In attesa della nuova edizione della Bibbia psichiatrica


1.

L’Impero americano è in declino su tutti i fronti (economico, militare, culturale), ma mantiene ancora una inquietante egemonia a livello psichiatrico, attestata dalla diffusione urbi et orbi del DSM-IV, la Bibbia della psichiatria pubblicata dalla APA (American Psychiatric Association) e adottata ovunque come manuale diagnostico. Per capire il reale significato storico del successo del DSM-IV basta ricondursi ad un episodio singolare.

Più di dieci anni fa, L. Mosher, figura prestigiosa di psichiatra umanitarista, fondatore di comunità terapeutiche aperte, dette le dimissioni dalla potentissima Associazione con una lettera che suscitò scalpore, il cui testo era il seguente:

“4 dicembre 1998

Loren R. Mosher, dott. in Medicina a Rodrigo Munoz, dott. in Medicina, Presidente della American Psychiatric Association (APA)

Caro Rod,

Dopo circa tre decadi che sono socio, con un misto di dispiacere e sollievo le invio la presente lettera di dimissioni dalla American Psychiatric Association. La ragione principale per questa mia azione è la certezza che con ciò mi sto dimettendo anche dalla American
Psychopharmacological Association. È una fortunata coincidenza che le due organizzazioni, in verità identiche, abbiano anche lo stesso acronimo.
Sfortunatamente infatti, APA riflette, e rafforza, a parole e a fatti, la nostra società farmaco-dipendente. E, anche, favorisce la guerra dei profitti sui «farmaci».

Pazienti con una «doppia diagnosi» sono infatti un problema per la professionalità, ma non per questo noi non prescriviamo medicine sempre «buone». Sono «cattivi» farmaci, essenzialmente, solo quelli che non hanno bisogno di ricetta. Un marxista osserverebbe
che dato che l’APA è una organizzazione capitalista, l’APA adotterà prevalentemente quei farmaci da cui può trarre guadagno – diretto o indiretto.

L’appartenere a questo gruppo non fa per me. A questo punto della sua storia, secondo me, la psichiatria è stata pressoché completamente comprata dalle compagnie farmaceutiche. L’APA non potrebbe continuare senza il supporto di incontri, simposi,
riunioni di lavoro, pubblicità sulle riviste specializzate, gran giri di pranzi, borse di studio a josa ecc. ecc., fornito dalle compagnie farmaceutiche. Gli psichiatri sono diventati i beniamini delle campagne promozionali delle compagnie farmaceutiche.

L’APA, ovviamente, dichiara che la sua indipendenza ed autonomia non sono compromesse da questa situazione avviluppante. Una qualunque persona dotata di un minimo di senso comune assistendo ai meeting annuali osserverebbe invece che le esposizioni dei prodotti delle compagnie farmaceutiche e i «simposi sponsorizzati dall’industria» attirano folle di congressisti con le loro varie forme di allettamento mentre le sessioni scientifiche sono a malapena seguite. L’istruzione psichiatrica subisce ugualmente l’influenza dell’industria farmaceutica: la parte più
importante del curriculum dei praticanti è l’arte e la quasi scienza di aver a che fare con gli psicofarmaci, cioè lo scrivere ricette.

Queste limitazioni psicofarmacologiche al nostro essere medici completi limita anche il nostro orizzonte intellettuale. Non più cerchiamo di comprendere la persona nella sua interezza e inserita nel suo contesto sociale – piuttosto stiamo a riallineare i neurotrasmettitori dei nostri pazienti. Il problema è che è molto difficile avere un rapporto di relazione con un neurotrasmettitore - qualsiasi sia la sua configurazione.

Così, la nostra acuta Organizzazione ci fornisce spiegazioni, basate sulla sua concezione neurobiologica di fondo, che ci tengono distanti da quei conglomerati di molecole che siamo arrivati a definire come pazienti. Promuoviamo il largo uso e ci perdoniamo l’abuso di sostanze chimiche tossiche nonostante sappiamo che producono seri effetti di lungo periodo – discinesia tardiva, demenzia tardiva e preoccupanti sindromi di astinenza.

Ora, dovrei io essere succube delle compagnie farmaceutiche che trattano molecole nelle loro formulazioni? No, grazie tante. Mi dispiace che dopo essere stato psichiatra per 35 anni debba decidere di dissociarmi da questa Associazione. Ma essa non rappresenta affatto il mio interesse. Non sono capace di ottenere niente dall’attuale modello riduzionista medico-biologico strombazzato dalla ledership psichiatrica che ancora una volta ci sposa alla medicina somatica. Qui si tratta di moda, politica e, in quanto connessione con l’industria farmaceutica, soldi.

Per giunta, l’APA ha stretto un’indecente alleanza con il NAMI [n.d.t: National Alliance of Mentally Ills, potente associazione di genitori e parenti di pazienti psichiatrici in Usa] (non ricordo se ai soci è stato chiesto di approvare tale alleanza) cosicché le due organizzazioni hanno adottato pubblicamente lo stesso credo circa la natura della pazzia. Nel mentre che si professa «nell’interesse del paziente», in realtà l’APA difende i non-pazienti, i genitori, nel loro desiderio di tenere sotto controllo, tramite una sottomissione rafforzata legalmente, i loro rampolli cattivi/matti : il NAMI con la tacita approvazione dell’APA, ha adottato una procedura abbreviata di obbligo istituzionalizzato di somministrazione di psicofarmaci neurolettici, procedura che viola i diritti civili dei loro rampolli. La maggior parte di noi sta a guardare e permette questa procedura di intervento fascista.

Il dio della psichiatria, Dott. E. Fuller Torrey è autorizzato a fare una diagnosi e a consigliare il trattamento a coloro, dell’organizzazione NAMI, con cui è professionalmente in disaccordo. Chiaramente una violazione dell’etica medica. L’APA protesta? Ovviamente no, perché si tratta di cose con cui l’APA è d’accordo, ma esplicitamente non può appoggiare. Gli si permette di mettersi in vista; d’altronde non è più un membro dell’APA. (parola ingegnosa APA!). La miopia di questo matrimonio tra l’APA, il NAMI e le società farmaceutiche (che con gioia supportano entrambi i
gruppi a causa della loro sbandierata presa di posizione pro-psicofarmaci) è un abominio.

Io non voglio far parte di una psichiatria dell’oppressione e del controllo sociale.

«Malattia mentale a base biologica» è certamente conveniente per i familiari e ugualmente per i medici. Non c’è nessuna assicurazione di garanzia contro errori, non responsabilità personale. Siamo stati tutti presi senza colpa in una turba di patologia cerebrale di
cui nessuno, eccetto il DNA, è responsabile. Orbene, tanto per cominciare, qualsiasi malanno che abbia una specifica patologia del cervello anatomicamente definita diventa campo della neurologia (la sifilide è un buon esempio). Così, per essere coerenti col punto di vista «malattia del cervello», tutti i principali disordini psichiatrici diverrebbero territorio dei nostri colleghi neurologi. Pur senza averli consultati, ritengo che essi neurologi rifuggano di prendersi carico di queste problematiche di individui. Però la conseguenzialità
delle nostre teorie richiederebbe di passare le da noi scoperte «malattie biologiche del cervello», a loro.

A questo punto è ovvio e irrilevante che non ci siano evidenze confermanti la diagnosi di malattia del cervello. Perché quello con cui qui si ha a che fare è moda, politica e soldi. Il livello di disonestà scientifica ed intellettuale è diventato troppo alto perché io possa
ancora sopportare di essere socio.

È senza sorpresa che vedo che la specializzazione in psichiatria è poco ambita dagli studenti nelle università americane. Questo ci dovrebbe far riflettere sullo stato della psichiatria di oggi. Implica che almeno in parte essi vedono la psichiatria come limitata e
subente. A me appare chiaro che ci siamo intestarditi su una situazione in cui, ad eccezione degli accademici, la maggior parte dei medici psichiatri non ha una concreta relazione – così vitale nel processo di guarigione – con gli individui disturbati e disturbanti
che trattano. Il solo ruolo concreto è quello di scrittori di ricette: contabili con l’apparenza di «salvatori».

Infine, come può l’APA pretendere di conoscere più di quel che sa? Il DSM IV è la costruzione sulla cui base la psichiatria cerca di essere accettata dalla medicina in generale. Ma gli addetti ai lavori sanno che è molto più un documento politico che scientifico. Parla bene di sé stesso cosicché – per quanto la breve apologia di sé è raramente notata. Il DSM IV è diventato una bibbia e un best seller che produce moneta – i suoi maggiori difetti non si vedono. Esso delimita e delinea la pratica medica, alcuni lo prendono seriamente, altri con più realismo. È la via per ottenere l’onorario. È facile ottenerne delle diagnosi ripetibili in progetti di ricerca. Il punto è cosa ci dicono le sue categorie? Rappresentano esse effettivamente la persona con problemi? Non lo fanno, e non possono farlo, perché non ci sono criteri esterni convalidanti le diagnosi
psichiatriche. Non c’è né un test del sangue, né lesioni anatomiche specifiche per nessuno dei maggiori disordini psichiatrici. Così , dove andiamo a parare?

L’APA come organizzazione si è implicitamente (talvolta anche esplicitamente) acquistata una parvenza teorica. È la psichiatria – quella praticata adesso – una parvenza, un trucco? Sfortunatamente la risposta è essenzialmente si.

Che cosa raccomando all’Organizzazione al momento di lasciarla dopo averla praticata per trent’anni?

1. Soprattutto, essere noi proprio. Non fare alleanze infelici e senza il permesso dei membri.

2. Essere veri sulla scienza, la politica, i soldi. Chiamare ogni cosa per quel che è – cioè essere onesti.

3. Uscir fuori dal letto del NAMI e delle compagnie farmaceutiche. L’APA dovrebbe allinearsi, senza retorica, con gli autentici gruppi di utenti, cioè gli ex pazienti, i sopravvissuti psichiatrici, etc.

4. Discutere su chi dirige. Personalmente non ne vedo nessuno buono.

Mi sembra che abbiamo dimenticato il principio base – la necessità di essere orientati verso la soddisfazione del paziente/cliente/utente. Ricordo sempre il detto di Manfred Bleuler: «Loren, ricordati sempre che sei un impiegato assunto dai tuoi pazienti.» Alla fine sono essi che stabiliranno se o no la psichiatria sopravviverà nel mercato dei servizi.”

All’epoca il DSM-IV era uscito da quattro anni, e già Mosher denunciava ch’esso era stato scritto a quattro mani, con la consulenza delle case farmaceutiche. Denunciava insomma che il libro, destinato a diventare la Bibbia degli psichiatri in tutto il mondo, era null’altro che il frutto della corruzione e dell'ignoranza degli psichiatri (vale a dire della loro scarsa consuetudine con i pazienti come persone con una storia non riducibile alla somma dei sintomi).

E’ inutile dire che Mosher, che, oltre all’APA, denunciava anche la NAMI, appena un po’ meno potente, fu bollato di essere un antipsichiatra: accusa che, nel contesto statunitense equivale ad essere comunista, nonostante il massimo rappresentante dell’antipsichiatria negli USA sia T. Szasz, notoriamente liberal.

La prossima uscita del DSM-V farà rivoltare Mosher nella tomba. Alla stesura della nuova edizione hanno partecipato - pare - circa seicento psichiatri, parecchi dei quali (il 56%, secondo Lisa Cosgrove, Professore di Psicologia Clinica presso l'università del Massachusetts) sono in pianta stabile al servizio delle industrie farmaceutiche.

Questo infausto connubio, che va sotto il nome di collaborazione scientifica, e pertanto non è perseguibile per legge, sta producendo un singolare fenomeno: il “pentitismo”.

In un inserto del Venerdì di Repubblica è riportata l’intervista ad un ex-dirigente di un’industria farmaceutica, che conferma puntualmente la denuncia di Mosher:

“Le Big Pharma creano le psico-epidemie

Riccardo Staglianò

Cinica e bara. Così l'industria farmaceutica di fronte ai disturbi mentali, secondo un suo ex dirigente. Philippe Pignarre di potrebbe definire un whistleblower postumo, uno che ha dato l'allarme dicendo che il suo mondo puzzava dalla testa ai piedi solo una volta che ne è uscito. Meglio tardi che mai, tuttavia. In Francia è stato a lungo direttore della comunicazione di importanti aziende medicinali. Ha visto allargare, in modo direttamente proporzionale al perimetro semantico dei disturbi, i fatturati dei suoi datori di lavoro. E oggi ha denunciato tutto in L'industria della depressione, in uscita da Bollati Boringhieri (pp. 140, euro 14). È un bruttissimo mondo quello che racconta.

Come si è arrivati dai cento milioni di depressi degli anni Settanta al miliardo del 2000? L'umanità è diventata dieci volte più triste o la causa va cercata altrove?

"La spiegazione è complessa. Gli individui oggi sono portati a guardarsi dentro più profondamente di un tempo e a cercare subito delle spiegazioni quando qualcosa non va bene e non si sentono prestanti al lavoro o nelle relazioni familiari. Di colpo la depressione diventa il denominatore comune di tutta una serie di stati che una volta non avremmo messo sotto la stessa etichetta. È una qualifica ormai assai larga e vaga, che va da ciò che una volta chiamavamo melanconia, ovvero un sentimento di tristezza che spazia dalla voglia di morire a un'incapacità totale ad agire, sino a un malessere molto meno grave che chiamiamo depressione leggera o distimia. Oggi tutto questo viene raggruppato sotto il titolo unico di depressione con il paradosso che gli antidepressivi sono assai efficaci nel caso delle melanconie gravi, ma molto poco in quelle leggere, mentre è proprio in questo secondo caso che vengono massicciamente consumati. Però si porta sempre l'esempio dei casi gravi per giustificare il fatto che se ne consumino tanti e impedire il dibattito".

Qual è il ruolo dell'industria farmaceutica in questa esplosione?

"Di certo si è avvantaggiata molto di questa situazione. Si è accorta presto che la definizione di depressione non era molto stabile e che molte persone leggermente tristi potevano essere incluse nel gruppo dei depressi e quindi potevano consumare massicciamente farmaci pensati originariamente per le melanconie gravi. Si è resa conto poi che la maggior parte dei disturbi psichici avevano una definizione imprecisa e se n'è approfittata con cinismo. A differenza di numerose malattie organiche, la diagnosi dei disturbi psichici non è mai stata fatta con l'aiuto di strumenti tecnici oggettivi e indiscutibili. Non esiste un test di laboratorio attendibile in psichiatria. È solamente l'incontro soggettivo tra il paziente e il medico che genera la diagnosi".

Vedete una complicità tra le Big Pharma e i grandi psichiatri, per esempio quelli che lavorano alle nuove definizioni di malattie mentali nel prossimo Dsm-V?

"Beh, non appena un medico fa parlare di sé, mostra un certo dinamismo, anima i seminari ed è rispettato dai colleghi, i laboratori farmaceutici gli si gettano addosso. E fanno tutto ciò che è in loro potere per reclutarlo alla loro causa: lo invitano a fare conferenze ai congressi, gli finanziano gli studi clinici, gli danno fondi e così via. Con il tempo se lo rendono amico in mille modi. E anche con la più forte volontà del mondo sono rari i medici che riescono a resistere a tali blandizie, dal momento che i finanziamenti pubblici sono sempre più scarsi".

Molti commentatori hanno parlato di "medicalizzazione della normalità". Quanto è serio, secondo lei, questo rischio?

"Il nodo è tutto qui: dove inizia e dove finisce il disturbo psicologico? Nessuno lo sa perché non esistono riscontri biologici nei disturbi mentali. Anzi, quando se ne trova uno, non si parla più di disturbo mentale, ma di disturbo neurologico con ricadute psicologiche. La diagnosi quindi si poggia sul consenso che si stabilisce, in un certo momento storico, tra gli psichiatri. Essenzialmente quelli americani, mentre quelli degli altri Paesi si accontentano di copiarli. L'industria farmaceutica gioca evidentemente un ruolo: fa tutto quel che può per estendere la definizione di disturbo mentale. Così stati che si consideravamo normali ancora pochi anni fa tendono a essere definiti come anormali oggi al fine di giustificare una prescrizione più ampia di medicinali. Per farci paura ci dicono che bisogna curare un disturbo mentale già dai primi segni, anche se non sono gravi, secondo l'argomento che ciò eviterà un peggioramento. Però non c'è alcuna prova che tale ragionamento - vero per certi disturbi organici, ma neppure tutti - valga in psichiatria o in psicologia. Anzi, alcuni sostengono proprio il contrario. Ad esempio, prescrivere molto precocemente un neurolettico, un antipsicotico, a un adolescente che ha la tendenza a isolarsi, con la motivazione che potrebbe essere un inizio di schizofrenia, ha spesso esiti catastrofici. Più a un giovane si daranno neurolettici, più lui assomiglierà a uno schizofrenico (le bozze del Dsm-V hanno scatenato molte polemiche anche sul trattamento precoce delle presunte psicosi, ndr)".

Quali sono le contromosse più importanti per ridurre, in futuro, le ingerenze del mercato sul dominio della salute mentale?

"Sin tanto che il dialogo sarà solo tra medici e industria farmaceutica non ci sarà alcun modo di resistervi. Serve che i pazienti possano giocare un ruolo collettivo. Ciò non è semplice perché ogni volta che un'associazione di pazienti alza la testa, le Big Pharma si precipitano per finanziarla e influenzarla. C'è bisogno dunque di associazioni di pazienti indipendenti che imparino a occuparsi di tutto, compresi la definizione di disturbi mentali, il modo di fare i test clinici e così via. Ma ciò non sarà possibile sin quando le casse di assistenza sanitaria non accetteranno di finanziarle. Negli Stati Uniti ne esistono già alcune molto potenti, in Europa no".

E’ presto per affermare che nell’oleato sistema psichiatrico qualcosa comincia a non funzionare.

Il lungo intervallo tra la quarta e la quinta edizione del DSM, e soprattutto il fatto che la pubblicazione di quest’ultimo, annunciata già nel 2005, sia stata rimandata di anno in anno, al punto che sino a qualche mese fa si parlava addirittura del 2013, attesta che, se non un ripensamento, qualcosa di strano sta avvenendo all’interno dell’APA.

La prova è che, deceduto Mosher, il ruolo di rompiscatole lo hanno assunto sorprendentemente due curatori delle edizioni precedenti - Robert Spitzer e Allen Frances -, i quali, benché in pensione, hanno scritto nel luglio 2009 una pesante lettera di protesta alla APA, denunciandola di pianificare cambiamenti non confermati da corrette e replicabili ricerche scientifiche. Allen Frances, nell'editoriale successivo su Psychiatric Time, ha aggiunto che molti degli autori-redattori della nuova edizione erano semplici ricercatori universitari completamente "cut off" (trad. "tagliati fuori") dalla clinica e quindi da qualsiasi rapporto con i pazienti, che si interessavano solo di elaborare statisticamente dati epidemiologici.

E’ difficile interpretare questi interventi se non pensando che, all’interno dell’APA, si stia definendo un conflitto tra chi, in buona fede, crede nel significato scientifico del DSM e chi partecipa alla sua redazione unicamente con intenti speculativi.

Quali sono i termini della querelle? Una risposta a questo quesito richiederebbe un’analisi del materiale che l’APA pubblica sul suo sito per dare conto della correttezza epistemologica dibattito scientifico che presiede alla faticosa stesura del DSM-V. Penso che sia prematuro. Mi riprometto di fornire un’analisi dell’inutile impresa quando il manuale sarà dato alla stampa (posto che riesca a farmelo prestare da qualche collega, come ho fatto con il DSM-IV, dato che non intendo versare un centesimo all’APA). Per ora, pure avendo consultato tutto quel materiale mi limito a qualche osservazione di fondo, sulla base degli articoli dell’inserto del venerdì di Repubblica, che, sotto il profilo informativo, sono eccellenti:

“e Liberaci dal male… Se ogni difficoltà della vita diventa sindrome da curare

di Riccardo Staglianò

Non ci sono più le ragazze timide di una volta. Sono finite negli anni Settanta. Quelle molto spendaccione, invece, rischiano di andare fuori corso tra due anni. A farle fuori, con un colpo di penna, è stato e sarà un librone poco noto e molto importante. Che ha ribattezzato le prime come affette da "fobia sociale" e potrebbe rinominare le seconde come vittime di "shopping compulsivo". Parliamo del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, la bibbia della psichiatria, che da un lustro è in fase di revisione e che vedrà le stampe nel maggio 2013. Se sopravviverà a quella che Science ha definito "la guerra civile della psichiatria". Perché da quando la prima bozza è stata resa pubblica, il mese scorso, il fuoco delle polemiche non accenna a placarsi. "Non è troppo tardi per salvare la normalità dal Dsm-V" ha scritto sul Los Angeles Times Allen Frances, curatore della versione precedente.

Per lui e una schiera crescente di suoi eminenti colleghi, la nuova edizione introdurrebbe tali e tanti discutibilissimi nuovi disturbi mentali da ridisegnare i confini tra salute e malattia nella sempre più dettagliata mappa della psiche. Ipersessualità, dolore complicato, accumulo patologico sono solo alcune delle possibili new entry. I critici contestano un'infinità di cose. La segretezza con cui si è giunti alla loro formulazione. L'influenza indebita delle case farmaceutiche su questa moltiplicazione classificatoria, secondo il principio che se c'è una nuova patologia ci sarà una nuova pillola per curarla. E soprattutto le basi scientifiche della futura tassonomia. Se la data d'uscita non è dietro l'angolo, non c'è comunque un minuto da perdere, avverte Frances nel suo editoriale: "Questa medicalizzazione all'ingrosso di problemi normali potrebbe portare all'erroneo etichettamento di disturbo mentale per decine di milioni di passanti innocenti. È una questione sociale che trascende la medicina. E per evitare il peggio è necessario che nell'analisi costi-benefici sia tenuto di conto l'interesse pubblico nel suo complesso". Serve che la gente, non solo gli americani perché il manuale detta legge in tutto il mondo, sappia cos'è questo oscuro e fondamentale zibaldone della psicopatologia che rischia di compiere l'upgrade carico di conseguenze del dolore in depressione, dell'apprensione in ansia e della vivacità in iperattività.

Il primo Dsm è del '52. Una specie di brogliaccio ad uso degli psichiatri militari che dovevano decidere se le reclute potevano reggere o no lo stress del combattimento. La seconda versione è del '68 ma non è che con la terza del '74, sotto la supervisione del leggendario psichiatra Robert Spitzer, che diventa il canone con cui distinguere i malati dai sani. All'epoca poco più di una dispensa universitaria rilegata a spirale, 150 paginette per 3 dollari e 50. Mentre il Dsm-IV, licenziato nel '94 e ancora in vigore in forma leggermente rivista, ne conta oltre 900 e ne costa 83. E soprattutto ha visto in vent'anni triplicare i disturbi, da 100 a 300.

Lo schema, la decisiva svolta di Spitzer, è quella di introdurre una checklist, una lista di sintomi in base ai quali impostare la diagnosi. Il disturbo ossessivo-compulsivo dunque prevede una preoccupazione per dettagli, regole e organizzazione tale da perdere di vista il movente principale, oppure l'incapacità di separarsi da oggetti di nessun valore, neppure sentimentale, o altre sei tipologie. Per poterlo diagnosticare bisogna averne quattro su otto. Il procedimento è rimasto lo stesso ma con gli anni le patologie e le loro definizioni si sono così moltiplicate che oggi si può arrivare a un responso di schizofrenia incrociando ben 114 diversi sintomi. La difficoltà di base, oggi come allora, è che la psichiatria si muove su un terreno più scivoloso delle altre specialità mediche. Ci sono descrizioni, non marker biologici. Non esiste un'analisi del sangue o genetica per stabilire se sei depresso. Ed è per questo che il perimetro definitorio diventa così cruciale.

"Il Dsm è un'opera veramente fondamentale" ammette il professor Luigi Cancrini, uno dei più noti psichiatri e psicoterapeuti italiani, "che ha contribuito a unificare varie tradizioni psichiatriche e ha il merito di aver sostituito "disturbo" con "malattia". La sua valutazione delle patologie dovrebbe avvenire secondo cinque assi, a partire dai sintomi per arrivare al "funzionamento globale" da 0 a 100 di una persona. Però molti psichiatri si fermano ai sintomi ed è qui che è massima la pressione delle case farmaceutiche. Se si inventano nuove etichette infatti si possono inventare nuove pillole. Invece tenendo nel dovuto conto anche gli altri assi, una persona può pur fare acquisti smodati ma se ciò non le impedisce di funzionare bene in società non si può parlare di disturbo della personalità". Sarebbe insomma un tratto caratteriale, non una malattia. Una distinzione che la quinta edizione rischia di rendere sempre più confusa.

"Il proposto disordine di ipersessualità" ci spiega Christopher Lane della Northwestern university di Chicago, e autore di Shyness: How Normal behavior became a Sickness, "consisterebbe "nell'occupare una gran quantità di tempo in fantasie e urgenze sessuali e nel pianificare e compiere comportamenti sessuali". Una caratterizzazione così generica in cui si può riconoscere la maggior parte degli uomini, etero o gay. Una recente indagine sulla vita sessuale degli studenti del Mit rivela che il 30 per cento dei maschi e l'8 per cento delle femmine si masturba quotidianamente. Dovremmo considerarli malati mentali?!". L'influenza delle aziende in questa sempre più spinta medicalizzazione della normalità non è mai stata così forte, sostiene. E ricorda che, quando negli anni Ottanta la timidezza fu rinominata "fobia sociale" e definita da sintomi tipo la paura di mangiare da soli al ristorante o il disagio di parlare in pubblico, la GlaxoSmithKline saltò entusiasticamente su quel carro spendendo oltre 92 milioni di dollari in una campagna di sensibilizzazione dal titolo "Immaginate di essere allergici alla gente". "Fu su quell'onda che il loro antidepressivo Paxil divenne un bestseller per milioni di persone" dice Lane, "e a un certo punto cinquemila nuovi americani ogni giorno iniziarono a prenderlo".

Se fosse il problema ad aver trovato una soluzione o viceversa è oggi meno chiaro che mai. "La nuova categoria di binge eating" scrive ancora Frances "consisterebbe in almeno una scorpacciata alla settimana per tre mesi di fila. E allora dico che io, insieme a oltre il 6 per cento della popolazione, ci rientro. Anche i disordini neurocognitivi minori ricomprenderebbero un sacco di persone la cui memoria semplicemente deteriora con l'età".

"Il pericolo non è solo nei nuovi discutibili disturbi da introdurre ma anche nel forte allargamento di quelli già esistenti" mette in guardia Jerome C. Wakefield della New York University e autore di The Loss of Sadness: How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorder, "Un esempio? Circa la metà delle persone che subiscono un lutto conosce sintomi depressivi nei mesi successivi. Ciò non è mai stato considerato un disturbo mentale. Ora si pensa di chiamarla "sindrome da dolore complicato o prolungato". E magari curarla di conseguenza". Una tendenza che gli ha fatto denunciare il rischio di "massiccia patologizzazione della popolazione". Tantopiù che il Dsm è diventato una specie di pilota automatico nei medici, soprattutto in quelli di base che sempre più si trovano a prescrivere psicofarmaci seguendone pedissequamente la definizione.

Lo dice Wakefield, lo conferma Michele Tansella, che guida un centro di salute mentale a Verona tra i pochissimi che collaborano con l'Organizzazione mondiale della sanità. "Perché il Dsm-V rischia di essere pericoloso? Perché potrebbe fornire una vidimazione ufficiale a una serie di disturbi sottosoglia, premorbosi. Se si crea la sindrome da rischio psicotico e si cura un ragazzino che ogni tanto fa strani discorsi, si rischia di fargli più male che bene perché solo circa un terzo di chi conosce episodi del genere sviluppa poi una vera psicosi. Spalancare questi cancelli potrebbe far rientrare una quantità di falsi positivi talmente grande da configurare un'epidemia". Senza considerare che quei farmaci hanno una quantità di effetti collaterali come la perdita della libido, l'aumento di peso e un'inferiore aspettativa di vita.

È molto più facile ingoiare una pasticca che pensare un intervento psicosociale. "Anni fa avevamo provato a far passare una legge per rendere gratuita la psicoterapia" ricorda Cancrini, "tutti erano d'accordo a parole ma non è mai passata. E in fondo introdurre nuove patologie ha anche un effetto rasserenante sul singolo: se esiste il virus dello shopping compulsivo allora non è colpa mia, sono assolto". Le Big Pharma fanno la loro parte nel mercato delle indulgenze. Ed è un fatto che il 70 per cento dei membri della task force che redige il Dsm-V ha ammesso rapporti diretti con l'industria, un conflitto di interessi aumentato del 20 per cento rispetto ai curatori del Dsm-IV. Quando c'è da finanziare convegni o laboratori spesso sono le aziende a metter mano al portafogli. Nel suo accorato appello per fermare la deriva medicale il professor Frances ammette errori nella sua gestione: "Nell'edizione del '94 provammo a essere il più attenti e conservativi possibile nel definire le patologie. Eppure involontariamente abbiamo contribuito a tre false epidemie: il disordine da deficit di attenzione, l'autismo e il disordine bipolare nei bambini. Adesso possiamo dire che la nostra rete aveva maglie troppo larghe e ha catturato tanti pazienti che sarebbero stati molto meglio se non fossero mai entrati nel sistema sanitario mentale". Ex ragazzi vivaci bombardati col Ritalin. Siamo ancora in tempo per evitare un bis che potrebbe avere conseguenze ancora peggiori.”

“Nell’era della chirurgia plastica anche il disagio è un neo da togliere

di Michele Serra

Chi c'è dietro il dilagante potere delle case farmaceutiche? Ma è ovvio: ci siamo noi. Non siamo solo le vittime, non siamo solo i complici, siamo anche i mandanti della medicalizzazione della vita. Se ogni disagio diventa un insopportabile dolore, se ogni mancanza diventa una voragine nella quale temiamo di sprofondare, la nostra soggezione all'aiuto farmacologico, al sostegno psicologico, aumenta in progressione geometrica.

Accettare l'imperfezione, sopportare il limite, non sembra essere una qualità del nostro tempo. Peccato che niente sia più vulnerabile (meno perfetto) dell'ansia di perfezione: ci rende insicuri, fragili e permeabili ad ogni speculazione sulla nostra fragilità. Se il timido, il nervoso, il troppo sensuale, il vivace si convincono della natura sindromica di un tratto della loro personalità, ecco che aumenta a dismisura il target degli impasticcabili. In fin dei conti poter medicalizzare un difetto, o un ingrediente indigesto del nostro carattere, ci permette di estroiettarlo: non sono io, "quella cosa lì", è un accidente, un'intrusione, un virus, un corpo estraneo del quale liberarmi.

Alla chirurgia estetica di massa minaccia di sommarsi anche la smania di estirpare i difetti, veri o presunti, della nostra fisionomia psicologica. E la "personalità perfetta", così come sortisce da questo quadro ossessivo, assomiglia molto al "volto perfetto" prodotto dal bisturi: seriale, omologato, con i connotati individuali cancellati insieme alle rughe. Come se la scrittura della vita contenesse tali e tanti errori che è più prudente, più rassicurante azzerarla. (Meglio non avere faccia che averne una troppo impegnativa, sembrano dirci i volti piallati di migliaia di signore. Qualcuno deve averle convinte che l'età è solo una sindrome: il tempo è una malattia?)

Credo che "disagio" sia la parola chiave. Nei nostri anni ogni normale sottozero invernale diventa "gelo polare", e ogni normale canicola estiva diventa "caldo record". E "Italia paralizzata dal gelo" è il titolo terrifico - e rituale - che accompagna il ritardo dei treni, gli ingorghi causati dalla neve, le astanterie che si affollano di anziani fratturati, insomma una straordinarietà così prevedibile da far parte, a pieno titolo, della normalità. Una specie di pigrizia nevrastenica (ossimoro) ci fa considerare inaudito e insopportabile qualunque intoppo, qualunque fatica straordinaria. Se ogni disagio diventa "emergenza", ogni stato di malessere diventa "malattia". E in un paio di generazioni siamo passati dal negazionismo bigotto (quando la depressione, lei sì una sindrome in piena regola, era considerata un banale cattivo umore) all'estremo opposto: una credulità disarmata di fronte alla medicalizzazione di tutto.

Salutismo compulsivo e ipocondria di massa mi sembrano fortemente alimentati dalla dilagante incapacità (questa sì patologica) di affrontare il disagio. Non il dolore, o la tragedia, o la morte: il disagio. La normale fatica di convivere con ostacoli esterni e interni, intoppi sociali e privati. Qualcosa che appartiene al corso quotidiano delle cose. L'abitudine alla nostra inadeguatezza, quel famoso "sapersi accettare" che a partire dal mondo classico è uno degli obiettivi della maturità. Suscita una ragionevole paura un mondo che crede di poter "guarire" da se stesso con una pillola, anzi con mille pillole per ciascuna delle mille inquietudini che ci fanno compagnia. Fa paura perché è - soprattutto - un mondo immaturo, non adulto. Suggestionabile. Continuamente bisognoso di una "guida" esterna. Il miglior mondo possibile per chi vuole vendere non solo le pillole, ma tutto il vendibile.”

2.

Non si può chiedere alla stampa di andare al di là della denuncia di un fenomeno inquietante qual è quello della medicalizzazione e della psichiatrizzazione della vita. Negli articoli riportati la denuncia fa chiaramente riferimento all’inesausta avidità di denaro delle industrie farmaceutiche e alla connivenza di una società ormai incline a delegare alla medicina la soluzione dei problemi umani. Occorre aggiungere qualcosa.

Intanto c’è un dato di fatto statistico di cui tenere conto: la crescita reale del disagio psichico (soprattutto per quanto riguarda le sindromi ansiose e quelle depressive) nel contesto delle società avanzate. A partire dagli anni ’80 del Novecento sino a qualche anno fa (en passant, la restaurazione psichiatrica si è avviata contemporaneamente al rilancio del neoliberismo), la neopsichiatria ha tentato sistematicamente di negare tale dato in quanto incompatibile con l’ipotesi di una predisposizione genetica ai disturbi psichici. I geni infatti si riproducono ad ogni generazione. Quella crescita, invece, è avvenuta nel giro di un ventennio e implica evidentemente rilevanti cambiamenti ambientali.

La negazione è stata portata avanti sulla base di una contraddizione clamorosa. Per un verso, infatti, soprattutto in riferimento alla depressione, la neopsichiatria ha esteso a tal punto la categoria dei disturbi dell’umore da far rientrare in essa una qualsivoglia fluttuazione anche psicologicamente comprensibile. Per un altro, l’estensione nosografica, del tutto arbitraria, è stata giustificata come una sorta di screening umanitaristico rivolto a debellare il male oscuro, le mal du siècle.

Via via che lo screening ha funzionato è risultato chiaro che se le prescrizioni di antidepressivi sono talora del tutto o quasi prive di fondamento, il numero dei soggetti effettivamente affetti da depressione è effettivamente aumentato, nel corso degli anni, in misura esponenziale, in una misura cioè incompatibile con l’ipotesi della predisposizione genetica.

Certo l’opinione pubblica non si interessa se non distrattamente di scienza, e mantiene una sorta di soggezione sacrale nei confronti degli psichiatri. Il problema è che essi, nella misura in cui pretendono per la loro disciplina uno statuto medico, o meglio neurologico se non addirittura genetico (il prof. Cassano scrisse anni fa che gran parte delle sindromi psichiatriche sarebbero divenute di pertinenza genetica), devono fare i conti con le istituzioni scientifiche che negano pervicacemente la validità delle ipotesi che essi avanzano.

Si è posto poi un altro problema.

Il DSM-IV ha un’impostazione categoriale di stretta derivazione dal modello medico, che descrive le sindromi psichiatriche come entità statiche, a confini definiti, ciascuna con un proprio corredo sintomatologico, una determinata eziologia, una specifica terapia ed un proprio decorso.

Nel corso del tempo questo ordinamento nosologico è risultato ben poco corrispondente alla realtà clinica. In ogni sindrome c’è qualche sintomo di troppo, che non appartiene alla categoria, e le esperienze psicopatologiche evolvono spesso transitando da una categoria all’altra. la neopsichiatria ha tentato di fare fronte a questa difficoltà ammettendo la co-morbidità, vale a dire l’esistenza di sindromi miste. A lungo andare, però, ha dovuto prendere atto dell’assoluta astrattezza e insufficienza del modello categoriale, e ha scoperto l’uovo di Colombo, vale a dire che l’universo psicopatologico è un continuum all'interno del quale si collocano le singole esperienze psicopatologiche.

Questa presa d’atto avrebbe potuto produrre un cambiamento paradigmatico radicale. Qualunque fenomenologia che ha uno spettro continuo implica una matrice dinamica comune. In rapporto alla psicopatologia, è evidente che tale matrice non può essere ricondotta che al flusso incessante dei contenuti psichici consci e inconsci con i loro correlati neurofisiologici e biochimici. Il passaggio però da una concezione organicistica somato-psichica (organicistica) ad una concezione psico-somatica avrebbe però significato, per i curatori del DSM, tornare all’impostazione della prima edizione del 1952, che concedeva grande credito alla psicoanalisi. Avrebbe significato in breve riconoscere la validità del modello neuropsicoanalitico, che cerca di integrare i dati forniti dalle neuroscienze contemporanee con quelle di una psicoanalisi “rivisitata” alla luce di essi.

Di fronte alle prove inconfutabili dei limiti del modello categoriale, la neopsichiatria ha preferito semplicemente, anziché invertire la rotta, correggerla, transitando dall’approccio categoriale a quello dimensionale.

Il modello dimensionale scompone gli stati psicopatologici in singole funzioni ciascuna delle quali può presentarsi in gradienti di intensità diversa, dalla norma alla patologia nell'ambito di una sola sindrome ed in quello di uno" spettro" transnosologico.

La correzione di rotta, in pratica, consiste nel non considerare come entità reali le categorie diagnostiche, che in psichiatria raramente si presentano nella loro ideale descrizione, orientandosi verso un approccio classificativo, che considera i diversi sintomi autonomamente, in un "continuum" tendenzialmente transnosografico.

Una dimensione psicopatologica viene definita come un'area di funzionamento alterata che è descritta da un insieme di sintomi che concorrono alla sua identificazione con un peso differenziale.

I sintomi, dunque, non vengono più riferiti ad una categoria nosografica ma ad un funzionamento psichico alterato che, nel loro complesso, permettono di identificare.

Il modello dimensionale viene spacciato come più rispettoso dell'unicità e dell’irripetibilità dell’esperienza individuale, ma, al solito, si tratta di un flatus vocis. Il rispetto si riduce infatti a ritenere che un soggetto possa avere una malattia che, contemporaneamente, o nella sua evoluzione è una sorta di collezione di sintomi del più vario genere, che fanno capo all’ansia, alla depressione, all’eccitamento, a disturbi del comportamento, a vissuti deliranti, ecc. un bel progresso, indubbiamente.

Su questa base, epistemologicamente confusa, si giustifica l’orientamento farmacoterapeutico già in atto di somministrare miscele di farmaci (ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, neurolettici, ecc.) con un indubbio vantaggio per le case farmaceutiche.

Il passaggio dall’approccio categoriale a quello dimensionale ha prodotto poi un’altra conseguenza: la vanificazione del concetto di normalità e l’assimilazione alla psichiatria di tutto l’universo umano. La dimensione, al limite, infatti è null’altro che un sintomo, che può essere dichiarato dal soggetto o interpretato dallo psichiatra. Se si dà anche solo un sintomo, ci deve essere una disfunzione che lo sottende.

Su questa base si spiega la proliferazione delle etichette psichiatriche che, presumibilmente, daranno al DSM-V la connotazione di un enorme compendio dello “sciocchezzaio” umano, vale a dire dell’assoluta incapacità dei neopsichiatri di capire qualcosa dell’umano e della connivenza di numerosi soggetti che accetteranno di essere diagnosticati e curati pur di non fare i conti con il loro mondo interiore, con le loro contraddizioni e con i loro conflitti.

C’è da inquietarsi per tutto questo, ma, al di là, dell’inquietudine, occorre situare ciò che sta avvenendo nel contesto del mondo in cui viviamo.

Le società occidentali sono in crisi. Anche se l’aspetto più rilevante di tale crisi è quello economico, si tratta di una crisi globale che coinvolge la politica, la struttura sociale, la famiglia, la scuola, gli ambienti di lavoro, l’informazione, la cultura, ecc. La ricaduta di tale crisi a livello psicosociologico ha un interesse particolare nella cornice del nostro discorso.

A quel livello, essa infatti comporta per un verso una crescente e ossessiva aspirazione ad essere normali, che scongiura il rischio di ritrovarsi emarginati o investiti da giudizi squalificanti, e, per un altro, un disinvestimento altrettanto crescente delle risorse personali dal terreno della maturazione personale, che implica impegno, conoscenza di sé, capacità di demistificare la propria condizione, accettazione dei limiti e delle contraddizioni umane, ecc.

La pressione normativa, che non dà ai soggetti né il tempo né il modo né gli strumenti per maturare, li obbliga a simulare, vale a dire a mimare sul piano comportamentale uno statuto apparente di normalità dietro il quale si cela una personalità sostanzialmente iposviluppata in rapporto alle potenzialità individuali.

Solo raramente questa condizione coincide con un’apparente equilibrio psichico e comportamentale. Più spesso, quello statuto, in conseguenza dell’iposviluppo della personalità, comporta delle “smagliature” che la neopsichiatria si propone di risolvere artificialmente, con i farmaci. In questa ottica il farmaco diventa una protesi dell’Io nella sua tensione verso un io ideale, che di solito è alienato, e allontana il soggetto dal percepire la sua condizione realmente carenziale.

Al di là della critica scientifica, penso che questa propsettiva possa essere scongiurata solo allargando il discorso. L’APA ha operato una scelta di fatto organicistica, integrata con gli interessi dell’industria psicofarmacologica, tanto più pericolosa quanto più essa si propone al paziente in termini pragmatici. In questa cornice non si danno problemi da comprendere ma solo sintomi o disfunzioni da risolvere perché essi incidono sulla vita del singolo individuo. La loro genesi perde qualunque significato a favore dell’accertamento diagnostico e della cura.

Si tratta, a ben vedere, di un orientamento agevolmente riconoscibile come indiziario della cultura statunitense che, per un certo periodo, ha subito l’egemonia psicoanalitica ma in una versione adattivista che, come obiettivo, si poneva l’efficienza sociale del paziente. Tramontata questa illusione, l’obiettivo si ripropone sul terreno della farmacologia.

Dal momento in cui la psichiatria, sopravvissuta alle contestazioni antipsichiatriche degli anni ’70 del Novecento, ha cominciato a ricompattarsi sotto l’egida delle industrie farmaceutiche, era facilmente prevedibile che si sarebbe giunti alla medicalizzazione dell’esistenza.

Il volume di affari della psichiatria è destinato ad espandersi, e in una società del libero mercato, nessuno potrà impedire alle persone di ingerire farmaci per smaltire ansie, alleviare depressioni, arginare le compulsioni, ecc.

Rimangono però due nodi insoluti.

Il primo è se il mondo accetterà la globalizzazione psichiatrica dovuta ad un manipolo di studiosi statunitensi nessuno dei quali ha mai detto o scritto qualcosa di minimamente interessante, dato che gran parte di essi lavorano solo su dati statistici (o, nei momenti di relax, con i numeri dei loro conti correnti bancari). La pax americana, purtroppo, ha anche questo triste risvolto per cui, ora più che mai, non si può essere antipsichiatri senza essere antistatunitensi.

Il secondo è legato alla pratica clinica. Alla farmacofilia crescente di soggetti che affidano agli psichiatri la gestione della mente, continua a corrispondere la farmacofobia di pazienti psichiatrici gravi che riguarda un numero notevole di soggetti affetti da disturbi dell'umore e soprattutto i cosiddetti schizofrenici.

Un giorno, quando l’umanità recupererà la ragione, e capirà che il sogno della felicità farmacologica (sottoprodotto del fallimento del sogno della felicità “capitalistica”) è privo di fondamenti, occorrerà onorare questi pazienti come dissidenti e resistenti che, se affrontati sul piano del rispetto della loro dolorosa esperienza, non rifiutano affatto l’aiuto. Nella misura in cui soffrono per circostanze che, sempre e comunque, si riconducono a vicissitudini interpersonali e sociali, è all’umano che essi continuano a rivolgersi, consapevolmente e inconsapevolmente, per stare meglio o "guarire".