica: le interazioni simmetriche e complementari, i paradossi comunicativi e il doppio legame. Il nostro intento è di dimostrare che l’obiettività della teoria sistemica consiste nel deificare come problema concreto e reale, cioè come patologia della comunicazione, ciò che è la conseguenza della condizione astratta e alienata della coscienza. E’ superfluo aggiungere che ciò che si contesta non è la realtà dei fenomeni rilevati dalla teoria sistemica – le interazioni simmetriche e complementari, i paradossi, i doppi legami - ,bensì l’interpretazione che viene fornita, che dà ad essi un significato causale.

Una considerazione d’ordine generale, che sottenderà il discorso critico, è la seguente.

I disturbi della comunicazione vengono rilevati, ovviamente, entro sistemi dati, in funzione: un rapporto di coppia, un insieme familiare, una classe scolastica, un’istituzione lavorativa, ecc. Se si prescinde dall’interesse esclusivo per come funziona il sistema, e si tiene conto che, per funzionare, esso deve essere dato, e cioè prodursi, non si fa fatica a capire che l’unico sistema dato in assoluto è il mondo, e che, nell’ambito di questo sistema sociale totale, si danno sottoinsiemi di due generi: gli uni come istituzioni delle quali l’individuo viene a far parte – il figlio della famiglia, l’alunno della scuola, il lavoratore dell’ambiente di lavoro, ecc. -; gli altri come forme della socialità più o meno codificata che gli individui realizzano ex nihilo (amicizie, amori, matrimoni, ecc.). ciò significa che un qualunque sistema dato in funzione non è né può mai essere solo un sistema interpersonale, postulando esso istituzioni e/o forme sociali.

Il modo in cui funziona un sistema va ricondotto pertanto alle persone che in esso interagiscono non meno che alle istituzioni e/o forme sociali che esso realizza e alla coscienza che le persone hanno dello svolgersi delle loro esperienze dentro quelle istituzioni e quelle forme. Naturalmente questo aspetto diventa insignificante se si assume un punto di vista banalmente normativo: se si sostiene, cioè, che essendo date per tutti le stesse istituzioni e forme sociali, il cattivo funzionamento di alcuni sistemi non può essere ricondotto che alla violazione di regole comunicative.

Se si accetta questo punto di vista, ritenendolo troppo riduttivo, il problema della logica (o dell’ideologia) delle istituzioni e delle forme sociali, del oro essere adeguate o meno ai bisogni umani, e, soprattutto, delle ragioni per cui le persone, pur soffrendo, persistono a rimanere in esse, balza in primo piano. Le interazioni patologiche simmetriche e complementari offrono esempi clamorosi delle costrizioni esercitate dalle istituzioni e forme sociali per un verso e per un altro dai vincoli affettivi. In riferimento ai sistemi interpersonali nei quali più frequentemente quelle interazioni si realizzano o assumono rilievo patologico – i rapporti di coppia e i rapporti genitori-figli - , mentre la teoria sistemica si domanda solo come e a che scopo avviene quello che avviene, le domande da porsi sono ben altre: intanto il perché, in secondo luogo entro quale logica dei rapporti umani si realizzano quelle interazioni, in terzo luogo perché, anche quando si danno possibilità oggettive, le persone non escono dai sistemi patologici. Il perché motivazionale rimane imperscrutabile finché ci si affida ai punti di vista delle persone in relazione, che, di solito, non va al di là della casualità lineare. Se si adotta la teoria dei bisogni umani, quel perché riconosce sempre una risposta: è la quota dei bisogni alienati a conflittualizzare i rapporti.

L’irresolubilità del conflitto appare poi riconducibile ad una logica di potere – incentrata sulla categoria padrone /servo - , di cui le persone non sono consapevoli, ma la cui dinamica impedisce loro di accettare una qualunque configurazione relazionale entro quella categoria. Quanto alla condanna che costringe le persone a rimanere nel loro chiuso inferno sistemico, essa rappresenta la somma di più fattori (non necessariamente tutti rappresentati): in primo luogo, la potenza delle valenze affettive autentiche, che si esprimono nell’identificazione con l’altro in quanto persona (la logica di potere, sovrapponendosi a queste valenze, determina il paradosso per cui i rapporti più intensi possono diventare i più orribili…); in secondo luogo, il rispetto cieco dell’ideologia familista, che impone di soddisfare in un ambito privato la ricchezza dei bisogni di relazione, in terzo luogo, la percezione persecutoria del mondo extrafamiliare – espressione complementare dell’ideologia familista - , che impedisce di esporre la propria vulnerabilità o di consentire all’altro che si esponga.

La logica di potere, l’ideologia familista e la percezione alienata del mondo extrasistemico sono elementi necessari e sufficienti a spiegare le interazioni patologiche. Tutti e tre questi elementi esprimono l’alienazione dei bisogni umani e la visione del mondo – interiore, microsociale e macrosociale- che su di essa si edifica. I disturbi della comunicazione non sono che la conseguenza di quell’alienazione, che chiude le persone entro spazi sistemici nei quali si scatena una guerra che attesta solo la loro impotenza e la loro mal riposta volontà di affrancarsene. Una banale esemplificazione può permettere di comprendere meglio lo scarto tra la teoria sistemica e la teoria dialettica.

Si dia un rapporto di coppia caratterizzato da una distribuzione di ruoli la più tradizionale: l’uomo lavora, mantiene la famiglia, accampa i suoi diritti di libertà e di potere, mascherando sotto di essi la dipendenza (per es. l’incapacità di far da mangiare o di stirare un vestito); la donna vive il suo ruolo subordinato di schiava domestica con gratitudine poiché si sente affrancata dal pericolo di un contatto diretto con il mondo esterno e si sente protetta dal marito. Questo rapporto è l’incarnazione di una forma sociale il cui significato storico sfugge del tutto ai soggetti, che la realizzano e comunicano in maniera da ratificarla. Questo sistema funziona (con beneficio di inventario).

Ma dove trova il suo equilibrio: nel rapporto comunicativo tra le persone o nella forma sociale chiusa che essi realizzano senza alcuna consapevolezza dell’alienazione che essa comporta?

Si dia lo stesso sistema qualche anno dopo.

La donna è diventata ëistericà. Si arrabbia per un nonnulla, è costantemente aggressiva, trascura le sue incombenze domestiche, ha una serie di disturbi psicosomatici. Il marito è angosciato e depresso perché la famiglia va a rotoli, rimprovera la moglie, dice che non se ne può più, ma, data la sua dipendenza, non riesce a proporle altro che di tornare ad essere come prima. Questo sistema non funziona perché i coniugi adottano una casualità lineare: ciascuno ritiene che sia colpa dell'altro se le cose vanno male. Dov'è la patologia in questo caso: nel venir meno di una comunicazione efficace, o nell'intuizione viscerale di una forma sociale chiusa e mortificata in rapporto ai bisogni umani?

In breve, la disfunzione di questo sistema depone per una patologia della comunicazione o per una patologia della forma sociale? E l’intervento adeguato consiste nell’aiutare le persone a metacomunicare o a prendere coscienza dell’alienazione in cui vivono: l’uomo nel suo patetico ruolo di tiranno dipendente, la donna nell’infelice ruolo di schiava terrorizzata dalla ribellione e dalla fuga?

Questa esemplificazione è un banale stereotipo. Ma essa vale a capire che il ricorso alla casualità lineare non esprime un disturbo comunicativo – che di fatto esso realizza – quanto piuttosto livelli di coscienza incapaci di criticare le forme sociali e i valori entro cui le persone si sono alienate, pensando casomai di realizzarsi. In breve, è il perché si debba vivere nella schiavitù di quelle forme e di quei valori, che difetta, non la capacità di comunicare sulla comunicazione.

In altri termini, la determinazione dei disagi attribuiti ad un difetto di casualità circolare è estrinseca alla comunicazione e alla metacomunicazione: è nelle forme sociali e nei valori che un sistema realizza, e la cui conseguenza è un’ulteriore alienazione dei bisogni. ciò non significa negare l’importanza della metacomunicazione, bensì assumerla come il primo momento di una presa di coscienza che deve procedere al di là delle trappole comunicative e pervenire alle trappole dell’istituzione o della forma sociale e al suo carattere alienante in rapporto ai bisogni umani.

La tipologia dei rapporti – simmetrici e complementari – attribuita dalla teoria sistemica all’adozione di una casualità lineare è una tipologia reale ma cieca. Essa descrive gli effetti perversi di una logica di potere che refluisce e inquina gli spazi interpersonali, ma non è in grado né di coglierla – se non banalizzandola nei termini dello star sopra e dello star sotto – né di coglierne il significato. Alienate nei loro bisogni e nel rapporto con il mondo, le persone cercano di riscattare la loro impotenza laddove sembra possibile. Pateticamente, laddove gli affetti e le paure di affrontare il mondo da soli creano, paradossalmente, le condizioni di un gioco senza fine.

Dopo queste riflessioni, risulta più agevole affrontare la mitologia dei paradossi e del doppio legame. Su cosa si fonda questa mitologia? Essenzialmente sul sopravvalutare la dimensione logica del rapporto tra esseri umani, minimizzando e le valenze effettive e i livelli di potere, e cioè le condizioni reali che strutturano il rapporto e ne connotano il grado di staticità/evolutività intrinseca e di apertura/chiusura rispetto al mondo.

E, in secondo luogo, nel trascurare la matrice ideologica contraddittoria, e cioè adialettica dei messaggi che muovono dagli emittenti, ricavando dai loro effetti di paralisi pragmatica che non si tratta di contraddizioni logiche, risolubili in virtù di una scelta, bensì di paradossi, e cioè di messaggi che rendono impossibile o mirano ad impedire una scelta.

Valorizzando in maniera esasperata, e cioè reificando gli aspetti logici della comunicazione interpersonale con l'intento di minimizzare le forme sociali entro cui la comunicazione si realizza e lo scarto tra i livelli personali e i livelli metapersonali (ideologici) nei rapporti umani, la teoria sistemica giunge a produrre, senza sapere, un paradosso scientifico in cui rimane intrappolata. Mentre, infatti, essa intende dimostrare che i soggetti disturbati adottano l'unica modalità di comunicazione possibile nel contesto con cui interagiscono, se è vero che sono i paradossi con le loro valenze logiche a produrre la paralisi pragmatica, i soggetti disturbato risultano affetti non da una malattia (biologica e/o intrapsichica) ma da una tragica stupidità. A differenza dei paradossi logici-matematici e delle antinomie semantiche, che sono tali da mettere a dura prova le menti più attrezzate filosoficamente, i paradossi pragmatici sono, sul piano logico, di una banalità sconcertante. La loro ëefficacià nel produrre paralisi pragmatica non è ricavabile su un piano meramente logico: le ingiunzioni paradossali hanno effetto in virtù del potere degli emittenti, le predizioni paradossali in virtù del prestigio e della fiducia di cui essi godono.

E’, dunque, la subordinazione reale – affettiva, intellettuale, sociale – dei riceventi a rendere efficaci i paradossi. Ma, se noi ammettiamo che la plasticità dei subordinati non possa mai essere totale, in virtù dell’esistenza del bisogno di opposizione, non si può credere alle apparenze. La paralisi pragmatica, pertanto, può essere interpretata non passivamente bensì come l’espressione di un bisogno di opposizione che non può manifestarsi diversamente perché è imbrigliato per un verso dalle valenze affettive che legano il ricevente all’emittente e per un altro alla paura di aprirsi al mondo legata all’esperienza sistemica e ai codici mentali ricavati da essa.

A questa stessa conclusione si può giungere per un'altra via. I messaggi paradossali sono assunti dalla teoria sistemica semplicemente come violazioni di leggi universali della comunicazione. Rimane da capire perché, in alcuni sistemi familiari, i genitori violino quelle leggi. La risposta della teoria sistemica è che questi genitori hanno bisogno della malattia dei figli. Si tratta di una verità parziale che risulta incomprensibile se non si tiene conto che ciò dipende dal grado di alienazione rispetto al mondo del sistema familiare – espresso di solito dal conflitto tra integrazione sociale e opposizione - , che, pretendendo di risolversi nei figli e per i figli, si amplifica nella struttura della loro personalità.

Nei sistemi familiari patogeni, più ma non diversamente da tutti gli altri, i genitori oggettivano nel rapporto con i figli la struttura alienata dei loro bisogni e de loro rapporto con il mondo: in breve, nonostante l'autorità che esercitano - le ingiunzioni - e la fiducia cieca che esigono -l e predizioni - , essi non sanno quello che vogliono dai figli perché non sanno quello che vogliono che i figli siano in rapporto al mondo e, da ultimo, sanno come si deve essere ma non come si possa (o si potrebbe in un mondo non alienato).

Il conflitto tra sistema familiare e mondo reale si esprime, pertanto, nella proposizione di modelli di normalità che sono astratti, mortificanti e/o irrealizzabili.

Ridurre tutto ciò ad un ‘gioco’ logico e comunicativo non può avere che un significato. Confinare la patologia mentale entro sistemi locali ‘disfunzionali’, dissociare la parte – il microsistema- dal tutti – la struttura sociostorica -.

Il paradosso ultimo della teoria sistemica applicata ai problemi psichiatrici è che le sue ipotesi intanto risultano vere in quanto frammentano la realtà sociale in microsistemi osservanti e microsistemi inosservanti regole universali: in altri termini, essa sistematizza l’universo dei fatti umani nella misura in cui nega nessi sistemici, strutturali e dialettici tra realtà umana e mondo.

Esaurita la critica della matrice formale, dei postulati ideologici e dei teoremi sistemici, rimane l’obbligo di differenziare una critica dialettica da una critica visceralmente ideologica, che ha in odio ogni tentativo di teorizzazione e di pratica ‘tecnica’ in ambito psichiatrico. L’approccio sistemico, e nel suo proporsi come paradigma rivoluzionario rispetto al riduzionismo organicista e psicologista e nella sua capacità di cogliere dinamiche )e non semplicemente interazioni) chiuse entro spazi privati di relazione, non può essere ignorato, quale che sia la banalità di una pratica stereotipata incline, il più spesso, ad utilizzare formule tecniche meccanicistiche.

Cosa, dunque, dell’approccio sistemico può essere recuperato e valorizzato entro il quadro di riferimento di una prassi terapeutica dialettica?

I fatti, e cioè l’estenuarsi delle persone entro sistemi a cercare un’impossibile disalienazione dei loro bisogni percorrendo vicoli ciechi e circoli viziosi ideologici, restituiti immediatamente dai modi in cui comunicano. In altri termini, i disturbi della comunicazione, nella misura in cui sono resi comprensibili alle persone che li realizzano, possono rappresentare il primo momento di una presa di coscienza dell’alienazione dei bisogni umani e delle conseguenze micro e macrosociali che da essa discendono. Deificando questo primo momento come il momento terapeutico, non si possono ottenere che effetti parziali e transitori, per quanto critici: metacomunicando, le tensioni relazionali allentano, ma il loro significato strutturale rimane tale e quale. In un certo senso, si può dire che le prescrizioni sistemiche – rivolte ai sintomi – funzionano, mutatis mutandis, come le prescrizioni farmacologhe: risolvono, talora, le crisi, ma sono assolutamente impotenti in rapporto alle strutture – soggettive, microsistemiche e ideologiche – che le promuovono.

Il rifiuto della tecnica – rivolta stereotipicamente alla ricerca di facili soluzioni di problemi umani – e il rifiuto del carattere oggettivante della teoria – che vuole vedere solo ciò che essa può obiettivare - , non significa, in conclusione, ricusare il paradigma rivoluzionario sistemico, che verte sulla radicale socialità dell’uomo e dunque sulla comprensibilità del suo modo di essere e di porsi in rapporto al mondo. Significa, altresì, ricondurre quel paradigma alla sua autentica matrice antropologica e storica, che non è la teoria dell’informazione.


Vie nuove in psichiatria. Rassegna critica della letteratura internazionale.

E’ alquanto sconfortante constatare che, dopo anni di contestazione antipsichiatrica, la neopsichiatria sta rapidamente recuperando terreno sul piano del ‘prestigio’ scientifico e agli occhi dell’opinione pubblica. Ciò è dovuto più a fattori estrinseci – e cioè alla domanda che muove dal potere dominante e dal sociale, e si articola nuovamente sotto forma di aspettativa di una soluzione radicale e ‘magica’ del problema del disagio psichico -- che non a fattori intrinseci – e cioè alla validità esplicativa dei paradigmi scientifici neopsichiatrici.

Purtroppo, a livello di coscienza sociale, non sussiste alcun atteggiamento critico riguardo a questo. Né si vede la possibilità che un atteggiamento critico possa prodursi, visto che i mass-media continuano a veicolare un flusso di informazioni che danno per scontato ciò che non è : l’essere ormai vicina la neopsichiatria a clamorose scoperte sulla genesi del disagio psichico, destinate a risolvere una confusione – attestata dal numero delle teorie e delle pratiche organiciste, psicologiste e sociologiste – durata da troppo.

In gran parte si tratta di un battage pubblicitario, le cui motivazioni sono squallide persino se messe a confronto con le motivazioni della psichiatria tradizionale. Questa si arroga, infatti, il compito di difendere la società dalla pericolosità dei malati di mente. Oggi, il progetto, che assimila quello tradizionale, è divenuto più ambizioso.

Laddove non si dà pericolosità sociale di fatto, c’è una pericolosità potenziale; laddove non si dà neppure questa, c’è una pericolosità soggettiva, e cioè una condizione di sofferenza che può mettere l’individuo fuori del circuito della vita; infine, laddove non c’è pericolosità soggettiva, ci può essere pericolosità genetica, e cioè la possibilità di trasmettere ai figli un potenziale che li destinerà ad ammalare.

Controllo, cura e prevenzione appaiono gli elementi fondamentali di un progetto che mira ad assoggettare al potere neopsichiatrico una quota della popolazione valutabile intorno al 30%.

Il significato meramente speculativo di questo progetto, che si ammanta di valenze umanitaristiche, ha un’evidenza tale che non va dimostrata. Se si tiene conto che il progetto coopta anche gli interventi psicoterapici come trattamenti di sostegno, il fronte corporativo degli interessi appare smisurato.

Come far fronte a questo rinascente imperialismo neopsichiatrico è un problema politico, ideologico e culturale.

Ciò che a noi, ora, interessa soni i presupposti scientifici che accreditano il progetto, i paradigmi neopsichiatrici, al fine e di confrontarli con i paradigmi tradizionali e di analizzarne le valenze ideologiche.

Il materiale documentario è costituito dalla letteratura neopsichiatrica pubblicata nel 1985 su riviste internazionali.

Il dato in assoluto più rilevante sembra potersi ricondurre alla tendenza a confermare l’incidenza dei fattori genetici e/o biologici in tutte le manifestazioni di disagio psichico, dalle schizofrenie alle nevrosi. Questa tendenza appare però mascherata ideologicamente: per quanto riguarda le psicosi, dal tentativo di tenere conto della vita di relazione, della socialità inserendo gli eventi biografici in un modello multifattoriale o circolare; per quanto riguarda le nevrosi, viceversa, dal tentativo di invalidare i fattori psicologici e sociali a favore di quelli organici. Confideremo anzitutto questo secondo aspetto, francamente inquietante.

C’è intanto un dato nosografico significativo.

Il campo delle nevrosi sembra essersi ridotto alle forme strutturate: alle sindromi isteriche e a quelle fobico-ossessive. L’ipocondria viene ascritta ora nell’una ora nell’altra e seconda che essa si correli a dei sintomi mimetici di malattie o si configuri come paura immotivata.

Le forme nevrotiche non strutturate – la nevrosi ansiosa e quella depressiva – non vengono più riconosciute. Ansia e depressone non sono più sindromi, bensì sintomi, i quali, benché possano esprimersi nevroticamente, alludono a disfunzioni dei centri emozionali, a disfunzioni, dunque, endogene. Rientrano insomma nell'ambito dei disturbi, un termine eufemistico che fa rifermento alla loro pertinenza biologica. Ciò significa che, benché i sintomi possano riconoscere come cause attivanti le esperienze soggettive e sociali e, quindi, possano riconoscere una comprensibilità psicologica, le loro connotazioni psicopatologiche sono dovute a squilibri dei centri emozionali preesistenti sotto forma di predisposizione. Ciò è confermato dal fatto che gli articoli sull’ansia e la depressione vengono quasi costantemente rubricati come inerenti le psicosi.

C’è tuttavia, a riguardo, una distinzione piuttosto importante da fare. Nella letteratura, infatti, appare evidente un conflitto non tra scuole bensì tra contesti socioculturali. Psichiatri statunitensi, inglesi e tedeschi sembrano inclini a negare una rigida distinzione tra forme biologiche (endogene) e forme psicosociali (nevrotiche), e a proporre un modello multifattoriale o combinatorio (per cui non esisterebbero forme nevrotiche pure), mentre psichiatri scandinavi e, in minor misura, italiani (quei pochi che pubblicano su riviste internazionali) sembrano orientati a mantenere distinte le forme nevrotiche.

Quanto alle forme strutturate, i dati più importanti sono due: la crescita esponenziale delle sindromi fobico-ossessive e il sostanziale insuccesso a lungo termine degli interventi terapeutici sia con i farmaci che con tecniche comportamentiste e relazionali; tali interventi sembrano in grado di conseguire effetti di remissione sintomatica solo transitori.

La psicoanalisi, la cui durata tende a configurarsi come interminabile, non va al di là di un maggiore adattamento soggettivo al disagio. Essa sembra ormai preda di un complesso di superiorità, smentito dal rapporto tra la profondità del ‘sapere’ cui perviene e i risultati modesti che ne derivano.

L’inefficacia a lungo termine degli interventi psicoterapeutici sembra aver prodotto tre conseguenze: la convalida dell’utilità delle psicoterapie brevi, il più spesso associate a trattamenti farmacologici che conseguono (economicamente) effetti limitati ma tangibili; la tendenza da parte della psicoanalisi a giustificare i suoi insuccessi drammatizzando la genesi delle nevrosi e riconducendola a fasi arcaiche dello sviluppo e ammettendo una qualche predisposizione biologica; il rilancio, da parte della neopsichiatria, di ipotesi organiciste.

In particolare per quanto riguarda le sindromi fobico-ossessive, il numero degli articoli – specie statunitensi - che insistono su fattori biologici sembra in continuo aumento. Non meno numerosi sono gli articoli che accreditano l’ipotesi organicista in maniera indiretta dimostrando ‘sperimentalmente’ l’infondatezza delle ipotesi psicosociologiche in rapporto alle circostanze di vita remote e attuali.

E’ fuori di dubbio, dunque, che la teoria multifattoriale, che implica una vulnerabilità geneticamente determinata, stia invadendo, sia pure con una strategia strisciante, l’ambito dei disturbi ritenuti tradizionalmente psicosociali. Rimandando per ora il discorso critico sul concetto di vulnerabilità, non ci si può esimere da una considerazione inerente le forme nevrotiche.

Non esistono statistiche sull’epidemiologia di queste forme; ma, scorrendo la letteratura, si rimane colpiti dalla prevalenza degli articoli dedicati all’agorafobia.

Viene da pensare che la paura di esporsi da soli al mondo, di affrontare situazioni relazionali anonime, senza il sostegno di una figura familiare, cominci a configurarsi come un vissuto prevalentemente nevrotico. Se si tiene conto che questa paura investe in particolare adolescenti e donne, senza peraltro risparmiare uomini adulti, l’ipotesi biologica sembra una mistificazione clamorosa. Non meno mistificata è di conseguenza l’esclusione sperimentale di fattori psicosociali traumatici remoti o attuali.

Se la paura ha le sue radici nell’esperienza microstorica, è evidente infatti che essa parla di un mondo strutturato in maniera tale da terrorizzare coloro che non sentono di avere un adeguato potere su di esso. Di certo, quella paura esprime una debolezza: ma non potrebbe essere solo un’umana debolezza che si confronta con un mondo retto dalla legge del più forte?

Tenendo conto che le ricerche in questione si svolgono presso centri universitari statunitensi di grandi città, viene da chiedersi se non ci sia un rapporto tra l’agorafobia diurna dei singoli pazienti e l’agorafobia sociale e notturna dei cittadini che si rinchiudono tra le pareti domestiche e non osano circolare per la città.

Possiamo ora dedicarci ai lavori sulle psicosi, cominciando dalla psicosi maniaco-depressiva. Un primo dato che colpisce è un ‘rinnovamento’ nosografico: la classica forma sindrome bipolare, con crisi alternativamente depressive e di eccitamento, anche se non rinnegata, viene citata molto di rado. Si preferisce parlare di depressione e mania come di due entità solo occasionalmente correlate. Il motivo di questo cambiamento risulta comprensibile all’esame della letteratura.

Il numero dei lavori dedicati alla depressione risulta infatti esorbitante. Si può pensare che ciò , in gran parte, dipenda dall’aver assimilato praticamente tutte le depressioni ad un modello multifattoriale, che postula in ogni caso una predisposizione genetica. Dato che le depressioni, almeno episodicamente, investono il 20% della popolazione adulta, mentre gli eccitamenti maniacali riguardano solo lo 0,5%, la letteratura rispecchierebbe null’altro che questo squilibrio statistico. Ma non si può escludere, di fatto, che sia avvenuto un qualche cambiamento nella realtà: più precisamente, che le dinamiche che esitano nell’eccitamento siano nel contempo più contenute dalla paura delle conseguenze sociali, virando in depressione, e, per ciò stesso, più drammatiche quando si manifestano.

Questo sembra accreditato da quanto è riportato nella letteratura: gli stati di eccitamento maniacale ‘puro’ tendono a diventare sempre più rari, e sempre più spesso si associano a sintomi deliranti. In altri termini, quando si esprimono sembrano postulare un più elevato grado di destrutturazione rispetto alle forme pure tradizionali.

Forse, basterebbe un minimo di riflessione su questi dati ad invalidare la rigidità del modello biologico, e a correlare la psicopatologia con la storia, ma, nonché riflettere, la neopsichiatria sembra invasata dai suoi pregiudizi ideologici.

Numerose ricerche sono dedicate al rapporto tra episodi distimici ed eventi biografici. La conclusione univoca è che il rapporto o non è significativo o addirittura è invertito rispetto alle ipotesi psicosociologiche, nel senso che è lo stato mentale alterato a determinare eventi che poi risultano traumatici. E’ inutile, forse, sottolineare che in qualche misura queste ricerche sono invalidate dal modo addirittura ridicolo in cui si considerano gli eventi della vita, su un piano meramente èvenementiel e non microstorico.

Ma il punto debole delle ricerche è rappresentato dal fatto che l’endogeno, di cui si parla ad ogni piè sospinto, appare sintomaticamente sottrarsi ad ogni tentativo di illustrazione scientifica.

Ciò che risulta con certezza è che, nel corso delle crisi distimiche, si realizza un qualche squilibrio che riguarda i mediatori neurochimici. Ma, nonostante un impiego di mezzi ragguardevole (e in massima parte erogati dalle industrie farmaceutiche), non sussiste alcuna prova che questi squilibri siano causa e non effetto di disturbi psichici.

Su di un piano epistemologico, l’ipotesi biologica non sembra avere alcun vantaggio sull’ipotesi psicosomatica, secondo la quale sono esigenze proprie del soggetto in una determinata fase della sue esperienza a produrre squilibri funzionali e biochimici che poi possono operare una sorta di ‘trascinamento’. Ancora una volta, si può affermare a pieno titolo che la montagna neopsichiatrica produce il topolino.

La stessa metafora può essere adottata in rapporto al mostro sacro della psichiatria, la schizofrenia. Anziché darla per scontata, è giusto procedere analiticamente. Anche a questo riguardo, i dati della letteratura, se dicono poco scientificamente, ideologicamente significano più di quanto i 'ricercatori' possono pensare.

Nel complesso, confrontandosi con la realtà di fenomeni psicologici imbrigliati da decenni entro schemi nosografici cartesiani (schizofrenia simplex, ebefrenia, catatonica, paranoide), la neopsichiatria sembra affetta da un singolare disturbo ‘dissociativo’. Da un punto di vista nosografico, essa non può negare alcuni dati di realtà evidenziatisi nel corso di questi anni. La diminuzione critica delle forme catatoniche, l’insorgenza a livello giovanile sempre più precoce con una fenomenologia spesso aspecifica di tipo pseudonevrotico (casi border-line) e l’aumento considerevole di episodi critici di tipo schizofrenico oltre la soglia, tradizionalmente fatidica, dei 40 anni. L’evoluzione della malattia, poi, rispetta gli schemi nosografici tradizionali in un numero statisticamente scarso di casi: esistono forme che abortiscono dopo un singolo episodio anche grave, forme che rapidamente cronicizzano insensibili ad ogni intervento terapeutico, forme che rimangono latenti per molti anni, forme miste (schizoaffettive), forme – addirittura- inapparenti socialmente, ecc. Tutti questi dati, nuovi e sorprendenti per il semplice fatto che l’osservatorio non è più solo quello manicomiale, sembrano per un verso rendere quasi imbarazzante e ‘ingombrante’ la definizione di schizofrenia.

Tant’è che da più parti si propone di farla rientrare nell’ambito più vasto delle psicosi a lunga evoluzione mantenendo degli schemi tradizionali solo due elementi: la natura di malattia e il lungo decorso, per un altro, sollecitando l’adozione di quadri esplicativi meno rigidi rispetto al passato.

E’ questa esigenza che ha promosso l’adozione, e, ormai, l’indiscussa prevalenza del modello multifattoriale e/o circolare, che ammettendo indefinite possibilità di interazione tra fattori biologici e circostanze psicosociali, azzera il paradosso di una malattia dalla fenomenologia e dalla evoluzione multiforme.

Una citazione vale per tutte:

"L’interazione complessa tra diversi fattori biologici e psicosociali fornisce la migliore spiegazione dell’enorme multiformità e della quasi incredibile varietà dell’evoluzione a lungo termine".

Ma questo sforzo di adattamento degli schemi alla realtà rivela la sua matrice ideologica nel fatto che esso concerne solo l’evoluzione e non la natura dell’evento, che è e rimane una malattia biologica, anzi, più crudamente, una malattia cerebrale.

Si giunge, così, al paradosso di sostenere che la psicosi a lungo termine è, nel suo esordio, prevalentemente biologica e nel suo decorso prevalentemente psicosociale!

Rimane comunque il problema di spiegare l’innesco della malattia: a questo punto, la neopsichiatria tira fuori dal cilindro il coniglio (metafora, come si vedrà, da prendere alla lettera). Si ammette, infatti, che lo scatenamento della sindrome dia dovuto all’azione di fattori biologici e, in misura minore, ambientali su di un nucleo premorboso, la ‘vulnerabilità’, che, per effetto di un’inadeguata capacità di elaborare informazioni complesse, si esprime in una scarsa tolleranza agli stress emozionali e cognitivi. L’affiorare della psicosi viene dunque ricondotto ad una predisposizione genetica, vale a dire ad una debolezza costituzionale che rende difficile affrontare la realtà e dare ad essa il giusto senso. Paradossalmente, lo sforzo di aggiustamento degli schemi nosografici si risolve nel riabilitare eufemisticamente il fantasma della ‘demenza precoce’, proiettandolo laddove neppure Kraepelin, ingenuamente vincolato al concetto di normalità premorbosa, avrebbe osato proiettarlo. In altri termini, gli schizofrenici diventerebbero tali perché sarebbero, fin dalla nascita, dei ‘conigli’.

E’ vano consultare gli articoli per ricavarne delle definizioni – di ‘vulnerabilita’ e di ‘stress’ – meno generiche: i concetti coincidono né più né meno col senso comune. Gli ‘stress’ sono le normali difficoltà che si incontrano nelle fasi evolutive della personalità; vulnerabili, di conseguenza, sono coloro che non riescono a tollerale e a dare ad esse senso.

In conseguenza di quest'approccio grossolano, non sorprende che tutte le ricerche – tranne, ovviamente, quelle sul decorso, che tengono conto delle circostanze ambientali ma in quanto prodotto, in massima parte, della malattia – siano rivolte a tradurre la ‘vulnerabilità’ in termini biochimici, istochimici e neutropatologici. Non ha alcun interesse, per l’economia del nostro discorso, soffermarsi su questi dati, che sono, nel complesso, insignificanti. Nulla può rendere l’inconcludenza delle ricerche biologiche meglio dei patetici tentativi di applicare alla schizofrenia le ipotesi cui la medicina fa riferimento per risolvere il mistero di malattie ad etiologia ignota (come, per es, il cancro): l’ipotesi virale e quella autoimmune!

In breve, ciò significa che la neopsichiatria procede letteralmente alla cieca.

Al di là di quanto si è detto, appare importante svolgere ulteriori considerazioni critiche, soprattutto per quanto riguarda la progettualità latente della neopsichiatria. Un dato, infatti, che non risulta in letteratura, ma che sarebbe ingenuo ignorare, è la sostanziale impotenza di una scienza dalle ambizioni sconfinate ma i cui strumenti appaiono sempre meno adeguati a realizzare quelle ambizioni. La persistente assimilazione della psichiatria all’ambito medico continua, infatti, ad alimentare il progetto di una soluzione finale del problema psichiatrico.

La lenta ma irreversibile perdita del prestigio delle istituzioni manicomiali fa sì che all’ambizione della psichiatria si sommi un’aspettativa crescente del potere e dell’opinione pubblica. Questo dato di cose è reso paradossale dal fatto che gli strumenti d'intervento terapeutico non sembrano affatto potenziarsi, bensì ristagnare.

Dal punto di vista psicofarmacologico, il prontuario appare sostanzialmente fermo da parecchi anni. Eccezion fatta per alcuni antidepressivi nuovi, i cui vantaggi si riducono nel minor numero di effetti collaterali prodotti, gli psicofarmaci che continuano ad essere utilizzati sono quelli ormai ‘storici’: fenotiazine (Largactil, ecc.) butirrofenoni (Serenase, ecc.); triciclici (Anafranil, ecc.); benzodiazepine (Valium, ecc.).

L’approntamento di fenotiazine ad effetto prolungato (Moditen, ecc.) e l’uso a tappeto del Litio sono valsi solo a mimare un potere profilattico smentito (nonostante le mistificazioni) dalle statistiche. Il tentativo di riabilitare l’elettroshok e la psicochirurgia appare addirittura patetico, oltre che drammatico e ‘demenziale’.

All’orizzonte delle ricerche, inoltre, non si profila nulla di nuovo in assoluto.

E’ a questa sostanziale impotenza che va correlata la drammatizzazione di cui abbiamo cercato di fornire le prove. Ma non nel senso che essa serva a giustificare l’impotenza – verità inconfutabile per quanto parziale -, quanto nel senso di preparare la via ad una soluzione finale di cui nessuno parla, ma che è nell’aria.

L’insistenza con cui una predisposizione genetica viene ammessa praticamente per ogni forma di disagio psichico è un indizio di un progetto che si sta delineando.

Si sono avviati ormai da alcuni anni negli stati Uniti delle ricerche il cui scopo è quello di diagnosticare la predisposizione genetica. Per quanto agghiacciante, è quasi inevitabile pensare che sperimentazioni di prevenzione chimica aprano la via al ricorso a metodi di ingegneria genetica, che si prevede di utilizzare quando la tecnica sia sufficientemente matura. Chi obiettasse che questa tragica previsione si esaurisce in un processo alle intenzioni, non dovrebbe far altro che interpretare in maniera diversa i dati offerti dalla letteratura.

E’, comunque, nostra convinzione che, pur di non rinunciare ai suoi paradigmi, che la realtà clinica sta mandando in crisi, la neopsichiatria, come è avvenuto in passato per la psichiatria manicomiale, non esiterà ad imboccare il vicolo cieco della violenza sul corredo genetico, rivelando così il suo vero volto: quello di una scienza decisa a provvedere ad una selezione naturale degli uomini che l’evoluzione ha malauguratamente trascurato, lasciando sopravvivere ceppi di esseri umani vulnerabili.

La conclusione di questa rassegna critica – orientata da presupposti ideologici tanto evidenti da non dover essere esplicitati – è, in breve, che il lupo perde il pelo ma non il vizio.

La neopsichiatria, nonostante tenti di confermare il suo statuto di scienza che evolve, aggiornandosi e aprendo i suoi paradigmi a istanze nuove, rimane vincolata al progetto da cui essa è nata: la soluzione finale del problema della malattia mentale.

Questo progetto, nonostante un lento abbandono della logica segregazionista manicomiale, appare oggi, per gli strumenti nuovi che può adottare, più minaccioso che mai. In questo senso – un senso definito, che non dovrebbe prestarsi ad alcun equivoco – è lecito affermare che chi adotta una concezione antropologica incentrata sulla pari dignità degli esseri umani, non può non definire il proprio atteggiamento che in termini antipsichiatrici. Da questo punto di vista, il riconoscimento (ovvio) dei fatti psicopatologici non ha nulla a che vedere con la critica di una scienza che, perseguendo i suoi obiettivi, apparentemente umanitaristici ma in realtà terribilmente riduzionisti e megalomanici, di fatto perseguita gli uomini.

Un’obiezione alla quale vale la pena di rispondere anticipatamente concerne il carattere selettivo della rassegna, e cioè il fatto che essa sopravvaluta tutto ciò che, nel campo psichiatrico, si muove prescindendo da presupposti biologici, e cioè, in pratica, gli orientamenti teorico-pratici psicosociali.

A questi orientamenti sarà opportuno dedicare ulteriormente una riflessione critica. Per ora, basterà dire che essi, nel complesso, sembrano aver perduto ogni capacità di opposizione nei confronti del potere neopsichiatrico: anzi, strumentalmente, e cioè a fini speculativi, accettano il ruolo subordinato – di interventi di sostegno non risolutivi – che ad essi è stato ufficialmente riconosciuto. Accettano cioè di spartirsi la torta, nella certezza che questo diritto sarà riconosciuto anche nel futuro.

Ancora una volta – e per concludere – non può non sorprendere l’effetto dissociativo che la schizofrenia induce negli esperti che ne parlano.