Luigi Anepeta

Nuove vie per l'antipsichiatria


Quella che segue è la relazione che ho scritto per la seconda Conferenza nazionale del Telefono Viola (Roma, 21 maggio 2011), il cui compito istituzionale è la lotta contro gli abusi psichiatrici e in particolare l’uso illecito del TSO.

Nuove vie per l’Antipsichiatria

1.

La preannunciata pubblicazione del DSM-5 (la cosiddetta “Bibbia” della Psichiatria) offre, in rapporto alle anticipazioni che sono state fatte sulla stampa, uno spunto di riflessione.

Si tratta, come si intuisce, di uno sviluppo intrinseco dell’ideologia psichiatrica, la cui mira è di assoggettare gran parte del mondo all’uso di psicofarmaci.

Il target elettivo naturalmente rimangono le grandi sindromi psichiatriche (il Disturbo bipolare e la Schizofrenia), che postulano, nell’ottica psichiatrica, un trattamento farmacologico permanente. La loro incidenza è circa del 2,5% sulla popolazione mondiale (150 milioni di persone). Dato un costo medio giornaliero valutabile intorno ai 10 euro, la realizzazione di un controllo farmacologico su questa popolazione comporterebbe, per le industrie farmaceutiche, un guadagno di un miliardo e mezzo al giorno, cioè più di 500 miliardi l’anno. Si tratta di un business potenziale che ha pochi confronti nell’ambito della medicina.

Ma le ambizioni della Psichiatria non si limitano a questo.

Il commento fatto da alcuni esperti che hanno avuto modo di visionare il DSM-V è che, alla luce dei suoi schemi diagnostici, proliferati tre volte rispetto alla prima edizione, ogni essere umano andrebbe considerato affetto da una qualche patologia che potrebbe essere, se non del tutto risolta, migliorata dall’uso dei farmaci. In teoria dunque almeno 3-4/5 della popolazione mondiale potrebbero aver bisogno, transitoriamente o stabilmente, di cure psicofarmacologiche per i disturbi più vari (dalla timidezza alle compulsioni di ogni genere).

Non c’è nulla di sorprendente in un progetto il cui radicalismo sembra quasi provocatorio. Paradossalmente la Psichiatria tende ad eliminare il confine tra normalità e anormalità in senso inverso rispetto a quanto hanno tentato di fare la psicoanalisi e l’antipsichiatria.

E’ dall’epoca della nascita della psicoanalisi che quel confine è venuto meno, sulla base del riconoscimento del fatto che nuclei conflittuali potenzialmente capaci di produrre sintomi o comportamenti psicopatologici sono presenti in ogni personalità a livello inconscio. Definendo come quantitativo e non qualitativo quel confine, la psicoanalisi, indipendentemente dall’ideologia conservatrice di Freud, ha rappresentato una delle prime contestazioni articolate al paradigma organicistico. Nel suo aspetto rivoluzionario, che implica la messa in discussione della presunta normalità dell’Io, essa avrebbe dovuto promuovere una riflessione profonda sullo statuto mistificato della coscienza, e rinnovare di conseguenza l’approccio alla psicopatologia.

Di fatto, e nonostante i suoi limiti ideologici, la psicoanalisi ha profondamente influenzato l’antipsichiatria degli anni ’60 che, però, non è mai riuscita a trovare un punto di integrazione tra le sue varie tendenze (il libertarismo illuministico di Szasz, la fenomenologia esistenzialista di Laing, il radicalismo sociopolitico di D. Cooper, del collettivo SPK di Heidelberg e di Franco Basaglia). E’ singolare inoltre che il termine antipsichiatria sia stato coniato e adottato solo da D. Cooper e rifiutato da tutti gli altri.

Anche per la sua scarsa integrazione teorico-pratica, la spinta culturale dell’antipsichiatria è venuta meno sull’onda della rimozione della cultura degli anni ’70 del Novecento.

I motivi della rimozione, per cui gli antipsichiatri dichiarati oggi in tutto il mondo assommano appena a qualche decina, sono molteplici.

E’ fuori di dubbio che dopo l’attacco al modello organicistico, che ha riconosciuto la sua massima e più drammatica espressione nell’Istituzione manicomiale, la Psichiatria, avvalendosi di una sponsorizzazione sempre maggiore da parte delle case farmaceutiche, si è riorganizzata lentamente, ma con una progressione che, negli ultimi 20 anni è divenuta esponenziale.

La riorganizzazione è passata attraverso una propaganda capillare orientata apparentemente in senso umanitaristico. Si trattava, e si tratta, di persuadere le persone che le malattie mentali (anche le più gravi) sono malattie come le altre. L’intento del messaggio era, ed è, di togliere ad esse qual tanto di misterioso e di inquietante, che esse conservano a livello di senso comune. Una conseguenza della medicalizzazione delle malattie mentali comporta, però, che esse vanno curate come le altre malattie, e cioè sostanzialmente con i farmaci.

Le prove del successo della propaganda psichiatrica sono statisticamente quantificabili. Solo per parlare dell’Italia, nell’ultimo quindicennio la diffusione di antidepressivi è triplicata, quella degli ansiolitici è raddoppiata e anche i neurolettici (nonché i famigerati equilibratori dell’umore) sono andati incontro ad un’escalation, anche se di minore portata.

Criticare questo andazzo sul piano scientifico è fin troppo semplice. Ancora oggi (e presumo per sempre) non si dà alcuna prova certa che un qualunque disturbo mentale riconosca una causalità meramente biologica. Allorché gli psichiatri affermano, in rapporto ai disturbi dell’umore e alla schizofrenia, che è stata dimostrata la loro base genetica e/o biochimica (quando non addirittura strutturale), essi mentono sapendo di mentire.

Sarebbe ingenuo, però, non prendere atto che il successo della Psichiatria non sarebbe potuto avvenire se coloro che si oppongono alla teoria e alla pratica psichiatrica non avesse commesso molteplici errori e non si fossero attestati su una critica radicale sostanzialmente giusta, ma che, in rapporto all’opinione pubblica, lascia il tempo che trova.

Affermo schiettamente che non penso che la teoria e la pratica psichiatrica possano essere superate in virtù di slogan. Affermare che la malattia mentale, intesa come malattia del cervello, non esiste e che i disturbi psicopatologici sono espressioni di vicissitudini relazionali sono verità di fatto che non hanno, però, alcuna incidenza sull’opinione pubblica.

Anche se i fenomeni psicopatologici rientrano in massima parte nella categoria, messa a fuoco negli anni ’70 del secolo scorso, della devianza residua, e si esprimono sotto forma di comportamenti che violano semplicemente il senso comune (l’insieme delle norma implicite che definiscono come ci si deve comportare per risultare normali), rimane il fatto che essi, di solito, sono rilevati ed etichettati socialmente ancor prima che intervenga la Psichiatria. L’intervento psichiatrico, infatti, di solito si realizza in conseguenza di un’identificazione sociale del disagio psichico.

E’ la società, insomma, la grande istituzione di controllo da cambiare, perché è essa ad offrire alla Psichiatria il potente punto su cui far leva.

Il cosiddetto senso comune (uno dei cui aspetti è la distinzione tra normalità e anormalità) non è un dato fisso e immutabile dell’organizzazione sociale. Esso è riconducibile alla cultura con la c minuscola, vale a dire all’insieme di tradizioni, modi di sentire e di pensare, ideologie, pregiudizi, luoghi comuni, ecc. che, nel loro complesso, contribuiscono, bene o male, a dotare una società di una sua identità e di un certo (sempre precario) grado di coesione.

Il superamento del senso comune, vale a dire il prodursi in senso gramsciano di un nuovo senso comune più fedele alla realtà delle cose, dipende dalla Cultura (con la C maiuscola), cioè dalla riflessione critica sull’uomo e sui fatti umani portata avanti da singoli individui che scoprono qualche verità destinata successivamente ad essere riconosciuta dalla società.

Nel suo spirito, di fatto, la legge 180 era orientata in questa direzione, ma la pratica territoriale l’ha messa brutalmente di fronte a indefinite resistenze sociali, legate appunto al senso comune corrente, che, lentamente, l’hanno costretta a regredire sul piano di una pratica distinguibile da quella tout court psichiatrica solo (e neppure sempre) per un atteggiamento umanitaristico che prevale tra gli operatori che ad essa fanno riferimento.

2.

Se le cose stanno così, il rilancio dell’antipsichiatria, con l’obiettivo di produrre un nuovo senso comune sui fenomeni psicopatologici, si impone. Il problema è come portarlo avanti.

Non ho ovviamente una ricetta magica, ma ho maturato nel corso degli anni alcune riflessioni a riguardo che mi sembra importante esporre.

Anzitutto, occorre essere realisti.

Posto che il termine psicosi è un’etichetta sociale che copre una realtà umana di sofferenza personale e interpersonale, è fuori di dubbio che qualunque esperienza così definita pone rilevanti problemi di gestione sociale e terapeutica. Chi, come me, si dedica da molti anni, alla psicoterapia degli psicotici (utilizzo questo termine senza ovviamente attribuire ad esso alcun significato nosografico), sa bene che i “successi”, che richiedono, tra l’altro una serie di condizioni ambientali favorevoli, non vanno al di là del 25% dei soggetti.

Penso che questa percentuale si possa estendere con pochi dubbi a tutte le esperienze alternative alla psichiatria.

Ciò significa, né più né meno, che gran parte dei soggetti etichettati come psicotici o perché rifiutano un intervento alternativo (solitamente sulla base della formula per cui i pazzi sono gli altri) o perché ne traggono un modesto vantaggio sono destinati quasi inesorabilmente a confluire nella spirale della Psichiatria tradizionale e a cronicizzare, vivendo, nella migliore delle ipotesi, imbottiti di psicofarmaci.

L’esito delle terapie alternative è subordinato, oltre alla resistenza che i soggetti oppongono al riconoscimento della loro sofferenza interiore, al contesto ambientale, e in primis a quello familiare.

Il contributo delle famiglie alla genesi interattiva del disagio psichico si può ritenere ormai sufficientemente comprovato. Non si dà ovviamente alcuna colpa da parte delle famiglie, che, senza volere, cadono in trappole interattive il cui effetto è patogeno.

E’ un fatto, però, che quando esse si trovano di fronte ad un membro che esibisce comportamenti strani o abnormi, la loro prima domanda, rivolta agli Psichiatri, è di sapere che cosa egli ha, cioè in pratica da quale malattia è affetto. Gli Psichiatri offrono una risposta standardizzata facendo riferimento ad una malattia mentale di origine genetica/e o biochimica ad evoluzione cronica, che può riconoscere, posta l’adesione alle cure farmacologiche, miglioramenti ma mai la guarigione.

Di fronte ad una spiegazione del genere solo alcune famiglie rimangono perplesse. Le altre - la maggioranza -, sia pure con inquietudine e dolore, prendono atto che le cose non possono stare che come dicono gli Psichiatri. Esse non hanno alcuna capacità critica nei confronti di una diagnosi che implica competenze neurobiologiche e mediche che non hanno.

Tutti gli psichiatri alternativi, gli antipsichiatri o coloro che si definiscono non-psichiatri offrono di solito un'interpretazione molto diversa, facendo riferimento a disturbi relazionali e a sofferenze soggettive. Il problema è che questo codice alternativo non chiarisce in alcun modo i nessi che si danno tra interazioni interpersonali, elaborazioni soggettive e comportamenti psicopatologici.

Per quanto frutto di una mistificazione, insomma, il codice interpretativo psichiatrico viene in genere accettato, perché “spiega” (utilizzando una metafora medica) ciò che sta accadendo, mentre quello alternativo viene rifiutato in quanto non sembra in grado di spiegare i fenomeni psicopatologici nella loro apparente irrazionalità e assurdità.

Tranne che non ci si voglia ridurre nel ruolo di “illuminati” che sanno come stanno le cose, anche se la maggioranza rifiuta la verità, occorre farsi carico dei due dati importanti cui ho fatto cenno - il rifiuto di parecchi pazienti psicotici di riconoscere la loro sofferenza e il loro bisogno di aiuto e la cultura media delle famiglie, che le induce ad accettare, bon gré mal gré, la diagnosi e il trattamento psichiatrico - e chiedersi che cosa si possa fare.

Sinceramente, nell’immediato penso che non si possa fare molto se non continuare a lottare contro i più evidenti soprusi che avvengono in violazione della legge 180. Ma la teoria e la pratica psichiatrica tradizionale si possono ritenere in toto un sopruso dei diritti dei pazienti, anche quando si realizzano nel rispetto della legge.

Il superamento della Psichiatria potrà avvenire solo in virtù di un programma a medio e a lungo termine incentrato su di un’opera capillare di prevenzione e su di un lavoro culturale che fornisca ai pazienti, alle famiglie e alla società una nuova chiave per interpretare i comportamenti psicopatologici.

Per quanto riguarda la prevenzione, due aspetti mi sembrano importanti.

Il primo è introdurre nelle scuole (a partire dalle medie) una nuova disciplina - che definisco panantropologia - la quale possa trasmettere il sapere accumulato sul funzionamento del cervello e della mente dalla genetica, dalla neurobiologia, dalla psicoanalisi, dalla sociologia, ecc.

Ci si può chiedere a cosa possa servire una cosa del genere.

Faccio, a riguardo, solo due esempi.

Il primo riguarda le allucinazioni. Freud ha avanzato l’ipotesi che le allucinazioni equivalgano a sogni ad occhi aperti, vale a dire ad irruzioni dell’inconscio nello spazio della coscienza. Si tratterebbe dunque di fenomeni significativi degli assetti interiori dei soggetti, che, però, avvenendo in stato di vigilanza, non comportano la consapevolezza della loro genesi interna. La neurobiologia ha scoperto che le allucinazioni attivano gli stessi centri percettivi che sono sollecitati dagli stimoli ambientali. Ciò significa che quei centri possono essere stimolati anche dall’interno. Ciò rende conto della difficoltà dei soggetti di distinguerle dalle percezioni reali.

Se le allucinazioni equivalgono a sogni ad occhi aperti, esse si realizzano ogni notte in ogni soggetto attraverso l’attività onirica. Tutti gli esseri umani, dunque, sperimentano fenomeni allucinatori. La potenzialità allucinatoria della mente è, dunque, universale. L’unica differenza è che, in alcuni soggetti, tale potenzialità, per effetto di conflitti interiori, si attiva anche di giorno.

Se questa consapevolezza venisse a fare parte del senso comune, penso che affrontare esperienze all’interno delle quali si realizzano fenomeni allucinatori sarebbe molto più semplice, perché non comporterebbe alcuna etichetta ma solo l’intento di capire il loro significato.

Il secondo esempio riguarda la predisposizione al disagio psichico. Mettendo da parte l’ipotesi psichiatrica della vulnerabilità costituzionale allo stress, ritengo che tale predisposizione esista, ma sia di legata ad una tipologia di personalità che, tra i suoi vari sviluppi, comporta anche la possibilità di cadere in una trappola psicopatologica.

Cerco di chiarire questo aspetto, che ritengo di fondamentale importanza.

Gli esseri umani vengono al mondo con le stesse caratteristiche mentali: sono dotati di capacità emozionali, intuitive e cognitive.

E’ ingenuo però non riconoscere che si dà una differenza tipologica fondamentale, originariamente messa in luce da Jung: la differenza tra estroversione e introversione.

Se poniamo da parte il pregiudizio che, nella nostra società mercantile (all’interno della quale la normalità postula la capacità di valorizzare se stessi, di esibirsi e di vendersi), incombe sull’introversione, si giunge facilmente a riconoscere in essa un modo di essere affatto particolare, caratterizzato da grandi capacità intuitive ed emozionali spesso associate ad una vivace intelligenza. Non è un caso che questa tipologia sia fortemente rappresentata in ambiti culturali intensamente creativi (filosofia, letteratura, musica, arte, scienza, ecc.).

Nella storia della psicoanalisi, varie volte coloro che si sono dedicati alle “psicosi” hanno rilevato le doti non comuni presenti nei pazienti. Io sono giunto alla conclusione che tali doti siano da ricondurre ad un corredo genetico introverso.

Perché mai, però, c’è da chiedersi un corredo del genere esita spesso in un’esperienza di disagio psichico?

La risposta è semplice.

Gli introversi non sanno di esserlo perché nessuno glielo dice. Essi non solo percepiscono una diversità dolorosa rispetto agli altri, che non riescono a comprendere. In conseguenza delle loro capacità intuitive e di un ricco corredo emozionale, essi colgono al volo le infinite contraddizioni che caratterizzano il mondo e, non comprendendole, stentano ad adattarsi ad esse. In più, essi si confrontano con un modello di normalità prevalente - quello estroverso - che li opprime, essendo per molti aspetti estraneo al loro essere.

E’ difficile illustrare qui come da queste premesse si giunga al disagio psichico. In termini generali basterà dire che, interagendo con un ambiente inconsapevolmente (e talora purtroppo consapevolmente) ostile, per un verso gli introversi sviluppano un vissuto di radicale inadeguatezza e, per un altro, vanno incontro a molteplici reazioni di rabbia nei confronti dello stato di cose esistente nel mondo. La rabbia accumulata nel corso degli anni, sia vissuta coscientemente o rimossa, ha degli effetti solitamente catastrofici, sia che essa imploda o che, più di rado, esploda.

Io non ritengo che l’introversione sia in sé e per sé una predisposizione al disagio psichico. Penso piuttosto che, se non si imbatte in circostanze ambientali avverse, essa può portare le persone a realizzare esperienze estremamente significative sotto il profilo umano, affettivo, sociale e creativo.

E’ un fatto però che, nel nostro mondo, le condizioni ambientali di sviluppo sono, per gli introversi, negative, e facilmente danno luogo ad un malessere sotterraneo che, alla fine, può esitare in un disagio psichico franco.

Nella mia esperienza di psicoterapeuta, che dura ormai da oltre trent’anni, ho riscontrato tratti evidenti di introversione in quasi tutti i pazienti. Il campione evidentemente è limitato, ma non penso che il rilievo sia casuale né tanto meno dovuto ad una distorsione interpretativa.

Le carriere di vita che si ricostruiscono in rapporto alle fasi evolutive sono sostanzialmente due: quella dei bambini d’oro e quella dei bambini difficili, più o meno intensamente oppositivi. Entrambi queste categorie sono facilmente identificabili a livello scolastico, e su esse si può e si deve intervenire.

La prevenzione del disagio psichico, a mio avviso, passa attraverso la diffusione di una cultura che consenta agli introversi di seguire i loro modi e tempi di sviluppo e di essere riconosciuti nel loro valore umano.

E’ a questo fine che ho fondato un’Associazione - la LIDI (Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi: www.legaintroversi.it) - il cui intento è di promuovere il riconoscimento precoce della diversità introversa e i suoi possibili sviluppi negativi in fase evolutiva, che precedono con una frequenza inquietante la manifestazione di un disagio psichico.

Il riferimento all’introversione è estremamente importante nel rapporto con le famiglie perché offre loro un codice interpretativo di ciò che è accaduto e che accade il quale può essere agevolmente compreso e, almeno per quanto riguarda le fasi evolutive, verificato.

I nessi tra introversione e manifestazioni psicopatologiche sono naturalmente più complessi. Rimando a riguardo al mio sito personale (www.nilalienum.it) nel quale ho tentato di esporli in maniera articolata. Sul sito è presente anche una sezione dedicata all’Antipsichiatria, che viene aggiornata di continuo

Rimane ferma la mia convinzione che, al di là del contrastare la violenza psichiatrica, occorre procedere ad una riorganizzazione culturale del sapere sull’uomo e sui fatti umani (compresi quelli psicopatologici) che, nel corso del tempo, potrà produrre un nuovo senso comune riguardo ad essi.