I responsabili della morte di Gesù

1.

Non avendo alcuna intenzione di andare a vedere il film di Gibson, un polpettone di pessimo gusto, che la Chiesa cattolica ha apprezzato ufficialmente perché corrobora la teologia della Croce, ritengo opportuno spendere qualche parola sul problema che esso affronta. Alcuni critici e alcune persone che lo hanno visto non hanno dubbi sul fatto che il film attribuisca la responsabilità della morte di Gesù agli Ebrei, avallando, dunque, la colpa di deicidio che tanto peso ha avuto storicamente nel giustificare la loro persecuzione (da parte dei cristiani, anzitutto).

Sarebbe facile confutare quest'assunto in termini logici. La colpa richiede, in termini giuridici non meno che morali, il dolo, vale a dire l'intenzionalità e la volontà di fare il male. Se si assume questo concetto, è chiaro che gli Ebrei non sono colpevoli del deicidio poiché ai loro occhi era abominevole che un uomo, tra l'altro povero e poco ligio nell'osservare la legge mosaica, osasse dichiarare di essere figlio di Jahve. Se hanno congiurato per farlo morire, è perché lo ritenevano un pazzo pericoloso. Naturalmente è possibile considerare questo giudizio del tutto errato. Se si riconosce però che è stato esso a promuovere la persecuzione di Gesù, parlare di colpa è del tutto improprio. Gli Ebrei avevano semplicemente una concezione elevata di Jahve, incompatibile con la venuta di un Messia dimesso e inerme.

Se si mette da parte il dolo, rimane il problema della responsabilità. Gesù di fatto è stato trattato come un criminale, condannato e infine crocifisso. Qualcuno dunque deve avere deciso questo.

Prima di affrontare in termini storici il merito della questione, anticipo una conclusione di ordine personale, di cui ho dato conto nel saggio sulla Bibbia (Facci un dio…) e che è il frutto di lunghe riflessioni sui testi sacri e sulla letteratura inerente i vangeli. Mi dispiace dirlo, dato che Gesù è divenuto ormai un'icona della civiltà occidentale, alla quale si richiamano anche un numero consistente di laici in stato di confusione ideologica. Il primo responsabile della condanna a morte è Gesù stesso. Inoffensivo e incapace di fare il male sotto il profilo personale - una colomba in termini moderni -, sotto il profilo culturale e religioso egli era un estremista, che ha letteralmente sbattuto in faccia agli Ebrei una verità (la sua verità) incompatibile con una secolare tradizione, senza dare loro tempo di valutarla e di adattarsi ad essa. O con me o contro di me è stato l'aut-aut provocatorio che egli ha posto ad una società che aveva cercato di compensare la sua decadenza politica, dall'esilio sino alla dominazione romana, aggrappandosi alla religione rivelata a Mosè, di cui era l'unica depositaria. Certo, egli sosteneva di essere venuto a completare e non stravolgere la rivelazione. Per un aspetto almeno, in realtà, la stravolgeva. Il patto intervenuto tra Jahve e Mosè comportava la promessa, per Israele di una futura grandezza riconosciuta da tutti i popoli: un primato spirituale, ma terreno.

L'estremismo di Gesù era invece apocalittico. Egli non vedeva altra soluzione ai problemi del mondo che una fine, ritenuta imminente, la quale avrebbe sancito, altrove, il regno di Dio incentrato sulla giustizia. In quanto trascendente, il messaggio apocalittico di Gesù era, implicitamente, in contrasto con tutti i poteri terreni, religiosi e civili, e fieramente avversi ad essi. Essendo agli occhi degli altri un uomo, quale risultato avrebbe potuto conseguire quest'atteggiamento di sfida se non una rappresaglia da parte di quei poteri? Nell'ottica apocalittica, per cui la morte era una liberazione dai lacci del mondo e dal pericolo della contaminazione, la sfida era del tutto coerente e la rappresaglia auspicata.

Che il messaggio evangelico sia divenuto, nel corso del tempo, un messaggio univocamente fondato sulla fratellanza, sulla solidarietà, sull'amore, sulla pace, nulla toglie al fatto che esso originariamente aveva una carica eversiva. E' banale però ricondurre tale carica alla contrapposizione di quei valori alla legge del più forte, all'ingiustizia, alla prepotenza e alla violenza imperanti. I valori predicati da Gesù, infatti, si riferivano esclusivamente alla comunità dei discepoli, destinati alla salvezza in seguito all'apocalisse. In rapporto agli altri, agli empi e agli ingiusti, essi funzionavano come una spada.

So bene che molti cristiani sono indotti, in buona fede, a aderire ad una versione della vita di Gesù che rimuove l'estremismo e enfatizza l'ecumenismo. Tale versione non trova però riscontro nei Vangeli.

La prova di questo, che depone per l'arbitrarietà del film di Gibson, può essere tratta dalla ricostruzione del rapporto di Gesù con le autorità religiose dell'epoca, e in particolare con i farisei.

2.

All'epoca di Gesù, la religione ebraica, nella sua purezza, veniva portata avanti dai Sadducei, la classe sacerdotale che amministrava il Tempio di Gerusalemme, e dai Farisei, che utilizzavano per il loro insegnamento le Sinagoghe (omologabili alle odierne parrocchie) e da una miriade di sette dissidenti, spesso organizzate sotto forma di comunità separate, la più nota delle quali è quella degli Esseni. Per quanto tra Sadducei e Farisei si fossero date numerose tensioni in passato, essi, pur divisi su molti aspetto teologici, avevano raggiunto un accordo. I Sadducei , classe sacerdotale, amministravano il culto del tempio di Gerusalemme, i Farisei dettavano le regole rituali a cui doveva attenersi ogni ebreo che volesse appartenere ai giusti, ai non contaminati, destinati alla resurrezione e alla salvezza nell'aldilà. I Sadducei stessi si atteneva a quelle regole, anche non credendo nella resurrezione.

Il Vangelo getta sui Sadducei e sui Farisei una luce univocamente pregiudiziale, che non sembra corrispondere ai pochi dati storici disponibili. Se i Sadducei costituivano un'aristocrazia ricca e privilegiata, lontana dal popolo e incline ad accordarsi con i Romani, non immune da influenze ellenistiche, sembra indubbio che tra essi si dessero anche dei sacerdoti profondamente religiosi e consapevoli del loro ruolo.

I Farisei erano invece di estrazione popolare e vivevano a contatto con il popolo, cercando di mantenere viva la fede dei Padri aggiornandola alle esigenze della vita quotidiana e dei cambiamenti storici. Il loro intento era di dimostrare che, con la riflessione e l'argomentazione, dalla Legge Mosaica, integrata con la Misha, vale a dire la tradizione orale trasmessa nel corso dei secoli, era possibile ricavare precetti applicabili alle più varie circostanze della vita per mantenersi in uno stato di purezza (l'impurità agli occhi di Jahve essendo una vera e propria ossessione). Per quanto retto, quell'intento aveva di fatto trasformato la religione ebraica in una pratica rituale ben distante dalle profondità teologiche dei profeti.

Per spiegare questa trasformazione, occorre tener conto del fatto che la storia ebraica, fortemente incentrata sulla religione, aveva riconosciuto due diversi modi d'intendere il rapporto con la divinità, due diverse teologie: quella della Promessa e quella del Patto. Secondo la prima, Dio, avendo eletto il popolo ebraico come suo rappresentante terreno e avendo "unto" uno dei suoi membri (Davide) come re, aveva promesso aiuto e protezione alla sua discendenza e a tutto il popolo. Fedele a questa promessa, egli interveniva nella storia misericordiosamente, salvando Israele indipendentemente dai suoi peccati. La teologia della promessa era dunque legata alla figura del sovrano, Unto (Cristo in greco, Messia in ebraico).

Secondo la teologia del Patto, Dio aveva dato a Mosé una legge da osservare e, in cambio della sua osservanza, si impegnava a proteggere Israele. In quest'ottica, la salvezza implica l'osservanza della Legge e quindi una classe sociale specializzata che guidi il popolo a mantenersi nella retta via segnata da Dio, ad agire dunque sempre conformemente alla sua Legge e a praticare il culto. La teologia del Patto privilegia dunque la funzione sacerdotale rispetto a quella regale.

All'epoca di Gesù, la teologia del Patto era giunta a prevalere nettamente su quella della Promessa. I Sadducei in quanto sacerdoti e i Farisei in quanto interpreti della Legge rappresentavano la classe specializzata che poteva assicurare la salvezza indicando le regole comportamentali per rimanere nell'osservanza. L'ossessione ritualistica dei Farisei riconosceva però ragioni storiche ben precise. Essa si riconduceva alla tradizione di Esdra che, dopo l'esilio babilonese, aveva riconosciuto nei peccati degli Ebrei la causa della durissima punizione inflitta da Dio. Tale tradizione si era rianimata in seguito alla conquista della Palestina da parte dei Romani, il cui dominio appariva come una nuova punizione divina. La potenza romana non aveva estinto del tutto il sogno della venuta del Messia, ma lo aveva relegato in un futuro remoto e imprevedibile (per quanto certo), accentuando la necessità che gli Ebrei ne favorissero la venuta attraverso una corretta osservanza e, nell'immediato, attribuendo ad essa la salvezza individuale.

Le accuse di formalismo e d'ipocrisia rivolte da Gesù ai Farisei sembrano non tenere in alcun conto le loro ragioni: pur non essendo infondate, esse appaiono ampiamente pregiudiziali. Per quanto riguarda il formalismo, i Farisei privilegiavano di sicuro l'adempimento ritualistico della legge mosaica rispetto alla religiosità interiore. Ma ciò era dovuto, per un verso, all'ossessiva enfatizzazione della distinzione tra puro e impuro che, in realtà, caratterizza il Deutorenomio, e, per un altro, alla memoria del terribile castigo dell'esilio inflitto da Jahve al popolo ebraico contaminato dal culto pagano. Di sicuro, i Farisei erano fermi ad una concezione biblica di Dio che privilegiava il suo essere giusto, vale a dire terribilmente punitivo nei confronti dei peccatori, rispetto all'essere misericordioso. Ma tale concezione trova fondamento in tutto il Pentateuco. Rivolgendosi al popolo, la cui domanda era come comportarsi per non peccare, essi privilegiavano i precetti rituali ritenendo inaccessibile ai più le sottili disquisizioni teologiche dei Profeti.

Per quanto concerne l'ipocrisia, essa non sembra trovare fondamento nel comportamento dei Farisei. Essi erano osservanti, rigorosi e profondamente religiosi, anche se fermi ad una religione incentrata sul timore di Dio. Per quanto concerne la precettistica, di sicuro indulgevano ad ammorbidire il rigore delle Leggi mosaiche, talvolta anche stravolgendole. Ma questo era dovuto all'intento di renderle accettabili ad un popolo nel complesso abbastanza rozzo. La preoccupazione dei Farisei era che gli Ebrei rimanessero comunque fedeli al loro Dio e alle loro tradizioni religiose. Nel valutare il loro comportamento, non si può ignorare infatti l'influenza profonda dell'Ellenismo, che comportava il rischio di un'ibridazione sincretica dell'ebraismo.

Il fariseismo nel suo complesso, attraverso il contatto assiduo con il popolo e l'insegnamento nelle sinagoghe, tentava di scongiurare la possibilità che la religione ebraica si riducesse alla visita al tempio di Gerusalemme e al sacrificio rituale. Tentava, insomma, di mantenere la religione sul registro di una pratica che non riguardasse solo il culto (la visita al tempio e il sacrificio rituale), ma tutti gli atti della vita.

Se Gesù avesse riconosciuto la buona fede dei Farisei, avrebbe avuto ragione nel predicare la necessità di un superamento del formalismo nella direzione di una religione interiore, vale a dire nel vivificare quello alla luce del pensiero profetico. Egli, di fatto, particolarmente nel vangelo di Matteo, si riconduce di continuo ai profeti di cui è erede. La sua incomprensione nei confronti della buona fede dei farisei è però totale (e, sia detto en passant, basterebbe da sola ad attestare i suoi limiti umani e culturali, smentendone la divinità). Dall'inizio alla fine dei vangeli, egli li attacca frontalmente con una violenza che raggiunge il suo acme nelle celebri, terribili invettive:

"Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci .

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.

Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; [e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!

Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue del giusto Abele fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachìa, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione." (Matteo, 23, 13-36)

E' evidente che in questa impietosa sfilza di accuse e di contestazioni teologiche c'è qualcosa di vero, ma è espresso in una forma e con un tono che rivelano un astio profondo che giunge all'odio e al misconoscimento totale della funzione storica dei Farisei. Eredi della tradizione di Esdra, senza di loro la religione ebraica si sarebbe dissolta a contatto con l'Ellenismo, e Gesù non avrebbe trovato il terreno fertile per predicare. Un'incomprensione e un pregiudizio così radicali rivelano che Gesù non è figlio di un Dio che sarebbe dovuto comunque essere grato ai Farisei, bensì del suo tempo. La sua cieca ostlità riecheggia inconfutabilmente quella delle sette dissidenti, e in particolare degli Esseni.

3.

L'estremismo di Gesù rivela una vocazione allo scontro e al martirio. Ben consapevoli di questo sono i suoi parenti, preoccupati delle conseguenze a loro carico della sua predicazione eversiva, i quali (compresa la madre Maria) si recano da lui nel vano tentativo di riportarlo a casa, ritenendolo pazzo. Essi sono consapevoli che, per attacchi molto meno virulenti ai Farisei, ritenuti rappresentanti ufficiali della religione ebraica, e alla tradizione che essi rappresentano sono state comminate pene di morte.

Quello che sorprende è che i Farisei non reagiscono immediatamente agli attacchi di Gesù. Essi non sono d'accordo con le sue idee, che non capiscono neppure bene, essendo spesso espresse attraverso parabole criptiche. E' un fatto però che gli concedono di predicare per almeno un anno, lo invitano nelle sinagoghe e lo affrontano spesso ponendogli quesiti atti a chiarire il suo pensiero, il suo comportamento eterodosso e quello degli Apostoli. Essi, insomma, sono paradossalmente tolleranti. Perché? In parte, occorre tenere conto del fascino che Gesù esercita sulle masse ebraiche diseredate, nei cui cuori risuona soprattutto il richiamo alla giustizia sociale. Ma quest'aspetto, enfatizzato nei Vangeli, non è del tutto attendibile. L'entrata a Gerusalemme, sfida finale al potere sadduceo e farisaico, è descritta come trionfale, ma dopo la morte di Gesù, sono solo settanta i fedeli che si raccolgono nel lutto e nella coltivazione della memoria.

In gran parte, la tolleranza dei farisei va ricondotta, presumibilmente, al fatto che essi intuissero che nel messaggio di Gesù c'era qualcosa che poteva essere integrato nella tradizione cui facevano riferimento. I valori predicati da Gesù - la giustizia, la solidarietà, la misericordia, l'amore del prossimo - erano tutti rappresentati nell'Antico Testamento. Per affermarli, però, che bisogno c'era di trascurare i precetti rituali e di violare il tabù del sabato?

Nel conflitto con i Farisei, è Gesù insomma a tirare la corda, opponendo la religione interiore a quella esteriore, come se la fede non comportasse necessariamente anche una pratica e un comportamento rituali.

Solo su due punti, il disaccordo non poteva essere composto in alcun modo: la rivendicazione di Gesù di essere figlio di Dio e l'annuncio dell'imminente fine del mondo. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre nutrire forti dubbi sul fatto che Gesù ritenesse di essere Dio incarnato. E' un fatto che i Farisei non potevano riconoscerlo come tale: primo, perché essi non attendevano il Figlio di Dio, ma il Messia, vale a dire un inviato prestigioso di Dio; secondo, perché la dominazione romana non sembrava comportare alcuna speranza di riscatto. Per quanto concerne la visione apocalittica, poi, i Farisei non potevano accettarla. Essi credevano ormai in un destino oltremondano, ma, nella loro ottica osservante, la fine del mondo non sarebbe potuta sopravvenire prima che si realizzasse la promessa divina di restaurare la potenza del regno di Israele e prima che tutti i popoli del mondo riconoscessero il primato del popolo ebraico. Basta questo disaccordo a giustificare la persecuzione di Gesù?

3.

Non basta. Il punto critico che ha deciso il destino di Gesù è da ricondurre alla sua ambiguità in rapporto al Regno di Dio. Per un verso, fedele alla visione apocalittica, egli sostiene che tale Regno - di giustizia - si realizzerà nei cieli, solo dopo la fine del mondo. Per un altro, egli sostiene che il Regno di Dio è già sulla terra. La contraddizione si risolve senza pensare che egli s'identificasse con il Messia davidico, vale a dire con un Re. Il regno di Dio sulla terra era probabilmente la comunità dei fedeli che si raccoglieva intorno a lui e che, praticando i valori da Lui proposti, era già certa della salvezza, vale a dire di ascendere al Regno dei cieli.

Il problema è che la parola Regno, utilizzata nel contesto di una nazione assoggettata al potere romano, avverso ad ogni ribellione dei sudditi, suonava come pericolosa alle orecchie dei Romani, ch'erano riusciti a pacificare la Palestina deponendo l'ultimo re da loro istallato sul trono (Erode) e arginando la contesa tra i suoi discendenti. Di certo, Gesù non aveva alcun obiettivo politico. Rimane però il fatto che egli è stato assoggettato alla stessa condanna a morte (la crocifissione) usata, alcuni anni prima, nei confronti di duemila Ebrei che, in seguito alla deposizione di Erode, si ribellarono, e, 100 anni prima, per quindicimila schiavi che avevano partecipato alla rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco. Gli Ebrei non avevano il potere giuridico di condannare un loro membro alla morte per crocifissione. Essi possono avere influito sul giudizio dei romani, peraltro stanchi di contese tra sette religiose il cui senso, essendo politeisti e tolleranti in materia di religione, sfuggiva loro. Non v'è dubbio però che la condanna a morte sia stata emessa e posta in essere dai Romani.

Ai Sadducei e ai Farisei può essere attribuita, forse, la responsabilità di avere suggerito ai Romani la pericolosità politica di Gesù. In questo essi si sarebbero comportati in mala fede perché, alle loro orecchie sensibili teologicamente, non poteva sfuggire il senso spirituale del messaggio di Gesù, e il suo essere un restauratore della teologia della Promessa. Ma, intanto, come s'è detto, tale teologia si fondava sul privilegio accordato alla regalità, e Gesù, inerme e con un seguito di "straccioni", non aveva alcuna prerogativa regale. In secondo luogo, se non i Sadducei, i Farisei erano letteralmente terrorizzati che i Romani, in conseguenza di disordini, potessero agire delle rappresaglie sul popolo. Sarebbe stato possibile interpretarle per l'ennesima volta com'espressione della rabbia divina per i peccati dei suoi figli prediletti. In tal caso, però, il loro sforzo precettistico sarebbe risultato vano, e gli Ebrei sarebbero giunti a pensare che non c'era nessuna possibilità di porsi al riparo dall'ira divina.

Da questo punto di vista, l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, estremo atto di sfida al potere sacerdotale e farisaico, si può ritenere un'assurda provocazione. Con quell'ingresso, egli contestava implicitamente il diritto della classe sacerdotale di ricevere le decime dal popolo. Ma tale contestazione, anche se non era negli intenti di Gesù, si sarebbe inesorabilmente riverberata sul duro regime fiscale imposto dai Romani, che in parte passava anche attraverso il prelievo di una quota delle decime. La rivoluzione spirituale di Gesù, insomma, comportava il rischio di attivare una ribellione politica.

Continuare ad accusare gli Ebrei di Deicidio è dunque doppiamente sbagliato: sul piano logico, perché essi ritenevano che, eleggendosi al ruolo di Figlio di Dio, Gesù bestemmiasse; sul piano storico, perché la crocifissione era la punizione che i Romani infliggevano agli schiavi ribelli. Se fosse morto per mano degli Ebrei sarebbe stato lapidato.

4.

Non occorrerebbe aggiungere altro per dimostrare l'infondatezza di una ricostruzione filmica pregiudiziale e tendenziosa.

Almeno due cose, però, vanno dette.

La prima è che il giudizio espresso dalla Chiesa cattolica sul film è inopportuno e tendenzioso: inopportuno, perché in Europa si danno già troppi segnali di una ripresa dell'antisemitismo, corroborata purtroppo dalla sciagurata politica del governo Sharon nei confronti dei Palestinesi; tendenzioso, perché, sfruttando la forza di immagini di assoluto sadismo, esso tende ad enfatizzare il prezzo di dolore pagato dal Figlio di Dio, innocente, per scontare le colpe umane. Insomma, la Chiesa ripropone la Teologia della Croce come scandalo che ha segnato la storia dell'umanità, aprendo agli uomini la via della salvezza. In quest'ottica, un film che trasforma una condanna a morte in un martirio d'inusitata violenza fa gioco, tanto più se il suo regista dichiara che Cristo è "stato ucciso da tutti noi ed è morto per i peccati di tutti i tempi". In quest'ottica la violenza sadica cui Gesù è sottoposto rappresenterebbe la misura immane di quei peccati.

La Chiesa non sembra in grado d'interrogarsi sul perché la remissione del peccato originale, che avrebbe marchiato tutta l'umanità discendente da Adamo, dovesse passare per un atroce delitto commesso da esseri umani; perché insomma era necessario un deicidio, vale a dire una colpa, per riscattare l'umanità. Una vita sventurata come quella di Giobbe non avrebbe potuto realizzare lo stesso effetto? Il quesito si risolve se ci si riconduce al principio teologico per cui il male viene dall'uomoe e non da Dio: dall'uomo - contraddizione insolubile - creato da Dio a sua immagine e somiglianza…

La seconda cosa fa riferimento all'impatto psicosociologico di un film in rapporto ad un contesto culturale nel quale il catechismo continua a diffondere la teologia della Croce al fine di far sentire l'uomo in colpa. Uno dei miei pazienti, un credente che per conto suo, assistendo al film, ha avuto un attacco di panico, ha avuto modo di rilevare, prima di essere invaso dall'angoscia, che nella sala qualcuno dava chiari segnali di malessere, qualcuno copriva gli occhi e qualcun altro si allontanava. Ha registrato insomma i comportamenti tipici degli spettatori di fronte ad un film dell'orrore, accentuati evidentemente dalla tematica particolare.

La teologia della Croce, vantata dalla Chiesa come espressione dell'amore infinito di Dio per l'uomo, di fatto è una teologia terroristica perché essa, per enfatizzare la misericordia divina e porre Dio al riparo di essere responsabile del male, schiaccia l'uomo sotto il peso di una colpa irreparabile. L'uomo di colpe ne ha commesse e ne commette fin troppe, ma non nei confronti di Dio bensì dell'altro.

Maggio 2004